Tyler
Delarto era una
cattiva persona… anche prima.
Era
stato fin troppo semplice convincere Jack ad
aiutarmi, tanto che per un po’ di tempo pensai che volesse
incastrarmi.
Con
il passare dei giorni capii che non sarebbe
successo: quel ragazzo sembrava avere una totale devozione nei miei
confronti,
forse persino una cotta. Ci volle poco ad ammettere a me stesso che, in
una
situazione differente, mi sarei divertito volentieri con lui; non misi
mai in
atto quel pensiero, c’era troppo in ballo e non potevo
rischiare.
Gotti
fu molto felice di aver trovato il suo personale
infiltrato al 14 e cominciò a
trattarmi come se stessi lì da sempre, come uno dei
più fidati, come un membro
della famiglia.
Il
fatto mi fece piacere e paura al tempo stesso:
non era sicuro di voler rimanere per sempre dall’altra parte,
il Bel Paese e i
racconti di mio padre mi mancavano, ma non ero certo che il miglior
modo per
emularli fosse far parte della Mafia.
Era
inutile farsi domande complicate, che non
avrebbero avuto risposta, le cose andavano bene in quel momento, il
minuto dopo il
pavimento avrebbe potuto sgretolarsi sotto i miei piedi, senza che io
potessi
far nulla per salvarmi. Chissà, un giorno a Gotti non sarei
più piaciuto…
Lo
stupore che provo è qualcosa di assimilabile alla paura,
quando uno degli scagnozzi di Gotti mi si para davanti e dice:
“Il capo ha
chiesto di te.” Tono freddo e ghigno fin troppo audace per
uno che sa che potrei
ucciderlo con due mosse.
È
il 12 febbraio o sbaglio? Forse, quella bottiglia di
Rum intera… è stata troppo anche per me!
Di
per sé non è una circostanza anomala, il capo mi
fa
chiamare in continuazione senza preavviso, però…
solo ieri mi ha detto di non
presentarmi la mattina del lunedì.
Inquieto
e un po’ impaurito, mi stringo nel cappotto
lungo nero e sistemo la pistola nei pantaloni, dal taglio economico,
neri
anch’essi. Passo davanti a una piccola vetrina, separato da
una distanza esigua
dal picciotto: i capelli sono
cresciuti
parecchio in questi pochi mesi, il taglio ordinato da accademia
militare li ha
abbandonati e ora mi arrivano quasi alle spalle, neri come la pece,
sono da
sempre una caratteristica della mia famiglia; gli occhi, blu come la
notte,
sono gli stessi di mia madre. Tendo a non guardarmi spesso allo
specchio:
vedrei un connubio delle due persone che più amavo, entrambe
morte troppo
presto.
Quando
arriviamo in Mott Street sono ormai le dieci e il
mio accompagnatore non ha detto
una
sola parola sul perché io sia qui, non ha aperto bocca dalla
frase iniziale a
pensarci bene, ma forse è meglio così. Inizio
quasi a chiedermi se Gotti non
ami giocare dei brutti tiri ai suoi sottoposti per farsi due
risate…
Capisco
che non può essere, quando vengo portato in una
stanza al terzo piano, invece che nello studio del pian terreno, di
solito
adibito ai ricevimenti.
“Siedi,
Tyler.” È Gotti il primo a palare, appena entro
nella
camera. Come prevedibile, è l’unico ad essere
seduto, dietro una sontuosa
scrivania, dietro di lui ci sono due uomini: il suo consigliere, che ho
imparato a conoscere pur non sentendone la necessità e un
tale, Fabian forse,
guardia del corpo come me. In più c’è
un altro uomo: mi è stranamente
familiare, anche se non saprei dire il perché. Devo fissarlo
un attimo di
troppo, poiché ghigna maligno, lanciando uno sguardo alla
sedia che si trova
proprio davanti al capo.
“Non
sei qui per essere accusato di nulla, non avere
paura, Tyler.” Gotti riprende a parlare, mentre mi accomodo,
rigido sulla sedia
e abbozzo un sorriso accondiscendente che, ne sono consapevole, esce
tirato e
finto. “Vogliamo solo capire.” Il tono con cui il
capo dice l’ultima frase mi
fa passare un brivido freddo lungo la schiena.
Non
so ancora come né perché ma potrei morire da un
momento all’altro!
Taccio,
non sapendo da cosa difendermi; quale accusa
grava sulla mia testa?
LoCascio
prende la parola: “Ti abbiamo fatto seguire in
questi mesi, Delarto. La sicurezza della famiglia
prima di tutto, lo sai.” Mi lancia un’occhiata,
tutt’altro che rassicurante,
prima di iniziare a camminare per la stanza. Gotti annuisce, mesto, e
scuote la
testa più volte.
“Clark
Velio ci ha riferito di alcuni tuoi strani
movimenti.” Il consigliere fa un cenno all’uomo in
piedi, vicino a me; io lo
squadro e lui sembra diventare piccolo piccolo nel tentativo di
scomparire
sotto l’occhiata inceneritrice che parte dai mei occhi.
La
consapevolezza di essere a conoscenza di quello che
stanno insinuando si espande veloce in tutto il mio essere. Ora capisco
perché
quell’uomo non mi era nuovo!
Deve
aver preso la lettera…
rifletto tra me e me, pensando ad una
scusa da propinargli.
Non
voglio metterli in pericolo, non è colpa loro.
Ragiono veloce ma nulla mi viene in mente: raccontare la
verità sembra la
prospettiva migliore, forse quella che può salvarci tutti e
tre, in realtà
quattro, dalla morte.
“Ci
puoi spiegare per quale motivo, ogni 11 del mese,
mandi dei soldi a una certa Mary Oldein e al figlio
Christian.” Chiusi gli occhi,
espirando forte: sapevano già tutto o quasi. Forse quel
quasi era persino peggio,
dalle loro facce si può intuire che cosa pensino:
tradimento, tentativo di
distruggerli dall’interno.
Prendo
un respiro. “Ho ucciso il marito.” Sputo fuori,
facendo più orrore a me stesso che a loro: è la
prima volta che lo ammetto ad
alta voce, senza sconti o giri di parole, solamente per ciò
che è successo.
Gotti
sbarra gli occhi, poi sorride compiaciuto. Io sento
di odiarlo in quel momento. Ho distrutto una famiglia e lui ride.
Continuo
a raccontare, accorgendomi che aspettano senza
voler intervenire. “Quando ero ancora in polizia, ci fu una
sparatoria. Ne
rimase coinvolto… per caso.” La pausa che faccio
non convince me, figurarsi gli
altri quattro uomini, abituati a mentire, più di quanto mai
lo sia stato il
sottoscritto. LoCascio mi squadra, intimandomi di continuare e per un
attimo mi
sembra quasi di sentire la fodera di una pistola venir sbottonata,
dietro di
me.
“In
realtà no. Mi stava cercando, era convinto che avessi
messo incinta la moglie e cercava la rissa, trovò la morte,
mettendosi in mezzo
tra la pattuglia e alcuni criminali che stavano rapinando una
banca.” Sospiro,
appena finisco di parlare, come se una minima parte di un macigno si
fosse
disciolta in quell’istante. Nessuno di loro sembra
soddisfatto e io non
capisco.
“Di
chi?” chiede Gotti, domandando quello che tutti e
quattro sembrano chiedersi.
“Cosa?”
mi esce naturalmente come un’esclamazione, quasi
con un tono aggressivo. Sto per scusarmi, ma il capo non fa una piega e
riprende a parlare.
“Se
non è tuo, di chi è? Il bambino.
Perché era convinto
che fossi tu la persona che cercava?”
Incrocio
gli occhi di Gotti e, per la prima volta, mi
sento suo pari e, pur non sapendo il perché, non ho
più paura.
“Mio
fratello. Uno stronzo che torna solo quando ha
bisogno.”
“Vi
assomigliate?”
“Fisicamente.”
Dico quella parola con un enorme
disprezzo. Odio essergli paragonato.
Gotti
sorride, poi ghigna e infine scoppia in una
fragorosa risata. Rimango basito ma resto immobile, chiedendomi che
cos’abbia
quell’individuo al posto del cuore.
“Quella
povera donna: marito morto, un figlio di soli
quattro anni e un bastardo in arrivo.” Si alza dalla sedia e
mi viene in
contro. M’irrigidisco, quando mi batte una mano sulla spalla
e dice ancora:
“Sei generoso ad aiutarla! In fondo, però, quel
bimbo sarà anche parte della
tua famiglia: tuo nipote!” Sforzo un sorriso in risposta,
mentre intorno a me
l’atmosfera diventa sempre meno fredda.
“Ti
direi di tornare a casa, ma già che sei qui…
parliamo
del Distretto 14 e di che cosa può fare per noi il tuo
amico.” Rabbrividisco
per il tono che utilizza e li vedo sghignazzare tutti in contemporanea.
E
mi pento di aver messo di mezzo Jack e capisco che devo
essere disposto, ora più che mai, a dargli qualcosa
in cambio.