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Autore: Lily White Matricide    17/12/2014    0 recensioni
Tutto ha inizio durante un viaggio in Irlanda, verde come gli occhi di Lily. Un viaggio per allontanarsi da Spinner's End per Severus, per averla ancora più vicina ... Per capire, tra uno sprazzo di sole ed uno scroscio di pioggia, che cosa sia averla vicina ogni giorno. La pioggia purifica e salva, il sole asciuga il senso di colpa .... E in tutti quegli anni e mesi e giorni, la pioggia irlandese accompagnerà sempre Lily e Severus. Un lungo viaggio nella loro adolescenza, che andrà ad incupirsi per l'ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte, ma che li spingerà a prendere una posizione ben precisa in questa guerra all'orizzonte. Riusciranno i due ragazzi a sopravvivere alla guerra?
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Severus Piton, Voldemort | Coppie: Lily/Severus
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Irish Rain Saga'
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44.

Mercy Street
 

“Looking down on empty streets, all she can see

are the dreams all made solid

are the dreams all made real

All of the buildings, all of those cars

were once just a dream

in somebody's head

She pictures the broken glass, she pictures the steam

she pictures a soul

with no leak at the seam"

Mercy Street - Peter Gabriel
 

Che hai? Va tutto bene?”.
Lily voleva disperatamente chiederlo a Sev. Erano già passati due giorni da quella sera, e la sua compagnia si faceva sempre più silenziosa e quantomai bizzarra. Era normale che ci fossero dei giorni in cui lavorassero fianco a fianco, senza dire una parola; così com’era normale che in quella quiete ci fosse un piacevole senso di pace. Ma era da quella sera in cui non lo aveva visto a cena, che lo aveva trovato irrequieto, agitato, e soprattutto costantemente sulla difensiva. C’era una tensione anomala in quell’assenza di parole.
Lei conosceva Severus, forse era l’altra persona dopo sua madre Eileen a conoscerlo così bene, e sapeva che il suo ragazzo, se messo con le spalle al muro, ergeva un muro tra sé e gli altri, diventando impenetrabile. Si chiudeva in sé stesso e non si riuscivano più a capire i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Di rado era capitato che si difendesse da Lily - e quei momenti di incomprensione sfociavano in bisticci e piccoli litigi, che si risolvevano entro breve - ma la ragazza si trovava nella situazione piuttosto nuova di non riuscire neanche a superare quel muro, perché avvertiva troppa tensione dentro di lui. Per quanto avesse trovato sollievo nel ripetersi mentalmente “Gli passerà. Quando vuole, ne parlerà”, era sempre più convinta che quella non fosse la soluzione giusta. Almeno in quel caso. E per quanto cercasse di apparire calma e rilassata, dentro di sé, Lily stava facendo una fatica immane a mantenere il sangue freddo. Aveva bisogno di sapere.
Al di là di quel muro invisibile, c’era Severus, frustrato per il non aver potuto parlare con Silente, e angosciato dalle ore che passavano inesorabili, ritrovandosi così con un solo giorno a disposizione, prima della sera del 24 Marzo, la sera in cui avrebbe dovuto dare una risposta a Mulciber e al suo compare. E il Preside non si faceva ancora vedere. Durante le ore di lezione con la McGranitt, Sev aveva sperato fino all’ultimo che l’insegnante lo fermasse al termine dell’ora, per dirgli che Silente lo stava aspettando nel suo studio. Invece nulla, gli sguardi preoccupati e interrogativi del ragazzo rimanevano sospesi nel vuoto, in attesa di una risposta che non arrivava. Neanche la notte portava consiglio, perché lui non sapeva proprio che fare; non sapeva come muoversi, dilaniato dal dubbio che se avesse detto di no, avrebbe perso l’opportunità di sapere cosa ci fosse dietro il comportamento dei suoi due compagni di casa. Se avesse detto di sì… Avrebbe fatto un salto nel buio decisamente impegnativo, di cui non ne avrebbe conosciuto le conseguenze, di cui avrebbe ignorato l’impatto non solo sulla sua esistenza, ma su quella di Lily e di molte altre persone. Nella sua fragilità di sedicenne, con quella voglia di crescere, di farsi valere, di dare fondo alla sua curiosità, non poteva saperlo. Nella sua voglia di essere partecipe e non solo una marionetta in quello scontro, i cui tratti erano ancora confusi, ai suoi occhi, avrebbe fatto qualunque cosa, anche non troppo scientemente, per dare il suo contributo. Forse avrebbe dovuto provarci, ma da solo si sentiva veramente perso e confuso. Non sapeva più dove sbattere la testa, e in quelle notti, si era trovato a pregare che Silente si facesse vivo il prima possibile. Pregare gli sembrava un’azione così stupida e vana, buona solo per gli ingenui - e tuttavia si era trovato a supplicare qualche entità nel buio della notte, tra le lenzuola del suo letto, perché intervenisse e mettesse fine a quell’attesa.
In quel paio di giorni di lezioni, Severus era distratto e prendeva a malapena appunti. O se li prendeva, non si rendeva nemmeno conto di cosa stesse scrivendo. Lily se n’era accorta, erano anomalie troppo grandi nel suo comportamento per non accorgersene. Ma Sev, almeno in quello, era stato categorico con se stesso: non avrebbe detto nulla alla ragazza, per non spaventarla e per non metterla ulteriormente in pericolo. 
Lui conosceva Lily, forse era la persona dopo i suoi genitori a conoscerla così bene, e sapeva che, se avesse mai saputo del ricatto di Mulciber e Avery, si sarebbe precipitata dai due per scatenare tutta la sua furia, magica e fisica. Lei era così: era generosa e non si risparmiava quando si trattava di riequilibrare delle ingiustizie. Ma lei non sapeva tutto e, credendo di essere coinvolta in una scaramuccia tra adolescenti che si fomentavano nell’abbracciare idee più grandi e ancora più stupide di loro, si sarebbe esposta fin troppo. E Sev sapeva che Lily era troppo intelligente e sensibile per non arrivare a capire che ci fosse molto di più, dietro un’apparente bagattella. Non la potevi fermare. 
“Severus, che cosa pensi di fare per Pasqua?” gli chiese Lily quel pomeriggio. La verità era che non sapeva più cosa dire per tirarlo fuori da quel mutismo ostinato, che al massimo era stato interrotto da qualche convenevole o qualche monosillabo non troppo convinto. 
Il ragazzo la guardò, colto di sorpresa. Già, che cosa avrebbe fatto per Pasqua? Doveva sperare che sua madre andasse via con qualche suo parente, come sembrava essere intenzionata a fare. Ecco, stava vivendo di speranza, si stava ancora una volta appendendo a quei sentimenti che dentro di sé, per orgoglio, aveva sempre rigettato e combattuto con decisione. Pregava di notte e sperava di giorno, per ora senza molto successo. 
Nei suoi piani, Sev pensava di scrivere una pergamena a sua madre, per chiederle se rimanere a Hogwarts, durante le vacanze di Pasqua, con la scusa di studiare per i G.U.F.O., intanto che lei sarebbe stata in vacanza con qualche parente. Adducendo la solita scusa, vecchia come il mondo, che lui si sarebbe annoiato a morte in una comitiva di parenti adulti, Sev avrebbe ottenuto il permesso di stare al castello, potendo così partire con i due compagni di casata. 
Da un lato, però, pensava che quella sarebbe stata una bugia vera e propria verso sua madre. Forse la prima grande bugia nei suoi confronti. Non poteva essere più semplice chiederle di poter andare da questi suoi due “amici” per qualche giorno? Il fatto è che Eileen magari avrebbe potuto incontrare Lily e si sarebbe fatta scappare quel famoso qualcosa che non avrebbe dovuto dire, durante una semplice e generica chiacchierata - perché si sa come sono fatte le madri, a volte parlano più del necessario, pur non facendolo apposta o con cattiveria. Il suo senso logico gli suggeriva che se avesse dovuto mentire, avrebbe dovuto farlo bene, altrimenti avrebbe dovuto raccontare la verità a entrambe. Tuttavia, questo senso logico non aveva fatto i conti con le incoerenze dell’avere sedici anni e di non saperle dominare. 
Severus sospirò, poi si decise a rispondere, dopo quella che gli parve un’eternità.
“Non ne ho idea. Mia madre vuole andare via, io…” iniziò a rispondere - mentre con il mestolo mescolava la pozione nel paiolo “…Sarò sincero - aveva detto bene, sincero? - non ho voglia di stare in mezzo agli adulti”. Detto da lui, che di anni ne dimostrava solitamente ben più di sedici.
Lily rimase un po’ sorpresa e dispiaciuta dalla sua risposta: sarebbe tornata a casa per quelle brevissime vacanze, perché la sorella aveva invitato lei e i genitori a pranzo dalla famiglia del noiosissimo e spocchioso Vernon Dursley, proprio la domenica di Pasqua. Era anche vero che, forse, sarebbe stata proprio Lily a costituire un’eccezione, dato che pochi studenti lasciavano Hogwarts per Pasqua, che peraltro non era una festività molto sentita.
Per la prima volta, Lily si chiese come sarebbe stata una vacanza senza Severus, un viaggio sull’Hogwarts Express senza di lui, un pomeriggio a Cokeworth con il tè, i biscotti a cioccolato e il girovagare senza meta in sua assenza, e le prese una strana tristezza. Neanche suonare il pianoforte sarebbe stata la stessa cosa, senza Sev.  
“Oh…” riuscì a dire lei, interrompendo quello che stava facendo “Rimarrai qui, quindi?”.
Al ragazzo si strinse il cuore - e provò qualcosa di molto somigliante al senso di colpa - ma sarebbe dovuto rimanere lì. Doveva dirglielo in qualche modo.
“Sì, è molto probabile. Mia madre non ha ancora risposto, ma non si fiderebbe a lasciarmi a casa da solo, mentre lei è via…” provò a spiegarle con calma.
“Ma avresti me vicino, e i soprattutto miei genitori, in caso di bisogno” ribatté lei, in un misto di tristezza e dolcezza. Allungò la mano verso quella di Sev, e la strinse forte. Lo guardò con gli occhi verdi carichi di speranza. 
“Lily, non lo so” tagliò corto lui, un po’ amareggiato “è un po’… diverso, il discorso”. 
“Che vuoi dire?” chiese lei dubbiosa “non capisco”. 
Si chiese tra sé e sé che diamine stesse prendendo al suo ragazzo: prima i giorni passati nel mutismo più totale, poi queste risposte strane ed evasive. Non ci stava davvero capendo più niente e si stava innervosendo. Odiava quando qualcosa le sfuggiva e non riusciva a capire che cosa le stesse sfuggendo di mano. Si stava insinuando qualche insicurezza e dubbio di troppo, dentro di lei. Ma lei si rifiutava di dubitare di Sev, nella maniera più categorica possibile, non fino a quando avrebbe avuto la prova che avrebbe smontato tutti i suoi castelli di pensieri riguardanti il ragazzo. Lo guardò sempre più confusa.
“Semplicemente, ho bisogno di stare qua a studiare” provò a spiegare Sev “ho bisogno di stare tranquillo… Tutto qua”. 
Era visibilmente agitato, quindi Lily si ammorbidì, pensando di essere stata un po’ dura ed egoista nei confronti di Sev. Una settimana lontani non sarebbe stata una tragedia, almeno così si era ritrovata a pensare.
“Sei sicuro che tu non abbia altro da dirmi? Puoi dirmelo, se vuoi” gli chiese con tenerezza. La ragazza lasciò riposare la pozione nel suo paiolo, e si voltò verso Sev, prendendo il suo viso tra le mani, accarezzandogli le guance con le dita. 
Il ragazzo non riusciva a sfuggire agli occhi verdi che lo avevano tormentato per giorni e per settimane, prima di mettersi insieme a lei. Lo avevano tormentato per anni, erano sempre stati una presenza costante, prima ancora che lui esponesse alla luce del sole i suoi sentimenti per lei. Erano il suo punto di riferimento, nel quale trovava tutto l’amore, il conforto, la comprensione, il sentirsi accettati per quello che si era, e lì si ritrovava, quando si sentiva perso. Tutto ritornava a quei due occhi verdi e lì si specchiavano - gli istinti, le rabbie, le delusioni, tutto lo spettro delle emozioni era lì, dentro di lei. Ma in quella situazione particolare, non lo avrebbero aiutato. E non lo avrebbero aiutato neanche le labbra che si era appena chinato a baciare; la stava baciando con sincerità e con trasporto, ma non riusciva comunque a stare sereno. 
La stava stringendo a sé molto più forte del solito, senza che Lily se ne lamentasse, quando un bussare discreto sullo stipite della porta dell’aula li interruppe.
“Chiedo scusa, signor Piton” esordì la professoressa McGranitt con una punta di imbarazzo. I due ragazzi, sorpresi, si staccarono dall’abbraccio, spingendosi via come se fossero diventati all’improvviso due sconosciuti. I loro volti erano diventati di un rosso vivace. 
“M-mi dica, professoressa” rispose Severus con un filo di voce.
La McGranitt dal lieve imbarazzo iniziale era passata all’ironia, con un’espressione in viso che pareva dire “non siete i primi, e non sarete gli ultimi studenti che trovo a scambiarsi effusioni”. Fece qualche passo in avanti verso di loro.
“Il Preside Silente la sta aspettando”. Sentendo quelle parole, Severus s’illuminò. Si voltò a guardare Lily, non sapendo bene cosa dire, e la ragazza, che aveva subito capito che la preoccupazione di Sev era stata quella di non riuscire a parlare con il Preside, lo tranquillizzò.
“Ci penso io alla tua pozione. Vai, ci vediamo dopo!” lo invitò a seguire la McGranitt con uno spintone affettuoso, non senza prima avergli dato il maglione e il mantello nero, che Sev era solito levarsi quando era al lavoro sulle pozioni, per una questione di comodità.
Dopo l’euforia iniziale, man mano che si avvicinava allo studio di Silente, Severus iniziò a provare una fortissima ansia. 

Marcus si sentiva fiero del suo compito di capo dei laboratori dell’Ospedale di Mile Droichead. Controllava che le preparazioni di tutti i medicamenti venissero fatte alla perfezione e si preoccupava che tutti gli ingredienti, da quelli più comuni a quelli più rari, fossero sempre in giacenza nei magazzini. Era un compito delicato che il Maestro Lynch aveva voluto affidargli, e lui lo aveva accettato con grande gioia e onore, determinato a rendere quella struttura un motivo di vanto e una perla del Regno Unito, per quello che riguardava la parte magica del paese. 
Per quanto il Ministero cercasse di evitare, o perlomeno di limitare al minimo, i rapporti con la Confraternita degli Evocatori, una delle strutture supervisionate dal Ministero della Salute aveva bisogno della Confraternita: l’Ospedale San Mungo per le Ferite e le Malattie Magiche. Soprattutto per i casi più difficili, che richiedevano anche medicamenti più complicati, non disponibili al momento del bisogno, e con ingredienti non di facile reperibilità, l’Ospedale si appoggiava alla Confraternita per un rifornimento settimanale di quei farmaci e quel tipo di collaborazione aveva il vantaggio di poter godere di un rifornimento straordinario, qualora fosse arrivato al nosocomio un paziente che necessitava di cure particolari e immediate.
Marcus si occupava personalmente di questo rifornimento, recandosi a Londra una volta a settimana, e si occupava anche dei casi straordinari. Il Maestro Lynch non si era per nulla opposto a quella collaborazione ed era sempre al corrente della situazione, ed certo che al Ministero avrebbero implicitamente capito l’importanza della Confraternita, anche in un gesto così piccolo e semplice, che a loro non costava molta fatica in più. E comunque, il Ministero aveva approvato, tramite il Comitato per la Regolamentazione della Metropolvere, l’attivazione di un canale privilegiato tra il San Mungo e Mile Droichead, utilizzabile solo dal personale autorizzato dell’ospedale e dei laboratori della Confraternita. Era capitato solo una volta, e di quella se ne ricordava bene il Maestro Lynch, perché aveva visto coinvolta sua moglie Catherine stessa, che era una delle Guaritrici di turno quel giorno. Si era presentata l’urgenza di trasportare un malato particolarmente ostico da curare dal San Mungo all’Ospedale della Confraternita. Il Maestro Lynch, che allora non era ancora Maestro, si ricordava dei tempi risicati, perché bisognava agire in fretta sul paziente, i funzionari del Ministero della Salute irreperibili - che strano! - e l’autorizzazione al trasferimento del paziente era firmata solo dai Medimaghi, ma non da un funzionario ministeriale. Si ricordava tutto come se fosse ieri: la fatica, la rabbia e la frustrazione verso la burocrazia, così come il senso di gratificazione dopo essere stati in grado di curare il paziente in maniera efficace. Ed era per questo che si sentiva orgoglioso di Marcus, che aveva preso molto a cuore il compito di mantenere vivo il legame tra il San Mungo e la Confraternita.
Quel giorno di primavera, il ragazzo aveva preso la Metropolvere come al solito, portando con sé un borsone di cuoio, dove al suo interno c’erano dei piccoli pacchetti, ed era arrivato in brevissimi istanti a Londra, dentro l’ospedale, nell’ufficio del responsabile dei Guaritori, che lo stava aspettando come di consueto. Non era un uomo, era un gigante, dai capelli biondi, alternati a qualche ciocca argentata, e due occhi verdi talmente luminosi da sembrare finti. Aveva una carnagione piuttosto scura, rispetto a quello che ci si poteva aspettare, dati i capelli biondi e gli occhi verdi. E non aveva neanche una voce profonda e da cavernicolo, ma era molto squillante e comunque potente. 
“Signor Sutton, buongiorno!” lo salutò Marcus sorridente.
“Quante volte te lo devo dire che mi devi chiamare Brian, signor Yates!?” lo accolse con una pacca sulla spalla l’altro. Marcus temeva il giorno in cui quel gesto affettuoso e amichevole lo avrebbe demolito, costringendolo a una permanenza forzata al San Mungo. 
“D’accordo, ma non chiamarmi così, chiamami Marcus!” protestò con un sorriso. Si scrollò di dosso i resti della polvere magica e si levò il mantello pregiato che indossava, per appenderlo all’appendiabiti poco distante. Il mantello era quello tipico degli Evocatori, uno splendido indumento argento dai riflessi iridescenti, che solo i membri della Confraternita potevano indossare, per distinguersi dagli altri maghi. Per chiudere il mantello, veniva utilizzata una spilla di madreperla a forma di petalo - e non rappresentava un fiore qualsiasi, era quello che l’Albero della Vita produceva in primavera, anticamente chiamato lo Yggdrasilsblóm. Il profumo di quei petali era dolcissimo, ma non invadente, e i petali venivano raccolti non appena cadevano dall’Albero e quelli migliori venivano utilizzati per fare una serie di profumi artigianali - per la persona, o per la propria casa - in quantità molto ridotte, e le bottiglie erano marcate con la semplice scritta þráslíf ma era stato chiamato più comunemente Essenza di Vita, per poterlo commercializzare al di fuori della Confraternita. Tra le famiglie nobili della comunità magica, era un prodotto molto ambito, perché erano praticamente le uniche a poterselo permettere, dato il numero ristretto di boccette prodotte ogni anno; era un profumo molto desiderato specialmente dalle streghe nobili, che erano disposte a lanciare anche Schiantesimi sulle acquirenti rivali, pur di accaparrarsi anche solo una bottiglietta.
Il giovane appoggiò il borsone a terra, lo spolverò e lo aprì un attimo, per sincerarsi che il contenuto non fosse stato contaminato dalla polvere e che non si fosse danneggiato durante il trasporto. 
“Gradisci qualcosa da bere? Un tè? Qualcosa da mangiare? La Caposala del secondo piano ha portato dei dolci meravigliosi, oggi” disse Brian a Marcus. 
“No, ti ringrazio” rispose il ragazzo cortese. Aveva sempre quell’aspetto molto magro e malaticcio e mangiare un dolce non gli avrebbe fatto di certo male. 
“Una volta di queste, però, ti fermi e ti facciamo degli esami del sangue” osservò l’altro “sei sempre molto magro e non hai un aspetto sano. Sei sicuro di stare bene?”.
Marcus scoppiò a ridere “Tutte le volte mi minacci con questi esami del sangue! Sto benissimo!”. Detto questo, si avviò fuori dall’ufficio, pronto a essere scortato verso il magazzino e i laboratori dell’Ospedale, per fare le sue consegne.
Non aveva molto tempo, come sempre, e non aveva tempo tantomeno per degli esami del sangue, perché aveva un’altra commissione da fare, sempre a Londra. Doveva recarsi in Mercy Street, che non era molto lontano dall’ospedale, ma non conveniva nominare quella strada, perché si rischiava di essere guardati male. Non con quello sguardo interrogativo da “che razza di posto frequenti?”, ma con un’occhiata più simile a un “ma con tutti i posti, proprio Mercy Street?”. Era una via da nominare il meno possibile, alla gente normale e perbene. Era peggio di Notturn Alley, di cui si poteva parlare tranquillamente, per quanto malfamata fosse. Mercy Street era la strada che non doveva esistere, un luogo disperato pieno di pazzi, di suicidi, di alcolizzati e di maghi sbalestrati troppo disgraziati per girare persino a Notturn Alley. Era un luogo dove si respirava carbone allo stato puro, dove le ceneri si depositavano sulle finestre, sui tetti, dove la neve tossica cadeva triste e perenne, nel tentativo di coprire le colpe degli abitanti. In Mercy Street si spacciavano pozioni illegali, ingredienti di cui non si conosceva la provenienza; lì si duellava liberamente, a cielo aperto, davanti ai proprietari delle osterie sudicie fatiscenti che imprecavano per l’ennesimo scontro, che iniziava sempre e solo per motivi futili. Volavano incantesimi inventati sul momento - e quindi molto pericolosi non solo per i duellanti, ma anche per i passanti, poiché non se ne conoscevano le conseguenze. Bisognava essere molto accorti e pronti nello schivarli. I matti potevano lanciare un qualsiasi incantesimo addosso al primo che passava, in base alla simpatia o all’antipatia che provava lo schizzato di turno. Era una strada dove, per camminare con un minimo di agilità, bisognava anche evitare gatti macilenti, topi, e quest’ultimi, che fossero vivi o morti, erano il pasto preferito di gufi malconci, che perdevano ciuffi di piume perché l’occasione di fare un pasto decente era veramente rara. 
Oramai Marcus ci aveva fatto l’abitudine, riusciva ad aggirarsi per quella strada quasi con indifferenza. Anche i soliti vagabondi e i soliti iracondi sembravano essersi abituati a quella presenza, occasionale e anomala, ammantata nel proprio mantello elegante e scintillante. Solo all’inizio, qualcuno aveva cercato di rubarglielo, ma il giovane Evocatore era stato pronto a lanciare al ladro balordo un incantesimo paralizzante. 
Ed eccolo lì, Marcus, che camminava con leggerezza ed eleganza in mezzo a quel sudiciume, umano, animale e inanimato, con la meta - la solita - ben in testa. Five Points, un locale squallido, le cui cinque attività principali erano lo spaccio di pozioni illegali, il traffico di creature magiche bandite dal Ministero, rigorosamente importate senza alcuna quarantena preventiva; lì, vi scorreva alcol a fiumi e di pessima qualità, e si svolgevano scommesse clandestine per duelli all’ultimo sangue e, infine, al Five Points veniva recapitata la corrispondenza illegale, tra qualche prigioniero di Azkaban e qualche parente o delinquente in libertà. Oppure, veniva recapitata quella corrispondenza che non voleva essere soggetta a controlli del Ministero - perché poteva capitare che venisse controllata, quando c’erano delle attività losche su cui indagare. 
Insomma, Marcus aveva un piccolo segreto, al di là dei suoi modi cortesi e sempre affabili: aveva la sua casella di posta in Mercy Street, al Five Points, perché non voleva che certa corrispondenza si mescolasse alla sua casella di posta ufficiale, situata nella segreteria dell’Ospedale di Mile Droichead. Un piccolo segreto che non avrebbe rovinato sua condotta esemplare, la sua competenza e il suo zelo nel lavoro, ne era convinto.
Entrò nel locale, aprendo una porta fin troppo scricchiolante, e schivò un ubriaco che dormiva a terra, e che stringeva in una mano la sua bacchetta magica rotta, dal cui punto di rottura uscivano scintille giallastre, che gli bruciacchiavano le vesti logore e i capelli unti. Marcus si diresse al bancone.
“Buongiorno Scintillino!” lo salutò bruscamente la strega dietro al bancone. Fumava una sigaretta Babbana, ne fumava una dietro l’altra - a Five Points succedeva anche questo, che circolassero liberamente i vizi Babbani. “Vai su, che c’è posta per te” aggiunse allungandogli la chiave per aprire la casella, senza dargli il tempo di rispondere al suo saluto.
Marcus prese la chiave lorda di grasso, e come sempre, dalla tasca della veste estrasse un fazzoletto pulito per lucidarla.
Scintillino, sei il solito schizzinoso” lo dileggiò la strega, scoppiando in una grassa risata, impastata di nicotina. Marcus le scoccò un’occhiataccia irritata.
“Non chiamarmi più in quel modo patetico” le rispose tagliente “e vedi di tenermi la chiave pulita, la prossima volta”. Il nomignolo derivava dal suo mantello, che spiccava tra la miseria delle vesti dei maghi e delle streghe che frequentavano Mercy Street.
Si allontanò, per dirigersi verso le scale che portavano alle caselle di posta. Si fermò per dissetarsi - non avrebbe mai accettato un bicchiere d’acqua in nessun locale di quella strada, neanche fosse  rimasto l’unico posto dove ristorarsi al mondo. Aprì il borsone di cuoio e ne estrasse una fiaschetta in metallo lucente, levò il tappo e bevve qualche sorso della bevanda contenuta al suo interno. Poi, salì le scale e, con una certa eccitazione, aprì la sua casella di posta. Sperava di trovare quello che stava aspettando da settimane.
Con un sorrisetto soddisfatto, estrasse dalla casella il pacchettino, verificò il mittente - era sempre lui, con la sua scrittura elegantissima e ordinata - e scartò il contenuto di fretta e furia, strappando la carta da pacco e tagliando lo spago. Si trovò davanti a una cartellina rossa, con una scritta in un alfabeto che aveva imparato a conoscere.
CCCP. URSS. Il Ministero della Magia sovietico lo autorizzava a recarsi in Unione Sovietica.
Aprì la cartellina e trovò una breve lettera, scritta sia in russo, sia in un inglese molto formale e ampolloso. La lesse con entusiasmo, e frugò ancora brevemente nella cartellina, trovando la pergamena d’invito ufficiale, che avrebbe dovuto tenere con sé per tutta la durata del soggiorno e che avrebbe dovuto esibire quando richiesto. Nel pacchettino, c’era un’altra lettera, non ufficiale, ma scritta da uno degli assistenti del mittente, che era stato designato come coordinatore di quel viaggio in Unione Sovietica. Gli confermava il tragitto e le tappe previste e l’incontro con un personaggio illustre del mondo magico sovietico, creduto morto da decenni.
Finalmente ci incontreremo, G.E.” mormorò Marcus, tra sé e sé. Ripiegò la lettera con cura, e la ripose nel borsone, senza dimenticarsi di ringraziare coloro che l’avevano aiutato a rendere quel viaggio possibile: “Grazie, Gosha e Tomas”.

Il suo cuore si era appena infranto in mille pezzi, li sentiva cadere a terra, ai suoi piedi.
Non sapeva quale martellata lo avesse colpito più duramente, e ignorava quale alternativa, gli sembrasse la più assurda e impraticabile. Ma quello che gli faceva ancora più male, era quel tatto glaciale del Preside.
Severus non sapeva - o forse aveva finto di non sapere, o ancora non poteva sapere, perché si era fidato troppo - fino a che punto il Albus Silente si sarebbe spinto nell’usare le persone che aveva attorno.
Fino a quel momento, non aveva considerato che il Preside avrebbe potuto renderlo un feticista delle vite altrui, proprio com’era sempre stato lui. Una persona ossessionata dalle vite altrui, nel bene e nel male, fino a perdere di vista la propria, arrivando a sacrificarla nel nome assoluto degli altri, e chissà quale altro assurdo principio si nascondeva dietro quel generico altri. Il ragazzo vide l’uomo sotto una luce diversa, a partire dai secondi successivi in cui il vecchio mago concluse quel discorso, semplice, accompagnato da un tono di voce grave e serio. Un discorso che Severus avrebbe cancellato e dimenticato volentieri, ma che continuava a rimbombare nella sua testa.
Scelte… Allontanarsi… Lily.
Una parte di sé si voleva ribellare, voleva esplodere di rabbia e lasciare quello studio e poter dimenticare quegli ultimi mesi - voleva dimenticare Mulciber, Avery, la questione di sangue nei maghi, quel vortice di Magia Oscura che si stava facendo sempre più evidente all’orizzonte. Quella parte di sé avrebbe preferito di gran lunga azzuffarsi con i Malandrini ogni santo pomeriggio, avrebbe voluto godersi Lily per quello che era. E non ultimo, quella furiosa parte di sé voleva piangere. Quand’era stata l’ultima volta in cui si era fatto un pianto vero e proprio? Forse da piccolo, dopo essersi fatto male. O forse dopo qualche generica delusione per cui un bambino è in grado di farne una questione di vita o di morte.
Amore… Vita e Morte… Magia Oscura… Guerra.
Tuttavia, c’era anche quell’altra parte di sé che provava dell’empatia per Silente, soprattutto quando aveva potuto vederne dei ricordi presso il Pensatoio. Severus aveva davanti a sé un uomo che aveva vissuto una parte della propria esistenza nell’egoismo e nella sete di potere, nel nome di qualcuno che amava molto; ora era lì, ridotto a un mero spettatore della sua esistenza, ma che, nel nome di quelle ceneri di egoismo che ancora bruciavano dentro al cuore, non poteva tollerare che qualcuno simile a lui potesse vivere la sua vita da protagonista. O diventavi come lui in tutto e per tutto, o niente.
Eppure, Severus non si era mai sentito minimamente paragonabile ad Albus Silente - neanche per sogno, in nessun aspetto. Credeva che non avrebbe mai avuto il suo talento, la sua conoscenza del mondo magico, tantomeno il fascino e il carisma, e soprattutto le capacità di intrattenere relazioni con i potenti - e con i burocrati che contavano. Che cosa c’era di tanto speciale in Sev, tanto da essere visto come un mago potente da tenere sotto controllo e da sfruttarne le capacità senza troppi scrupoli?
Se c’era una cosa che gli aveva fatto ancora più rabbia e amarezza, era il fatto che Silente lo aveva ascoltato, ma non gli aveva dato una risposta così significativa. Il suo discorso suonava più sibillino e meno cristallino di quanto volesse essere. Silente gli aveva indicato le strade possibili, ma non si era sbilanciato in particolare modo per una di quelle.  
Puoi essere uno qualunque… O puoi fare la differenza… Sei tu che devi scegliere.
Su un aspetto, però, i suoi occhi azzurri si erano illuminati di curiosità, ed era stato quando il ragazzo aveva parlato a cuore aperto circa l’invito che gli aveva fatto il compagno Serpeverde. Silente ne era certo, il giovane Severus avrebbe avuto un assaggio della vita che conducevano i maghi Purosangue simpatizzanti verso la pratica della Magia Oscura, e favorevoli alla purezza del mondo magico. E di sicuro, avrebbe conosciuto, pur senza saperlo, anche alcuni degli artefici degli ultimi attacchi ai maghi Nati Babbani, attacchi che andavano moltiplicandosi con il passare delle settimane. Albus sentiva che era a un passo dal capire non solo la struttura di quella congregazione di Maghi Oscuri, ma che presto, li avrebbe rivisti tutti in faccia, alla luce del sole, e li avrebbe affrontati. Avrebbe affrontato Lord Voldemort, il Signore Oscuro, che per lui era sempre rimasto semplicemente Tom. Lo chiamava Tom nei suoi pensieri, come per ridicolizzarlo, senza però sottovalutarne la potenza e il talento. Rimaneva comunque cosciente che non avrebbe mai potuto compiere quell’impresa titanica da solo, e per l’appunto aveva fondato l’Ordine della Fenice in gran segreto. Ma non gli bastavano i maghi ordinari e la collaborazione del Ministero, per cui si era mosso per convincere la Confraternita degli Evocatori a unire le forze. E ancora, tutto quello non gli bastava più, aveva bisogno di più punti di vista possibili, prima di arrivare a un primo scontro decisivo.
Qualche volta si era chiesto se fosse giusto coinvolgere un adolescente in quella situazione. Ma non era di certo l’unico ragazzo coinvolto - chissà quali altri giovani Purosangue, usciti da qualche tempo da Hogwarts, stava arruolando Lord Voldemort; o molto più banalmente, chissà a quanti di loro stava lavando il cervello con le sue assurdità. Severus si sottovalutava e quello Albus voleva farglielo capire: aveva il talento per diventare un grandissimo mago, un profondo conoscitore delle Arti Oscure senza però piegarsi alle logiche del Signore Oscuro; era di tempra forte e resistente, più di quanto il giovane potesse sapere, e possedeva un ottimo controllo delle proprie emozioni, tanto da essere in grado di nasconderle e non lasciarsi tradire da esse. Il ragazzo negava, ma quelle capacità le aveva già dimostrate in qualche modo, e Silente di certo non se le era fatte sfuggire. Severus era pure intelligente, scrupoloso e preciso. Tuttavia, la potenzialità di diventare un grandissimo mago di prim’ordine aveva necessariamente un prezzo da pagare e glielo aveva fatto capire con la preoccupazione di un padre - quello che Severus non aveva mai avuto veramente - e la fermezza di un leader. 
Avrebbe dovuto allontanarsi da Lily Evans
La “giovane Evans”, come la chiamava Silente. 
Sembrava cinico, o forse lo era davvero, e il mago cercava solamente di addolcire quel verdetto amaro e mortale come un veleno per il cuore del ragazzo, ma per Lily, il Preside di Hogwarts aveva altri piani, che non poteva ancora rivelare a Severus. Lily sarebbe una persona più delicata da gestire, in quanto futura Evocatrice, e Silente reputava che non potesse essere così esposta alla mercé dei due Serpeverde che gironzolavano attorno a Sev. Andava protetta, anche a costo di allontanare - e la parte più tenera sperava sempre di non arrivare a separare - i due ragazzi, perlomeno ufficialmente e davanti a tutti. Così, Severus avrebbe potuto addentrarsi senza ancora troppi rischi nella vita di Mulciber e Avery, andando a creare un legame solido, basato su una forte fiducia, in modo tale da avere accesso alla rete di amicizie delle due nobili famiglie. Era molto facile a dirsi, ma rimaneva un’operazione difficile a farsi, che avrebbe richiesto ancora del tempo. Ed era per questo che il giovane Serpeverde avrebbe dovuto allontanarsi da Lily, per concentrare le sue forze e il suo tempo libero sui suoi due compagni di casata. 
Lui se ne stava lì, seduto su quella sedia, con davanti a sé il Preside, con il cuore massacrato e il morale a terra, e una strada da scegliere. O meglio, una strada che voleva dare l’illusione di aver scelto, imboccato e spinto da altri, quando invece sarebbe stato lui a prendere ogni singola decisione. Per il bene suo e di Lily, che non voleva tradire con un mare di bugie. 
Severus non si era totalmente accorto che quelle bugie aveva già iniziato a dirgliele, sebbene  ancora piccole e innocue. Era nella fase di negazione dell’evidenza. Ma come avrebbe mai potuto spiegarle con tranquillità e serenità, come se avessero parlato solo di Quidditch, che quella sera avrebbe accettato l’invito di Avery? Non ci sarebbe mai riuscito. Eppure, lui pensava, e avrebbe sempre pensato, a fin di bene, perché tutto quello che avrebbe fatto, di lì in avanti, lo avrebbe fatto ancora di più per lei, per la sua salvezza. Ciascuno degli attori in scena avrebbe pensato di avere avuto in pugno Sev - da Silente stesso, a Mulciber ed Avery, e indirettamente anche da Lucius Malfoy - ma nessuno lo avrebbe mai avuto in pieno controllo.
Voluto e cercato da tutti, ma comandato da nessuno. Severus avrebbe venduto cara, carissima la sua pelle, a tutti loro. E avrebbe fatto di testa sua.
Allontanarsi da Lily? Non lo avrebbe mai fatto, anche se conveniva che fosse giusto proteggerla in qualche modo. Ma lo avrebbe fatto a modo suo, senza intrusioni da parte di nessun altro. Quella era la sua storia, la sua vita, il suo amore. Tutto sarebbe andato secondo la sua visione, altrimenti, tanto sarebbe valso affogare in una vita mediocre e qualunque.
A Severus non rimaneva altro che alzarsi, ringraziare educatamente il Preside per il tempo concessogli, raccogliere i cocci del suo cuore, per rimetterli insieme, controllare le sue emozioni e dirigersi da Mulciber e Avery, per accettare l’invito con la frase più neutra e distaccata del suo repertorio. E avrebbe dovuto cercare di nascondere il fiume di parole che avrebbe voluto dire a Lily, che di sicuro avrebbe incrociato prima di cena. E che avrebbe incontrato il mattino dopo, prima e durante le lezioni, nel pomeriggio, e di nuovo, prima di cena - com’era sempre stato e come sarebbe sempre stato. Ma non era il momento di cedere, di svelarsi, di confidarsi all’unica persona che era stata in grado di scioglierlo e sbloccarlo per davvero nella sua vita. Un giorno lontano, avrebbero riso di tutta questa situazione, ne era certo. Avrebbero riso di quella necessità di nascondersi da parte degli adulti e avrebbero riso, perché sani e salvi a godersi il loro amore alla luce del sole, in mezzo al vento e bagnati dalla pioggia, quella pioggia che conoscevano da tempo. Sentiva ancora la voglia di lasciarsi andare alle lacrime, e in maniera minore, sentiva ancora il desiderio di scappare, mentre attraversava il lungo corridoio che lo avrebbe riportato nella Sala Comune dei Serpeverde. Non avrebbe più potuto fare niente di tutto questo, oramai si era deciso, sebbene i suoi maledettissimi sedici anni lo avrebbero ancora perfettamente scusato, in caso di pianto improvviso e di pugni dati al vento. 

* * *

Sono in vergognoso ritardo.

Ma. C’è sempre un ma. In questo ritardo ho accumulato tre capitoli da scrivere <3

Mi sembra un buon modo per farmi perdonare. La parte più lunga è sempre la meditazione, la rilettura e l’editing, ma non ho fretta di pubblicare, perché voglio fare del mio meglio per Irish Rain. Mi sembra il minimo!

La vita reale è sempre molto piena, ma non mi lamento, la vita reale mi consente anche di rifugiarmi in questo piccolo universo che ho creato e nel quale sguazzo ancora con tanto amore! Spero vi piaccia questo capitolo, buona lettura!

E… Buon Natale, ci vediamo presto! <3

Lily White Matricide <3

   
 
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