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Autore: M4RT1    28/11/2014    2 recensioni
Finnick PoV | Finnick/Annie | 65th and 70th Hunger Games
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Finnick Odair ha giocato tre volte: alla sua Edizione, a quella di Annie, a quella della Memoria.
Questa storia parla delle prime due.
Del quattordicenne che vinse i sessantacinquesimi Hunger Games e del giovane Mentore che salvò Annie.
Di come si conobbero, di come divennero amici. Di come arrivarono a sposarsi.
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Dal capitolo XI:
Aveva sempre sperato – anche creduto, in fondo – che gli Hunger Games in realtà fossero una gran bufala, che i Tributi venissero feriti e, con la scusa di rimuovere i cadaveri, guariti da Capitol City e impiegati come Senzavoce, magari, ma vivi. In quel momento capì che si sbagliava. La ragazza era morta.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Finnick Odair ha giocato tre volte

Chapter VIII - False swaines and true loves

 

 
Finnick si svegliò con un sussulto, sudato e scosso dai brividi.

La stanza era buia, illuminata fiocamente dalle luci di Capitol City che filtravano attraverso la finestra: tenui bagliori arancioni, bianchi e gialli che si univano a giganteschi e luminosi cartelli pubblicitari. Il ragazzo fissò per qualche minuto le chiazze di luce sotto al soffitto, chiedendosi il perché di quel peso sullo stomaco. Cercò di ricordare la cena della sera precedente, ma non gli parve di aver mangiato nulla di indigesto. Poi capì.

L’orologio segnava le tre e trentacinque minuti quando si alzò, incapace di dormire ancora, incapace di respirare normalmente. Perché forse, di lì a ventiquattrore, nemmeno sarebbe stato in grado di respirare.

“Morirai, i quattordicenni non sopravvivono” aveva sussurrato la ragazza del Due, melliflua, la sera precedente, dopo le interviste. Aveva un ampio sorriso sul volto, le guance colorite e ragione da vendere: quella sarebbe stata l’ultima alba che avrebbe mai visto.

Ancora intorpidito dal sonno, il ragazzo si infilò sotto la doccia e si vestì con gli abiti preparati ai piedi del letto – pantaloni neri, tshirt e giaccone pesante. Si domandò il perché di quelle scelte, dei tessuti, dei colori: probabilmente, considerando la giacca, l'Arena sarebbe stata fredda. Ma quanto? Non era abituato al gelo, la neve non l'aveva neppure mai vista. Alla fine, quando la testa cominciò a pulsargli e non fu più in grado di tener ferme le mani, ordinò del cibo – roba a caso, giusto per riempirsi lo stomaco un’ultima volta prima di morire – e sedette sul letto, le gambe incrociate.

Alle cinque, il sole cominciò a sorgere. Finnick abbandonò la quindicesima zolletta che stava sgranocchiando e si affacciò, incantato. Aveva sempre odiato l’alba per gli impegni che portava con sé al Distretto Quattro, ma in quel momento furono proprio quegli incarichi noiosi a riportarlo, per un momento, a casa: lo snodare le reti, prepararne di nuove, lucidare il pavimento delle barche, catalogare i tipi di pesci che i pescatori portavano a riva. Insieme agli altri ragazzini, aveva trascorso interi pomeriggi a cercare di distinguere i molluschi, a pulirli e prepararli per l’esportazione in grosse casse che dovevano essere marcate da sigle chiare e precise.

Pensò che, forse proprio in quell’istante, quella routine stava andando avanti senza di lui – senza il ragazzino biondo che era così bravo alle lezioni di pesca.
Forse Frank Morasby era diventato il primo della classe, con lui fuori gioco.

Sospirando, uscì dalla stanza e vagò per il quarto piano fino a ritrovarsi davanti a una porta uguale alla sua. Doveva essere la stanza di Maia, oppure quella di Mags. Finnick avrebbe dato qualunque cosa per bussare, entrare e abbracciare la prima persona che gli fosse corsa in contro – l’ultima che avrebbe abbracciato prima dell’Arena. Era sicuro che non avrebbe avuto nessuno, lì dentro, con cui scambiare dimostrazioni d’affetto.
Stava per bussare, quando la porta si spalancò da sola, rivelando il viso assonnato di Maia Jonhson.

"Odair?" esclamò, stupita. Era in mutande e canottiera, la pelle chiara che riluceva alla luce dell’alba.

"Maia" balbettò Finnick. Abbassò lo sguardo, incapace di fissare negli occhi quella ragazza che gli era stata amica e che, di lì a poco, avrebbe potuto ucciderlo. I suoi occhi indugiarono sulle spalle di lei e poi sul suo seno. "Scusa, è che-" cercò di rimediare, balbettando.

"Volevi vedermi nuda, Odair?" lo attaccò la ragazza, correndo all’interno della stanza e sparendo dietro un’anta dell’armadio. "Che c’è, i tuoi ormoni di adolescente vogliono togliersi qualche soddisfazione prima di morire?" aggiunse, stridula. Era chiaro che si sentiva a disagio, lì dietro, ma mai quanto Finnick: rigido sulla porta, il ragazzo si sentì sprofondare, rosso per l’imbarazzo. Mosse un piede sulla moquette, a disagio, aspettando che la ragazza tornasse a farsi viva. Quando rispuntò fuori, era vestita con un abito leggero, a fiori rossi, di velo. Gli ricordò terribilmente Annie.

"Scusami, non sapevo che fosse la tua stanza" si giustificò Finnick, facendosi coraggio e guardandola negli occhi. Erano verdi, belli, umani. Come avrebbe fatto a privarli della loro vita? Come avrebbe fatto a spegnere la luce di un paio qualunque dei ventitré che avrebbe fronteggiato?

"Ma davvero?" gli rispose Maia, sarcastica. Se ne stava appoggiata alla porta con aria di sfida. "Fammi indovinare, sei sonnambulo?" chiese.

Finnick alzò gli occhi al cielo.

"Ti eri perso cercando il bagno?" rincarò lei, battendo un piede sul pavimento. In quel momento, ferma lì, sembrava letale e il ragazzino indietreggiò di un passo.

"Il bagno è in camera" sussurrò solo, abbassando nuovamente lo sguardo. Gli scarponcini fornitigli per l'Arena erano neri e lucidi, abbastanza solidi da sopportare giorni di cammino.

"Allora non hai scuse, Odair. Buonanotte."

La ragazza si scostò per permettere alla porta di girare sui cardini senza finirle in faccia, poi la sbattè con violenza, lasciando Finnick solo.

 
***

 
Mi piacerebbe poter offrirmi volontario, nonostante io abbia già vinto. Vorrei poterlo fare al posto di Annie e vincere di nuovo, per lei ancora una volta.

Ma quello che mi aspetta stanotte è qualcosa di peggiore che entrare nell’Arena.

La moquette è morbida e polverosa come sempre. I miei piedi scalzi la percorrono in fretta, cercando di non inciampare nei risvolti del pigiama grigio troppo lungo. La maglietta svolazza producendo leggere folate d’aria che mi fanno venire la pelle d’oca.

La porta di Annie è dannatamente vicina. Sempre più vicina. A dieci passi, nove, otto.

Non posso farlo, non posso.

Sono un Mentore, cavolo!

Non posso farlo.

Ma devo farlo.

"Finn!" esclama lei, non appena mi vede. Indossa una camicia da notte sottile e ha i capelli arruffati, ma non sembra assonnata. In un attimo siamo abbracciati forti, stretti, vicini abbastanza da sentire i nostri rispettivi respiri.

"Dormivi?" le chiedo comunque.

"No, io non ci sono riuscita" mi risponde. I suoi occhi sono puntati sulle mie mani, che si muovono frenetiche attorno al laccio dei pantaloni. Quando sono nervoso, faccio e disfo nodi senza nemmeno pensarci. "Che succede, Finn?" mi chiede.

Sospiro.

"Posso entrare?" domando, sistemandomi i capelli. Non so il perché di questo gesto – lei mi ha visto anche con la febbre, anche mezzo ubriaco. Ma è come se dovessi essere perfetto, per dirglielo. Come se necessitassi di essere più di me stesso, perché lei merita il meglio.

"Certo che puoi" risponde lei, sorpresa. "C’è bisogno di chiederlo?"

Non riesco a sorriderle. D’improvviso, i nostri anni d’amicizia sembrano svaniti, mi sento come se non la conoscessi. Come se non fossimo in confidenza.

"Io ho bisogno di dirti una cosa, prima che... insomma, prima di domattina" comincio, sedendomi sul suo letto. Lei mi imita, prendendo posto accanto a me.

"Dimmi."

Respiro forte un paio di volte, poi mi do coraggio. Non va, non è naturale. Dovevo scegliere un altro momento, magari uno meno ansiogeno. Magari uno o due mesi fa, quando non avevo altro a cui pensare. Magari una settimana fa, prima della Mietitura.

"Allora?" mi incoraggia lei, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio.

"Mi-" comincio, poi cambio idea. "Mi farebbe piacere, quando torni, ecco…"

Lei sorride, un sorriso carico di tenerezza e compassione, come se avessi detto una delle più grandi cavolate della storia.

"Quando torno?" ripete.

Mi schiarisco la voce, ignorando il suo commento.

"Mi piacerebbe uscire con te."

Non ha molto senso – sono sei anni che usciamo insieme, ma è tutto quello che riesco a dire.

"Finn, ammesso che tornassi, vivremmo a cinque metri di distanza. Potremo uscire insieme tutte le volte che vogliamo" mi sussurra. Poi mi poggia una mano sulla spalla.

"Non dico in quel senso" riprovo, ignorando i brividi che si irradiano dal punto in cui la sua mano tocca la mia pelle. "Io intendo nel senso di, sai, come se fossimo più che amici."

Spero che abbia colto l’allusione, ma non ne sono sicuro. Annie mi fissa con gli occhi sgranati, osservandomi come un animale raro. Nel suo sguardo c’è qualcosa che non riesco a decifrare.

"Allora è per questo" mi dice. "Non eri mio amico."

È ferita. Eppure, non credevo di aver detto nulla di male.

"Perché?" chiedo, alzandomi e fissandola. Le poggio le mani sulle spalle. "Ti ho solo detto che mi piaci" esclamo. Non ci vedo nulla di male, in fondo.

"Certo, come ti piaceva Penelope!" mi grida lei, le lacrime che le rendono gli occhi lucidi. "Credevo fossi speciale per te, Finnick" mi dice. Non mi aveva mai chiamato così.

"Ma lo sei" balbetto, indietreggiando. "E’ proprio per questo che sono qui, ora!"

Annie sembra soppesare l’idea mentre, con un gesto irritato, si asciuga gli occhi. Sospira.

"Non è un bel momento, Finn" mi sussurra, avvicinandosi. Mi cinge la vita con le braccia, stringendosi a me. "Quando tornerò, se lo farò, allora potremo capire cosa c’è tra noi."

Annuisco.

"Fino ad allora, per favore, non cambiamo nulla. Non voglio altre incertezze."

Vorrei dirle che è una cosa egoista, da parte sua, ma non credo di averne il diritto. Non sono io quello che sta per combattere agli Hunger Games.

"Come vuoi, Annie" acconsento. Poi mi allontano, veloce, prima che le lacrime comincino a solcarmi le guance. 







 
  
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