Dal capitolo precedente:
Stava per ricominciare a parlare – Seamus era sempre stato un gran chiacchierone – quando Harry lo frenò tempestivamente.
“Abbiamo fretta. Dobbiamo trovare abbastanza gente da fare un diversivo, poi ci serve qualcuno che faccia l’allarme, e dobbiamo dividerci in due gruppi.” Tre, qualcuno doveva anche andare alla Gringott, ma questo lo tenne per sé.
“Quanti siamo in tutto?” chiese Seamus, con lo sguardo attento di chi vuole assolutamente partecipare.
“Io, Seamus, Ron, Megan, Adam?, Edwin e Basil. Dovrebbe andare, no?” disse Harry, abbastanza convinto dalla piega della situazione.
“Andiamo, Harry. Dimentichi qualcuno.” Si intromise Ron, con un’aria combattuta e leggermente contrariata. “Chi ha sempre ideato i nostri piani? Chi si è sempre preoccupata che tutto andasse per il verso giusto?”
“Hai ragione, Ron. Dobbiamo parlare con Hermione.”
27.
Hermione
si tolse il mantello di lana. Il suo piccolo appartamento non era più
stato così pieno dai tempi in cui aveva dato la festa per il
trasloco. Grattastinchi saltava dal divano alla poltrona con
soddisfazione, incapace di decidere dove fermarsi per
sonnecchiare.
Alla fine optò per il grembo di Seamus, che non
vedeva più da tanto tempo. Vi si acciambellò con grande sorpresa
del proprietario, e prese a fare le fusa. Il suo muso brachimorfo
produceva un caloroso seppur molesto rumore di marmitta.
Hermione
scosse la testa, quel gatto era davvero mezzo Keatzley.
Nonostante
l’urgenza della situazione, il disagio generale era evidente,
sembrava inibire i gesti e gravare sui pensieri.
Hermione e Ronald
evitavano di scambiarsi occhiate troppo lunghe, Harry e Daniel
borbottavano preoccupati per la faccenda della statua rubata, e
Seamus faticava a credere di essere finalmente parte dell’élite,
una pedina al servizio della giustizia, al posto giusto nel momento
giusto, tanto che sentiva le mani fredde e umidicce stringersi una
nell’altra spasmodicamente, in attesa che qualcuno si decidesse a
parlare. Con un po’ di titubanza cominciò ad accarezzare
Grattastinchi che ora gli premeva il muso piatto contro il mento e
ora gli solleticava il naso con la punta della coda, alla ricerca
svergognata del suo affetto.
Harry
si fece coraggio alzandosi in piedi, organizzare il piano senza
lasciare indizi per strada era capitale, non era più un ragazzino a
cui tutto era perdonato. Se perdeva il suo posto in accademia il suo
duro lavoro sarebbe andato perso, per non parlare del danno causato
ai suoi amici. E Ginny era ancora dispersa, imprigionata chissà
dove. Gli vennero in mente le urla di Hermione quando Bellatrix
Lestrange aveva deciso di torturarla. Erano così vividamente
impresse nei suoi ricordi da lasciarlo ancora senza
fiato.
Temporeggiò, strofinandosi il viso con veemenza. Cercò di
riprendere le redini dei pensieri, il che gli costò una fatica
immane, e spiegò l’altra parte del piano anche a Seamus,
camminando avanti e indietro sul tappeto verde di Hermione; di tanto
in tanto si spettinava i capelli, e si passava una mano sulla fronte
sudata; il rilievo della vecchia cicatrice era sempre lì, a
ricordargli chi fosse e cosa stesse facendo. Era sempre lui, con i
suoi migliori amici, alla ricerca di una soluzione a qualcosa di più
grande di loro.
Non riuscì a non stupirsi e imbarazzarsi per
l’ennesima volta, leggendo l’animata ammirazione sui volti degli
amici, soprattutto quello cordiale di Seamus.
Il
simpatico ma turbolento ex Grifondoro era con loro e li aveva seguiti
dopo l’incontro al Paiolo Magico, ormai la frittata era
fatta.
Sperò in cuor suo che non li tradisse e non facesse
saltare
tutto in aria
come al solito. Harry approfittò della spiegazione aggiungendo
dettagli in modo che anche Hermione potesse seguire il discorso. La
osservò di tanto in tanto, lanciandole le solite occhiate
interrogative, cui lei rispondeva sempre, in un modo o nell’altro,
onestamente.
Hermione era stata, in pochi minuti, perplessa,
stupita, devastata – cosa sarebbe stato di Ginny? – e Harry capì,
alla fine del discorso e con il fiato corto, che il suo piano era
arzigogolato ma fattibile, perché ora Hermione gli rivolgeva uno
sguardo fatto di comprensione, risolutezza. Si sentì rinfrancato, e
finalmente scivolò seduto sul tappeto, con la schiena appoggiata
alla poltrona di Seamus.
Aveva accuratamente evitato di notare il
disagio fra i suoi amici, ma ora era eclatante. Si sentì ferito e
scottato dalla proprio curiosità, ma non poté fare a meno di
osservarli. Hermione sedeva accanto a Ron con una tazza fumante di tè
al limone.
Era seria e completamente assorbita dalla situazione.
Rifletteva e il rapido nistagmo degli occhi dava l’impressione che
lei non ci “fosse” con la testa. Ronald era seduto composto,
ingombrava la stanza con la sua stazza e il colore folgorante dei
suoi capelli rossicci.
Eppure sembrava rannicchiato, quasi volesse
scomparire mimetizzandosi fra i mobili.
Erano così vicini,
eppure… eppure così distanti – o era una sua impressione? Harry
voleva loro un gran bene, era brutto, orribile vederli soffrire, loro
non potevano, non dovevano - loro erano la sua famiglia.
Avrebbe
dato qualsiasi cosa in quel momento per aiutarli.
28.
“Perché mi hai portato qui?”
Il
pallido, umido pomeriggio inglese era malamente incominciato con
quella frase, che definirla a doppio tagliente sarebbe stato un
eufemismo. Era stata una scelta deliberata, una domanda timida che
aveva tardato a lungo perché si nascondeva fra le altre nella
speranza di non dover mai comparire sulle sue labbra.
Era successo
ugualmente, perché tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi.
Dopo
una mattina frenata dalla debolezza fisica di Michael che viaggiava
dal divano al tavolo da pranzo in un continuo va e vieni e dalle
occhiate trasparenti e incriminanti di Luna dietro la sua coperta
psichedelica, Ginny si era decisa a parlare con Michael.
Era
pomeriggio, ma fuori era tutto grigio e senza un orologio non
avrebbero mai potuto dire che ora fosse.
Non era veramente un
problema, perché tutto in quelle giornate sembrava indicare che il
tempo si fosse fermato.
C’era solo quella ragazza stramba a
scandire il tempo con le sue escursioni, ma tutto urlava
silenziosamente, come un soffio caldo e muto, che in quella casa,
quale che fosse il tempo necessario, sarebbero riusciti a
parlarsi.
Perché erano soli.
Perché non c’era altra scelta.
Luna
era uscita da poco, lasciando un clafoutis alle ciliegie in forno.
Ginny prese a intrecciarsi i capelli nervosamente, allontanando
lievemente il viso dal calore del fuoco. Si era seduta sul tappeto
del salotto, vicino al caminetto, mentre la pioggia batteva sul tetto
della veranda e il vento fuori spazzava la landa, pronta ad
affrontare il suo migliore nemico.
Michael non le aveva concesso
delicatezze, non le aveva dato il tempo di prepararsi.
Perché
mi hai portato qui?
Il
tempo si era fermato su di loro, nonostante le lancette ticchettanti
e il cucù abominevole del signor Lovegood.
Il profumo aspro della
cottura riempiva le narici, imprigionandoli in quel presente bizzarro
e scadenzato.
Ginny
cercava le parole, Michael contava gli attimi guardandola negli occhi
senza sosta. Con un po’ di apprensione in gola, decise di mandare
giù il gozzo e dire semplicemente la verità, ad ogni passo, poco
alla volta.
Non era mai successo, dal loro litigio, che fosse lui
a fare domande. Lui era quello zitto, quello che non provava niente,
che si eccitava per qualsiasi questione ma no, non la loro, quella
era sempre stata acqua
passata,
fin dall’inizio della fine.
E lei si era sempre ritrovata sola a
combattere una battaglia contro i suoi sentimenti, rincorrendo i suoi
perchè.
Perché
siamo riusciti ad implodere per un bacio? Perché io ti ho perdonato
tutto, malgrado me stessa? Perché tu ce l’hai ancora con il mondo?
Perché il sapore della mia pelle non ti è piaciuto? Perché il tuo
invece me lo ricordo ancora, e mi è bastata una volta, e mi è
piaciuto, oh, così tanto?
Era sempre stata lei a preoccuparsi di riallacciare i rapporti e riavvicinare malamente i lembi della ferita.
“Perché, Michael, non avevo idea di come dare spiegazioni ai miei.”
Di solito lui buttava sale sul sangue.
“Sei nei guai, adesso?”
Sembrava provare un malato piacere a rigirare il dito nella piaga.
“Sempre meglio che restare in una prigione sudicia, clandestina e di cui nessuno sa nulla.”
“Tranne me.”
“Già, tranne te Michael.”
“È gentile Luna. Sai, la casa…”
“Sì, Luna è una persona adorabile e molto luminosa.”
“Tu abiti qua vicino, vero?”
“Sì, io… beh, in realtà…” ricordò improvvisamente che no, non era così. Che stupida. Come poteva averlo dimenticato? “Prima di partire in Brasile passavo molto tempo a casa di Harry.”
“Ne hai di posti in cui tornare, dopo questo…” Episodio? Circostanza? Varco spazio-temporale? Non seppe definirlo. Si trattenne dal mettere in fondo alla frase qualche parola sghemba e inutile. Sapeva che lei avrebbe intuito.
“E tu?” chiese Gin, con aria fintamente divertita, come quando si pongono le domande ai bambini meno fortunati. “Tu sai dove tornare?”
Era una domanda-abisso. Michael era stato solo un vecchio fantasma fino a una manciata di notti prima.
Aveva
tentato di lottare, all’inizio – quando se l’era trovato
davanti in mezzo alla giungla, come un brutto scherzo del passato, ma
si era ritirata scottata, rimproverata nientemeno che da se stessa.
In fondo al cuore, che fosse a Natale, o al suo compleanno, o davanti
a una stella cadente, il suo desiderio più profondo era sempre stato
lo stesso. Era costretto, soffocato da strati di nuovi ricordi, da
pensieri, paure, emozioni più audaci che non faceva fatica a
mostrare.
Ma i suoi sentimenti per Michael… no, per Misha…
erano un tormento che datava dai tempi della scuola.
E avevano
superato l’ostacolo del tempo, quello che ogni ricordo deve
affrontare.
Era sfumato il ricordo di Michael?
No.
Ricordava i tratti del suo viso e l’effetto della rabbia e dello
stupore e delle risa su quegli spigoli morbidi.
L’aveva
ritrovato, come un gatto randagio e arruffato, ma era ancora lo
stesso – vero?
“Tu
sai dove tornare”
implicava che lei volesse davvero saperlo.
“Non vivo più con i miei.” Ammise lui, rastrellandosi i capelli all’indietro con aria scomoda.
“Ah…?” rabbrividì alla vista di quel suo gesto così familiare. Caro. Caro e doloroso. I suoi aggettivi preferiti per Michael.
“Ah, eh già.” Lui tagliò lo sguardo che lei cercava di intercettare per posarlo sul fuoco. Nel marrone dei suoi occhi lei vide le fiamme. “A dire il vero viaggio di continuo, dormo un po’ ovunque.”
Quanti incontri, quante vite, quanti ricordi nuovi aveva lui, per proteggersi dal passato?
“Il mondo è la mia casa.”
Inaspettatamente, la risposta di Michael la rasserenò un poco.
“È… una bella cosa.”
Cosa
altro avrebbe potuto dire? Odiava ammetterlo, ma lo ammirava.
Aveva
il coraggio di andare contro le convenzioni, contro il solito –
diploma-lavoro-casa-famiglia di cui lei si accingeva a superare la
prima tappa; Ginny aveva sempre soffocato quella parte di sé per
amore degli altri.
Il
mondo è la mia casa.
Ginny sentì il cuore stringersi in una morsa di dolorosa nostalgia,
come se lui le avesse appena dichiarato “ehi, sono ancora io”. Io
- io, io, io. Io quello che hai conosciuto un tempo, quello che ti
faceva tremare il cuore di gioia per qualsiasi sciocchezza, non il
Michael cattivo e spietato che ti ha spezzata come un
ramoscello.
Quel io.
Seguito
da un “corri subito a scriverlo sul tuo diario, avida (di –
ahahah
- amore), stupida, naïve piccola Ginny”.
Michael
la guardava – uno sguardo di cioccolato liquido
innocente
- e lei non riusciva a capacitarsi dell’incubo ad occhi aperti che
la sua mente riusciva a raffigurare. Era innaturale quella voce
distorta che le risuonava in testa come le campane. Pensò di essere
impazzita.
Era tutto dentro di lei. Erano i suoi demoni. Non aveva
un posto dove nascondersi, se lui era realmente di fronte a lei.
Li
aveva creati lui, quei mostri oscuri, glieli aveva liberati dentro
quando l’aveva abbandonata – abbandonata sì, da tutti, non solo
da lui: dai suoi segregati in casa, da Percy quell’invertebrato, da
Harry e Ron e perfino Hermione, perché lei era quella piccola,
quella che non doveva sapere niente, e da Fred, che non le aveva
lasciato il tempo di salutarlo. Finché ci sarebbe stato lui, però –
così pensava la piccola
Ginny
quando era ancora a Hogwarts e aveva il diritto di sognare, lui che
era sempre stato il suo Lumos,
non sarebbe mai stata da sola. Misha era la sua solida colonna
portante, capace di ridarle tutta la sua tempra con un semplice
sguardo dei suoi.
E ora, chi era? Chi c’era dietro quello sguardo così sapientemente lavorato da sembrare quello del suo Misha?
“Senti-”
“Senti…”
Michael si alzò e prese a camminare sul tappeto, lentamente per non farsi male.
“Vai, prima tu.” Disse, con la bocca nascosta dietro la mano, grattandosi nervosamente il mento.
“Mi
dispiace. Non volevo che ti ritrovassi nuovamente coinvolto.”
Rispose lei, abbassando lo sguardo.
Nel
tutto. Nei maledetti briganti, nelle convenzioni che tanto
sapientemente rifuggi, nel mio amore sciocco e vischioso – pensò,
ma non lo disse.
“Non è niente, non è quello. Io vorrei parlare di altro. Ci sono tante cose che vorrei… chiarire, con te.”
Lo
sguardo atterrito di Gin frenò il suo entusiasmo iniziale.
Sto
andando troppo in fretta?
Si
spazzò i capelli dal viso e tentò di ricominciare il discorso in
modo appropriato.
La ragazza stava lentamente sciogliendo la
treccia di prima, in un gesto che sembrava del tutto inconscio.
Michael rimase qualche istante a fissarla con le labbra semichiuse,
cullato dal gesto meccanico, incapace di formulare la frase.
Si
avvicinò al caminetto, Gin era ai suoi piedi e lui abbassò la testa
per continuare a guardarla negli occhi. Se l’era ripromesso.
Niente
più scappatoie. La punta del piede sfiorava la gamba di lei.
Chiuse
gli occhi, pronto a buttarsi nel vuoto, quel vuoto che non aveva mai
voluto affrontare.
“Michael, prima però devo dirti una cosa importante.”
Gin
si aggrappò alla sua gamba, si tirò in piedi. Il suo viso era d’un
tratto vicino, sfocato.
Michael avvertì il calore rubato al fuoco
emanare dalla sua pelle, liberare la sua fragranza. Il cuore mancò
un battito.
Si perse nell’olfatto che lo guidava verso quel
nuovo profumo, che aveva note lattee di amore perduto, di bisticci e
d’infanzia, nella vista, che scioglieva tutto attorno a lui in una
scia di colori per potersi focalizzare su di lei, quella ragazza dai
capelli di fiamma, e nel rumore del respiro che sfuggiva fra quelle
labbra rosse e succose che lo chiamavano. Che
lo avevano sempre chiamato.
La
mano scappò al suo controllo e raggiunse una guancia vellutata e
bollente.
Raccolse uno sguardo risoluto fra le dita e vi rispose,
suo malgrado, con affetto. Era quello che aveva sempre apprezzato in
lei.
Era dinamite pura, appoggiata alla sua pelle, pronta a
esplodere.
E lui sarebbe saltato in aria, ne era certo.
“Non dovresti.” Accennò lei, beandosi di quel lieve contatto, socchiudendo gli occhi.
“Lo
so.”
La
parte di me che odio di più.
“Sono stanca di rincorrerti, Misha, e di perderti, e di ritrovarti.”
Era
una confessione? Era un consiglio velato?
Michael non seppe cosa
pensare. Vacillò sul posto, mantenendo il contatto.
Gin posò una
mano sulla sua e gliela strinse. Lui lo prese come un invito a
continuare.
“Non
volevo che andasse tutto a finire male. Sai, io ero solo molto
confuso. Sono sempre stato una persona confusa. Mi sento perso tre
quarti del tempo, forse è per questo che mi arrabbio facilmente.
Sono perennemente nervoso e preoccupato. E… mi vergogno. Non vorrei
essere così.” Sussurrò Michael, lasciando che lei raccogliesse
quella mano fra le sue e la portasse contro il petto. “Tu… sembra
che sai sempre che tasto pigiare per farmi esplodere.” Guardò
attraverso la veranda, inseguendo le folate di vento che spostavano
la pioggia, al di sopra del capo di Gin.
Era più facile, così.
Guardando altrove.
Non era esattamente quello che voleva dirle, accidenti, ma era uscito da sé.
“Mi dispiace.” Soffiò lei. “Ho sempre saputo che era colpa mia.”
Tutto quanto. Le notti insonni, il gioco di rincorrersi, l’affiatamento, solleticarsi il naso con i fili d’erba, scappare dagli altri, nascondersi insieme, condividere tutto, baciarsi per sbaglio…?
Michael si allontanò di scatto.
“Che cosa stai dicendo?” le disse, serrando la mascella. “Gin, tu non capisci… hai solo scatenato il solito caos per l’ennesima volta, quante volte hai ridotto in polvere le mie idee? Quante volte mi hai fatto sentire uno stupido… ma non è per questo che è finito tutto quanto. Devi smettere di pensare in modo sbagliato… devi smettere di pensare e basta! È successo, doveva succedere, ora è finito.” Concluse, sperando di farle capire che il discorso doveva essere chiuso lì, ora e per sempre.
Ginny incrociò le braccia, facendo un passo verso di lui.
“E questo che cosa rappresenta allora?” indicò lui, se stessa, la casa di Luna con gesto teatrale. “perché io proprio non capisco, Michael. Forse dovresti spiegarmelo tu.” Gli puntò un dito sul petto. “Tu con la tua mente brillante! È tutto finito, vero? Ma certo.”
“No, aspetta, non intendevo dire questo…”
Cercavo la sicurezza nei tuoi occhi. E tu non ti sei mai tirato indietro. Era doloroso. Era bellissimo.
“Gin, devo dirtelo, io… io non avrei mai immaginato, nemmeno col senno di poi, quanto potessi essere importante per te.” Non senza il diario. “Devi credermi, non ne avevo la minima idea. Perché…” esitò, facendo un passo verso di lei, guadagnandosi un’occhiata orripilata. “Perché io non volevo, Gin.”
“Tu non volevi che cosa?”
“Non volevo pensare, sapere, sperare ancora, soffrire per mano tua, …non volevo nessuna responsabilità. E tu eri un pacchetto integrale di responsabilità! Così appassionata, così seria, mentre io… ero ancora un ragazzino, spaventatissimo dal potere che mi avevi messo in mano. Avrei potuto farti così male…” Michael prese le spalle di Ginny e la scosse dolcemente. “Non voglio mai più avere quel potere fra le mani. Non sono in grado di gestirlo. Mi capisci?”
Ginny sentì gli occhi farsi lucidi, ma frenò le lacrime in un impeto di forza.
“Oh,
si che capisco. Capisco tutto, Michael. Sei un cretino, ecco cosa
capisco! Avresti potuto farmi così male?” lo scimmiottò
acidamente. “Avresti?! Tu mi hai
fatto male.” Lo prese per il colletto della camicia e spinse il
naso contro il suo, guardandolo negli occhi, annaspando in
quell’alito fremente e familiare come un ubriaco in un oceano di
vino. “Mi stai facendo male, qui, ora. Mi hai fatto male quanto ti
ho visto con le gambe rotte.” Gli morse una guancia, fingendo di
ignorare quanto la sua voce fosse instabile. “Quando mi hai perso
la bussola.” Gli morse il labbro superiore, senza raccogliere lo
spillo di sangue pur vedendolo scaturire.
“Quando mi sei
rotolato addosso.” Le scappò qualche lacrima fra le ciglia, giù
per il mento, per terra.
Non
importa,
è
la rabbia.
“Quando
hai implorato che restassi accanto a te perché avevi la febbre e
tremavi di paura!” Michael faceva di no con la testa, voleva
allontanarla, spingere via quegli incisivi crudeli, ma le mani
stringevano convulsamente due piccole spalle, e lui sapeva che erano
coperte di lentiggini, ricordava di aver inventato delle
costellazioni osservandole, nude, alla luce del sole – ricordava,
oh?, di averle amate.
Sapeva
di essere rosso in viso, accalorato per l’imbarazzo, il caminetto
scoppiettante e i baci avvelenati, e per la vergogna di provare un
immenso piacere. Tutto in lei lo conquistava, il dolore aveva un
sapore - un sapore? - invitante, e l’idea che si mischiassero gli
accese la mente di pensieri vivi come le fiamme.
Perché
la parte di me che odio di più, Ginevra, sei tu.
Quando
lei scese a mordergli l’incavo del collo Michael sentì la voce
morire – proprio lì, in fondo alla gola; i suoi sentimenti
diventarono una nube indistinta di rabbia e desiderio. Voleva
concedersi quello che si era sempre negato per codardia.
Non era
mai stato così facile focalizzare lo sguardo su di lei, piccola
macchia bianca sul suo manto nero.
Ginevra lo guardava e i suoi
occhi gli parlavano. Era così triste, arrabbiata e famelica e
appassionata, come non aveva mai avuto il coraggio di
affrontarla.
Capiva e sapeva di essere capito senza il bisogno di
una parola.
E ora, era chiaro, lei stava per fare qualcosa di
completamente pazzo. Dunque scappa Michael, oppure…
“Sai cos’è il coraggio, Michael?”
“Gin…”
Ginevra
gli strappò un bacio.
Lo tenne per il bavero, senza lasciarli via
di fuga, costringendolo a sbattere il muso contro la realtà, e
mentre lo assaggiava prepotente, premendo il viso contro il suo, si
mischiarono lacrime e sangue, e quel gusto era buono, salato e
metallico.
Non aveva idea di quello che stava facendo, era da
tanto tempo che aspettava quell’istante, ma non se l’era
immaginato così cruento. Voleva dolcezza, romanticismo, audacia.
Michael aveva accettato di mischiare la saliva con la sua come un
cucciolo che non sa ancora come reagire, ma che si fida della
madre.
Non era quello che voleva.
Eppure il cuore le martellava
fino nelle orecchie, perché Michael non l’aveva rifiutata, la sua
lingua le era venuta incontro. Era completamente impazzito. Un attimo
prima era immobile, passivo, pietrificato. Forse aveva solo bisogno
di uno stimolo, o gli era mancato il tempo per respirare.
Gin aveva accennato a scostarsi, ancora affannata, muta per lo stupore, e lui lasciò le sue spalle per stringerla e farla cozzare contro di sé in una stretta mortifera. Se si potesse essere divorati da uno sguardo… Gin era lì, sulla bocca del suo stomaco, come il più buono dei dolciumi, come il più indigesto dei veleni.
Si
era accartocciato su di lei, attorno a lei, l’avvolgeva del tutto
con ogni lembo di pelle libero d’ingombri, scorrendo l'involucro
con le dita, incitandola a fremere di rimando.
La paura, la paura…
dov’era andata la paura?
Gin
era calda come la brace, sapeva di casa - lei era
casa; assurdo, vero?, considerando che non ne aveva una; era sua da
sempre – lei, quel tenero fiorire di fiamme e costellazioni, mappa
del suo cielo, passato e presente, paura e desiderio.
Gin
no, lei no, non può essere mia.
La
paura? Eccola. Infantile, sciocca, lo pietrificava, perché lui
sentiva il cuore piccolo e pesante, e faticava a trattenerlo dallo
scoppiare; si, era convinto che lei non ci sarebbe stata tutta lì
dentro, nel suo petto.
Troppa energia in un corpo solo.
Troppe
sensazioni per non farlo impazzire.
“Tu…
tu sei sempre stata troppo, per me. Troppo di tutto.” Le mani
corsero a ripulirle le labbra dal suo sudicio sangue.
Le dita
premettero sulla cute fino a farla sbiancare, accarezzò il suo viso
lasciando strie arrossate fino alla mandibola. “E io non ho i mezzi
per contenerti.
Non…” esitò, perché era difficile da ammettere. “Io non sono
abbastanza.”
Guardò con rassegnato divertimento i suoi due moncherini fare capolino fra i capelli di Gin, mentre giocando a far rifrangere il colore del fuoco in quel rosso vivo, si beava di quell’accostamento – lui, lei – così sbagliato, pure così giusto.
“No, Misha, non è vero…”
Riuscire a non baciarsi, a non far collimare quelle bocche affamate era solamente un gioco, lo sapevano entrambi.
“Non sarò mai in grado di farlo, Gin. Prendere o lasciare.”
L’abisso sembrava allontanarsi proporzionalmente alla vicinanza con la sua pelle.
Sentì le mani di lei cercare le sue, studiarne i polpastrelli secchi e le unghie morsicate, sfregarle, riconoscerle.
“Credo che la mia scelta sia chiara, no?” sussurrò con voce roca, sospirando contro il suo naso. “Prendere.”
29.
“D’accordo, Harry. Ci divideremo in quattro squadre. Due persone con il mantello dell’invisibilità andranno alla Gringott, possibilmente non Daniel. Due resteranno al piano terra dell’Accademia e si sposteranno su e giù per le scale controllando che non salga nessuno. Altre due andranno in segreteria, e l’ultima coppia rimasta andrà nella stanza degli annali.”
Hermione
aveva posato la tazza su una pila di libri con aria pensierosa.
Seamus era più che elettrizzato all’idea di condividere un segreto
di stato;
aveva preso la tazza e l’aveva portata nel lavello di Hermione
senza dire nulla.
Quando vide l’aria preoccupata di Hermione
cominciò a scusarsi infinite volte, fino a farla scoppiare dal
ridere per l’imbarazzo e la situazione.
“Ho fatto un disegno dell’Accademia, non dovrebbe essere così difficile.” Si intromise Ron per tornare al discorso principale, mostrandole l’altro lato della pergamena stropicciata che aveva portato quella mattina al Paiolo Magico.
Hermione gli lanciò uno sguardo nauseato. Il disegno era graficamente uno scempio, e Harry che se n’era accorto lo prese di mano all’amico e finse di studiarlo con grande attenzione.
“Entrate di servizio qui, qui e qui.” Mormorò. “Bene, ragazzi, è molto semplice. Direi che Daniel e io andiamo su agli annali, Edwin e Basil in segreteria, Megan e Adam saranno il diversivo se succede qualcosa al piano terra e tu, Ron, accompagnerai Hermione alla mia cassaforte.”
Ci
aveva pensato a lungo, aveva evitato all’amico la vista della sua
fortuna per un sacco di tempo, ma stavolta era diverso, c’era in
gioco un fidanzamento; come altro definirlo? Si sentiva stupido, a
chiamarlo amore
ad alta voce nella sua mente.
Quel “fidanzamento” era
amicizia, oltre che amore, e rappresentava un’evoluzione durata ben
sette anni di scuola, più quelli all’Accademia. Non poteva
permettere che si autodistruggessero per chissà quale
sciocchezza.
Non si era mai intromesso, aveva accettato di buon
grado il loro rapporto, in nome dell’amicizia.
Il trio aveva
retto a questo e altro, nel tempo. Ora, in nome dell’amicizia,
forse aveva fatto la mossa giusta.
Forse, soli e nel cuore
dell’azione, con l’adrenalina in corpo, si sarebbero
ritrovati.
Harry lo sperava con tutto il cuore.
“E io?” gemette Seamus, imbronciato.
Dannazione, se l’era dimenticato. Era talmente assorbito dalla nuvola di malumore che aleggiava fra di loro che si era dimenticato dell’ultima novità.
“Che domande, Seamus.” Disse, tossicchiando per nascondere l’imbarazzo. “Tu vieni con me e Daniel!”
Hermione lo frenò.
“Harry, sei convinto del piano?”
“Certo, andrà bene. Deve andare bene.” Quel piano, e anche l’altro. L’importante era ritrovare Ginny e far tornare tutto alla normalità.
La
normalità.
Una bufala, e lui lo sapeva.
Ginny era scomparsa,
il vecchio Sinister mentiva, Daniel era nei guai, e lui aveva la
mente travolta da una sfilza infinita di pensieri e sensazioni non
sue che lo annientavano da dentro e gli sfuggivano appena cercava di
focalizzarle.
Sapeva che non era stata una grande idea, mettersi
nella squadra più vulnerabile.
Ma era davvero la sua? Forse no.
Accidenti, sicuramente, no.
Sapeva anche che Seamus era di troppo
nella sua squadra.
Avrebbe corso il rischio di metterlo nella
squadra di Ron? E guastare la possibilità che si riconciliasse con
Hermione?
Forse rischiavano troppo e avevano almeno bisogno di una
copertura.
“Seamus, cambio di rotta. Tu dovrai fare qualcosa di molto più importante…”