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Autore: Widelf    08/01/2015    1 recensioni
La storia di una compagnia di tre individui, esponenti di tre razze nei canoni del più classico dei fantasy, alla ricerca di loro stessi e di qualcosa che potrà salvare o distruggere il continente di Ibira.
Torno a scrivere dopo un bel po' di tempo, spero di non essermi arruginito :)
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La compagnia di mercenari entrò nella città di Narburg a mattina già inoltrata. I guerrieri erano entrati dalla porta orientale della città, e adesso si trovava nel pieno di uno dei due quartieri umani, più precisamente in quello del mercato. Le persone che si aggiravano per il mercato guardavano quella strana accozzaglia di individui in armature consunte con diffidenza; in tempo di guerra le compagnie mercenarie non erano viste di buon occhio.
 
‹‹Okay ragazzi! Mattinata libera! Avete quattro ore di tempo per rifocillarvi, andare a donne e godervi la vita come meglio credete! Ci rivedremo nel cortile del palazzo imperiale, e poi chiederò udienza al capitano delle caserme per offrirgli i nostri servigi!››
 
La voce tonante che aveva pronunciato queste parole strideva con l’aspetto fisico di chi la possedeva: si trattava in effetti di un ometto alto non più di un metro e venti, molto tarchiato e ben piantato su due gambette tozze. Indossava un’armatura pesante che sembrava forgiata nella nuda roccia e che gli copriva ogni parte del corpo. Sulla testa era calcato un elmo della stessa fattura dell’armatura, sul quale spiccavano due corna spropositate, lunghe almeno un terzo della lunghezza totale del corpo. Da sotto l’elmo spuntavano capelli nerissimi e ondulati; sul viso troneggiava un nasone tozzo, sotto il quale si trovava una barba nera foltissima, intrecciata nei più disparati modi. Sulla schiena, l’ometto portava un martello da guerra finemente lavorato nella thraosite, un minerale giallastro che la diceva più lunga del suo aspetto fisico sulla sua razza. Non poteva trattarsi che di un Nano.
 
Nel suo ambiente, quello delle compagnie di mercenari, il Nano era conosciuto con il nome di Berforth Cornalunghe. Il suo soprannome era naturalmente dovuto alle corna sul suo elmo: Berforth amava raccontare a chiunque gli capitasse a tiro di averle strappate a un enorme toro a mani nude, ma nessuno sapeva dire se ciò corrispondesse a verità.
 
Berforth aveva costruito la sua compagnia di mercenari dopo l’esilio volontario dalla sua città natale, Garn Torum, che si trovava alle pendici del monte Neuz, interamente scolpita nella stessa pietra dell’enorme montagna. Se ne era andato da una delle poche roccaforti rimaste interamente di sangue nanico per via della caduta in disgrazia del suo clan.
 
La rigida società nanica era molto dura con i clan che vendevano le Antiche Gemme per sopravvivere; si trattava del crimine più grande che un clan potesse compiere, poiché le Antiche Gemme racchiudevano dall’alba dei tempi l’essenza stessa del clan, ciò che gli dei avevano voluto che il clan avesse per differenziarsi dagli altri. La condanna per il suo clan, colpevole proprio di questo crimine, era la damnatio memoriae del millenario nome che la sua famiglia portava: nessun membro della società poteva pronunciarlo accanto al suo, e anche dalle tombe dei suoi antenati veniva cancellato a suon di scalpello.
 
Non potendo sopportare una simile vergogna, Berforth aveva scelto di lasciarsi alle spalle il sangue del suo sangue e si era dato alla fuga. Per un periodo aveva servito come fante nella compagnia mercenaria di Tristen Occhi D’Angelo, distinguendosi per l’ardore e per lo spirito guerrafondaio che lo animava. Una volta messo da parte un discreto bottino, aveva lasciato la compagnia di Tristen con la sua benedizione e si era messo in proprio, reclutando giovani bellicosi e spinti dallo spirito di avventura.
 
La sfortuna però aveva continuato a perseguitare il povero Berforth: nessuno era disposto ad ingaggiare dei mercenari che non avessero mai combattuto una vera battaglia. Il nano aveva avuto seri problemi a pagare ogni singolo uomo che militasse nella sua compagnia e ben presto il tesoretto che aveva accumulato si era dissolto, e gli uomini che lo seguivano, stanchi di essere mal pagati e mal equipaggiati, lo stavano lentamente abbandonando.
 
Per questo Berforth aveva deciso, segretamente, che una volta raggiunta Narburg, la capitale dell’Impero degli Umani, avrebbe fatto arruolare nell’esercito regolare tutti i suoi uomini. Certo, la paga era quella che era, ma si trattava pur sempre di uno stipendio regolare, e la sete di avventura dei suoi ragazzi sarebbe stata saziata. Aveva comunque deciso di mantenere il più stretto riserbo sul piano, e avrebbe detto ai suoi soldati che il capitano delle caserme li avrebbe assunti come compagnia mercenaria, in modo tale da mantenere comunque la sua autorità su di loro.
 
“E’ tempo di rinfrescare questa vecchia ugola di pietra, per Qymdur” pensò il nano fra sé e sé, mentre trotterellava verso quella che sembrava una locanda piuttosto affollata. Appeso sullo stipite della porta, l’insegna del locale recitava “Il Picchio Brillo”.
 
Entrato all’interno del locale, Berforth si trovò immerso in un frastuono assordante di voci che urlavano, mani che sbattevano sui tavoli e l’onnipresente tintinnio dei boccali ricolmi di birra torbida che brindavano allegramente. Il nano si avvicinò al bancone e, facendo una bella fatica per salire sullo sgabello da umani (così appesantito dall’armatura com’era non si poteva di certo chiedergli di fare una prova di agilità) chiese all’oste una bella pinta di birra artigianale. Mentre aspettava che il boccale gli venisse portato, Berforth aguzzò le orecchie per cogliere qualche pettegolezzo sulla vita cittadina.
 
Riuscì a cogliere solamente qualche scampolo di conversazione.
 
‹‹Sì…sì, esattamente…un’imboscata. I Goliarkh si muovono verso sud…gli Elfi stanno perdendo la pazienza…cosa? Oh no, Dandelion è nella confusione più totale…››
 
A Berforth si drizzarono i peli sul collo. Sapeva che la spaventosa razza dei Goliarkh, giganti estremamente bellicosi, era in guerra con l’Impero degli Umani. Da mesi i Goliarkh razziavano le terre di Dandelion, lasciando una scia di sangue che si stava facendo sempre più consistente. Tuttavia, Berforth non sapeva che quelle creature, di solito abbastanza solitarie, si erano riunite sotto un’unica egida e che marciavano compatti verso il cuore dell’Impero. In più, gli era parso di capire che gli Elfi meditavano di ritirare il loro supporto.
 
“A onor del vero, questo significa più probabilità di essere arruolati. Il capitano delle caserme farà i salti di gioia quando ci presenteremo. Tuttavia, non mi piace questa storia degli Elfi…i maghi sono fondamentali in qualsiasi esercito. E gli Elfi sono maestri nell’arte magica. Se si ritirano, saranno guai grossi.”
 
Finalmente l’oste arrivò con il boccale di birra freschissima. Berforth si scolò il boccale in un batter d’occhio e ne ordinò subito un altro. Stette lì seduto, pensoso, fino all’ora dell’appuntamento con i suoi soldati, buttando giù boccali di birra come se non avesse bevuto nient’altro per interi anni.
Tornato al luogo nel quale si erano dati appuntamento, Berforth realizzò di essere piuttosto alticcio; un grave difetto dei nani era infatti quello di reggere davvero poco l’alcool, in particolar modo quello di produzione umana. Inoltre, nessuno dei suoi uomini si era presentato; molto probabilmente la città li aveva già sedotti abbastanza da indurli a lasciar perdere quel nano e la sua paga da quattro soldi, in favore delle gioie mondane che Narburg sapeva offrire. Berforth aspettò per un’altra mezz’ora buona, e una volta resosi conto che nessuno sarebbe venuto, si incamminò imprecando verso le caserme, intenzionato ad arruolarsi comunque. Sapeva che le caserme erano adiacenti al Palazzo Imperiale.
 
Con andatura caracollante, Berforth cominciò a risalire le viottole del mercato, tenendo come punto di riferimento l’altissima torre bianca del Palazzo Imperiale. Dopo aver camminato, non senza difficoltà e sbandamenti, per un bel pezzo di tragitto, arrivò finalmente all’edificio delle caserme. Si trattava di una struttura piuttosto piccola, addirittura minuscola se rapportata alle dimensioni della torre del Palazzo, preceduta da uno spiazzo ricolmo di umani in armatura, che si stavano allenando colpendo manichini con armi di legno.
 
‹‹Sholdato! Dimmi dove trovo quella ca-ca-canaglia del tuo capitano, che Avtosh she lo porti.››
 
Così Berforth apostrofò un ragazzo in armatura, molto giovane, smunto, con la faccia piena di brufoli e gli incisivi sporgenti. Quello lo squadrò e poi gli fece un cenno col capo verso l’ingresso dell’edificio.
 
Berfoth si diresse in quella direzione e, mentre si apprestava ad aprire la porta dell’edificio, la porta stessa lo colpì sul naso, così forte da buttarlo in terra.
 
Pallini di luce colorata gli esplosero nella testa, oscurandogli per attimo la vista. Quando si schiarì le idee, Berforth vide davanti a sé quello che gli parve un gigante in piena regola, così buttato a terra com’era. L’uomo era di stazza davvero impressionante, vestito con una cotta di maglia da capo a piedi che a stento conteneva la muscolatura possente. Aveva la pelle del colore dell’ebano e un lucido cranio calvo. Il gigante aprì la bocca e gli parlò.
 
‹‹Questa è bella! Ho appena accoppato un nano!››
 
‹‹Che Avtosh ti porti, io ti shpezzo le osha, dannato gigante, fosse l’ultima cosha che fascio!››
 
‹‹Doppiamente divertente!›› lo derise l’uomo ‹‹Ho accoppato un nano, e per di più ubriaco!››
Berforth si rialzò da terra, furibondo, e cercò di prendere il suo martello da guerra, con l’unico risultato di sbilanciarsi all’indietro e cadere di nuovo.
 
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata. ‹‹Stai calmo, campione. Stai parlando con Rawkin, capitano delle caserme imperiali.››
 
‹‹E tu shtai parlando con Berforth Cornalunghe, shpaccone! Ho shtrappato queshte corna a un dannato toro, anzichenò! Gigante dei miei shtivali!››
 
Rawkin corrugò un sopracciglio. ‹‹Ti sei messo nei guai, caro il mio gradasso. Nessuno mi insulta impunemente.››
   
 
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