Sapevo che
qualsiasi scelta avesse fatto, mi avrebbe ferita, in ogni caso. Se ne
sarebbe
andato anche questa volta, lo sapevo.
Fingevo di non
saperlo.
Mi sembrava di
avere costantemente una clessidra avanti agli occhi quando il tempo
iniziava a
scorrere in sua compagnia, e dopo l’ultimo granello di
sabbia, dopo l’ultima
lacrima caduta sul suo cappotto, mi avrebbe voltato le spalle per
iniziare a
camminare.
Per
allontanarsi da me, ancora.
Ogni
sorriso aveva un prezzo.
Adesso come a
1 anno, a 2, a 7, a 13…Eppure sembrava una
novità, ogni santa volta, venivo
colta di sorpresa da una certezza.
E
questo accadeva solo con lui.
Mio
padre era fatto a modo suo, e per una
strana ironia della sorte, dovevo capire ancora come.
Io.
Sua figlia.
Sangue
delle sue vene, il frutto del suo
respiro:
non sapevo assolutamente
niente di lui se non la sua data di nascita, o almeno credo, andavo con
i piedi
di piombo anche per l’età.
La cosa
inconfondibile era invece il suo odore.
Mi
aveva promesso a tanti compleanni che
sarebbe arrivato con un pacco grande grande e che mi avrebbe stretta
forte
forte.
E io
aspettavo.
Ogni anno.
Allo stesso
modo.
Sapevo che
qualsiasi scelta avesse fatto, mi avrebbe ferita, in ogni caso:
perché se
davvero si sarebbe presentato
avrei di
sicuro mandato indietro quel famoso pacco ma non il suo corpo caldo,
quelle
braccia che sembravano il posto più sicuro sulla faccia
della terra, anche se
si trattava magari della persona più sbagliata del mondo, ma
se al contrario
non avrebbe varcato la soglia di quella porta
sarebbe
stato senza dubbio il peggior
compleanno della mia vita, uno dopo
tanti altri, perché avevo una lista sbilenca dei compleanni
passati “alla meno
peggio”, e come ogni volta mi sedevo al bivio del se, o
meglio, era la mia
anima a farlo.
Seduta su quel
marciapiede, inserviente della notte, completamente dipendente dal
tramonto
perché le faceva paura il buio. Allora si fermava
lì, buona buona, ad aspettare,
sperando che i fari di una bella auto l’accecassero, che
quell’uomo l’avrebbe
raccolta, per portarla via, lontano da tutti al sicuro nel suo
castello.
La psicologa
mi ribadiva spesso che avevo posto mio padre su un cavallo bianco e che
mia
madre era la strega della favola.
Avevo una
madre? Nah.
E
riguardo mio padre la cosa era vera, ma solo
in parte. Fatto sta, che quello non era un compleanno qualsiasi, ma il
mio
18esimo compleanno. E questa volta non aspettavo con ansia lui con
pacco, ma
aspettavo solo lui.
Anche se del
pacco non è che mi sia mai interessata più di
tanto, era divenuto ormai una
specie di diversivo nel momento in cui
dovevo salutarlo, un pezzo che restava: ed ecco gli accumoli di bambole
e
peluche forse finalizzati più a ripulire la coscienza di un
uomo dal senso di
colpa che a far compagnia a una bambina, prendendo il posto di una
famiglia
bruciata, in polvere.
Ma questa
volta doveva essere diverso, non avevo più bisogno di
questo: lo aspettavo per
fare un ballo insieme, perché me lo aveva promesso e
perché non era possibile che
a 18 anni quasi compiuti, ci fossi caduta ancora, come una stupida,
nello
stesso tranello.
Invece era
riuscito a sorprendermi anche questa volta.
Mi sentivo in
un videogioco.
Il
problema è che la scritta GAME OVER si
faceva prepotentemente largo sullo schermo sempre nello stesso punto e
allo
stesso livello.
Ero
perdutamente innamorata di lui, come può esserlo ogni figlia
del proprio padre.
Vivevo
per lui.
Nonostante
continuasse a farmi male.
Pendevo dalle
sue labbra nonostante ogni sua promessa fosse una bugia. E lo sapevo.
E
continuavo a sorprendermi.
Continuavo a
permettergli di farmi la stessa sorpresa a ogni compleanno.
La mia anima
era ancora lì seduta sul marciapiede, come una prostituta.
Avrebbe voluto
concedersi a qualsiasi tipo di tortura per non pensare.
E adesso le
andava bene qualsiasi auto, voleva solo scappare, stanca ormai di
aspettare il
suo principe azzurro.
Non volevo
accettarlo ma stavo soffrendo ancora.
E la cosa
peggiore era la consapevolezza.