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Autore: Bess Black    02/01/2015    12 recensioni
Louis non lo disse mai a nessuno, ma sapeva già come sarebbe andata a finire: l'aveva visto.
Sapeva del cancro di Molly e di quanto lentamente l'avrebbe uccisa.
Sapeva di Lucy e del motivo per il quale parlasse da sola tutto il tempo.
Sapeva di Roxanne e di Fred, e dei macigni che si trascinavano dietro.
Sapeva ciò che nascondeva Lysander. E ciò che faceva Lorcan per coprirlo.
Sapeva di Evelyn Black e tutto ciò che celava quel cognome.
Sapeva di James ed di Albus, e chi dei due si sarebbe pentito alla fine.
Sapeva chi era Derek Nott davvero, chi non era Amelia Nott e quanto sarebbe costato scoprirlo. E quanto sarebbe costato ad Alexander e Denise Rosier.
Sapeva di Scorpius. E Rose.
Sapeva di Lily, finché sapeva di Hugo.
Sapeva di Frank, tanto quanto ne sapeva di Dominique.
Sapeva di ciò che legava Damian Harper ad Adam Zabini. E di ciò che legava lui ad Adam.
Sapeva chi sarebbe rimasto, chi se ne sarebbe andato e chi, dal principio, li avrebbe traditi tutti.
Louis sa già come terminerà questa storia e sa già di essere tra quelli che, alla fine, non ci saranno.
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Fred Weasley, Fred Weasley Jr, James Sirius Potter, Louis Weasley, Regulus Black | Coppie: Hugo/Lily, Rose/Scorpius, Teddy/Victorie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'isola che non c'è'
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Riassunto dei capitoli precedenti: Siamo rimasti con il rapimento (probabile morte, in effetti) di Joshua Thomas durante l’uscita ad Hogsmeade, rapimento che ha visto il coinvolgimento dei due suoi migliori amici, Lily e Hugo, ed Amelia Nott (la quale ha perso la memoria, dopo essere stata schiantata contro un albero); sono state accidentalmente coinvolte anche Evelyn e Katie, vicine ai quattro durante l’attacco, ma ne sono uscite fisicamente indenni (non si può dire lo stesso per il loro stato psicologico). In seguito, su previsione di Louis, sono intervenuti Fred e James, tuttavia questo non è servito ad evitare il danno e Joshua è stato ugualmente portato via.
Abbiamo scoperto che Roxanne e Fred hanno problemi economici a causa delle cure costose della madre (Angelina, infatti, ha avuto un incidente durante una partita quando ancora giocava con le Holyhead Hapies che le ha causato la paralisi di entrambe le gambe); allo stesso tempo, è arrivata una lettera dal Ministero (dall'ufficio Misteri) che proponeva loro un intervento – seppur con un margine di rischio – il quale avrebbe potuto permetterle di tornare a muoversi e, naturalmente, tale intervento è assai assai costoso. La stessa lettera era stata recepita da Céline (per guarire il suo sordomutismo) ed infatti la ragazza è al S. Mungo per l’intervento, da Molly (per guarire il suo tumore), però lei ha rifiutato (perché nel suo caso il rischio di morire era troppo alto) senza avvertire né la famiglia né Liam e, si scopre poi, Joshua stesso (per il diabete), i genitori del quale hanno rifiutato per lo stesso motivo di Molly; anche Alice Paciock (Maganò dalla nascita) ha ricevuto la stessa lettera e, seppure Lorcan, in qualità di suo ragazzo da anni, le abbia chiesto di rifiutare, la ragazza ha accettato.
Adam è ancora in possesso del diario di Louis; le visioni di Louis continuano ad aumentare (e peggiorare); Evelyn è convinta di aver (dovuto avere) un appuntamento con Albus e che lui se ne sia dimenticato, quando in realtà lui aveva solo proposto con distrazione di parlare con più calma in un'altra occasione; Luke (questa sorta di amico immaginario, ma che si è capito per certo essere molto più) continua a prendere il sopravvento su Lucy; Molly sta rinunciando a tutte le minime cure perché la stanno distruggendo; Dominique ha avuto una relazione abbastanza lasciva con Frank mentre il ragazzo era impegnato ufficialmente con Céline; Damian pensa che Roxanne abbia utilizzato i cinquanta Galeoni, che pareva necessitare con urgenza, per futili scopi personali, quando in realtà Roxanne li ha consegnati al padre per aiutarlo con le cure della madre. Regulus ha chiesto insistentemente al Cappello Parlante di smistarlo tra i Serpeverde, nonostante quello insistesse sul suo essere Tassorosso. Draco Malfoy ha avvertito il capo del Dipartimento Auror che ad Hogwarts c'è qualcuno che fa il doppio gioco
 
 
 
 
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X. 
La sera


Riflessi ed illusioni
 
 


 
Con la creazione universale, la natura cedette all’uomo parte di sé nella sostanza più mallea­bile e fragile mai generata: la Verità.
La natura, nella sua fede pura, non poté presentire che il fato e la vita da lei stessa conce­pita avrebbero offeso il dono concesso loro, e nemmeno trovare rimedio al virus vele­noso che rapido si sparse nell’universo che aveva procreato; in effetti, il contagio si dif­fuse velocemente infettando ogni forma umana incontrata, intossicandola tanto in profon­dità da prenderne parte.
Oh, sicuramente avrete sentito parlare di questo virus, più probabilmente sotto altre denomi­nazioni; esso è tanto celebre ed adoperato da aver preso diversi sinonimi nella lin­gua – certamente altrettanto infetta – dell’uomo: menzogna, bugia, falsità, inganno.
Esiste, però, un’altra forma di epidemia che ha inquinato la sincerità, un’infezione che tuttavia nessuno è capace di accusare poiché è nata assieme alla verità stessa e questo morbo è il riflesso della verità, l’illusione. Tanto prudente, l’illusione non corrompe la sincerità, ma ne consola solamente l’autoritaria giustizia; per questo l’illusione si ef­fonde nella mente umana, per questo nessuno è capace di accusarla: perché nessuno può farne a meno.
Perché le illusioni sono quelle singolari bugie a cui, però, vale la pena credere.
 
 
 
 
Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive ed i zeffiri sereni,


e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
 
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
 
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch’entro mi rugge.
 
 
Ugo Foscolo, Alla sera

 
 
 

 
§§§



 
 
Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – 21 Ottobre 1972
 
 
Il ripostiglio delle scope del settimo piano era freddo ed odorava di polvere e pelle d’oca.
Regulus era accucciato accanto ad una piccola vetrata che dava sul prato anteriore del Castello e cercava di capire se stesse piovendo o meno poiché non si vedeva con precisione da tutti quei piani d’altezza. 
Era sera e di lì a poco sarebbe dovuto scendere in Sala Grande per la cena, indossava ancora la divisa e teneva sottobraccio il tomo di Trasfigurazione dell’ultima lezione pomeridiana. Non appena avevano terminato la lezione e la professoressa si era allontanata, Serpeverde e Grifondoro avevano iniziato una disputa volutamente accesa, e lui si era allontanato in fretta senza che nessuno se ne accorgesse. Non gli piacevano i Grifondoro, non gli piacevano i Serpeverde; si somigliavano eccessivamente ed in modo parallelo, erano gli uni il riflesso distorto degli altri,  il tutto stava nel'asse di simmetria. Non gli piaceva nessuno in verità, non si piaceva nemmeno lui. Preferiva stare da solo, in disparte dagli altri e di se stesso. Non gli piaceva alcuni compagnia, nemmeno quella che era in grado di offrirsi da solo
Era questa la vera solitudine: non avere nessuno per obbligo e per scelta, e non avere nemmeno se stessi. Era ritirarsi in un piccolo spazio nel proprio Io, avere un frammento della propria persona come unica arma contro il mondo, quello esterno e quello interno. Era biasimare il proprio esilio, incolparlo, mentre lo si costruiva attentamente.
Contrariamente a ciò che si credeva, Regulus si era sacrificato molti anni prima della propria morte, si era sacrificato rinunciando alla vita stessa.
«Tu!»
Un ragazzino magrolino avanzò tra il buio e le ragnatele del ripostiglio puntandogli la bacchetta contro. 
«Pagherai tu per il tuo amico!» Sbraitò, avvicinandosi affannosamente. «Levicor-»
Balzò a sedere, facendo cadere il Primo manuale di Trasfigurazione che si aprì ed attirò l’attenzione dell’altro. Regulus recuperò precipitosamente il libro, tenendo ugualmente gli occhi puntati sul ragazzo che si era intrufolato nella sua solitudine, in silenzio e senza chiedergli il permesso.
«Oh.» Disse solo quello, il cui tono si era ristretto in una vocina acuta, ansimante e stridula. «Credevo fossi… Mi sembravi… Scusami.» Mise velocemente via la bacchetta, con uno scatto schizzante.
Regulus lo guardò, limitandosi ad un cenno. Il ragazzo portava anch’egli la divisa – sulla quale era ricamato lo stemma Serpeverde, come nella propria –, tuttavia questa era stropicciata e sgualcita in alcuni punti; dedusse che fosse reduce della precedente disputa tra le due Case. Cercò di adattare la propria vista, ancora pennellata dalla pioggia che cercava oltre la vetrata, all’effettivo buio in cui era fermo l’altro, giusto in tempo di distinguere il pallore della sua pelle.
Il Serpeverde, che Regulus identificò poco dopo come uno studente del secondo anno, annuì. «Posso stare anche io qui?» Chiese gettando occhiate attente alle sue spalle.
Lo guardò senza rispondere, creando un silenzio durante il quale non prese nemmeno in considerazione la possibilità di rispondergli. Strinse il Manuale sotto braccio e tornò a sedersi dov’era esattamente qualche minuto prima e questa volta non faticò a notare le gocce di pioggia che picchiettavano contro la vetrata.
Il ragazzo si sedette nella parte opposta. «Black, non è vero?»
«Regulus Arcturus.» Precisò prontamente, sull’attenti.
«Lo so.» Sbuffò l’altro, annuendo. «Severus Piton.» Aggiunse con un cenno, prima di incominciare anche lui a guardare oltre la vetrata.
Regulus annuì e sospirò, senza voltarsi. 
Era l’arte di stare soli, in compagnia.
 
 
 
 
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggièra.
Nel giorno, che lampi! Che scoppi!
Che pace, la sera!
 
 


 
 
§
 
 
 
 

 

 
Louis sospira ed apre gli occhi.
È sera.
Il blu innaturalmente vivido del cielo lo aiuta a prendere coscienza del fatto che ciò che sta vivendo non è reale e che quindi lui non sta veramente camminando sopra il Lago Nero.
«Zio?» Tenta, dopo essersi accertato che non sarebbe caduto in acqua e che vi sta veramente camminando sopra. «Zio, ci sei?»
«Non c’è nessuno.» Lo assicura una voce. «Nessun’altro a parte noi.»
S’incammina, guidato dall’eco della voce, fino ad uno scoglio particolarmente pronunciato. Vede una ragazzina, una ragazzina minuta, pallida, gracile, che lo fissa con gli occhi sbarrati; una ragazzina con la coda da sirena.
«Tu.» Louis indietreggia, prima di avvicinarsi di più. «Tu sei Amelia Nott.»
Muove la coda, senza smettere di guardarlo e senza rispondere.
«Che ci fai qui, Amelia?» 
«Io sono qui per andarmene.»
«E perché te ne devi andare?»
«Non devo.» Gli sorride. «La Musa dice che ora posso andare.»
«Andare… dove?»
«Dove le strade finiscono.»
Louis deglutisce.
«Ricorda.» Lo guarda, senza battere ciglia. Non batte le ciglia. «Ricorda che sono stati gli uomini a costruire le strade.»
Lo guarda selvaggia, graffiandolo con gli occhi. Poi questi si trasformano, non sono più scuri, ma azzurri, la forma non è più tonda, ma lunga e tagliente; i capelli non sono più neri, ma ricrescono biondi, anche se più corti.
Céline Rousseau ha la bocca cucita col ferro e sanguinante, e la coda da sirena poco più lunga di quella che aveva Amelia un istante prima.
Sta gemendo e mugugnando nel tentativo di parlare, ma le labbra suturate l’una all’altra non glielo permettono. Louis capisce che Céline tenta di dirgli qualcosa da come protende verso di lui lo sguardo, quasi scongiurandolo di comprenderla nonostante la mancanza di parole. E prima che lei inizi a piangere, quelle che poi notò con orrore essere lacrime di sangue, Louis si chiede se, una volta liberata la bocca dalla cucitura, sarebbe effettivamente riuscita a parlare.
Perché cucire la bocca ad una sordomuta?
Louis le si avvicina e la guarda dritto negli occhi, come mai è riuscito a fare prima. «Mi dispiace.»
Gli occhi sanguinosi di lacrime tramutano in una forma più aperta, ma non meno inquietante. Il colore inumano degli occhi di Evelyn Black è ancor più feroce, quasi erosivo, alla luce baluginante della sera. La sua coda scende dallo scoglio e sfiora la crosta del lago.
«Oh mio Dio.» Louis sgrana gli occhi, però non riesce ad impedirsi di spostare lo sguardo. «Evelyn, ti prego, dimmi che non è… Oh Dio.»
La ragazza agita la coda perforando la superficie dell’acqua e non sembra udirlo; continua a togliere schegge di vetro – specchio, osserva poi Louis, non vetro – da un cumulo di carne e sangue che stringe nella mano destra.
«Ho il cuore in mano.» Lo dice canticchiando, ma con tono grave. «Ho il cuore in mano.»
«Basta.» Geme Louis, portandosi le mani ai capelli. «Voglio andarmene, basta.»
Evelyn allunga una mano verso il suo braccio, ma non lo tocca. «Anche io voglio andarmene.»
«Ti aiuto io.» La parole gli escono solidali, teatrali, come se fossero una promessa lontana e non sua.
«Tu non puoi aiutarmi da solo, Louis. Hai bisogno della Musa.» Tira via una scheggia dal cuore che stringe in mano e vi si rispecchia. 
Louis si asciuga il sudore sulla fronte col manico del maglione di Fred che aveva indossato la mattina prima, ancora sporco del sangue di Joshua Thomas.
«Però la Musa può aiutare solo una di noi. E solo tu deciderai quale.»
Quando si ferma e lo guarda, a Louis sembra solo una bambina, felina e disumana nel tratti, ma piccola. Anche quando si porta il frammento di specchio in bocca e lo morde, mentre lui volta il capo dall’altra parte.
«Puoi aprire gli occhi, Louis.» La voce di Molly lo riscuote dall’orrore che rivestiva le sue palpebre e lui decide di fidarsi della cugina.
Molly non ha la coda, ma le sue gambe sono cucite l’una all’altra in modo da sembrarlo.
«Che cosa ti hanno fatto?» Soffia Louis, avvicinandosi.
«Oh, sono stata io.» Gli sorride lei, mesta.
Il ragazzo deglutisce. «Perché, Molly?»
«Autodistruggersi o vivere nell’angoscia mentre si aspetta di essere distrutti?»
Scuote il capo e le si avvicina, vincolando le proprie parole al verde famigliare dei suoi occhi. «Perché ti fai del male?»
«Io sono malata, Louis. Non mi sto facendo del male, me ne hanno fatto. Io sto cercando di guarire, noi stiamo cercando di guarire, ma la Musa dice che io non posso. Lo sai anche tu, lo hai visto.»
Deglutisce ed inspira. «La Musa?»
Molly si strappa i capelli con un gesto solo e questi non cadono, ma perdono consistenza, come se non ci fossero mai stati. «Ricorda, Louis.Ricorda che sono gli uomini a distruggere le strade, le stesse che costruiscono.»
«Perché?» Domanda disperato, aprendo le braccia.
«Perché hanno paura di finire di costruirle e scoprire dove portano.»
La voce gli trema quando parla, la voce gli trema sempre quando parla con Molly. «Vorrei solo… Voglio… Dimmi come aiutarvi.»
Quando Molly gli risponde, non è solamente il suo tono a musicare la voce, ma anche il timbro di Amelia e l’intonazione di Evelyn. 
«Risveglia la Musa.»
                                           
 
Aprì gli occhi prontamente perché questa volta sapeva di stare sognando, lo aveva capito sin dall’inizio. Ed era tutto ciò che aveva capito.
«Buongiorno, signorino.»
Fu la voce di Madama Chips a ricordargli di essere in infermeria, questa volta; non gli odori, non i colori, nemmeno il braccio fasciato.
«Posso uscire?» Si affrettò a chiedere all’infermiera, scattando a sedere.
La donna socchiuse gli occhi, scrutandolo attraverso due fessure lineari. «Sia chiaro che ti dimetto solo perché non sembri avere nulla di grave e perché la professoressa Cooman ha insistito affinché iniziassi il tuo tirocinio col nuovo programma dell’ordinamento.»
«Chiarissimo.» Le assicurò Louis, cercando la scarpa destra di James e quella sinistra di Frank che aveva indossato il giorno prima. «È passato qualcuno a trovarmi mentre dormivo?»
Madama Chips gli passò una pila di vestiti. «Più o meno tutta la tua famiglia.» Glielo disse in tono stretto, che non si sforzava nemmeno un poco a dissimulare la scocciatura dell’essersi ritrovata una ventina di gente che le faceva domande esistenziali sulla salute del ragazzo. «E gli Auror che volevano interrogarti.» Uscì e tirò le tende tutt’attorno al letto.
Louis prese a svestirsi in fretta, diversamente da come era abituato a fare. «Chi hanno interrogato?» Chiese, mentre chiudeva la cerniera dei pantaloni.
«Nessuno, alla fine. Tuo zio l’ha impedito.» La voce dell’infermiera gli giunse vicina ed immediata, appena dietro le tende bianche.
Guardò la camicia, il maglioncino e la cravatta rosso e oro. «Perché la divisa?» Chiese alzando la voce affinché lo sentisse chiaramente.
«Perché devi andare a lezione, ragazzo.»
«Ma oggi è domenica.»
La donna sospirò. Perché doveva sempre darle lei, le cattive notizie? «Hai dormito per più di trentasei ore. Oggi è lunedì.»
Louis Weasley spuntò da dietro le tende ancora mezzo svestito. «Non è vero!» Trattenne un poco il fiato. «Io non posso andare a lezione, Madama! Deve giustificarmi!»
L’infermiera gli puntò contro un fascio di bende che aveva in mano. «A meno che tu non voglia passare un altro giorno qui per altri controlli – e non sarebbe una cattiva idea date le urla che cacciavi nel sonno – dovrai filare a lezione come è tuo dovere. Prima di trasformarsi in una base di attacco per psicopatici questa era una scuola e, purtroppo per te, formalmente lo è ancora.»
«È dispotico da parte sua minacciare i suoi pazienti.» Brontolò Louis con una striscia neutra di voce, non abbastanza indispettito da lasciarsi udire.
«Se tra dieci secondi non sei fuori dalla mia infermeria, ti somministro una soluzione rettale con la forza.» Gli voltò le spalle e si diresse verso il suo tavolino mobile di pozioni.
Louis la guardò preparare un intruglio con lavanda e crine d’unicorno, cercando di capire quali incantesimi stesse recitando e pensò quasi di chiederglielo perché la coppa emetteva un buon profumo, quando lei lo fece sobbalzare, interrompendosi e tuonando un «Cinque secondi.»
Fu tentato di urlare, ma non lo fece perché in infermeria c’erano altri pazienti e non era il caso di attirare l’attenzione più di quanto non avesse già fatto. Afferrò la camicia, la cravatta e il golfino sporgendosi tra le tende e rischiando di rimanervi impigliato quando cercò di uscirne, andò a sbattere contro il letto vicino alla porta d’accesso all’infermeria, ma non si prese il tempo per lasciar trasparire il dolore, spinse l’anta con una spallata ed uscì sul corridoio sudato e affannato. Per un momento pensò di tirarsi uno schiaffo, escluse l’ipotesi solo quando si rese conto che degli studenti del secondo anno lo stavano guardando e lui era ancora mezzo svestito.
Entrò nel primo bagno del piano terra che gli capitò davanti, precipitandosi dentro di corsa e prendendo a vestirsi velocemente.
«Questo è il bagno delle ragazze.» Dominique lo guardò attraverso il riflesso dello specchio centrale.
Louis per poco non si strozzò con la cravatta. «Non ti ci mettere anche tu.» Sbottò tossendo e allentando il nodo.
«No!» Fece prontamente lei. «Non era una battuta, questo è davvero il bagno delle ragazze!»
«Mmh» Mugugnò il ragazzo, alzando lo sguardo sul proprio riflesso. «Per Godric, sono orribile!» Piagnucolò, osservando i propri capelli spettinati e cercando di appiattire qualche ciuffo. «Sembro James.»
Voleva farsi un’accidenti di doccia. Poteva cercare di sistemarsi con qualche Incantesimo d’Igienizzazione, ma voleva avere un momento tutto suo e farsi una doccia.
Niente visioni o sogni; nessuna morte imminente o passata; alcun segreto o inganno. Voleva solo avere un istante per stare solo e lavarsi.
«Louis.» Lo chiamò la sorella, alle sue spalle. «Ti stavo cercando.»
Il biondo lasciò perdere i propri capelli, ma non si voltò. «Scusami, ma non ho tempo, ora.»
Si sciacquò un’ultima volta le mani ed uscì dal bagno, certo che Dominique l’avrebbe comunque seguito. Camminò infatti speditamente fino al termine del corridoio, con i passi della ragazza alle calcagna.
«Non è il momento giusto per fare due chiacchiere tra fratelli, davvero.» Le disse, mentre accelerava il ritmo. «Dico sul serio, sta per succedere qualcosa di nuovo e…»
Dominique lo fermò prima che potesse entrare in Sala Grande. «La stai facendo a posta?»
Il fratello sospirò, fermo all’angolo del portone d’ebano. Non notò le occhiaie della sorella, così come non fece caso alle guance rosse e le labbra sec­che.
Non aveva il tempo per lei e non voleva nemmeno trovarlo.
Lei lo prese per il braccio e lo allontanò dalla folla di persone che si dirigevano verso la Sala Grande, spostan­dosi. Le tremava il labbro inferiore. «Come sta?» Il tono era acuto, strozzato, ancorato alla stessa disperazione che traspariva da ogni altro movimento che compiva. «Devi dirmi come sta, ti prego.»
Al Grifondoro sfuggì un sorriso tirato. «Adesso t’importa?»
«Louis.» Il dolore le danzava sulle corde vocali, la voce andava e veniva, il tono vibrava. «Ti scongiuro. Dimmi solo com’è andato l’intervento.»
«Visto a cosa ti sei ridotta? Banali sensi di colpa?» Si avvicinò, costringendola a retrocedere fino a toccare il muro. «Ti sei comportata da misera e sei finita per diventarlo.»
«N-no.» Faticava a respirare perché tutte le sue energie, già stremate, si concentravano per trattenere il pianto.
Avanzò ancora, guardandola dall’altezza che poteva vantare su di lei. «Non so cosa ti ha spinto tanto in basso, sorellina. Sappi solo che sei inciampata in una pozzanghera e ti sei completamente sporcata di fango. Solo che ora non riesci più a lavarlo.»
Dominique si guardò attorno allarmata. «Non farmi questo…»
«Che c’è, Nicky? Hai paura?» Poggiò le mani sul muro, ai lati delle sue spalle, chinandosi un poco. «Finalmente provi anche tu questo sentimento misterioso, eh? Si sta di merda, vero?»
«Smet-tila.» Sussurrò lei, la voce ormai schiacciata dal groppo di singhiozzi che tratteneva.
«Ti fa male lo stomaco, le ginocchia tremano tutto il tempo, non riesci a parlare, non vuoi guardarti allo specchio, non dormi, non fai altro che pensare… È Orribile, dico bene?» Continuò a parlare a piccoli sbuffi, nonostante il tono rimanesse neutro poiché non si sforzava certo ad evitare che qualcuno sentisse. «Sai qual è il fatto più divertente di tutti? Che a te Frank nemmeno piace. Sei stata stramaledettamente brava, lo ammetto. In questo modo sei riuscita a far del male a due persone innocenti, tre contando te stessa.» Fissò gli occhi concatenandoli ai suoi. «Tre persone in un colpo solo ed in così poco tempo, Domini­que! Lucifero stesso si sta complimentando dall’epicentro dell’Inferno.»
La ragazza chiuse gli occhi. «Ti scongiuro.» Respirava annaspando ed esalando dolore dall’interno delle sue viscere.
«Ora, invece, sai qual è il fatto triste?» Continuò imperterrito. «Che a te di Céline non importa veramente, hai solo paura che qualcosa vada storto in quell’intervento. Non vuoi averla sulla coscienza.»
Dominique scosse il capo, già piangeva. «Io le voglio bene, non volevo…»
«Non importa cosa volevi o non volevi.» Scosse il capo e fece qualche passo indietro. «Non voglio giudicarti perché per fare quello che hai fatto devi essere stata davvero disperata.» Ammise, alzando le mani in segno di resa. «È solo che non riesco a giustificarti. I sensi di colpa non ti donano.»
 
 
Louis e Dominique Weasley erano difficili a ritenersi fratelli, per questo motivo la reazione scettica delle persone che venivano a sapere che per di più erano anche gemelli, era decisamente comprensibile. Non avevano nulla in comune: gusti separatamente diversi, lineamenti e caratteristiche fisiche dissomiglianti, atteggiamenti quasi opposti.
La madre credeva di aspettare solamente un bambino, quando in sala parto il Guaritore si rese inaspettatamente conto che ve n’era un altro; tuttavia, in famiglia, i due gemellini non avevano portato altro che gioia e curiosità per il loro aspetto differente: il biondo chiaro di Louis Prometeo ed il castano intenso di Dominique Calliope non si accumunavano in nessun aspetto, così come gli occhi azzurri di lui e quelli verdi di lei. Se il loro aspetto fisico non combaciava in alcun dettaglio, nemmeno il loro carattere rispondeva alla parentela o aveva qualcosa da dire all’altro.
Si rispettavano, si amavano, si supportavano e comprendevano, ma non avevano nulla da dirsi. Quando si trovavano riuscivano a dimostrare la loro sintonia, il punto era che non si trovavano. E non si trovavano perché non si cercavano. Non si cercavano perché non si pensavano. Non si pensavano.
Non si pensavano ed il guaio era che nessuno dei due si era mai chiesto il perché.
 
 
 
 
 
*
 
 


«Evelyn»
«Ngah…»
«Evelyn»
«Mmh?»
«Evelyn!»
«Che c’è?»
«La Cooman! Si sta avvicinando!»
Evelyn Black si tirò su e si guardò attorno. Non poté impedirsi di sgranare vistosamente gli occhi non appena scorse la professoressa puntare al loro tavolino.
Pizzicò Roxanne tre, quattro, cinque volte per risvegliarla dal sonno profondo al quale si era coraggiosamente concessa e cercò di sistemare i capelli in modo che non si notasse che fino a poco prima stava sonnecchiando anche lei. La Weasley si svegliò bestemmiando i Mari del Nord e dell’Est, con gli occhi rossi e gonfi, mentre sbadi­gliava e guardava male in tutte le direzioni che le permetteva di scorgere il suo campo visivo.
Katie si ricompose e si mise dritta sulla sedia, invitando le Grifondoro a fare lo stesso, pronta a mettere in gioco tutta la sua cinica e pessimistica fantasia su una serie di eventuali morti tragiche ed imminenti, non appena la professo­ressa di Divinazione le avrebbe domandato di farlo.
Tossicchiò ed alzò una mano per attirare l’attenzione dell’insegnante. «Professoressa, posso incominciare io?» Domandò educatamente.
La Cooman non ebbe nulla da ridire e si mostrò invece entusiasta per la sua proposta. «Prego, mi dia le vie dello sguardo della signorina Weasley.» Annuì.
Katie si spostò un poco con la sedia, avvicinandosi a Roxanne e sollecitandola ad imitarla. Questa sbuffò, igno­rando la presenza della professoressa, alzando gli occhi al cielo, prima di fissarli in quelli della Bones.
Roxanne aveva gli occhi di un azzurro vivido contrastante col resto delle sue cromature naturali e che incremen­tava il fascino dei suoi lineamenti; il taglio dello sguardo aperto e lungo, le palpebre spaziose ed alte, le sopracci­glia ridefinite e curate il giusto.
«Il globo oculare è ampio.» Iniziò prontamente Katie. «Significa che perderà qualcosa nel suo cammino.»
«Eccellente quanto promettente inizio, ti ringrazio.» sbuffò Roxanne, facendo sì che l’intera aula si concedesse a risate assolutamente spropositate, data la reazione infastidita della professoressa.
«Le ciglia sono di lunghezza pari e questo indica la mancata concessione di fiducia che porta certamente alla solitudine e…» La Bones si mordicchiò il labbro inferiore poiché non si ricordava nient’altro. «Perderai tutti i tuoi averi a causa di un affetto eccessivo e, quando li riavrai, perderai te stessa.» Concluse in tono grave, improvvisando sul posto e facendo alla Grifondoro un occhiolino cauto.
«Ma come?» Fece Roxanne, portandosi le mani al petto. «Non morirò investita da un Nottetempo?»
Katie cercò di sovrastare le risate in modo che la professoressa non se ne accorgesse. «No, morirai molto prima.» Guardò l’occhio sinistro della ragazza, cercando di scorgervi qualche segno conosciuto. «Morirai durante la partita di Quidditch di sabato prossimo, cadendo alla scopa.»
Roxanne sbatté le palpebre più volte, senza commentare; deglutì, piuttosto, e tossicchiò. «Ora tocca a me.» Si avvicinò alla Black e tentò di reggere il suo sguardo. «Bene, il colore è… insomma, non è… Nel Manuale c’è scritto…»
Evelyn sospirò, ormai abituata. «Puoi dirlo.»
La Weasley annuì e si avvicinò un poco alla Black per non lasciare che il disagio improvvisamente creatosi si propagasse oltre. «Beh, il colore non è umano. E questo significa che morirai suicida.» Lo disse con un tono particolarmente irritato, sembrava quasi voler che qualcuno la contraddicesse. «Le ciglia non sono pari, probabilmente il climax indica una degradazione interna o di una propria parte.» Parlò in fretta, nella speranza che alcuni dettagli avessero meno impatto e si equivalessero agli altri. «La perdizione di una parte può verificarsi in caso di dolore estremo…» Si guardò attorno in cerca di ispirazione per concludere l’interpretazione, fermandosi ad osservare il tavolo Serpeverde alla spalle della Black. «È probabile che tu perda la persona che ami più al mondo.» Affermò con enfasi, sorridendo all’occhiata divertita della ragazza, la quale sapeva benissimo quanto in là era capace di spingersi la sua fantasia. «Oppure potrebbe coincidere direttamente con il logoramento interno e quindi col suicidio.»
L’entusiasmo sul volto della Cooman era decisamente promettente, quanto la Bones che scuoteva il capo, sorridendo quasi mesta.
«Oppure ancora, cara amica mia, perderai il tuo amore e per questo morirai di dolore per mano tua.»
Evelyn ci pensò su. «Lo farò presente ai miei, così capiranno quanto poco indispensabile è la mia istruzione al momento.»
«Signorina Black, vuole favorire?» La professoressa di Divinazione fece un cenno a Katie e lei si accostò all’amica, sorridendole.
Piegò il capo di lato. «L’occhio è molto aperto e questo si rifà al solco tra realtà e fantasia oppure tra infanzia e maturità. Può indicare l’incapacità di staccarsi dai ricordi oppure l’impossibilità di farlo.» Si avvicinò ancora al viso della Serpeverde. «Il tono scuro del colore indica ottime capacità osservative e deduttive. Si può supporre che questo si risolva in un’eccessiva attività pensante che la tiene legata ad un modo astratto, e quindi irreale – e allo stesso tempo, ai ricordi ed ai fantasmi dell’infanzia.»
«Evelyn…» L’ammonì Katie a bassa voce.
«Le ciglia sono medie e sono un chiaro segno di superamento dell’ostacolo attraverso un aiuto.» Continuò imperterrita. «La cadenza delle palpebre è ampia e sparge lo sguardo. È senza dubbio il simbolo del sacrificio.»
La Cooman ascoltava ancora indecisa se lodare le deduzioni e declinarle, aspettava con ansia il momento in cui la Grifondoro avrebbe accennato alla morte della Bones.
La Black guardò l’amica. «Incontrerai un ostacolo che chiederà un sacrificio, ma lo supererai.» Le sorrise. «E sarai felice.» Aggiunse, fiera di se stessa.
Katie rise, insieme a Roxanne ed a qualcun altro nell’aula. «Ti sei appena rovinata la media in Divinazione.»
Ed in effetti, l’espressione contrariata della professoressa, mentre si allontanava verso il quarto tavolo, lo prometteva.
«Stavo iniziando a deprimermi!» Sbuffò la Black. «Dannazione, qualcuno le spieghi che non c’è solo fango in questo mondo!»
«Beh, no dai.» Convenne Roxanne. «Se non pesti il fango, ‘sta certo che potrai sempre pestare la merda.»
Evelyn le rifilò una gomitata. «Non ti ci mettere pure tu!» Sbottò, esasperata. «Quando morirò suicida, ti sentirai tremendamente in colpa.» La informò, incrociando le braccia sotto il seno.
«Non credo proprio che ne avrà il tempo, visto che morirà sabato.» Intervenne Katie, solidale. «E comunque» Sussurrò avvicinandosi con un sorriso scaltro. «Potter ti sta fissando.»
La Black sbarrò gli occhi, irrigidendosi. «Mi fissa? Nel senso che fissa me? Io? Ma perché? Ho qualcosa nei capelli? Sono sporca? Ho una caccola? Puzzo? Ho qualcosa tra i denti? Non dovevo mangiare quel muffin! Sei sicura che guarda me? Magari guarda te, no? Oppure Roxanne? Sei certa che sia lui? Magari è qualcun altro, che dici? Guarda bene! Non farti vedere, però!»
Roxanne scosse il capo, coprendosi il viso e lo sbadiglio con le mani. «Non avresti dovuto dirglielo.» Borbottò in direzione della Bones.
Katie osservò Evelyn raddrizzare la postura e lisciarsi i capelli, mentre con l’altra mano appurava la qualità del proprio alito. «No» convenne subito dopo, amareggiata. «Non avrei assolutamente dovuto.»
«Mi sta guardando ancora? Secondo te perché mi guarda? Ma sei sicura che stia davvero guardando qui?»
 
Damon Harper aveva un mistero da risolvere. E, detto francamente, quest’aurea enigmatica lo faceva sentire in un qualche modo profondamente realizzato e anche potenzialmente autorevole.
Sin da bambino aveva preferito risolvere indovinelli e comporre puzzle piuttosto che disegnare o colorare, e quando all’età di dodici anni aveva annunciato ai suoi genitori di voler fare l’Auror Interno – una sorta di carica corrispondente a quello che i babbani definiscono investigatore – non si erano stupiti particolarmente; certo, aveva borbottato sua madre, con un nonno Mangiamorte ancora detenuto ad Azkaban non sarebbe andato lontano. Aveva deciso, dopo una lunga seduta spirituale e mistica con se stesso, che suo nonno poteva andare a quel paese – purché questo paese fosse stato molto lontano – o che, per quanto lo riguardava, poteva marcire in quella cella fino a risvegliarsi direttamente nel Sesto Cerchio dell’Inferno; non l’aveva mai conosciuto e non ci teneva certo a rimediare.
È il principale problema del sangue: non scorre solo nelle tue vene e non sei tu a decidere con chi condividerlo.
Damon era fermamente convinto che quelle corbellerie che sentiva predicare sull’unione data dalle radici e dalla parentela non avessero nulla a che fare con gli affetti. Ed era certo che se molte persone non fossero state costrette a vivere insieme per motivi famigliari, non si sarebbero mai guardate in faccia. Era deciso e convinto che le famiglie andassero costruite e non aggiustate, riparate, assestate con qualche adesivo artificiale.
Fu al suo secondo anno che ne prese pienamente coscienza. Allora portava ancora la cravatta stretta come si doveva, la camicia dentro i pantaloni e le scarpe ben allacciate; si era ritrovato nella stessa situazione claustrofobica di tutti gli ereditari di ex Mangiamorte, i quali non potevano certo permettersi di vacillare o lasciarsi scappare un solo sbaglio, senza che un gruppo di ragazzini della loro stessa età, solamente molto più stupidi, facesse pesare loro le azioni di un qualche parente defunto o rinchiuso in una gabbia – per la maggior parte nonni, zii o cugini che non avevano nemmeno mai conosciuto. E così, su due piedi, si era chiesto perché loro, che non erano altro che bambini, stessero scontando una pena assieme a sconosciuti, per delitti che non avevano mai commesso, solo perché condividevano con loro qualche disgrazia cromosomica. Aveva trovato risposta non appena aveva rotto il naso al Corvonero che gli aveva bruciato il libro di Cura delle Creature Magiche, dopo averlo accusato di praticare Arti Oscure perché suo nonno materno aveva fatto la stessa cosa decenni prima che nascesse.
La preside gli tolse una ventina di punti, ma non lo mise in punizione; sua madre non gli mandò i dolcetti della domenica per un mese intero, sostituendoli però con severe lettere di ammonimento; suo padre spuntò tra le fiamme del camino della Sala Comune Serpeverde, solo per complimentarsi con lui ed esprimere il suo eterno orgoglio.
Il Damon dodicenne si era allentato la cravatta, aveva appoggiato i piedi sopra il tavolino ed aveva deciso di fare l’Auror Interno checché dicessero le persone – sia quelle con cui spartiva codice genetico che quelle con cui evitava di vantare l’appartenenza alla stessa specie.
E, in quel momento, seduto al tavolo assieme ai suoi compagni di Casa, durante l’ora di Divinazione – o Allenamento di Fantasia, a seconda dei punti di vista – aveva tra le mani un mistero nuovo da analizzare.
«Albus?» Aveva bisogno di interrogare eventuali testimoni, prima di iniziare a formulare delle tesi. «Tu che ne pensi?»
Potter si era voltato a guardarlo con le sopracciglia corrugate e lo sguardo in un incrocio tra due sentieri. «Penso ai fatti miei.» Sbottò quello, fissando davanti a sé.
Damon gli pestò il piede, irritato nell’incontrare futili ostacoli di pigrizia nelle sue indagini. «Che pensi di lui!»
E fece un cenno ad Adam Zabini, come se il ragazzo non fosse seduto al tavolo con loro e non fosse ad immediata portata d’orecchio.
Albus mugugnò contrariato e minaccioso. «Pensa ai fatti suoi anche lui.» Sbuffò, poggiandosi allo schienale della sedia e grattandosi la nuca. «Dovresti provare quest’esperienza prima o poi, sai?»
Damon gli mollò un pugno sul braccio, indicandogli il ragazzo in tavolo con loro. «Dannazione, Al! Sta leggendo!» Fece, attirando l’attenzione di più orecchie del dovuto. «Lo conosco da quando portavamo comodamente ancora i pannolini e giuro di non averlo mai visto leggere!»
«Scusa, ma perché non glielo chiedi?»
«Perché devo scoprirlo da solo, mi sto esercitando.» Lo disse sistemandosi il colletto della camicia e la cravatta, come se stesse facendo una presentazione formale. «Puoi iniziare già a chiamarmi Auror Interno Harper.»
Albus si limitò a guardarlo nel tentativo di farlo sentire almeno un poco a disagio. «E quali indizi hai raccolto finora sugli intenti demoniaci di un ragazzo che legge?»
Damon sorrise estasiato: era la domanda che aspettava sin dall’inizio. «Bene, allora.» Tossicchiò tre volte di seguito, nella volontaria intenzione di creare un’atmosfera di mistero. «Il libro ha una rilegatura rigida e scarlatta, ignifuga e idrofoba, il volume è approssimativamente simile a quello del Manuale d’Incantesimi, quindi circa settecento pagine di pergamena antica, assorbi-inchiostro; non è protetto da alcun Incantesimo di Riconoscimento o Antifurto; non vi è alcun segnalibro, quindi il contenuto è eterogeneo e la lettura possibilmente frammentaria; l’inizio e la fine di ogni lettura è ripetitivo, quando inizia o termina i suoi occhi scorrono più veloci e ripete automaticamente le parole a bassa voce.»
Albus, che era rimasto a guardarlo fermo nella stessa posizione, non osò dire nulla.
«Sai, all’inizio credevo si trattasse di lettura sacra – Corano, Vangelo, Bibbia – e invece no. Ho controllato la lista dei prestiti bibliotecari e solo la donna di Scorpius ha avuto il prestito di questi testi, negli ultimi due anni.»
«Si chiama Rose Ariana Weasley.» Precisò d’istinto Albus.
«Poi mi sono reso conto che la copertina non era rivestita.» Continuò tranquillamente Damon. «E, contando che non è protetto da alcun incantesimo, posso affermare con certezza che il libro non è di proprietà né della nostra biblioteca, né di nessun’altra.» Sorrise, con uno sguardo che fece sentire il Potter a disagio. «Adam tiene sempre il libro con sé, ma lo legge solamente durante le lezioni e quando siamo in Sala Comune o in dormitorio. Questo significa che non appartiene ad un Serpeverde.»
«Aspetta un attimo, hai detto che non è protetto da incantesimi?» Lo fermò l’altro, prima che potesse andare avanti. « E perché non l’hai Appellato o Duplicato? Sapresti già di che si tratta!»
«Perché sarebbe irrispettoso.» Rispose con ovvietà Damon.
«Ma sei idiota?»
«No, sei tu che sei noioso.» Lo informò Harper, oltraggiato. «Io ho tratto comunque le mie sagaci conclusioni.» Bofonchiò, fiero e sinceramente offeso per lo scetticismo dell’amico.
«Bene, rendimi partecipe.»
«Dici? Sono davvero riuscito ad incuriosirti con la mia indagine avvincente ed allettante o cerchi una scusa per distrarti dalla Black?» Damon gli sorrise mentre glielo domandava, sottolineando con una piega di labbra il poco rancore che serbava nei suoi confronti per aver interrotto la sua esposizione delle osservazioni nel caso.
«Black? Non mi ero nemmeno accorto che seguisse Divinazione.» Disse Albus, sistemandosi comodamente sulla sedia.
«Ah-ha.» Annuì l’altro. «Senti, se ti piace perché non glielo dici e basta? Ti muore dietro da… Da quando Adam non sapeva ancora leggere – ed ora legge libri di settecento pagine.»
«Non ho mai detto che mi piace.» Chiarì prontamente il Potter, voltandosi a fronteggiarlo.
«Bene.» Concesse Damon, scrollando le spalle. «Allora dille che non ti piace, così lei smette di morirti dietro, tu smetti di sentirti a disagio tutte le volte che è nei paraggi e Scorpius smette di far finta di non avercela con te.»
Albus ebbe uno scatto, ma lo frenò in un gesto solo, col risultato di essersi avvicinato poco più al lato del tavolo che occupava Harper. «Da quando sei diventato un osservatore tanto perspicace?»
Non intuì se fosse ironico o meno, ma data la reazione decise che non era nemmeno necessario domandarselo. «Da quando ho deciso di non nascondere più di esserlo.»
«E cosa ti ha portato ad un così grande sacrificio?» Sputò Potter, socchiudendo gli occhi.
«Non lo so.» Gli sorrise Damon. «Forse il fatto che quarantott’ore fa, un ragazzino è stato dissanguato a nemmeno un chilometro da qui.»
 
 
 
Caro Adam, 
 
Tu a cosa pensi quando abbracci le persone? 
Forse, cerchi di decifrare il loro profumo, io lo facevo sempre prima. Probabilmente, ti concentri più sul modo in cui ti abbracciano, se ti stringono o aspettano che lo faccia prima tu, se non si preoccupano e ti avvicinano il più possibile o si sentono in imbarazzo per la vicinanza. Forse, pensi a qualcosa da dire per consolare, per non creare disagio, per non dare troppo peso al gesto. Per non farlo sembrare un addio.
Io quando abbracciavo mamma, lasciavo che mi stringesse lei perché sapevo che la sua stretta sarebbe bastata per entrambi. Quando abbracciavo papà, mi aggrappavo per farmi prendere in braccio e sollevare, ero sempre certo che l’avrebbe fatto.
Quando abbracciavo la nonna, la stringevo perché è morbida come il pane. Quando abbracciavo lo zio Charlie, mi allontanavo subito perché mi faceva il solletico, lo fa sempre anche a Hugo.
Quando abbracciavo Freddie, lo annusavo perché profuma di buono e quando abbracciavo Jamie mi concentravo sulle pacche che mi dava sulla spalla, anche quando non ce n’era bisogno; quando abbracciavo Rosie, invece, giocavo coi suoi capelli.
Quando abbracciavo Teddy, mi sentivo a disagio perché si sbaciucchia mia sorella ed io dovrei avercela con lui per questo; l’ha detto lo zio Ron.
 
Posso dirti questo, come abbracciavo le persone e perché lo facevo, questo riesco ancora a ricordarmelo; ma non posso darti più dettagli ed erano proprio i dettagli a contare.
Dimmi, a cosa si pensa quando si abbraccia le persone? Ti prego, ricordamelo.
Perché io ho appena abbracciato Molly. Ed ho visto il suo funerale.
 
Disperatamente tuo,
Louis
 
 
 
«Scusi il ritardo, professoressa!»
Louis Weasley comparve dietro la botola rotonda che dava sull’aula di Divinazione, col viso rosso e sudato. E Damon Harper tirò un calcio sotto il tavolo al migliore amico.
«Ma che diavolo fai?» Adam sobbalzò facendo stridere la sedia ed attirando l’attenzione.
«Scusa, amico.» Fece con noncuranza l’altro. «Mi sono spaventato quando Weasley è entrato.»
«Weasley? Nessuno dei Weasley maschi segue questa lez-» Voltandosi, e guardando vicino all’entrata, ad Adam andò di traverso la saliva e si ritrovò subito a tossire.
«Già.» Borbottò Damon a bassa voce, dando qualche colpetto all’amico che si affrettò a mettere via il libro che stava leggendo, senza curarsi innanzitutto del proprio stato d’asfissia.
La professoressa Cooman superò i tavolini rimasti al suo interrogatorio e corse verso il ragazzo del settimo anno, aprendo le braccia ed alzandole in alto, come se stesse annunciando la discesa di un deus ex machina.
«Signor Weasley, sapevo che avrebbe ritardato! L’avevo visto ieri sera!»
Louis si schiarì la voce a disagio, sorridendo educatamente. «Chiedo scusa, ma sono appena uscito dall’infermeria.»
«Ma certo, caro. L’ho visto!» La donna gli fluttuò attorno, spingendolo in avanti dalle spalle. «Ragazzi, sono orgogliosissima di annunciarvi il futuro professore della sublime ed inestimabile materia di Divinazione in questo illustre castello, dopo che sarò felicemente andata in pensione.» La sua vocina fece qualche acuto soprano mentre pronunciava l’annuncio. «Naturalmente, io lo sapevo ancor prima che nascesse, sapevo che sarebbe stato l’erede, l’unico ed il solo, dell’Occhio Interiore, ma dovevo mantenere il segreto e proteggerlo affinché si realizzasse.» Questa volta le note erano basse e gravi, nel tentativo di essere profonde ed enigmatiche.
Louis fissò a testa alta tutte le faccine scandalizzate, curiose, indifferenti o annoiate che lo guardavano. «Ciao.» Azzardò risoluto.
«Oh, non essere timido, caro!» Squittì la donna, tanto vicina che per poco Louis non sobbalzò sul posto. «Sono sicura che tra voi giovincelli avrete molte discussioni pertinenti alla materia da avanzare.» Sorrise, riunendo le mani e guardando i suoi studenti commossa. «Perciò immagino che non ci sia alcun problema se vado a prendere un tè e vi lascio soli soletti a condividere intimamente il vostro amore per l’eterea magia del futuro.»
Louis, che annuiva impercettibilmente da tre buoni minuti per non dover intervenire nel discorso, ebbe un brusco torcicollo quando comprese il significato delle sue parole e le imminenti conseguenze che avrebbero provocato. «Cosa? Professoressa, no! Non può!»
«Sì, invece.» Sorrise la donna, facendogli un occhiolino. «Devo avvertire Hagrid di tenere in capanna la selvaggina perché gliela ruberanno.»
«No, che non può!» Insistette, seguendola fino alla botola e dando le spalle agli studenti che fissavano la scena interdetti, ma per nulla contrari all’allontanamento della Cooman.
«Vuoi che rubino ad Hagrid la selvaggina?» Lo guardò con gli occhi spalancati e lucidi.
Louis fu tentato di correggere la sua previsione e dirle che gli avrebbero rubato le zucche la settimana dopo, ma come sempre si trattenne, limitandosi a ricambiare lo sguardo oltraggiato. «Ed io che dovrei fare?»
«Oh, caro.» Tirò su col naso lei, stringendosi attorno la sciarpa e superando la soglia. «Siamo in pari col programma, stavamo solamente ripassando l'Oculomanzia. Puoi riprendere da lì.»
Louis scosse il capo. «Non posso gestire venti sedicenni da solo!»
«Sì, che puoi! Addio!»
Fece un balzo indietro quando la porta della botola gli si richiuse in faccia e sospirò, cercando di non dire nulla di compromettente.
«Louis, ti dispiace se vado a prendere un tè anche io?» Fece Roxanne, sul punto di alzarsi.
«Sì, mi dispiace.» Rispose prontamente, voltandosi a fronteggiarla.
«Oh avanti, biondino.» Una Corvonero lo guardò di lato, sorridendo. «Nessuno di noi è qui perché è veramente interessato alla materia.»
«Veramente, io…» Evelyn provò a contraddire la Corvonero, ma un’occhiata di Roxanne la stimolò a tacere.
«Signorina Down, non può rivolgersi a me come se fossi suo cugino e chiamarmi biondino, in questo momento sono un’autorità e la invito pertanto a…»
«Ma io sono tuo cugino.» Intervenne Albus. «Posso chiamarti biondino e posso anche andare a prendere un tè.»
«Ma tu nemmeno lo bevi, il tè!» Si lamentò Damon.
«Mi sono preso una licenza poetica, mai sentito parlare di allegorie?» Sbuffò Potter, sarcastico.
Un Tassorosso spostò la sedia, voltandosi a guardare Louis meglio. «Bene, allora andiamo tutti a prenderci allegoricamente un tè. Non credo che tu sia tanto stupido da pensare di poter fare lezione per davvero, biondino. Ne abbiamo tutti abbastanza delle menzogne di Divinazione.»
Un coro di assensi più o meno omogeneo seguì le sue affermazioni.
Louis raddrizzò le spalle. «D’accordo.» Annuì. «Mettiamola così» scese qualche scalino, fermandosi al centro dell’aula, «se qualcuno di voi qualsiasi osa chiamarmi diversamente da professore o signore, prosciugherò immediatamente tutti i punti della sua Casa e metterò due Troll e cinque Desolante, non solo sul registro di Hogwarts, ma sul suo curriculum vitae et studiorum, assicurandogli la disoccupazione per il resto dei suoi giorni e rovinandogli incontrovertibilmente la vita.»
«Ma tu non ce l’hai nemmeno, una licenza per insegnare questa materia!» Sbottò una Corvonero, dall’ultimo tavolo dell’aula.
«Credimi, non gli serve.» Rispose Roxanne a bassa voce, ma con un tono abbastanza monocorde affinché potessero sentirla tutti.
«Sentite, non sono qui per minacciarvi o obbligarvi a seguire le lezioni.» Chiarì Louis, facendo qualche passo indietro. «Dovrò solo sostituire la professoressa Cooman qualche volta, ecco. E non so che impressione abbiate di questa materia, anche se non mi è impossibile dedurlo, però se proprio dovete fare qualcosa, tanto vale farla bene, no?» Prese in mano il Manuale del sesto anno e diede un’occhiata all’indice. «Ora, francamente, c’è qualcuno qui che è veramente interessato alla Divinazione?» Sospirò, mettendo da parte il Manuale.
La mano di Evelyn Black scattò prima che Roxanne potesse intercettarla, ma fu subito supportata da quella di Katie Bones e, con grande meraviglia generale, si alzò anche quella di Damon Harper.
«Tre su venti.» Contò Louis, incrociando le braccia al petto. «È un inizio.»
«Quattro su venti!» Adam Zabini portò in alto entrambe le mani, sbracciandosi ed agitandosi per essere notato, nonostante non ce ne fosse alcun bisogno.
«Quattro su venti, allora.» Sorrise Weasley, tossicchiando.
«Puoi abbassare le mani ora.» Sussurrò Damon ad Adam, senza voltarsi a guardarlo.
«Cosa?» Fece l’altro. «Oh sì.»
«Prima di iniziare ad introdurre la tematica del prossimo modulo, vorrei sapere che cosa sapete di questa materia, se non vi dispiace.» Propose Louis, cercando di mantenere la sua professionalità – o perlomeno di acquisirla.
«Io dico che è un mucchio di cazzate.» Sbottò lo stesso Tassorosso di poco prima, scrollando le spalle e fronteggiando il professore. «Insomma, io non ci credo in queste… scaramanzie.»
«Nemmeno queste scaramanzie credono in te, Wayne.» Lo rimbeccò Evelyn. «Io ci credo.» Mise in chiaro fin da subito. «Credo veramente che al di là dei segni si celi un vero messaggio.»
«Anche io.» Katie si attaccò al discorso della Black. «Insomma, non penso che ci siano sempre i mezzi e le capacità di interpretare i segni, però… Non riesco a non pormi certe domande ed a fare finta di nulla solo perché è difficile trovare una risposta.»
«Ma che diavolo state dicendo?» Intervenne Melinda Hood di Corvonero. «Divinazione è e rimarrà sempre una materia inutile in questa scuola. Non è dimostrabile sotto alcun aspetto…»
«Ma non è nemmeno indimostrabile.» La interruppe Damon. «Avanza dei propositi di cui generalmente non si può dimostrare la veridicità, ma non puoi nemmeno dimostrare il contrario.»
«Mio zio Sebastian diceva sempre a papà che la nostra famiglia poteva essere composta solamente da diciassette persone e che se fossi nato io qualcun altro sarebbe morto.» Philip Owen di Tassorosso parlava guardando Louis. «Blaterava di questa profezia continuamente e cercava di convincere mia madre a prendere una pozione per abortire.»
«Era… pazzo?» Propose Melinda.
«No, per niente. Aveva ragione.» Assicurò Philip. «Quando sono nato io, è morta sua moglie.»
Nessuno osò dire nulla, tranne la Corvonero che scosse il capo. «Ma potrebbe essere una coincidenza, magari stava male già prima o ha fatto un incidente…»
«Senti, è morta quando sono nato io.» S’irritò il Tassorosso. «Nell’esatto momento in cui sono nato.»
Le sue parole si lasciarono dietro un eco di brividi tra il silenzio a cui tutti contribuivano volutamente.
«Ti ringrazio, Owen, per aver condiviso questo… evento con noi.» Disse Louis al ragazzo, annuendo.
Roxanne alzò la mano, evitando che il suo riconoscimento nei confronti di Philip creasse disagio. Si affrettò così a farle un cenno col capo, invitandola a parlare.
«Io non dico di non crederci.» Si precipitò a dire. «Insomma, anche io ho vissuto episodi che mi hanno dimostrato che non sono cavolate – e tu lo sai.» Parlò guardando negli occhi Louis e senza osare spostare lo sguardo altrove, e la sua voce lasciava trasparire un disagio poco celato. Sembrava disagiata dalla presenza degli altri, come se volesse semplicemente confidare dei pensieri al cugino, in segreto. «Solo non mi piace. Mi fa venire l’ansia, ecco. Voglio dire, uno già se la deve vedere col suo passato e con il presente… Avere pure il peso del futuro è troppo. Credo nella Divinazione, ma non voglio sapere nulla sul futuro.»
Louis annuì, comprensivo. «Certo, hai ragione. Perfettamente comprensibile.» Vide che nell’aula si era creata un’atmosfera densa e che il silenzio continuava ad essere voluto, e decise di approfittarne. «C’è però un piccolo equivoco nel quale siete ricaduti, più o meno tutti quanti da quanto ho potuto verificare. Vedete, la Divinazione non è esclusivamente predizione del futuro, come generalmente si crede. La Divinazione è innanzitutto rifiuto della casualità, perciò tutti gli avvenimenti sarebbero concatenati tra loro e le coincidenze non esisterebbero in alcuna forma.» Si schiarì la voce, fiero di se stesso per non essere stato interrotto. «Da questo presupposto, muove la questione temporale e cronologica secondo la quale determinate cause produrranno specifiche conseguenze e totalizzeranno specifici risultati o effetti. Si presuppone, in parole semplici, un’interconnessione tra passato, presente e futuro, ed il compito della Divinazione è di svelare tale connessione. Essendo il futuro la dimensione che meno conosciamo, nella storia – quasi ironicamente – ci si è concentrati molto più su questa che sulle altre; passato e presente sono sempre apparsi meno criptici e più accessibili.»
«Quindi un Veggente o Vate non prevede solamente il futuro, ma anche passato e presente?» Domandò Damon Harper con gli occhi sgranati.
«Precisamente! Dieci punti a Serpeverde!» Annuì e si congratulò Louis.
«Ma a cosa serve? Voglio dire, il presente e il passato li conosciamo già.» Fece Melinda, incrociando le braccia al petto.
Louis non si lasciò intimorire. «Non c’è nulla, in questo mondo, che possiamo onestamente affermare di conoscere per intero e con incontrovertibile certezza. E se così fosse, sarebbe fede e non conoscenza.» Rialzò lo sguardo, indirizzando le sue parole a tutti gli studenti. «Non dovete immaginare passato, presente e futuro come cronologie nettamente separate, in realtà sono tutt’uno e siamo noi ad orientaci solamente contraddistinguendole. La Divinazione non determina nessuna delle tre dimensioni, interpreta solo le interconnessioni che riesce a distinguere; i segni che porta non sono mai legati soltanto a ciò che sarà, ma anche a ciò che è e ciò che fu.» Quando poté essere certo di aver guadagnato l’attenzione della classe, non esitò a continuare. «La Veggenza consiste nel percepire ciò che è celato; il Veggente, per l’appunto, non vede il futuro, ma ciò che è nascosto, indipendentemente da quando o dove è accaduto, che sia concreto o astratto.»
«Sembra bello, accidenti!» Si lasciò sfuggire Damon, facendo sorridere il professore. «Voglio dire, a me piacerebbe esserne in grado.»
«Non è così… semplice.» Rispose Louis, cercando di spiegare la questione obiettivamente. «Tutto ciò che vede sono segni, nella maggior parte dei casi sono simboli, allegorie, emblemi, metafore… Raramente le immagini sono chiare, difficilmente ne comprende il senso. Ciò che vede gli è stato rivelato: ha il diritto di vedere eccezionalmente elementi che ad altri non è concesso vedere, ma ciò che vede è appunto ri-velato, ricoperto, rivestito e la forma non è chiara.»
«Come un sogno.» Proferì Evelyn, pensierosa.
«Esattamente, signorina Black! Dieci punti a Grifondoro!» Le sorrise Louis, facendola arrossire. «E grazie a questo coerente e pertinente paragone, arriviamo al più importante ambito della Divinazione, col quale avrete a che fare fino alla fine di quest’anno e anche all’inizio del prossimo.» Louis prese la bacchetta e scrisse sulla lavagna che la Cooman non utilizzava da più di un mezzo secolo: Oniromanzia.
«Interpretazione dei sogni?» Fece Katie, gettando un’occhiata eccitata ad Evelyn.
Louis annuì. «Qualcuno vuole condividere la propria esperienza in merito all’argomento?»
«Io non ricordo quasi mai i miei sogni, a meno che non siano spaventosi. Se sono incubi me li ricordo sempre.» Ammise Katie. «Significa qualcosa di preciso?»
«Certamente, tutti di minimi dettagli di un sogno sono sempre di vitale importanza per la sua interpretazione.»
Evelyn tenne la mano alzata fino a quando Louis non annuì, facendole un cenno. «Ecco, io riesco raramente a distinguere i volti nei sogni… È come se sognassi persone che non conosco.» Borbottò a voce strascicata la Black. «Oppure, li conosco, so chi sono, ma non è il loro volto quello che vedo nel sogno.»
«Professore?» Damon lo chiamò attirando la sua attenzione. «I miei sono piuttosto brevi, e cambiano in fretta e all’improvviso. Sono tanti piccoli e diversi sogni che non hanno alcun senso.»
«I miei sogni finiscono sempre bruscamente e ho una strana sensazione di vertigine.» Disse Philip, impensierito.
«Anche a me succede!» Intervenne Roxanne. «Soprattutto quando ancora non mi sono addormentata del tutto. Il sogno è breve, ma finisce sempre in un modo che… mi sento come se stessi per cadere.»
Quando Albus Potter tossicchiò, il coro di voci si affievolì gradualmente fino a minimizzarsi. «È normale non riuscire a comprendere se un sogno è un incubo o meno?» La sua voce era bassa, il tono vellutato; sembrava essersi pentito di aver parlato.
«Prova a spiegarti.» Lo sollecitò Louis, avvicinandosi e facendosi improvvisamente più attento.
«A volte faccio sogni che sembrano essere incubi, ma quando ci ripenso mi rendo conto che forse non lo erano.»
«Ti capita mai il contrario?» Domandò inquieto l’altro.
Albus annuì, il meno percettibilmente possibile.
«D’accordo.» Si allontanò un poco per non attirare troppo l’attenzione sulle parole del cugino. «Per la prossima volta, provate a descrivere un sogno che considerate essere lieto e sereno per voi, e poi un incubo. Cercate di essere il più rigorosi possibile nella descrizione dei dettagli di entrambi i sogni.» Raccomandò lentamente, in modo che potessero prendere appunti. «Li metteremo a confronto ed inizieremo dalle basi, ossia l’ambientazione di un sogno.»
«Ma… Abbiamo già finito?» Chiese Philip, guardando l’ora. «La prossima volta ci sarà lei, professore?»
Louis arrossì un poco e rispose a capo chino. «Se la professoressa Cooman preferirà andare a prendere un altro tè invece che fare lezione…»
Fu piuttosto imbarazzante in effetti, constatò mentre riordinava i libri che aveva estratto e cancellava la lavagna, sentire circa venti persone borbottare azzardati metodi per sbarazzarsi della professoressa di Divinazione quando lui era a pochi passi e non riusciva a sgridarli, piuttosto nascondeva il rossore.
«Albus, puoi rimanere un attimo?» Chiamò, mentre un gruppo di Serpeverde si dirigeva verso la botola.
Il ragazzo richiamato arrestò il passo ed annuì in sua direzione, facendo poi un cenno agli amici; posò la tracolla sopra un tavolino e si avvicinò, infilandosi le mani nelle tasche.
«Che succede?» Chiese, siccome il cugino lo fissava negli occhi e non accennava a parlare. «Se è per il mio intervento di prima, lascia stare. Non sono sicuro di…»
«No.» Sussurrò Louis. «Non è per quello.»
Il Serpeverde inarcò le sopracciglia, ma non disse nulla.
Louis scosse il capo e sospirò. «Hai fatto un Sortilegio di Protezione oppure un incantesimo di Mimetizzazione?»
L’altro rise. «Ti sembro in grado di evocare incanti del genere?»
«Albus, per favore. Ultimamente mi basta incrociare lo sguardo di una persona per vedere qualcosa che la riguardi, ma quando guardo te non vedo assolutamente nulla. Non mentirmi.»
Potter ghignò, avvicinandosi al cugino. «Vedi, non è proprio il caso che sia tu a parlami di menzogne, sai?» Sussurrò. «Sarai pure il principe della Divinazione, ma l’Occlumanzia è il mio campo.»
«Non cambiare discorso, per favore.» Sussurrò Louis, guardando oltre le sue spalle per assicurarsi che tutti gli studenti fossero usciti. «So che c’è qualcosa che non vuoi che veda…»
«No!» Soffiò Albus, riprovato. «Non venire a fare il moralista con me, d’accordo?» Il tono era esplicitamente minaccioso, non aveva alcuna intenzione di nascondere il timbro intimidatorio. «Tu sei il primo ad aver preso per il culo tutti senza nemmeno che se ne accorgessero.» Gli puntò il dito contro. «Stai fuori da ciò che mi riguarda. Stai lontano da me.»
«Sto solo cercando di aiutarti…»
«Non ho chiesto nessun aiuto, Louis. Non voglio nessun aiuto. Non ho bisogno di aiuto.» Chiarì Albus senza allontanarsi.
«Stai mentendo…»
Albus avanzò fino a spingerlo e ritrovarsi esattamente davanti a lui. «Giuro. Giuro che se non ne starai fuori, giocherò sporco. Osa accennare della questione a qualcuno ed io non divulgherò solamente la cazzata dietro la quale ti sei accomodato, ma i motivi che ti hanno spinto a farlo.» Saldò i suoi occhi a quelli del ragazzo, rifiutandosi di battere le ciglia. «Io sono quello che fa lo stronzo e tu sei quello che fa il frocio, e non c’è nulla dietro, d’accordo?»
Louis impallidì un poco alla volta sotto i suoi occhi.
«Bene.» Constatò soddisfatto il Potter. «Torna il cuginetto sofisticato ed altero che eri fino ad un paio di annetti fa.» Gli suggerì poi, facendo un passo indietro. «Ti rispettavo di più quando ci parlavamo di meno.» Sputò infastidito, allontanandosi definitivamente. «Alla prossima lezione, professor Weasley.»
 
 


 
 
 
*
 
 

 
 
Le scale, particolarmente ripide com’erano, le facevano venire voglia di saltellare, ma resistette all’impulso an­cor prima di proporselo – non era il caso di fare certe figuracce, con le voci che giravano su di lei. Forse però, si disse dopo un po’ mentre superava una vetrata cortese, mettersi a saltellare avrebbe potuto far ridestare coloro che sostenevano con fermezza e convinzione che lei fosse una Mangiamorte o una loro spia; insomma, si la­mentò tra i suoi pensieri, se fosse stata una spia, si sarebbe vestita in modo molto più rispettabile o perlomeno ele­gante, non sarebbe certo andata in giro con un’accidenti di divisa scolastica qualunque. Doveva ammettere, tutta­via, che l’altra parte dello scolaresco che supportava la tesi secondo la quale lei era un ibrido nato dall’unione di Voldemort ed una ninfa marina era piuttosto affascinante; certo, se si escludeva la loro mesta ignoranza in Cura delle Creature Magiche poiché le ninfe erano a tutti gli effetti Vegetali Magici, impossibili ad unirsi ad esseri umani. Portò una mano a tastarsi il viso e si trattenne dall’imprecare perché, per Morgana e Circe, lei aveva il naso all’insù che più su non poteva certo andare, non poteva essere figlia di Voldemort prima di tutto per ragioni fenotipiche.
Katie le aveva suggerito di rivelare apertamente le sue origini, quando un ragazzino del secondo anno le aveva urlato dietro che aveva gli occhi da Dissennatore ed il tono del ragazzino era stato tanto allarmato che aveva pensato addirittura di metterla sul ridere e cucirsi sulla divisa la scritta “I’m Black”, lasciando ai cu­riosi libera interpretazione. E poi, se quello che dicevano era vero, se lei aveva davvero i lineamenti tipici della famiglia Black, qualcuno con quel poco d’intuito indispensabile per spettegolare avrebbe potuto tirare le somme ed evitarle la fatica di una dichiarazione anagrafica in Sala Grande perché nella sua mente “Scusate, posso aveva la vostra attenzione, prego? Ecco, volevo dirvi di smetterla di far circolare certe voci su di me solo perché siete persone inutili e con discutibili gusti per gli hobby perché io non sono un ibrido, ma nipote diretta di Sirius Black, perciò smettetela di dannarmi l’anima perché sono figa quanto voi” non suonava tanto bene come scena ed era il caso di evitare di metterla in pratica, visto che nemmeno le scene che nella sua testa suonavano bene avevano un buon effetto nella realtà. In parte, sapeva di non doversela prendere tanto e che in fondo era più che altro una questione di impressioni, che gli altri in fondo giudicavano in base a quel poco che sapevano – il quale, nella scala dei fatti, non contava assolutamente nulla – e traevano le loro personali o collettive conclusioni; se quello che avevano davanti era una ragazza dalle dubbie provenienze, con gli occhi inumani, precedentemente coinvolta in azioni criminali e con il Marchio Nero sul braccio sinistro, non c’era da stupirsi che non ci fosse un minimo d’empatia.
Certo, la sorte non aveva giocato a suo favore, Dominique Weasley aveva circa la stessa discen­denza Veela che aveva lei, ma mentre la Corvonero aveva ereditato il lato sublime e seducente, celestiale ed ammaliante della creatura, ritrovandosi così ad essere senza dubbio la ragazza più bella del Castello, ad Evelyn era rinvenuta la parte bestiale e mostruosa, inquietante e tenebrosa; ricordava che, quando era piccola e girava qualche volta con la madre, molti Babbani si facevano il segno della Croce non appena incrociavano il suo sguardo, qualcuno le urlava dietro “maledetta!” o “dannata!”. Non riusciva a fare a meno di chiedersi quanto sarebbe stata semplice la sua vita se avesse avuto un altro colore di occhi.
Non provava rancore verso queste persone, solo non riusciva a spiegarsi come diavolo facessero ad avere tutti quanti tanto tempo per spettegolare, quando lei – tra bisogni primari e studio – non aveva nemmeno il tempo di districarsi i nodi che aveva tra i capelli. Voleva solo che la gente si trovasse occupazioni più degne, che si guardasse più attorno.
«Dovreste guardarvi più spesso attorno anche voi, Madamigella.» Proferì una voce che riecheggiò lungo corri­doio del settimo piano. «E dovreste anche esercitarvi nell’Occlumanzia contro coloro che la praticano con de­strezza prima di annaspare tra le acque burrascose del pensiero filosofico dal quale vi accolgo naufraga.»
Restò ferma dov’era, nell’esatto punto sul quale – senza accorgersene – aveva arrestato il passo. Prima di cercare d’identificare la voce virile ed il tono solenne fece mente locale cercando le vie di fuga più vicine – l’aula di Aritmanzia e il bagno dei maschi – e ricordò a se stessa che era il caso di tirare fuori la bac­chetta.
«Oh, non tentate di difendere la vostra ammaliante persona da colui che ne è accecato per primo.» Enunciò sempre la medesima voce. «Piuttosto permettetemi di espormi al vostro splendore e di rivelarvi la tenacia del medesimo che solo è disposto a lasciarsi incenerire dal vostro lume, mia amata fanciulla.»
Evelyn tirò fuori la bacchetta senza ripensarci e si guardò intorno alla ricerca della fonte della voce. «Chiunque tu sia, sappi che sono armata e che non esiterò a farti del male!» Tentò di minacciare, cercando di celare il tremore.
«Già me ne avete fatto, del male.» Espresse, questa volta più vicino. «Nel momento in cui ho potuto udire il suono soave della vostra anima pura.»
«Okay, ho capito.» Annuì Evelyn, finalmente convinta. «Sei un pazzo.»
«Solo l’amor smisurato che avete dolorosamente infuso nelle mie vene potrà condurmi alla follia.»
«Fatti vedere!» Alzò la bacchetta davanti a sé, aspettando. «Fatti avanti, non ho paura.» Qualcosa al suo lato sinistro si mosse ed Evelyn si voltò lentamente con gli occhi sgranati. Puntò la bacchetta contro ciò che le si muoveva incontro cercando di rimanere un minimo lucida per pronunciare uno Schiantesimo. «Ma che...?»
«Col vostro consenso, Madamigella, mi presento. Sir Tristano di Lioness, diretto erede della fortezza di Lioness e Cavaliere della Tavola Rotonda, al vostro servizio.»
«Perché hai un’armatura addosso?» Esalò Evelyn, dimenticandosi gli Incantesimi di Difesa che stava ripassando a bassa voce.
La corazza argentata davanti a lei vibrò un poco. «Mia amata fanciulla, io non mi celo dietro alcun rivestimento, mi introduco a voi ora come fui forgiato un tempo e vi propongo il mio cuore, per la vostra mano.»
«Tu…» Evelyn tenne la bacchetta ben puntata contro le armi argentee che le stavano parlando. «Tu sei un’armatura?»
«Ebbene sì, mia sola ed unica amata.» Dichiarò quello, facendo un profondo inchino.
«Tu sei un’armatura e mi stai chiedendo di… uscire con te?»
«Oh, non giudicatemi dalla poca lucidezza del mio scudo, col vostro permesso io vorrei chiedere la vostra mano.»
«E per fartene cosa?» Tentò Evelyn, con gli occhi ancora sbarrati.
L’armatura si rialzò dall’inchino e si mise sull’attenti. «Mia amata, io vorrei chiedervi in moglie, se me ne concederete l’immensa prosperità.»
Evelyn si portò una mano al petto e l’altra sulle labbra. Arrossì improvvisamente ed insolitamente, senza riuscire a parlare. «Io…»
«Oh, mia fanciulla.» Sospirò l’armatura. «Sapeste quanto il mio cuore ha atteso e bramato rivelarsi…»
«Ma per favore, sei un’armatura, nemmeno ce l’hai un cuore!» La voce di Albus Potter fece sobbalzare Evelyn tanto bruscamente che Sir William dovette tirar fuori la spada ed infocarla.
«Chi osa intimidire la mia amata e dubitare del mio sentimento per lei?» Lo sfidò, portandosi avanti lo scudo.
Albus rise, sinceramente divertito. «Nulla di personale, amico. È solo che sei argento del VIII secolo e dubito che la tua amata potrà in un qualche modo… Ecco, soddisfare le tue brame. A meno che tu non voglia recarle seri danni all’apparato riproduttore…»
«Potter, quando mai ti ho dato il permesso di parlare a posto mio?» Evelyn si ridestò facendosi un poco avanti.
Albus alzò le braccia e scrollò le spalle. «Vuoi spiegarglielo tu il motivo per il quale non potrete avere figli? Fai pure, mi accontenterò di assistere dall’angolo.»
Evelyn socchiuse gli occhi. «Sei un insensibile!» Lo accusò, puntandogli il dito contro.
Sir William si fece avanti. «Mia amatissima, ho il vostro permesso di sfidarlo a duello?» Domandò brandendo lo scudo in avanti.
«No!» Si affrettò a chiarire la ragazza. «Niente duelli, mio ehm… amato.»
Albus rise con lo stesso gusto spontaneo di poco prima. «Perché non mi sono portato dietro un magi-registratore?»
«Così non mi aiuti!» Si lamentò la Grifondoro, sul punto di una crisi di nervi.
«Chi dice che ti voglio aiutare?» Fece Albus, guardandola serio.
Evelyn arrossì. «Per favore.» Sussurrò dando le spalle a Sir William, in modo che non la potesse udire. «Non voglio spezzargli il cuore, è una brava... armatura.»
«Problema risolto, allora.» Dichiarò lui, sorridendo. «Non ce l’ha un cuore, non potrai spezzarglielo nemmeno volendo.»
Evelyn sbuffò, rossa in viso. «Ti prego.» Supplicò, esasperata. «Aiutami a…»
«A rifiutare la sua proposta di matrimonio?» Completò la richiesta lui, sbuffando una piccola e divertita risata sotto i baffi.
«A rifiutarla in modo delicato, se possibile.» Precisò l’altra, nervosa e tesa fino al tremore.
«Black, contieniti. Stai per svenire.» Sbuffò Albus, tirando fuori la bacchetta e facendosi in avanti. «Pietrificus pietrorum
L’armatura di Sir William tornò alla sua postazione al centro del corridoio del settimo piano e si irrigidì, perdendo vitalità.
La Black per poco non urlò. «Ma cosa hai fatto? Che diamine ti passa per quel cervello? Rilascialo immediatamente!»
«È un’armatura.» Disse Albus, esasperato. «Probabilmente qualcuno avrà lanciato un contro-incantesimo che gli è rimbalzato addosso e dopo tredici secoli di letargo il tuo amato è rimasto fulminato dalla prima creatura femminile che gli è capitata davanti.»
Evelyn trattenne il respiro. «Stai supponendo che i sentimenti di Will nei miei confronti non siano veri?»
Albus sorrise. «Will?»
«Tu pensi che lui si sia innamorato di me solo perché sono la prima donna che ha visto dopo tanto tempo?»
«Rilassati.» Fece il Serpeverde. «È così, non c’entra quello che penso io.»
«Non sei insensibile, allora. Sei solamente stronzo.»
Albus avanzò di qualche passo, avvicinandosi. «Hey, è un’armatura.» Chiarì, esitante.
«Un’armatura che mi ama e vuole sposarmi.» Precisò lei, stizzita.
Il ragazzo la guardò con fermezza, concentrando lo sguardo sulla pelle ancora arrossata del suo viso. «Vuoi che provi a darti una spiegazione razionale?»
«Una… Cosa?»
«Ti immedesimi in Sir William, Black.» Le disse lui in un soffio, sotto gli occhi concentrati. «Il che è decisamente preoccupante e difficile a spiegarsi, visto che tu sei fatta solo di nervi e non d’argento.»
Evelyn si limitò a guardarlo, abbassando le braccia lungo i fianchi e mettendo su un’espressione che gli fece intuire quanto fosse stato scadente il suo tentativo di metterla sul ridere.
«Peccato che l’Occlumanzia non si insegni ad Hogwarts, la tua immedesimazione in un oggetto inanimato ha addirittura un nome… Sindrome di Nathanael, se non erro.»
«Chi diavolo è Nathanael?» Chiese Evelyn, improvvisamente stanca.
«Un giovane morto suicida dopo aver scoperto che la ragazza di cui si era innamorato era un automa robotico.» Spiegò lui, un poco a disagio.
«Stai profetizzando anche tu la mia morte per suicidio?» Chiese in modo eccessivamente cortese, riferendosi alla profezia di Roxanne durante la lezione di Divinazione.
«Ma no, non credo che rimarrai traumatizzata più di tanto, non hai avuto il tempo di conoscere Sir William per innamorarti lui.» Le disse, grattandosi la nuca e gettando un paio di occhiate all’armatura, ora ferma ed immobile.
Evelyn deglutì. «Quindi sei convinto che bisogna passare tanto tempo con una persona per innamorarsene?»
«Non è di una persona che stiamo parlando, Black. Quello è…»
«Un’armatura, sì. Ho capito.» Lo anticipò lei. «Vuoi che provi a darti una spiegazione razionale?» Chiese lei, usando le sue stesse parole. «Tu non hai la minima idea di cosa stai dicendo perché non hai mai provato nulla di simile.» Lo informò, stizzita ed irritata, accusatoria.
Albus rimase fermò un po’, prima di ridacchiare a disagio. «Devo seriamente denunciare la tua sindrome di Nathanael al S. Mungo, allora.»
«Oh, ma smettila.» Rise Evelyn, facendo un passo indietro. «Come se non lo sapessi.»
Il sorriso di Albus si congelò, raffreddando gradualmente ogni lineamento del suo viso, tanto che gli tremarono le labbra prima di parlare. Fece un passo avanti, avvicinandosi alla ragazza. «Senti, parliamone.» Concesse, lentamente.
Evelyn si appoggiò al muro ed incrociò le braccia sotto il seno; piegò il capo di lato e lo guardo con la precisa intenzione di essere ricambiata. «Facciamo un patto, Albus.» Pronunciò il suo nome con straziante dolcezza, come se lo avesse fatto tutte le sere della loro vita e avesse avuto l’opportunità di farlo anche tutte le mattine dopo. «Solo la verità. Per una volta, una sola, diciamoci la verità.»
«La mia verità non giustifica nulla.»
Evelyn si raddrizzò, ma non si mosse da dov’era. «Me la merito.»
Il ragazzo scosse il capo.
«La verità, Albus.» Rimarcò lei, mantenendo lo sguardo fermo.
«Non la so, la verità, va bene?» Aprì le braccia, come in segno di resa. «Non me la sono mai raccontata.»
Lei sgranò gli occhi, spostandosi dal muro ed avvicinandosi al ragazzo. «Albus» parlò sussurrando, come se gli stesse confidando il più terribile dei segreti.
Hanno questo strano vizio, le persone, di abbassare la voce quando insolitamente non mentono, come se si vergognassero di essere sinceri. Come se la verità fosse un tradimento, come se avessero ingannato se stessi e si aspettassero di essere puniti per questo.
«Va bene. È giusto, così.» Deglutì le menzogne che tentavano di sopraffare quell’unico attimo di onestà. «Tu dimmi solamente di andarmene e me ne andrò, te lo giuro. Tu lasciami andare ed io me ne vado.»
Si chinò in basso e cercò il suo sguardo perché voleva che sentisse quanto era sincera, che lo sentisse anche con gli occhi.
Albus rialzò gli occhi, fissandola.
Evelyn lo guardò a sua volta e lui la baciò.
 
 
 
 

 
*
 
 
 
 

Si era allontanata dall’aula di Divinazione con una scusa improvvisata, tanto frettolosa che nemmeno Evelyn se l’era bevuta, figurarsi Roxanne.
Aver a che fare con l’ingenuità della Black era snervante quanto comodo: non la poteva lasciare nemmeno un attimo sola senza essere prematuramente certa che l’avrebbe senza alcun dubbio ritrovata in un qualche guaio apocalittico; d’altra parte, mentirle era davvero immediato. Tuttavia, da quando la Weasley aveva recentemente iniziato a stare con loro durante le lezioni ed i pomeriggi di studio, Katie aveva intuito istantaneamente quanto fosse necessario che iniziasse ad essere più cauta ed accorta nelle menzogne. Se Evelyn era una bonacciona distratta, Roxanne era la sua versione opposta, era vigile, perennemente sull’attenti, provveduta, era sospettosa e diffidente. Le ricordava se stessa, per certi tratti.
Per quanto fosse cosciente di cosa significasse mentire su piano etico – per quanto potesse dispiacerle mentire ad una persona che le concedeva senza pretese la propria onestà – Katie si aggrappava al fine delle sue menzogne. La verità è sempre la scelta migliore, ma non sempre quella giusta. È ciò che meritano le persone, ma non sempre ciò di cui hanno bisogno.
È che certi avvenimenti sembrano accadere proprio per non essere raccontati e, nel momento stesso in cui si realizzano, sono già segreti e nessuno può testimoniarlo. Sono bugie ancor prima di essere raccontate.
Katie era bugiarda. Mentiva tutte le volte che si presentava la necessità di farlo, mentiva perché la verità non era mai stata un’alternativa nella sua vita, mentiva e mentire le aveva permesso di sopravvivere. Mentiva perché la verità era un lusso e lei dalla vita aveva avuto solo miseria e qualche avanzo dell’abbondanza e mai della sazietà. Mentiva e non le importava a chi stesse mentendo perché nessuno aveva mai fatto nulla affinché lei non si ritrovasse a dover mentire. Mentiva senza alcun rimorso, nascondendo la verità sotto il cuscino, dentro l’armadio, tra le pieghe dei vestiti – anche quelli che indossava, e quando nemmeno lì aveva trovato più posto, aveva dovuto sgomberare il cassetto da tutti i sogni per infilarci quel che rimaneva; aveva svuotato anche il cassetto delle speranze, sostituendole con un’arma.
Era stata la sua autoeducazione alla vita e in tutti quegli anni non era mai intervenuto nessuno ad impartirgliene una alternativa: non c’era stato suo padre quel primo giorno al binario, non c’era stata sua madre per il suo primo mestruo, non c’erano stati per la prima punizione, primo esame, primo bacio, prima difficoltà; ma soprattutto, non c’erano stati per la seconda, per la terza, per la quarta, quinta, sesta, settima, fino all’ultima. E lei non li aveva aspettati nemmeno alla prima.
Aveva otto anni, quando il Ministero l’aveva affidata alle cure di un orfanotrofio; ne aveva quasi dieci, quando la nonna l’aveva ritirata affinché i soldi del mantenimento passassero a lei. Però, era stato ad otto anni che si era detta la verità, seduta per terra, vicino al lavandino e, senza guardarsi allo specchio, aveva pronunciato il suo credo: “Mi chiamo Catherine Bones. Ho otto anni. Vivo nel centro di ospitalità per minori disagiati.”. Schietto, diretto, terribilmente sincero, spaventosamente vero ed orribilmente onesto. Qualcuno aveva bussato alla porta del bagno e lei aveva risposto dicendo di aspettare; non si era spostata da dov’era ed aveva ripreso: “Mi chiamo Catherine come mia madre. Ho otto anni e mezzo. Sono in un orfanotrofio.” Non sussurrava, non bisbigliava, non aveva alcun modo di nascondere la verità in quel momento, da sola, in uno sudicio bagno, da sola, al freddo, da sola, quella sera, da sola, mentre bussavano ancora alla porta. “Mia madre si chiama Catherine, però non è la mia mamma. Sei mesi fa mio padre ha cercato di suicidarsi e non può essere più il mio papà. Questo posto fa schifo e non è casa.” Ignorò la porta che continuava a cigolare e riprese a voce ugualmente alta: “Mia madre non è mia mamma perché se n’è andata. Mio padre non è più mio papà perché non può. La casa l’hanno venduta per pagare questo orfanotrofio.” Non aveva pianto, nemmeno una lacrima, solo qualche singhiozzo, poi si era messa a ridere ed aveva confessato tutto: “Mi chiamo Catherine. Ho otto anni. Vivo nel centro di ospitalità per minori disagiati. Mia madre ha tradito mio padre. Mio padre è impazzito. Hanno venduto la casa. Mio padre pensa che io sia mia madre. Non posso vedere mio padre. Mia madre ha rifiutato il mio affidamento. L’orfanotrofio fa schifo. Fa freddo. Sono sola. Non mi piace. Sono sola. Perché non la smettono di bussare? Sono sola. Ho detto di aspettare. Sono sola. Anche fuori da questo bagno? Sono sola. Fuori dall’orfanotrofio? Sola. A casa lo sono stata? Sono Sola. Però mi piaceva. Sola. Le volevo bene. Sola. Lui me ne voleva. Sola. Ora non c’è. Sola. Se me ne vado? Sono sola. E se rimango? Sola. Tra gli altri? Sono sola. E qui da sola? Sola. Se dico la verità? Sono sola. Se mento? Sola. È giusto? Non importa.” 
Si era alzata, piccola com’era raggiungeva il lavandino a fatica, si era lavata le mani in punta di piedi ed era uscita. Non bussava più nessuno. Era rientrata e si era seduta esattamente dov’era un minuto prima, si era ripetuta tutto, dall’inizio. Come un dogma, se l’era ripetuto a mensa, mentre mangiava carote al vapore e zuppa di fagioli; la sera, mentre si toglieva l’uniforme e metteva il pigiama; la notte, in ogni singolo incubo e tra l’uno e l’altro. Lo ripeteva come una preghiera, una confessione, un principio, la verità.
Era l’unica verità in cui credesse e se la ripeteva anche quando mentiva. Era giusto? Non importava. Perché era sola.
Quando spinse la porta del bagno non la varcò subito, esitò. Più o meno consciamente si chiese dove fosse quella disgraziata di ragazza e se era stata o no una buona idea abbandonarla subito dopo la lezione e sparire senza ammettere dove si stesse dirigendo veramente, fu effettivamente tentata di lasciar perdere per quel pomeriggio, fu tentata di tornare in dormitorio, magari con Evelyn, saltare le lezioni e non fare altro che chiacchierare di questioni irrilevanti, sconsiderate ed insensate, mangiare schifezze e dormire senza farsi un’accidenti di doccia, svegliarsi tardi il giorno dopo e con un mal di testa che non le avrebbe permesso di pensare. Pensare a ciò che invece era rilevate e considerevole, ma comunque insensato: che senso poteva avere la morte di un bambino?
«Ci sei?» Domandò sulla soglia della porta, irrisoluta ancora. Guardò alle sue spalle il corridoio ancora vuoto, certa che non lo sarebbe stato per molto.
«Sono qui.» La voce maschile echeggiò dal secondo cubicolo, quello in cui solitamente sedeva lei. «Sei sola?» Chiese poiché aveva notato sia l’esitazione della ragazza che la lontananza delle sue parole.
«Sola.» Borbottò Katie tra sé e sé, chiudendosi definitivamente la porta alle spalle ed avvicinandosi alla porta che dava sul gabinetto dentro il quale era chiuso il ragazzo. «Come mai ieri non c’eri?» Posò la borsa per terra e si sedette di fronte alla porta, poggiando le spalle sul lavandino.
Udì un sospiro al di là del legno, un paio di movimenti ed uno sbuffo prima di ricevere una risposta. «È… diciamo che non è un bel periodo.»
«Che succede?» Chiese lei immediatamente, non proprio capacitata del fatto che lui si stesse davvero lamentando: era sempre stata lei la lagna.
«Come, non sai cos’è successo?» La sua voce le giunse sinceramente sconfortata.
Katie annuì. Lei ed Evelyn non avevano chiuso occhio per due notti di seguito a causa del ricordo di quello che era successo. «Sì, lo so. Ero lì vicino.»
«Eri ad Hogsmeade? Avevi detto che non ci saresti andata, tu non ci vai mai!»
Katie incrociò le gambe ed anche le braccia. «Ho avuto un contrattempo. Ero nel luogo dell’attacco proprio perché non ero ancora entrata al villaggio. Non ci sono mai stata e la prima volta che sto quasi per metterci piede, un gruppo di psicopatici rapiscono un bambino ad un passo o due da me.» Scosse il capo e sorrise mesta.
«Lo conoscevi?» Domandò lui in fretta.
«Il ragazzino, dici? No, cioè lo vedevo qualche volta con le due pesti rosse, la Potter e Weasley. Due anni fa hanno allagato il nostro dormitorio, quei tre.» S’inumidì le labbra e scrollò le spalle. «So che portava i jeans nonostante siano proibiti dal regolamento e… nient’altro.»
«Era solo un bambino.» Soffiò la voce dall’interno del cubicolo. «Era così piccolo, per Dio.»
La ragazza, ancora seduta a terra, rialzò lo sguardo puntandolo sulla porta. «Perché dici era? Voglio dire, potrebbero ritrovarlo, anzi è molto probabile, suo padre è un Auror, no? Magari… magari l’hanno rapito per un ricatto. Che vuoi che se ne facciano di un ragazzino?»
La domanda di Katie si sospese nell’aria come un’accusa, rimbalzò contro gli specchi del bagno, contro le mura, la porta, il pavimento, la vetrata e si perse nel dubbio. Quel dubbio che aveva preso forma senza che se ne accorgesse, proprio mentre ignara lo pronunciava.
«È questo ciò di cui ho paura.» Sussurrò il ragazzo oltre la porta. «Temo che abbiano davvero qualcosa a che farsene.»
Katie strinse le ginocchia, cingendole ed abbracciandole. «È strano che non siano ancora intervenuti qui, nel Castello. Che nessun insegnante abbia voluto accennare all’accaduto… Stanno cercando tutti di…» Le uscì un basso ringhio di frustrazione che non era stata in grado di placare.
«Stanno tutti facendo finta di nulla.» Concluse per lei il ragazzo. «Come se il bambino non fosse morto.»
Abbassò lo sguardo dalla porta, fino al pavimento. «Pensi davvero che sia morto?»
Udì un altro sospiro, solo molto più frustrato. «Giuro di non aver mai pianto in vita mia. Mai. Non sono il tipo, capito? Non… È che tutto sta andando a rovina…»
Katie gattonò fino alla porta del cubicolo e la guardò, come se fosse lui.
«Evito di lamentarmi o… commiserarmi, perché lo so che non cambia nulla. Non piango perché so che le lacrime non servono ad un bel niente, che posso prosciugare tutte le mie accidenti di ghiandole, disperarmi, rinchiudermi in camera e saltare ogni lezione che mi pare, ma… Nulla. Nulla, cazzo. Stessa merda.» Esitò un poco prima di riprendere. «Non sono pessimista perché lo so che è cosi e mi va bene. So che non posso sempre prenderla sul ridere e…»
Si avvicinò ancor di più ed alzò la mano, poggiandola contro la porta. «Hai paura?» Suggerì la ragazza in un soffio di voce.
«No.» Ammise il ragazzo, dall’altra parte. «Non è paura… Non per me almeno.» Tacque per qualche secondo di troppo. «Penso di essere triste.»
La mano di Katie scivolò un poco e lei chiuse gli occhi, appoggiando la fronte contro la porta di legno, verniciata con un intenso verde acqua.
«Credo sia la prima volta in assoluto. Per la prima volta in vita mia sono triste. Solo triste. Triste e nient’altro.»
Katie tenne gli occhi chiusi, mentre iniziavano a scottarla di un fresco e dilatato torpore sotto le sue palpebre. Rimase in ginocchio davanti alla porta e non disse nulla, aspettò che lo facesse lui e quando questo non avvenne, prima di trovare un centinaio di motivi per non farlo, allungò la mano da sotto l’uscio della porta, protraendola in avanti. All’inizio il suo tocco andò incontro ad un paio di jeans e ne rimase sorpresa, sia perché le gambe del ragazzo sporgevano molto in avanti e quindi doveva essere parecchio alto, sia perché i jeans erano proibiti dal regolamento. Si chiese se non l’avesse fatto come gesto di ribellione proprio per il fatto che i professori stavano ignorando l’accaduto e, senza rispondersi, si promise che si sarebbe cambiata e ne avrebbe indossato un paio anche lei. Dimenò la mano ancora un poco, per nulla intenzionata a fare una figuraccia ritirandola, fino a quando non sentì una risata dall’altra parte.
«Quelle sono le mie scarpe.» Il ragazzo, ancora vibrante per le risate, chiuse la mano di Katie tra le sue. «Credo che tu stessi cercando queste.»
Anche lei sbuffò una risata, chinata in basso, in una posizione tutt’altro che comoda. «No, volevo mostrarti il mio nuovo smalto, se vuoi te lo presto.»
Lui rise ancora e lei lo seguì a ruota, legittimando la sublime bellezza della tristezza quando la si condivide.
 
 
 
 
Si dèvono aprire le stelle
Nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
Singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
Di tutta quell'aspra bufera,
Non resta che un dolce singulto
Nell'umida sera.
 
 
 


 
 
*
 
 
 
 
 

Ciò che non sapeva, in quel momento tanto povero di tempo, era che se ne sarebbe pentita. Non sapeva che sarebbero passati strazianti giorni, tormentose settimane, poi confidenti mesi e fiduciosi anni, ma lei si sarebbe sempre pentita al ricordo di loro due – in quel solo istante in cui finalmente erano loro – e di come lei, vigliacca, si era allontanata.
Albus non ne era rimasto sorpreso in alcun modo, aveva solo abbassato il capo, permettendole di spostarsi un poco da lui.
Però Evelyn l’aveva sentito, l’aveva capito da come le respirava addosso che lui non provava ciò che, invece, provava lei.
E tutto ciò che le riusciva in quel momento era chiedersi se quello che aveva lei e soltanto lei dentro bastasse per entrambi: si può essere amati per quanto si è capaci di amare?
Eppure Evelyn aveva cercato di farglielo capire – anche se miseramente – a baci, quanto lo amava. Aveva premuto con veemente frenesia contro le sue labbra e tremato quando lui aveva fatto lo stesso, sfogando sulla sua pelle la stessa foga che lei si era limitata a strangolare dentro di sé, per non sentire nient’altro che lui e la sua bocca e le sue mani che la cercavano e la volevano e lui ancora e di nuovo le sue labbra e lui e lui soltanto. L’aveva capito proprio dall’intensità con la quale l’aveva cercata e la decisione con la quale l’aveva toccata. Lei aveva solo tremato, sobbalzando e sussultando e fremendo e rabbrividendo e lui di nuovo e lui e solo lui.
Ciò che le accadeva dentro la ustionava ad ogni boccata d’aria che la divideva da lui, anche solo ad un centimetro di distanza: era stata tanto coinvolta dentro che non aveva pensato a ricavarne piacere fisico – per un momento volle abbracciarlo soltanto e sentirlo solo ricambiare quel gesto, sentire lui su di sé solo per amarlo, amare lui e lui solamente e nessun’altro.
C’era in lei un qualcosa di estremamente egoistico che pretendeva d’essere amato solo per quanto lei era stata capace di amarlo e temeva che tutto ciò che lei aveva dato in quell’amore andasse perduto. Aveva passato la vita ad amarlo e non aveva fatto nient’altro che amare lui e lui soltanto, ancora lui e per sempre lui. E non aveva mai preteso che Albus l’amasse allo stesso modo perché lei esigeva di amarlo di più, però aveva pensato che continuando ad amarlo, che con tutto ciò che aveva dato per quell’amore… Se ne vergognava, si vergognava da morire perché l’aveva davvero creduto, aveva davvero creduto che il suo amore sarebbe bastato per entrambi. E il loro amore era stato il punto di fuga di ogni sua prospettiva, l’incrocio a cui portavano tutte le vie che aveva percorso, il chiodo a cui le aveva appeso tutti i suoi averi, il perno al quale era aggrappata con le mani – con entrambe. Aveva vissuto in nome del loro amore.
«Mi dispiace.»
E l’unico vero peso era e rimaneva la brutale verità delle sue parole. Ed il fatto che nulla, in quel momento, poteva persuaderla che stesse mentendo per un qualche motivo. Forse era sempre stato quello il problema: la verità.
«Posso aspettare.»
Non era un nodo quello che le pesava sulla gola, nemmeno un groppo; era un groviglio fatto di ultime speranze e prime consapevolezze.
«Sono disposta ad aspettare il tempo di una vita.» E anche oltre. «Se me lo chiedi ti aspetto anche tutta la vita.»
Il pallore di lui le fece capire che la sincerità era una conseguenza che stava pagando anche lui; non solo lei.
«Quando avrai finito di aspettare, io non ci sarò.» Teneva gli occhi socchiusi perché rivolti in basso.
Evelyn sorrise. «D’accordo.» Il sorriso persisteva e poteva giurare tutto ciò che aveva – ed aveva solo l’amore nei suoi confronti – che era sincero. «Va bene.» Annuì, sicura.
«Mi dispiace, lo giuro.» Lui rialzò lo sguardo, accostandolo al suo. Ed i suoi occhi non le erano mai sembrati tanto belli, mai così tanto, mai così tanto verdi, mai così tanto sinceri.
Annuì ancora, ma finché Albus non l’aveva guardata era stato più facile farlo, così come sorridere. «Ora io me ne andrò.» Percepì il dolore della sua gola che mordeva ed inghiottiva tutti gli ultimi appigli ai quali la parte più debole di lei – la maggior parte di lei – cercava di aggrapparsi. «No, no. Ora io me ne vado.» Si era corretta, senza guardarlo. «Ora io me ne vado, Albus. E tu mi lasci andare.»
Si rese conto che non stava tremando e, per un ironico istante, ne fu felice. Gettò così un’occhiata a Sir William e fu impaziente di muoversi ed allontanarsi.
Si rialzò, rendendosi finalmente conto del dolore alle gambe per quanto era rimasta inginocchiata – si concentrò su quel dolore mentre muoveva il primo passo, mentre si voltava e ne faceva altri due più spinti, altri tre e poi cinque frettolosi ed infine voltava l’angolo senza fermarsi o rallentare.
Se ne andò così, col viso asciutto e solo un poco rosso, ed il dolore alle gambe che non riusciva più a distrarla. Se ne andrò contando i propri passi, a bassa voce all’inizio e man a mano che si allontanava alzò il tono per disturbare i pensieri. Se ne andò con le spalle più curve ed il capo più chino di quello che il suo orgoglio assopito lottava per mantenere. Se ne andò perché ora che non aveva più il diritto di desiderare alcunché, andarsene era tutto ciò che voleva.
Se ne andò e lui la lasciò andare.
 

 
 
 
 
 
 
*
 
 

 
 
«Che ci fai qui?»
Roxanne non rispose. Aveva deciso da qualche minuto che avrebbe definitivamente scritto una lettera di denuncia alla preside nella quale segnalava tutto quell’insieme di comodità e benessere gratuiti di cui beneficiavano i Serpeverde, a differenza dei Grifondoro – e senza dubbio, delle altre due Case – e in cui chiedeva che fosse fatta giustizia; stava, in effetti, facendo mentalmente una lista nella quale indicava, catalogava e commentava tutti i lussi di cui la loro Sala Comune ed i loro dormitori godevano: innanzitutto gli ampi letti matrimoniali e la morbidezza piumosa e quasi malleabile delle trapunte verdi, così come l’utilizzo della seta per le lenzuola argentate, poi i bagni accessoriati e la vasca larga quanto la Magi-Piscina che suo zio Charlie le aveva regalato per il suo ottavo compleanno, sicuramente avrebbe incluso nell’elenco anche i divanetti soffici di lino, stava giusto per aggiungere le scrivanie rotonde molto più estese rispetto alle loro, quando la porta del dormitorio si era aperta e lei si era distratta, perdendo il filo logico della sua enumerazione a climax da proporre alla preside.
Non si era mossa o agitata, si era solo infastidita perché era certa che quando avrebbe dovuto scriverla, quell’accidenti di lettera, ne sarebbe venuto fuori un tema sull’ingiustizia tra Case insensato e assolutamente inefficace. Non era brava con la retorica, non era minimamente in grado di persuadere le persone, non era propensa al dialogo con l’altro. Non ci sapeva fare con le parole, preferiva dimostrare, preferiva che gli altri capissero senza che lei definisse, nonostante l’alto rischio di ambiguità.
Roxanne stava sempre zitta, anche quando gli altri non capivano e forse era proprio per questo che nessuno si sforzava a farlo.
Sua madre le diceva sempre che persino il più lieve bisbiglio poteva essere udito, se questo diceva la verità e lei annuiva e se lo teneva a mente, certa che un giorno ne avrebbe avuto conferma.
Non era vero. Nessuno sentiva le grida, figurarsi i bisbigli; e la verità non poteva in alcun modo essere detta perché non c’era nessuno disposto ad ascoltarla.
E Roxanne stava zitta.
«Forse ti sorprenderà, ma il mio dormitorio non è un centro di accoglienza per negri senza tetto.»
Però, come spesso capita, le persone troppo silenziose finiscono col diventare eccessivamente sensibili, così tanto da ridursi all’insensibilità, alla spietatezza, alla crudeltà. Ecco, Roxanne ci aveva riflettuto parecchio ed era certa di non essere disumana o brutale, però sapeva anche di essere diventata immune a certi aspetti – troppo cruda, troppo violenta, troppo cinica, troppo diffidente, troppo insensibile; troppo sensibile.
«Non dirmi che ti hanno cacciata fuori dal dormitorio perché altrimenti dovrò complimentarmi per il razzismo dei Grifondoro e, allo stesso tempo, riconoscere quanto sono abili a nasconderlo. In ogni caso, Hagrid ti può dare la cuccia del suo cane se lo aiuti a pulire il guscio agli Schiopodi.»
Le persone che non esitano mai ad esprimersi sono generalmente più leggere, più innocenti forse, meno rancorose, meno complesse, e di certo meno menzognere; i silenziosi invece sono fatti di segreti, di bugie e dubbi che lì rimangono fino a quando non vengono esportati con la forza.
Roxanne non era sempre stata una persona silenziosa, tutto il contrario una volta. Però le parole, quelle dannate parole: parole essenziali, parole superflue e parole dolorose; quelle parole che non hanno alcuno scopo se non ferire. E non c’entrava il menefreghismo perché il parere degli altri è come l’ombra: ce lo si trascina dietro ovunque, soprattutto quando si è in piena luce.
«Ho un problema.» Gli disse, senza muoversi da dov’era o spostare lo sguardo.
«Oh, ne hai parecchi.» Le assicurò lui sornione mentre frugava nel suo baule.
«Dormo qui sta notte.» Aveva aggiunto, piatta e risoluta.
«Qui nel Castello o qui nel mio dormitorio?» Bofonchiò lui, ancora nascosto dietro il baule e le tende.
«Qui.» Rimarcò Roxanne, stiracchiandosi sul letto. «Qui e basta.»
«Beh…» Sbadigliò il ragazzo, chiudendo il baule. «No.»
Si era più volte chiesta se i segreti fossero bugie, se tacere equivalesse a mentire in un qualche modo e non era mai giunta ad una risposta compiuta. Non era questione di segreti, semplicemente certe cose non potevano essere dette, non si poteva raccontarle. Come poteva pretendere che gli altri mantenessero segreti se nemmeno lei era in grado di reggerli? Non tutte le persone che tacciono sono timide o insicure; molte non hanno nulla da dire, altre non sanno come dirlo, altre ancora si vergognano – se ne vergognano tanto da non riuscir a parlarne nemmeno con se stesse.
«Ho bisogno di soldi.» Buttò lì, lasciando che l’argomento scorresse come avrebbe potuto, in ogni caso certa di aver finalmente attirato la sua attenzione. «Parecchi soldi.» Udì un tonfo e capì che lui aveva chiuso il baule, ma non reagì in alcun modo.
«Quanti?» Fu abbastanza diretto, ma poco perspicuo. Non aveva motivo di supporlo, ma avrebbe scommesso il suo unico intimo firmato che il ragazzo aveva i nervi più alterati dei suoi.
«Circa cinquecento.»
Harper mise giù ciò che aveva in mano – con la coda dello sguardo aveva notato che erano indumenti – e si avvicinò. «Che accidenti intendi fare con tutto quel denaro? Comprarti tutto il dormitorio?»
Roxanne fece un cenno indistinto. «Ne ho bisogno.»
«Dove diavolo pensi di trovare tutti quei Galeoni in un colpo solo?» Il tono che stava usando era molto più irritato di quello che lei si era aspetta sarebbe stato, ma persino lui si rese conto dell’inutilità della domanda. «Cinquecento sono troppi anche per me, non troverò mai nessuna scusa da propinare a mio padre. Non posso andare alla Gringott e ritirare una somma del genere senza che lo venga a sapere.» Si lamentò, ancora infastidito. «E lui è un genio coi numeri.»
«Non mi servono adesso, adesso.» Chiarì prontamente lei. «Mi servono entro Natale.»
Il Serpeverde si allentò la cravatta, riservandole un’occhiataccia nel mentre. «Credevo che la peggior disgrazia fosse il mio nome, o al massimo lo zio Hoock… ma non una Weasley. Non a me.»
La ragazza piegò le gambe, grattandosi la caviglia giusto per fare qualcosa. «Cos’ha che non va tuo zio Hoock?» Chiese quando si rese conto fino a che punto sarebbe potuta arrivare l’irritazione del ragazzo.
Lui la guardò ancora storto, prima di rispondere. «Ha lasciato tutta l’eredità a mio cugino Thomas.»
«E?» Lo incitò a spiegarsi lei, mettendosi a sedere e guardandolo.
«E niente, Thomas è un idiota.»
Roxanne sbuffò, accavallando le gambe. «E il tuo nome? Cos’ha che non va il tuo nome?»
«Damian Stephen Orpheus Rahab Loki Seth Harper.» Proferì inespressivo. «Tu che dici?»
«Aspetta aspetta, quindi tu non ti chiami Damon?»
Lui scosse il capo. «È un soprannome di Adam al quale hanno deciso di affidarsi tutte le persone che non sono di famiglia.»
«Ma Damian non ha nulla che non va.» Fece la ragazza, scrollando le spalle.
«Certo, nemmeno Rahab, Loki e Seth se è per questo… finché non vieni a scoprire che sono nomi di demoni mitologici e religiosi.» Bofonchiò il ragazzo a denti stretti. «Mia madre è fissata con la filosofia e la mitologia, non è colpa mia. Se mio padre non avesse insistito per tutti i nove mesi, Stephen e Orpheus sarebbero stati sostituiti con Lucifero e Voldemort, probabilmente.»
La Grifondoro non si preoccupò di trattenere le risate, ma quando lo sguardo truce del ragazzo persistette cercò di metterla più sull’umorismo e meno sull’ironia. «Avanti, un po’ ti capisco, anche mia zia è fissata con la mitologia babbana. Quando eravamo piccoli, ci leggeva i miti al posto delle fiabe o delle favole.» Confidò, con tono solenne. «Però non a tal punto da dare nomi di demoni ai suoi figli, chiaro…»
Il ragazzo ringhiò. «Poco cambia, per te rimango comunque Harper.»
Roxanne si portò una mano al petto, simulando un dispiacere non del tutto improvvisato. «Pensavo che Rahab sarebbe stato il nostro piccolo codice segreto.»
Sorrise senza guardarla e si tolse la maglia e la camicia in una volta sola. «Non mi servono accertamenti per fottere, basta qualche Galeone a quanto pare.»
«E a me basta chiedere, evidentemente.» Rispose ferma Roxanne, sciogliendosi i capelli. «Fotto al comando, impressionante vero?»
«Trovo più impressionante il fatto che porti più etichette tu che i tuoi vestiti.» Le concesse affabile, senza distogliere da lei lo sguardo mentre si slegava la cintura.
«Significa solo che ho valore anche a tasche vuote.» Sussurrò togliendosi il più lentamente possibile le calze.
«Significa che non hai idea di quale sia la differenza tra valore e…» Tirò via con uno scatto la cintura e la getto sul letto di Adam, senza spostare gli occhi. «Prezzo.»
«Vedi, la differenza la decido io.» Tolse la gonna, senza provare un minimo di vergogna – fiera, onesta in un modo che nessuno avrebbe potuto capire e decisa. «Non tu. E questo è un po’ meno impressionante.»
Damian le si avvicinò velocemente e per un momento prese seriamente in considerazione l’opzione allettante che, ormai da diverse decine di minuti, la persuadeva a schiantarlo, sia con un incantesimo che con un destro ben assestato – magari proprio in bocca, giusto per fargli passare l’improvvisa voglia di fare battute sarcastiche fino a quella che si sentiva di poter definire slealtà. Però lui non fece altro che sputarle sul viso un «Vado a fare la doccia» prima di voltare le spalle sia a lei che alla porta del bagno, dopo averla sbattuta.
Le era capitato tante di quelle volte di essere insultata che ormai le sembrava una parte fondamentale di una qualsiasi discussione. Era chiaro e logico l’itinerario di un qualsiasi discorso che non veniva troncato, il percorso avveniva lungo un binario e le possibilità, seppur parallele, erano scisse: si andava d’accordo oppure si litigava. Era qualcosa che aveva sempre dato per scontato e, dato il suo caratteraccio, era abituata ormai che il discorso sfociasse in una litigata contornata di insulti e provocazioni, e magari anche vere e proprie aggressioni. Ricordava sempre con un sorriso quando, da piccola, picchiava tutti coloro che si beffavano di lei o dei suoi cari. Era un po’ la conseguenza dell’essere una persona di poche parole, passare suscettibile ed irritata direttamente ai fatti. O forse, ora che ci pensava, magari erano stati i fatti a far in modo che divenisse poi una persona di poche parole. Il punto era che la maggior parte degli insulti ricevuti in tutta la sua vita nemmeno li ricordava per quanto fossero irrilevanti, non contavano perché non erano veri, perché erano stati pronunciati per infastidire, da persone di cui non le importava alcunché. 
Ed è questa la differenza tra un insulto ed un’offesa. Chi vuole offendere usa la verità. Chi usa la verità, chi se ne serve, chi la strumentalizza, chi ne fa un mezzo la trasforma in un’arma. E la verità sotto forma di arma non si limita a difendere, ma anche ad attaccare. E non lo fa per infastidire, tediare od irritare. Lo fa per ferire, trafiggere, lacerare; lo fa per umiliare, mortificare, annullare. Ed il tutto senza assumersi alcuna colpa delle sue parole perché il suo unico gesto è stato quello di svelare la verità.
Ma i motivi, gente. Le cause, le ragioni, i pretesti, i moventi. Perché nessuno si chiede mai cosa c’è dietro la verità?
«Gli si è arricciata la scopa?» Adam Zabini spuntò da dietro l’angolino tra la soglia e la porta. «L’ultima volta che l’ho visto tanto incazzato… Nemmeno me la ricordo.»
Roxanne si voltò verso di lui, incrociando le braccia sotto il seno. «Che fai, spii?»
«Piuttosto non avevo alcuna intenzione di farmi vedere da lui.» Fece qualche passo in avanti, avvicinandosi un po’ troppo. «Che diavolo hai fatto per fargli perdere le pluffe in questo modo?» Sussurrò, come se temesse che potesse sentirli.
La ragazza ricambiò lo sguardo indignata. «Cosa ti fa credere che sia colpa mia?»
Adam scrollò le spalle, superandola per andare incontro al suo letto. «Perché mezz’ora fa non era così.» Si buttò sul letto, sospirando.
La Grifondoro si avvicinò a Zabini corrucciata e si sdraiò affianco a lui. «Io non ho fatto proprio niente.» Sbottò accigliata, affondando il viso nella trapunta verde del materasso.
«Non ha nemmeno fatto battute sulla tua gonna di jeans al posto di quella della divisa?» Mugugnò Adam, distratto il giusto.
Roxanne scosse il capo, facendo sì che i capelli le ricadessero in avanti.
«Allora è grave.» Dedusse il Serpeverde.
«È così orribile?»
«La tua gonna? O Dam in collera?»
«Tu che dici?»
Affondò anche lui il viso nella trapunta e vi soffocò la risposta.
«Posso… chiederti una cosa?» Tentennò il ragazzo dopo un poco.
Roxanne non rispose e nemmeno annuì, era tanto stanca che sperava solamente che lui parlasse senza aspettare sollecitazioni o che lasciasse perdere definitivamente.
«Ecco…» Adam azzardò ugualmente i suoi dubbi, col volto semi nascosto dalle coperte. «Tuo cugino è gay?»
La ragazza aspettò qualche secondo di troppo prima di voltarsi e guardarlo con le sopracciglia inarcate. «Hai idea di quanti cugini abbia?»
Lui sbuffò, giusto per mascherare un poco il proprio disagio. «Quello biondo, sai… Insomma, Louis.»
«Louis.» Annuì Roxanne, mettendosi più comoda e coprendosi un poco con l’orlo della trapunta. «Hugo dice di sì, ma James dice di no. Fred anche dice di no, ma Lily dice di sì. Nonna Molly dice di no e zia Ginny dice di sì. Zio Charlie dice che magari è bisessuale, ma Teddy dice che non lo è. Victoire pensa che…»
«Non…» Adam aveva l’espressione tanto corrucciata che ormai nascondeva l’imbarazzo. «Non ci sto capendo nulla!»
La Grifondoro sbuffò. «Ma perché me lo chiedi?» Sorrise poi, tirandogli una gomitata. «Sei interessato?»
Il ragazzo arrossì in maniera eccessiva. «A me piacciono le donne.» Dichiarò in tutta sincerità, senza lasciarsi intimidire dalla curiosità invasiva della Weasley. «E mi piacciono parecchio. Ne sono più che certo.»
Roxanne sorrise ancora. «Comunque zia Hermione dice che non lo è e lo zio Percy dice che è probabilmente che lo sia quanto è improbabile… Il ché non significa assolutamente un…»
Adam sbatté più volte le palpebre, confuso. «Non m’interessa il parere del tuo gregge di parenti… senza offesa, è solo che siete infiniti.» Sospirò, grattandosi distrattamente il mento. «Tu che pensi?»
La ragazza rise lentamente da quanto era assopita, ma non per questo meno divertita. «Louis è molto cambiato da quando è entrato ad Hogwarts. Un po’ come Albus, solo in modo opposto.» Sospirò, togliendosi i capelli che le erano ricaduti sul viso per guardare Adam negli occhi. «So che è davvero strano, quasi nessuno ci crede, ma Al non era così.»
«Così come?» Domandò Zabini, appellando poi silenziosamente un cuscino per metterlo sotto le loro teste.
«Così… Riservato, distaccato, menefreghista, freddo… Non era così bastardo. Al contrario, Louis era quello riservato. Sai, lui e Dominique sono sempre stati quelli con la puzza sotto il naso.»
«La Corvonero?» Fece il ragazzo, socchiudendo gli occhi pensieroso. «Quella bellissima?»
Roxanne annuì. «Se ne stavano sempre sulle loro, capisci? Gli unici coi quali Louis era in confidenza sin da sempre sono Fred e Jamie.» Sbuffò, prima di riprendere a parlare. «Dominique non è cambiata più di tanto, ma Louis… Non so cosa gli sia preso per diventare improvvisamente tanto… Insomma, l’hai visto com’è, no? Deve essere sicuramente a causa delle vision-» S’interruppe all’improvviso, sgranando gli occhi. «Ecco, solo che non era così, tutto qui.»
Adam parve non voler insistere né tanto meno lasciarsi scappare qualcosa, perciò si limitò ad annuire.
«E al contrario Albus era molto espansivo, era una versione più astuta di James… e, per Merlino, erano inseparabili. Erano così legati…» Tirò ancor più su la trapunta, coprendosi meglio. «Non è facile da immaginare ora, vero?»
Il Serpeverde fissò lo sguardo su di lei. «Per niente. A guardarli ora, se non fosse per la somiglianza, non si direbbe nemmeno che sono fratelli.»
L’altra annuì. «Hogwarts ci ha cambiati così tanto… Forse l’unico ad essere rimasto lo stesso è proprio James…»
«Tu in cosa sei cambiata?» Domandò improvvisamente Adam.
Roxanne rifletté con un sorriso storto sulle labbra. «Ero più allegra, credo. Molto più spensierata e decisamente più innocente.» Sospirò. «Ero onesta. Lo eravamo tutti. Ora… Ora, abbiamo tutti qualcosa da nascondere come se il mondo potesse crollarci addosso da un momento all’altro.»
Adam la guardò, senza la forza di annuire. «Sembra che stia crollando davvero, sai? Tutto quanto.»
Lei resse il suo sguardo, senza commentare ulteriormente. «Ti va di saltare la cena?» Chiese d’un tratto. «Non chiudo occhio da più di tre giorni.»
Il Serpeverde annuì, rotolando su se stesso per coprirsi per bene. «Mi rifarò domani a colazione.»
Roxanne si adagiò comodamente scivolando tra la seta del lenzuolo argentato e il velluto della trapunta verde. «E comunque» riprese poi, ridendo mentre affondava il capo nel cuscino, «quando eravamo piccoli, Louis mi palpava sempre il culo. Perciò non m’importa quello che dicono solo perché magari è un ragazzo sensibile ed educato, quello è più etero di me e te messi insieme.»
Girata dall’altra parte, non poté vedere l’espressione sconcertata del Serpeverde, ma udì la sua risata sguaiata qualche istante dopo. «Voi siete una famiglia di psicotici depravati ed il peggio è che siete dappertutto. Uno non può distrarsi un attimo che si ritrova qualcuno di voi da qualche parte.»
«Tipo nel letto?» Fece Roxanne, unendosi alla risata del ragazzo.
«Esattamente, quindi stai alla larga dal mio amatissimo materasso se non vuoi che muoia per mano del mio migliore amico un mese prima del mio compleanno.»
«Mmmh.» Bofonchiò la Weasley, chiudendo gli occhi per quello che pensava sarebbe stato un istante solo prima di alzarsi, ma che le bastò per addormentarsi.
 
 
 
 
 
 
È, quell’infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fiumi fragili restano
Cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
Fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
 
 
 
 
 
 
*
 
 
 
 


Era arrivata alla Sala Grande senza rendersene conto.
Solo quando si era ritrovata sulla soglia del portone, con le punte dei piedi che spuntavano tra la luce ed il fracasso di voci e posate, mentre il resto del corpo era ancora in ombra ed intorpidito dal silenzio dell’atrio, si era finalmente resa conto di dov’era.
Non avendo alcuna intenzione di rimanere sola ed iniziare a pensare, entrò nella Sala ed andò a sedersi direttamente nel tavolo, al suo solito posto al limite della panca. Ancora una volta le era necessitato del tempo per connettere un pensiero logico all’altro, tra quelli che volevano, invece, prendere il sopravvento nella sua mente.
Guardò il cibo che aveva davanti per qualche minuto, ferma ed in silenzio con se stessa.
«Cos’hanno che non va le patate al forno?» Rose spuntò alle sue spalle con un sorrisone e la giacca di jeans esageratamente in mostra.
Evelyn sgranò gli occhi, focalizzando lo sguardo su ciò che aveva davanti e constatando che era, effettivamente, il vassoio delle patate al forno. «Stavo…» Si schiarì la voce, deglutendo due volte prima di riprendere a parlare. «Ero un poco distratta.»
Rose si fece spazio vicino a lei nella panca, prendendo la sua forchetta ed infilzando due patate. «E cosa ti distrae tanto?»
La Black scosse il capo e prese a guardarsi intorno, distinguendo a fatica le persone che aveva attorno. «Perché sono vestiti tutti coi jeans?» Chiese quando lo sguardo di Rose si era fatto più insistente.
«Per Josh!» Rispose prontamente la Weasley. «Stiamo organizzando una piccola ribellione, vuoi unirti?»
«Io non… Non ho vestiti di Jeans.» Rispose traballante sul posto l’altra.
«Ho una gonna, io! Te la posso prestare!» Le propose immediatamente la rossa. «Puoi metterla sopra i collant di Roxanne, sono abbastanza caldi.»
Evelyn sentiva delle mani attorno al collo strozzarla, invisibili, ma assolutamente percettibili, che le impedivano di mangiare e di parlare. Guardò Rose rendendosi finalmente conto di quanto fossero belli i suoi capelli sciolti e di quanto le donasse il blu vivido della giacchetta leggera di jeans. Aprì la bocca per farglielo notare, ma non riuscì ad emettere un minimo d’aria e la richiuse colpevole, annuendo e scolpendo sugli angoli delle guance un sorriso troppo appuntito.
Si guardò attorno ancora una volta e solo in quel momento si rese conto che in realtà l’aveva sempre fatto, come se si aspettasse che qualcuno le rivolgesse la parola o volesse fare amicizia con lei. Si rese conto di quanto disperatamente sperava che qualcuno a caso, non importava chi, incrociando il suo sguardo, non si lasciasse sopraffare dai suoi occhi spaventosi, ma si scoprisse invece interessato a conoscerla.
E solo questo poteva testimoniare quanto fosse profondamente sola.
«Donne, che fate?» Scorpius spuntò alle loro spalle, con la tracolla ancora piena di libri sulle spalle. «Stai ancora portando avanti la tua propaganda contro l’ignavia dei professori?» Domandò, chinandosi su di Rose.
«Esattamente.» Confermò lei, sporgendosi un poco a baciarlo, per niente imbarazzata.
«E stai cercando di far passare mia sorella al lato oscuro?» Borbottò il ragazzo, facendosi spazio tra le due ragazze e sedendosi.
«Tua sorella fa già parte del lato oscuro, vero Ev?» Fece Rose allusiva, sporgendosi oltre la spalla di Scorpius con tanto di occhiolino. «O preferisci, Lyn
La ragazza, sentendosi chiamata in questione, li guardò alternando lo sguardo dall’uno all’altra. «Dici a me?» Chiese poi in un soffio spinto ed irregolare.
«E a chi, altrimenti?» Chiese Malfoy sorridendole e spettinandole i capelli.
«Oh.» Fece di rimando la bionda, abbassandogli gli occhi sul tavolo. «È solo che io non sono tua sorella.»
La forchetta che Rose aveva in mano cadde tintinnando sonoramente ed attirando l’attenzione di qualche curioso con le orecchie lunghe, nel tavolo. «Evelyn!» Proruppe la Weasley, sbarrando gli occhi.
«Che c’è?!» Sbottò allora la ragazza, senza alzare lo sguardo. «È la verità, no? Io non ho fratelli, non ho genitori, sono una fottuta orfana! È la cazzo di verità!»
«Ma che le prende?»
«E beh, c’era bisogno di urlarlo perché ce ne accorgessimo?»
«Secondo te la Cooman ha ragione? Perché che ce l’ha davvero, la faccia da suicida.»
Non credeva di aver parlato tanto forte né tanto meno che bastasse umiliarsi per attirare l’attenzione delle persone, soprattutto non credeva che la sua dignità fosse di per sé tanto ignorata da permettere agli altri di ridicolizzarla ed insultarla senza nascondersi o preoccuparsi di farlo a voce bassa. Ci sono persone che vogliono essere ascoltate anche mentre parlano di nascosto e, per quanto possa sembrare subdolo, converge con l’unica forma di cattiveria che non può essere perdonata.
E, mentre si allontanava ancora una volta, non poté non chiedersi perché ogni volta che se ne doveva andare, nessuno la seguiva. Perché la lasciavano sempre andare via?
 
 
 
 
 
 
*
 
 
 

 
 
Derek Nott avrebbe potuto giurarlo davanti a tutto il Wizengamot: era colpa dei Potter e dei Weasley. Qualsiasi disgrazia accadesse era colpa loro e nessuno l’avrebbe mai convinto del contrario.
E non era tanto il fatto che ovunque accadesse la minima problematica, sicuramente vi sarebbe stato presente uno di loro, piuttosto l’intollerabile e tediosa certezza che, di qualunque sciagura si trattasse, loro ne sarebbero sempre e comunque usciti indenni – e, la storia poteva dimostrarlo, eroi.
Non importava la gravità dell’accaduto o il numero delle persone che ci avevano rimesso la pelle – o, nel caso di sua sorella, la memoria – tutti quanti avrebbero sempre e solo ribadito l’eroico intervento dell’illustre famiglia Potter-Weasley e di come nessun altro aveva osato sacrificarsi per il prossimo come avevano fatto loro.
“Credimi, figliolo” aveva proclamato suo padre, anni prima oramai “Non importa quello che lascian credere, qualunque disastro accada è colpa dei Weasley o dei Potter, oppure entrambi”. E Derek non poteva contraddirlo in alcun modo. “Pensaci, il Signore Oscuro avrebbe ucciso tutte quelle persone se lo sfregiato non fosse nato?” aveva argomentato Theodor Nott con fervida convinzione “Te lo dico io, no! Sono morte migliaia di persone nelle due Guerre Magiche solo per la vita di uno stecchino magro quanto un elfo domestico precario”.
Derek Nott l’avrebbe giurato davanti a tutto il Wizengamot, il corpo docente ed i tribuni dell’Ordine di Merlino: era colpa dei Potter e dei Weasley. Tutto quanto. La Guerra Fredda, la schiavitù, la fame nel mondo, l’estinzione dei dinosauri e pure quella imminente dei panda, lo scioglimento dei ghiacciai, il buco nell’Ozono, il surriscaldamento globale, la scarsità delle risorse petrolifere, le dittature in Oriente, il suo voto in Astronomia, le scarpe che la zia Astoria gli aveva regalato e che non gli entravano e persino il fatto che lo zio Hoock avesse lasciato tutta l’eredità a quell’idiota di suo cugino Thomas. Non c’era assolutamente nulla in quella stirpe maledetta che lo persuadesse ad assolversi da tali accuse, erano e rimanevano una disgrazia non solo per il mondo magico, ma per l’intera specie umana e tutte quelle animali e vegetali.
Ed il fatto che in quel momento sua sorella stesse condividendo la stessa infermeria con due esemplari della progenie di quella famiglia, lo disturbava alquanto. Tanto che più volte l’infermiera aveva insistito che l’orario era troppo tardo per le visite e lui aveva faticato a lasciarsi assuefare da quella regola: non poteva tollerare che sua sorella respirasse la stessa aria di quelle forme di vita, figurarsi permettere che lo facesse da sola.
«Ciao.»
Derek piegò la Gazzetta del Profeta e la mise da parte ad agio, senza la benché minima premura o sollecitudine. E con la stessa pacatezza lo adagiò sul comodino affianco al capezzale della sorella – che, ci teneva che tutti lo notassero, a differenza dei comodini delle due pesti rosse, accoglieva fiori e non nocivi e dannosi dolci. Concentrò la stessa pazienza nello girarsi ed accomodarsi sulla poltrona – da precisare ancora una volta che non era una sedia, ma una poltrona.
Sbatté placidamente le palpebre e si chiarì la voce con sincera serenità, prima di concedere un responso al suo interlocutore.
«Sì?» Sillabò con la più melliflua delle incitazioni.
Si ritrovò davanti una ragazza – probabilmente ragazzina – e prima di poter in tutta onestà apprezzare qualche dettaglio del suo aspetto, scattò l’allarme progenie Potter-Weasley, non appena notò l’indubbio colore rosso dei capelli.
Questa fece qualche passo in avanti con quella spavalderia tipica dei Grifondoro che lo irritava come nient’altro – a parte, la più volte sopracitata famiglia – al mondo. Si ritrovò ad imprecare qualche mago antico nella sua mente, perché in tutta sincerità era molto più stimolante denigrare i Potter-Weasley quando non erano ragazze obiettivamente di – più che – gradevole aspetto.
«Madama Chips mi ha invitata a chiederti di abbandonare l’infermeria. E ti ricorda che l’orario delle visite è finito diciassette minuti fa.»
Il sopracciglio sinistro di Derek si era inarcato gradualmente mentre la sua interlocutrice parlava fino a raggiungere un punto estremo e lì era rimasto.
«Puoi informarla che non nutro alcun proposito ad allontanarmi da dove sono finché mia sorella non si addormenta.» Scandì con voluta lentezza, poggiando gli avambracci sui braccioli della poltrona.
L’altra rise di gusto, passandosi una mano tra i capelli per spostarseli di lato. «Ti sembro un gufo? Ho chiesto a Madama un favore e lei mi promesso che me l’avrebbe concesso se ti avessi riferito il messaggio.» Spiegò, ancora divertita.
«Dunque?» La incitò Derek a concedere un punto d’arrivo alla sua spiegazione non richiesta.
Lily Potter rise ancora, poggiandosi la mano sul fianco e senza distogliere lo sguardo svagato da quello austero di Nott. «Niente» fece scrollando le spalle. «A me di certo non dispiace se rimani.»
Prima di voltarsi, scuotendo la chioma vermiglia, gli fece un occhiolino al quale Derek reagì con l’innalzamento dell’altro sopracciglio.
«Però.» Commentò Amelia, sdraiata tra le lenzuola.
«Quella è la Potter.» Commentò disgustato il fratello, riprendendo in mano il giornale.
«E significa qualcosa?»
«Potter è sinonimo di peste.» Le spiegò, amareggiato e contrariato. «Non a caso iniziano con la stessa lettera.»
 
 
Lily si chiuse dietro la tenda, prima di svegliare Hugo.
«Ho convinto Madama Chips.» Si spiegò, infilandosi tra le coperte del letto singolo del cugino.
Lui brontolò qualcosa d’impreciso e si stropicciò gli occhi, prima di aprirli. Passò una mano attorno alla vita di Lily, avvicinandosela assonnato. «Non dormo da più di Quarantott’ore. Se mi risvegli, ti soffoco col cuscino.»
L’altra sbuffò e gli tirò una gomitata. «Io non riesco a dormire, però.»
«Affari tuoi.» Si lagnò lui, richiudendo gli occhi nella speranza che non lo risvegliasse più.
La Potter gli tirò un’altra gomitata e si voltò verso di lui per fronteggiarlo. «Ho bisogno di parlare.»
«E non puoi farlo da sola? Magari anche a bassa voce?» Propose Hugo, sornione.
«No.» Chiarì lei. «Credo di avere troppa adrenalina nel sangue.»
Il ragazzo sospirò sconsolato, sperando che le bastasse come risposta.
«Sono troppo felice, credo. Perché siamo vivi.»
«Siamo vivi!» Annuì Weasley, entusiasta. «E possiamo dormire!»
«Quando ero nella foresta, avevo solo paura di morire.» Riprese tranquillamente Lily, sussurrando affiatata. «Avevo paura di non diplomarmi, di non sposarmi, di non avere mai dei figli.» Spiegò agitandosi e rischiando di cadere dal materasso. «Poi mi sono ricordata di te e mi sono detta che se ti fosse successo qualcosa non avrebbe mai avuto senso diplomarmi, sposarmi ed avere figli.»
«Questo dovrebbe farmi passare il sonno, suppongo…»
«Ma non ho pensato a Josh.» Ammise, non più sussurrando, ma bisbigliando come se avesse raggiunto l’argomento al quale mirava sin dall’inizio. «Pensavo solo a salvare me stessa ed a te. E lui era il nostro migliore amico, ma non… mi capisci? Io gli voglio bene, però non…»
«Nemmeno io ci ho pensato.» Mentì Hugo, ma non era di certo il sonno a spingerlo a farlo. «È accaduto tutto in fretta, non credevamo che sarebbe successo qualcosa del genere, tanto meno a lui.»
«Credevo che se la sarebbero presa con noi, non ho pensato che avrebbero potuto prendere lui…»
Il ragazzo scosse il capo, contro il cuscino che condividevano. «Suo padre è un Auror quanto i nostri.»
Lily si fece piccola sotto le coperte, stringendosi le ginocchia al petto anche col rischio di far cadere entrambi e finché rimase in silenzio, Hugo non glielo fece notare, confidando nella probabilità che si addormentasse e che potesse finalmente farlo anche lui. Si accontentò della striscia di materasso che la cugina gli aveva lasciato pur di mantenere il parziale silenzio che gli aveva concesso. Non era solo una questione di sonno, non era solo infastidito, temeva davvero di affrontare l’argomento.
«Forge?» L’aveva per l’appunto chiamato poco dopo Lily in un sussurro.
Aveva sospirato ancora una volta, pronto a mentire sulle sue paure pur di alleviare quelle della cugina. «Gred.»
«Se piango, prometti di non dirlo a nessuno?»
Hugo tirò la coperta sopra le loro teste. «Promesso.»
E, in quel momento, nemmeno quando Lily aveva smesso finalmente di parlare ed il silenzio pacato dell’infermeria si era fatto sentire con prepotenza ed imposizione, nemmeno quando la cugina si era girata supina, lasciandogli uno spazio sufficiente a garantirgli di non cadere, nemmeno quando Madama Chips aveva spento le luci del suo studio, si era riproposto di tornare a dormire. Non che gli fosse passato il sonno, non ce l’aveva nemmeno prima.
«Secondo te, dov’è adesso?» Aveva chiesto dopo un po’, ad occhi aperti nel buio.
«È in dormitorio.» La voce di Lily era un poco appesantita, sussurrava troppa aria tra le parole. «Ti ha messo ancora una volta le uova di Doxy sotto il lenzuolo e sta ridendo di noi perché siamo finiti di nuovo in infermeria. E sta preparando la cronaca della partita di sabato per demoralizzare i Serpeverde.»
«E indossa ancora i jeans?»
«Non se li è tolti nemmeno per un istante.»
«Quelli blu, vero?»
«Quelli blu.»
Madama Chips chiuse l’infermeria e la ragazza si lasciò scappare un singhiozzo mentre rispondeva.
«Gred?» Hugo le si avvicinò di più.
Lily aveva tirato su col naso, strofinandosi il viso sulla sua maglietta. «Forge.»
«Se piango prometti di non dirlo a nessuno?»
 
 
 
 
 
E che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
Prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
Nel giorno non l’ebbero intera
Né io… e che voli, che gridi,
Mia limpida sera!
 
 
 
 

 
*
 
 
 
 
 


I sotterranei erano freddi.
Non era riuscita a trovare Sirius ed era tornata con la coda tra le gambe mentre si ripeteva “Non è tuo fratello, nemmeno tuo amico. Gli fai solo pena.” inconsciamente nella speranza che le desse forza necessaria per non cercarlo altrove. Era riuscita ad entrare nella Sala Comune Serpeverde a fatica e non aveva trovato nemmeno Katie, d’alcuna parte. E quando era uscita nel corridoio principale dei sotterranei, completamente vuoto, le era venuto da ridere, forse aveva riso davvero, senza rendersene conto. Perché si era resa conto di non avere nessun altro da cercare.
Si era seduta nel corridoio, cullandosi nel freddo e pregando che bastasse a congelarle le lacrime dentro, insieme alle grida, ai singhiozzi, ai gemiti, i pianti ed ai lamenti; lasciò che gelasse tutto quello che aveva da dire.
Contò le piastrelle del corridoio adiacente fin dove riusciva a vedere, contò i quadri, contò le finestre, contò le porte; sommò e sottrasse gli uni agli altri nei modi che le sembravano più e meno logici. Ripassò Trasfigurazione a mente, ripassò anche le formule d’Incantesimi, si ripeté gli ingredienti di qualche pozione a mente, si ripeté qualche poesia che gli istruttori le avevano fatto imparare a memoria quando era bambina, si ripeté i nomi degli insetti che mangiavano gli Schiopodi Sparacoda, si ripeté qualche canzoncina del Cappello Parlante. Poi scoppiò a piangere.
Fu molto meno silenzioso di come era abituata a piangere. Solitamente piangeva in confidenza con se stessa, compremendosi il fiato dentro pur di non farsi sentire, ma in quel momento non fu un pianto ciò che le uscì assieme alle lacrime, furono i più tormentati dei lamenti che aveva sigillato dentro tappandosi la bocca con le mani, anche col rischio di soffocare. E soffocando per davvero, qualche volta. E non ebbe il coraggio di domandarsi per quale motivo stesse davvero piangendo, non era mai stata tanto forte per i perché.
Sentì voci e passi confusionari nella nebbia di lacrime e l’appannamento dei singhiozzi. Pensò che non le importava che la vedessero in quello stato, che ormai non importava più nulla. Ebbe il coraggio di alzarsi solo perché sentiva un vitale e primordiale bisogno di stare sola. Strisciò lungo il muro del corridoio, tastando le maniglie delle porte nel tentativo di trovarne qualcuna aperta. Al quarto tentativo, al limite del passaggio e nella parte meno illuminata, riuscì a sfociare in una porta socchiusa. La spinse con le spalle, cadendo a terra sulla schiena e, non trovando la forza o la voglia di muoversi, richiuse la porta con un calcio.
Rimase sdraiata a bearsi del dolore dorsale e lombare, il perfetto diversivo ai suoi pensieri e, se le fitte non fossero state tanto forti, si sarebbe rimessa in piedi solo per cadere ancora una volta ed aumentare il dolore sempre più, fino a quando non avrebbe intorpidito il tormento straziante che aveva nelle viscere. Si tastò la pancia, timorosa di trovarvi delle ferite, rialzò la mano fino alle costole, poco sopra lo stomaco e fu quasi certa di trovarvi del sangue. Eppure non c’era nulla, se non la camicia della divisa un poco impolverata. Se c’erano delle ferite – e ce n’erano troppe – allora erano interne, probabilmente coperte con lo stesso mantello dell’invisibilità che aveva annusato ed abbracciato prima di restituirlo al suo proprietario.
Il freddo ed il dolore si alternavano e supportavano a deviare ai mali, quelli più spontanei ed in quel momento, sdraiata tra la polvere e le lacrime, smise in un istante solo di piangere. Di qualunque cosa si trattasse, faceva troppo male per piangerne. Tenne gli occhi aperti, spalancati fino a quando non la pizzicarono; si guardò attorno in cerca di qualcosa che fosse abbastanza dolorante, che si mimetizzasse con lei. Ebbe, così, la forza di girarsi di lato e lusingarsi di altre fitte, più forti, che le diedero il coraggio di strisciare e spostarsi dalla soglia.
Doveva essere una vecchia aula in disuso, della quale si erano dimenticati tutti. Un po’ come lei.
Si mise sulle ginocchia e gattonò, gemendo per dolore alla schiena, fino ad un punto mediano della stanza. Gridò ancor più forte quando, voltatasi dalla parte opposta, s’imbatté nel suo riflesso. Si fissò a distanza e fu quasi naturale cercare di sistemarsi qualche ciocca fuori posto, conscia che, coi capelli meno in disordine, non avrebbe fatto alcuna differenza. Non aveva mai fatto differenza.
Si avvicinò, guardandosi ammaliata, nostalgica di se stessa, fino a quando non fu ai piedi dello specchio e non poté toccarlo con le mani. Si accarezzò la guancia, pulendo una striscia di polvere dal suo riflesso e pensando che fosse troppo bello per essere velato in un qualsiasi modo. Ci mise ancora qualche istante in più prima di iniziare ad avvertire la differenza: l’Evelyn nello specchio sorrideva.
Si portò le mani sulle labbra nonostante fosse assolutamente certa che nulla in lei stava sorridendo in quel momento e mai aveva l’aveva fatto in quel modo. Lei si nascondeva quando sorrideva, paurosa di attirare l’attenzione su di sé o di non riuscire a farlo nonostante tutto. Il suo riflesso sorrideva temerario, fanciullesco ed assolutamente fiero – capì subito che quel sorriso non era il suo, ancor prima d’incrociare il proprio sguardo negli occhi scuri e caldi che aveva sempre desiderato di avere e che, ancora una volta, non era a lei che appartenevano; così come i capelli – avevano il taglio di Rose? – le ciglia lunghe – Roxanne? – le guance definite – Katie? –.
Non era un riflesso, era un’illusione.
Si trascinò lo sguardo oltre, cercandosi anche dove non si rispecchiava e vide che non era sola. Il suo primo istinto fu quello di voltarsi e cercare le stesse figura che le si manifestavano di fronte, anche alle sue spalle. Trovò solo la sua ombra mimetizzata nell’oscurità e nient’altro.
Rialzò, dunque, gli occhi, ancora inginocchiata, e deglutì l’incertezza di quello che vedeva quando i suoi genitori ricambiarono lo sguardo e le sorrisero mesti, come se non avrebbero potuto. Ed, in effetti, non avevano potuto farlo.
Ancorò le mani, aggrappandosi allo specchio e anche alla polvere, e le bastò per pensare che sarebbe riuscita a penetrare la superficie riflettente, che sarebbe riuscita ad entrare e toccare le mani di sua mamma. Voleva la sua mamma. Si puntellò sulle ginocchia più in alto possibile porgendole le mani che, però, andavano a sbattere contro il vetro dello specchio e lì rimanevano.
Pulì lo specchio con l’orlo della sua camicia e col pullover fin dove riusciva ad arrivare, e cercò gli occhi di suo padre. Baciò il suo riflesso, lasciando l’orma delle sue labbra a ricordarle che anche il bacio lì era rimasto. Le avevano detto spesso che somigliava molto alla madre, probabilmente solo perché nessuno aveva mai incontrato suo padre: constatò, con le labbra ora tremolanti, che somigliava molto più al suo papà.
Ricadde a terra ed appoggiò il capo tra le due immagini, tenendo il collo piegato per non smettere di guardarli, per sorvegliare la sua mamma ed il suo papà, per assicurarsi che non sarebbero scomparsi all’improvviso – ancora una volta.
E non importava più niente: il dolore, il freddo, la fame, la sete, la paura; non importava nessuno perché non c’era nessuno – tranne loro.
La sua mamma piegava il capo quando accoglieva il suo sguardo naufrago di dolore, freddo, fame, sete e paura – un po’ come era solita a fare lei; suo padre sospirava quando poi spostava gli occhi su di lui – quei sospiri le ricordavano molto di sé e troppo di altre persone, persone che ora non importavano più. Abbracciò la fredda parete dello specchio e non spostò più il braccio.
E lì, da naufraga, ebbe il tempo di immergersi nelle acquee anche solo attraverso gli occhi, sfiorando più volte gli abissi.
 
Ma la verità non può passare attraverso gli occhi perché lo sguardo umano è in grado di focalizzarsi su un occhio solo alla volta.
 
 
«Beh, il colore non è umano. E questo significa che morirai suicida.»
«Le ciglia non sono pari, probabilmente il climax indica una degradazione interna o di una propria parte.»
«La perdizione di una parte può verificarsi in caso di dolore estremo…»
«È probabile che tu perda la persona che ami più al mondo.»
«Oppure potrebbe coincidere direttamente con il logoramento interno e quindi col suicidio.»
«Oppure ancora, cara amica mia, perderai il tuo amore e per questo morirai di dolore per mano tua.»
 
 
 
 
 
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
Mi cantano, Dormi! Sussurrano,
Dormi! Bisbigliano, Dormi!
Là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
Che fanno ch'io torni com'era...
Sentivo mia madre... Poi nulla...
Sul far della sera
 
G. Pascoli, La mia sera
 
 
 






 
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Innanzitutto, sappiate che questo capitolo è composto da due capitoli. Dato che avevo ritardato un po’ con gli aggiornamenti, ho deciso di farlo in grande. QUINDI, niente. Spero solo di essermi fatta perdonare.
*sparge cuori e fiori*
Ora, parlando seriamente, riporto alcune formalità: ospiti illustri di questo capitolo sono…
*rullo di tamburi*
FOSCOLO e PASCOLI.
Citare “Alla Sera” e “La mia Sera” – nonché due delle mie poesie preferite – è stato davvero… sono troppo stanca per cercare un aggettivo.
Già che ci sono, vi informo che se questo capitolo è stato “La Sera”, il prossimo sarà “La Notte”, quindi aspettatevi di tutto.
Questo capitolo è “figlio d’affanno”, insonnia, schizofrenia, dolore, e parecchi capelli strappati. Ci tenevo a renderlo come meritava. E, se mai velo foste chiesti, la “sindrome di Nathanael”, del quale si trova un riferimento, è inventata fino ad un certo punto. Esiste infatti un racconto di Hoffmann, “L’uomo della sabbia”, il cui protagonista va incontro alla stessa sorte per gli esatti motivi riportati.
 
Mi è davvero difficile esprimere quanto io sia contenta del fatto che c’è ancora chi segue la storia ed aspetta i capitoli. A causa di diversi plagi sono stata costretta a sospendere “Capolinea 51” ed “I sette comandamenti”, però, come ho già precisato, non ho alcuna intenzione di abbandonare HSS nonostante non sia stata diversamente risparmiata dalle scopiazzature. È solo grazie a questa storia se ora, a distanza di anni, mi ritrovo ad essere la persona che sono – da quando a tredici anni ho iniziato a caratterizzare i primi personaggi ai miei attuali diciannove anni in cui consapevolmente ho rinunciato alla stesura di romanzi pur di portarla a termine. È stata la prima promessa che ho fatto ad Albus.
Dunque *asciuga le sue lacrime e quelle di Lily e Hugo*
Voglio ringraziare Evelyn perché, a differenza di quello che tutti credevano, non è né la protagonista né l’eroina di questa storia; deve ancora scoprire chi è.
Voglio ringraziare Katie per la sua forza, l’unica a fare concorrenza a quella di Roxanne.
Voglio ringraziare Damian e solo io e lui sappiamo perché.
Voglio ringraziare Albus per la sua sincerità, ancora e ancora.
E, già che ci sono, ringrazio anche Derek Nott. Perché è un figo.
 
Voglio portare questa storia al termine che merita e conto di farlo entro la fine di questo anno, che Dio mi assista, perciò a presto signore e signori (*fa ciao ai maschietti che seguono la storia*)!
 
Sempre vostra,
Bess
 
 
Ps: Il mio precedente account Facebook è deceduto nel peggiore dei modi, ma ne ho creato un altro sul quale potete aggiungermi per chiedermi chiarimenti, per parlare (di qualsiasi cosa) e per tutto quello che volete: https://www.facebook.com/profile.php?id=100008537466058(troverete anche l’album dei personaggi :3)
 
Ps2: Ho dovuto creare  nuovamente il gruppo ed è codesto: https://www.facebook.com/groups/776890892377548/

Ps3: Nessuno ha ancora indovinato l’identità del ragazzo del cubicolo e la cosa mi fa sentire molto, molto malvagia. Naturalmente, le scommesse sono ancora aperte!
Ps4: Non so se ve ne siete accorti, ma la "profezia" che ha fatto Roxanne (in Oculomanzia, durante la lezione di Divinazione) si è, in un qualche modo realizzata. Ora terrei d'occhio Roxanne e Katie perché nulla vieta che si realizzino anche quelle su di loro. *suspense*
   
 
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