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Autore: mormic    11/12/2014    7 recensioni
Effie ha estratto decine di nomi da quella boccia di vetro, ma i suoi unici vincitori, nonostante stiano partecipando alla loro seconda arena, sono stati estratti solo una volta dalle sue dita affusolate. Sono volontari. E questo dovrà pur fare la differenza. Una differenza che Effie dovrà affrontare come non avrebbe mai nemmeno sospettato.
E dalla sera dell'intervista di lei non si sa più nulla, fino alla fine, quando riappare provata e fragile.
Questa è la sua storia, mentre in tutta Panem è il caos della rivoluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy, Plutarch Heavensbee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grigio e Oro'
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CAPITOLO 14
 
Questo fottuto distretto è tutto sbiadito.
Qui non hanno la più pallida idea di cosa siano i colori.
Vivono come talpe e conoscono solo tunnel e terra da scavare senza sapere cosa sia un prato verde. Almeno noi al 12, quando ne usciamo vivi, riemergiamo dalle miniere e ci godiamo un po’ d’ossigeno.
Qui invece l’aria è forzata in enormi condotti di acciaio grezzo, dalle volute elicoidali, e respirare è come prendere boccate dentro un sacchetto di carta chiuso.
È soffocante, cazzo.
Mi tocca dare fondo alle scorte di alcol che ho rimediato per variare un po’ la visione delle cose. Almeno quando bevo non ho la cognizione per capire se quello che vedo è reale o no.
Semplicemente volo nel mio mondo fatto di colori e distorsioni, dove il dolore non esiste, dove l’assenza diventa una compagnia e dove il vuoto non è più un buco, ma una coperta.
Sono un cazzo di buono a nulla. Ecco cosa sono.
Sono pure diventato dipendente da antidolorifici.
Certo, se quell’hovercratf non avesse rischiato di cadere mi sarei risparmiato qualche ferita e questo maledetto squarcio sul braccio che mi sta facendo impazzire, ma non avrei riscoperto il piacere di cadere nell’oblio incosciente della morfamina.
Diamine, quella si che è roba forte. Sorrido e lascio scivolare un po’ tra le dita la mia fiaschetta di metallo. Se cade avrò finito la mia razione giornaliera.
Sento le dita serrarsi di nuovo attorno al mio avere più prezioso e bevo.
Un sorso. Un altro. Un altro ancora.
Niente di più facile.

Il dolore al braccio lentamente si sopisce e il pulsare sotto la stretta fasciatura rallenta.
Il tempo si dilata. Ora e prima si fondono.
L'oblio del nulla è vicino.
Se mi sta abbandonando il dolore fisico, tra poco mi lascerà anche l'altro dolore. Quello peggiore.
E finalmente potrò respirare.
Finalmente potrò vedere un po' di quel verde prato che non sapevo nemmeno potesse mancarmi. Non me ne è mai fregato molto dell'erba fresca, dell'odore della primavera e cazzate simili.
Ma questo fottuto posto sembra un gigantesco sepolcro e mi fa venire voglia di strapparmi i vestiti e abbandonarmi alle meravigliose sensazioni della natura incontaminata. Mi fa venire voglia di ubriacarmi steso sotto un bel cielo azzurro.
Azzurro.
Azzurro.
No.
Azzurro no.
Odio questo colore.
È il colore dei miei incubi.
E il peggiore tra i peggiori è quello in cui due occhi azzurri mi fissano.
Sono quelli di Effie in fondo a quella maledetta scala che si trasformano in quelli di Peeta. E mi fissano, enormi, indagatori, senza che io possa nascondermi.
Si fottessero i prati verdi e i cieli azzurri.
Meglio perdere coscienza qui, in questa maledetta tomba, e sperare di creparci il prima possibile.
Mi scolo l'intera fiaschetta e addio scorte giornaliere. Se mi dirà fortuna sverrò e rimarrò incosciente fino a domani.
Addio problema.

Ma sì.
Giù tutto d'un sorso.

E l'oblio mi abbraccia.


L'overcraft trema.
Pensavo fossero piuttosto stabili questi affari volanti. Eppure mentre il cavo d'acciaio si arrotola issando a bordo il corpo di Finnick, abbandonato nell’incoscienza, le paratie in metallo vibrano a tal punto che temo che saltino via i rivetti da un momento all’altro.
Lo so.
Tra poco mi ritroverò a precipitare dentro quella fottuta arena e ci rimetterò finalmente le penne.
Vi ci saranno voluti venticinque anni per togliermi di mezzo, però. Fottuti bastardi.
Dal portellone vedo Finnick, svenuto, avvicinarsi.
Le braccia allargate che pendono inerti fuori della sua imbragatura. I due che sono con me mi spostano di peso per afferrarlo e tirarlo dentro. Li guardo mentre lo adagiano accanto a Katniss e Beete.
Poi il portellone si chiude.
Si chiude.
Perché si chiude?
Il ragazzo è ancora fuori da qualche parte.
Perché?
“No! -  grido – dobbiamo prendere Peeta!” urlo.
I due si scambiano una rapida occhiata, mentre sistemano le braccia di Finnick lungo il suo corpo.
Sembra morto.
“Il ragazzo! È ancora lì giù!” strillo.
Si guardano ancora, poi uno si volta verso di me.
“Ordini superiori. Non possiamo prelevarlo. Ha ancora il localizzatore” spiega a bassa voce, come temesse di prendere uno schiaffo in faccia.
Ed è quello che gli darei, se improvvisamente le mie forze non svanissero in un istante, appena la consapevolezza di ciò che ha detto mi colpisce con la forza della verità.
Non possiamo lasciarci tracciare fino al tredici.
Ma non posso lasciarlo lì.
Non anche lui.
Mi avvento contro il portellone, con la stupida speranza di forzarlo.
Poi tutto accade in un attimo.
Mentre la testa mi esplode in un accecante dolore e i miei occhi perdono la visione della realtà, pieni solo di due paia di occhi azzurri che mi guardano, un rumore assordante si sprigiona da un punto troppo vicino al mio corpo e l’overcraft si piega repentinamente da un lato.
Un altro tipo di dolore mi distrae da quello alla testa e la luce del giorno spacca l’oscurità della stiva dell’overcraft.
Uno squarcio sul portellone.
Uno squarcio sul mio braccio.
Ci stanno attaccando.
Un’altra esplosione e l’overcraft si inclina sul fianco opposto, scaraventandomi contro una paratia.
I due rimangono a stento in piedi. I corpi dei ripescati legati alle loro barelle ancorate al pavimento.
L’aeromezzo si riallinea con l’orizzonte e corro verso Katniss.
Così indifesa, abbandonata sulla sua lettiga.
L’avvolgo con le braccia e con il corpo mentre un terzo colpo fa vibrare nuovamente tutto intorno a noi.
Stringo il corpo di Katniss e aspetto che accada qualcosa.
Aspetto di precipitare.
Aspetto di cadere nell’arena.
Aspetto di morire.
Senza aver salvato neanche uno dei miei due tributi.
Poi l’overcraft vibra di una frequenza diversa e capisco che i motori stanno spingendo al massimo per allontanarsi.
La luce che entra dallo squarcio si affievolisce e allora so che gli scudi difensivi sono stati riattivati.
Allento leggermente la presa su Katniss e mi raddrizzo.
Dal braccio un flusso costante di sangue esce macchiando i suoi vestiti e il pavimento.
Non so cosa fare.
Ho lasciato indietro Effie.
Ho lasciato indietro Peeta.
Due paia di occhi azzurri mi fissano di nuovo da una dimensione di colpa che mai avevo assaggiato.
I due addetti al ripescaggio si allontanano per i corridoi e mi lasciano lì, più esanime dei tre svenuti che ho vicino.
Ho fallito.
Ho fallito.
Ho fallito.
Mi siedo a terra e aspetto che tutto il sangue che ho in corpo finisca.
Ma ho poco tempo per attendere che la morte finalmente arrivi.
Fuori è tutto uno scrosciare di colpi e bombe e scricchiolii e scosse.
Il combattimento è in atto e non posso rimanere qui a compatirmi mentre annego nel sangue, mentre Katniss è ancora viva accanto a me.
Non posso e non devo.
L’ho promesso al ragazzo.
L’ho promesso ad Effie.
C’è ancora qualcosa.
E la morte arriverà forse quando Katniss si sveglierà.
Ora devo alzarmi e tornare al mio compito.
Con il braccio inerte e bianco in volto, mi avvio lungo i corridoi, seguendo i due che mi hanno lasciato indietro.
Superare il corridoio è difficile.
Sembra di essere su una nave in balia di una tempesta.
Seguire un percorso dritto impossibile.
Sbatto ad ogni passo contro una delle due pareti, ma riesco a tenermi in equilibrio.
La battaglia fuori imperversa, anche se sembra niente, confronto quella che sento ruggire dentro.
Non so neanche come, raggiungo la plancia.
Plutarch è ancora in uniforme da stratega e impartisce ordini a raffica, neanche fosse una delle mitraglie del suo overcraft rubato.
Dall’enorme vetrata del centro di comando vedo che tutto fuori è fiamme, fumo e pezzi di detriti.
L’aeromezzo è continuamente scosso dalle esplosioni.
“Falla nel sistema di aerazione!”
“Abbiamo perso lo stabilizzatore di sinistra!”
“Fuori la terza tornata di siluri!”
Le comunicazioni piovono da ogni parte della plancia.
“Ripristino manuale del sistema di condotti d’aria! Bilanciare sensore gravitazionale di destra! Fuoco!”.
Mi avvicino a Plutarch e riesco a mettergli una mano sulla spalla. La mano piena di sangue.
“Devi tenerlo su, vecchio. Devi tenere in vita la ghiandaia” gli dico in un filo di voce.
“Starà su, Hay. Starà su” mi dice.
Annuisco e per un attimo i suoi occhi si posano su di me.
Vedono tutto il sangue che sto facendo colare sulla sua divisa.
Ma tornano subito al loro lavoro.
L’overcraft dondola ancora, senza riuscire a stabilizzarsi per qualche minuto e io rischio di vomitare per la prima volta in vita mia senza l’aiuto dell’alcool.
“Centrato obiettivo primario!”
“Sta precipitando!”
“Non rileviamo altri mezzi in arrivo!”
“Capitol City ritira mezzi di supporto!”
“Pronti ad azionare il sistema di occultamento!”
Plutarch rimane un altro paio di secondi in silenzio. Tira un respiro lunghissimo, come se i suoi polmoni avessero una capacita infinità e poi espira, in un sibilo lungo più di qualche secondo.
Ho le gambe che tremano. Ma non è paura. Non è l’adrenalina che mi abbandona. È semplicemente la mancanza di sangue nel corpo. Ne sto perdendo troppo.
Aspetto che Plutarch parli.
“Attivare occultamento. Rotta verso il 13 a motori spiegati. Andiamocene di qui. Capitol City non riuscirà a starci dietro” ordina infine, lo sguardo fisso verso il cielo nascosto dal fumo della battaglia.
“Il ragazzo…” inizio, ma le forze mi abbandonano.
Lui mi sente scivolare e in un attimo si volta e mi afferra da sotto le ascelle.
Il suo solito sorriso sghembo, tipico di chi si sente un fine umorista, non c’è. Al suo posto un’espressione di serietà che raramente gli ho visto sul viso.
“Fin non è riuscito a togliere il localizzatore a Peeta. Dobbiamo lasciarlo lì. Ora vai a farti medicare o sarai solo una zavorra fino al 13” mi dice.
Colgo per un attimo l’eco di quel sorriso affacciarsi, ma l’espressione non muta.
Forse gli occhi mi giocano strani scherzi.
Sento afferrarmi, issarmi da due persone, e trascinarmi via.
Mi sdraiano su una barella in quella che pare un’infermeria.
Accanto a me scorgo la treccia di Katniss che pende dalla barella accanto.
Non sento nulla quando mi ricuciono la ferita.
Ma ci mettono tanto.
Talmente tanto che mi addormento, ignaro del dolore e mi sveglio quando nessuno è più con noi.
Katniss mi fissa, seduta sulla sua barella accanto a me, il viso trasfigurato dall’odio, gli occhi grigi ridotti a fessure infuocate. Non parla. Mi fissa solamente.
Cerco di mettermi seduto, ma il mio corpo non risponde.
Allora provo a parlarle, ma la mia voce è persa.
Sono immobile.
Non posso muovermi.
Non posso dire nulla.
Guardo nuovamente Katniss e il suo viso sembra trasformarsi. È sempre lei, ma qualcosa, dei piccoli dettagli, la fanno sembrare più cattiva, più pericolosa, terrificante.
I miei occhi non riescono a distogliersi dai suoi.
Mi sento come incatenato.
E questo silenzio mi sta facendo impazzire.
La fisso con talmente tanta insistenza che alla fine tutto ciò che è attorno al mio fuoco visivo perde nitidezza, lasciandomi quasi al buio, senza la possibilità di definire i contorni dell’immagine.
E poi improvvisamente il grigio degli occhi di Katniss comincia a mutare. Da grigi si trasformano in blu e poi si schiariscono. Il taglio cambia. Il colore delle ciglia sfuma.
Ora è Peeta che mi guarda, con l’azzurro delle sue iridi annacquato dalle lacrime. La vista della sua sofferenza è straziante per me. Non posso resistere ai suoi occhi come ho fatto con quelli di Katniss. Con lei reagisco sfoggiando l’aggressività che ho sempre avuto. Di fronte a Peeta sono completamente disarmato. Non c’è niente che possa difendermi dalla sua onesta, dalla sua bontà. Dalla sua capacità di amare il prossimo. Cose per me dimenticate e dolorose, più di una lama nello stomaco.
Vorrei dirgli di andarsene. Di sparire. Di uscire dal mio campo visivo. Non posso fare niente per lui. Non posso salvarlo. Non posso tirarlo fuori di li. Non posso tenerlo in vita.
Gli occhi per un attimo tornano ad essere quelli di Katniss, poi ancora quelli di Peeta e si ingigantiscono, mi avvolgono quasi. E non mi lasciano scampo.
Non posso evitare di guardarli.
Vi prego. Andatevene.
Vi prego.
E alla mia richiesta sembrano iniziare a rimpicciolirsi fino a ridursi a puntini lontani, privi di corpi a cui appartenere, bottoni luminosi che si allontanano, quasi fino a scomparire. La stanza attorno a me è vuota, bianca, luminosissima, senza finestre, pavimenti, pareti e soffitto si confondono. Siamo io sulla barella, legato, muto, e questi due occhi che si allontanano dai miei, ma che feriscono come spilli piantati nei bulbi oculari.
Vi prego.
Vi prego.
Andate via.
Io non posso fare altro.
E appena penso questo, gli acchi diventano giganti di nuovo avvicinandosi al mio viso e inghiottendomi nel loro azzurro.
Gli occhi di Effie mi hanno appena ucciso.
 
Mi sveglio di soprassalto.
Quasi ruggisco.
Il pugnale stretto nella mano sinistra.
Gli occhi ancora chiusi.
Respiro e sono vivo.
E meno fendenti come capita.
E taglio qualcosa.
Sbarro gli occhi e mi ritrovo di fronte Alma Coin, gli occhi gelidi, privi di colore, come tutto il suo distretto, che me li pianta addosso come fossero lame.
Ancora occhi.
Ancora lame.
Non dice una parola.
Sta aspettando qualcosa.
Osservo meglio.
La sua camicia è tagliata a metà all’altezza del seno e uno dei due è… fuori.
Mi accorgo di essere fradicio.
Questa idiota deve avermi svegliato come solo dolcezza aveva osato fare. Solo che Katniss è un’esperta di arene, sa sfuggire ad un fendente mal menato.
La Coin non ha idea di come si schivi un coltello impugnato da un pazzo ubriacone.
Ecco perché si ritrova con una tetta al vento.
Nessuna parola ancora.
Io aspetto.
Potrei solo tirar fuori insulti che colorerebbero più della metà del 13.
“Credo abbia varcato ogni limite, signor Abernathy. Da questo momento le proibisco severamente di toccare più qualsiasi bevanda alcolica si sia portato dietro da quale che sia angolo di Panem. La confino in una cella detentiva fino a che non si sarà completamente disintossicato. La nostra ghiandaia ha bisogno di lei. Ha bisogno del suo mentore lucido. Così non è utile a nessuno. Anzi, è solo uno spreco di energie. La volevo svegliare per dirle che avevamo in programma una riunione per stabilire i prossimi passi, ma la esonero con effetto immediato e fino a nuovo ordine. Spero non abbia nulla da dire” tira fuori tutto d’un fiato.
Io sto zitto.
Riesco solo a guardare la sua tetta che mi fa l’occhietto dalla camicia tagliata.
Ma non li portano i reggiseni nel 13?
Cazzo, Haymitch. Non pensarle neanche certe cose.
L’ultima volta che hai visto un reggiseno hai perso la testa, hai lasciato la sua padrona a Capitol City ed è finita che hai sognato di essere stato ucciso dai suoi occhi.
Lascia perdere le tette. Sei troppo vecchio per certe cose.
E Alma Coin è più vecchia di te.
Goditi questo ultimo strascico di sbronza, perché, a detta del boss qui, non ne avrai per un bel pezzo.
Continuo a stare zitto.
Annuisco.
Mi rifiuto di consegnare il pugnale.
Mi scolo l’ultima gocciolina dalla fiaschetta e mi lascio portare via.
Spero di non finire in una cella bianca e luminosa.
Sarebbe alquanto disdicevole.
 
Incredibile ma vero, eccomi qui.
Per un attimo avevo disperato anche io, ma come vedete, chi non muore si rivede.
Questo è il primo capitolo della seconda parte dell’Angolo.
Haymitch è in un evidente stato confusionale, insomma, come al solito. È tornato alle sue vecchie abitudini. E si becca la galera.
Poverino, è finito in un distretto proibizionista…
OOOOk, la smetto di dire scemate, ma vista l’ora spero possiate perdonarmi un leggero sfarfallio di pazzia.
Grazie per continuare a leggere la mia storia.
Aspetto sempre tante recensioni, ma in realtà non ci spero quasi più… a quanto pare ho dei lettori silenziosi…!!
A presto
Mor
   
 
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