#3. Bellamy [1x08]
"My mother, if she knew what I've done, who I am. She raised me to be better. To be good. And all I do is hurt people. I'm a monster."
Bellamy Blake (The 100 – 1x08)
C'è
stato un momento in cui mi sono accorto che la mia vita non aveva
alcun senso, che ero nient'altro che un uccello con le ali spezzate
in caduta libera, ed è stato quando ho capito di non sapere
più chi
fossi. Avevo perso la mia identità, i miei valori; mi ero
ritrovato
catapultato in un corpo che sembrava il mio, con un'anima che certo
non mi apparteneva. Ero prigioniero delle circostanze, eppure una
martellante voce nella mia testa mi ripeteva che tutto ciò
che era
andato storto dipendeva da me. C'è sempre una via d'uscita,
c'è
sempre un'alternativa: se c'è una strada sbagliata, ci deve
sempre
essere un'alternativa giusta. La vita non è fatta di bianco
o di
nero, mi diceva.
L'essere
costretto a fare qualcosa, non rende meno gravoso il peso della
responsabilità: se questo qualcosa è sbagliato,
continua ad
esserlo, che sia giustificato o meno. La vita non è semplice
come si
spera, non lo è mai.
Se
fai qualcosa di sbagliato, che sia giustificato o meno, sei
irrimediabilmente un peccatore. Se continui a farlo sei un pericolo.
Se diventa la tua prassi, sei un mostro.
Io
ero andato contro tutto ciò che mi era stato insegnato per
salvare
quell'unica cosa che mi faceva sentire in qualche modo vivo: mia
sorella. L'amore per lei era la parte migliore di me, quell'unica
nota armoniosa in una cacofonia di dolore. Lei era stata il mio
segreto e, in un qualche modo, il fatto che nessuno sapesse di lei
l'aveva protetta dall'essere contaminata dallo sporco del mondo. Lei
era pura, come nessun'altro sulla Terra poteva sperare di essere: era
pronta a difendere le proprie idee, era coraggiosa ed equilibrata,
incline ad amare e vedere il buono in chiunque, e questo proprio
perché non era venuta a contatto con nessun essere umano a
parte me
e mia madre. Aveva vissuto nella bolla di sapone che le avevamo
costruito attorno, protetta nella sua campana di vetro come la rosa
del Piccolo Principe. E poi, d'un tratto, quella bolla era scoppiata,
scagliandola in un mondo per il quale non era pronta, lasciata da
sola ad affrontare orrori che non avrebbe mai potuto immaginare. In
che mondo io sarei potuto restarne fuori? In che mondo avrei potuto
lasciarla sola con se stessa? Avevo sentito la rabbia e la follia
scoppiarmi dentro, assieme a quel senso di protezione che le dovevo
anche solo per essere venuta al mondo. Lei era una cosa pura, la mia
cosa pura, l'unica cosa bella della mia vita. Come avrei potuto non
agire?
Tutto
ciò che era venuto dopo era stato per spirito di
sopravvivenza.
Uccidere non era mai stato nei miei piani. Ogni essere umano sa di
non poter privare nessun altro della vita; c'è chi fa finta
che non
sia così, ma nessuno si prende una vita senza pagare caro il
prezzo.
Uccidere non è semplice come si pensa. Uccidere non
è solo premere
un grilletto e restare a guardare; vuol dire mutilare se
stessi, recidere un pezzo di anima che non tornerà mai
più
indietro. Ogni uomo o donna a cui togli la vita ti strappa via un
pezzo della tua umanità e ti porti appresso i suoi occhi,
incisi
nella carne, fino alla fine dei tuoi giorni. Di notte, quando il
resto del mondo dorme, i tuoi occhi restano sbarrati, fissi nel
vuoto, mentre le orecchie ti fischiano per quegli insistenti
sussurri, che si insinuano nelle tue orecchie e penetrano nelle
profondità del tuo cervello. Le senti vibrare, quelle voci,
come i
puntuali rintocchi di un orologio, come il battito del tuo cuore. E
assieme al sangue e alle lancette che si spostano, senti fluire
nelle tue vene l'acido della malvagità, del peccato, del
rimorso. La
sicurezza di aver agito per una buona causa non può
purificarti né
rincuorarti. La morte ti scarnifica, piano piano, fa invecchiare la
tua anima di colpo, ti riempie le vene e le vie respiratorie di
sofferenza e dolore, ti incide nella carne e nelle ossa quelle parole
che ti martellano nella testa. Assassino. Mostro.
Pericolo.
Non
provavo alcuna soddisfazione del vedere la luce spegnersi nei loro
occhi, la vita fuggire col loro ultimo respiro. Non era ciò
che
volevo, ma era ciò che continuavo a fare, una volta dopo
l'altra.
C'è sempre un'alternativa. Allora perché non
riuscivo a vederla?
Perché tutto ciò che potevo fare era infierire
sul poco di umanità
che mi restava per poi crogiolarmi nell'autocommiserazione? Se ero
davvero un mostro, perché tutto mi provocava una tale
sofferenza? Se
non lo ero, perché non cercavo un'altra soluzione?
Se
nessuno poteva salvarmi, neanch'io, aveva senso cercare di
sopravvivere?
Se
non sapevo più chi ero, se avevo perso me stesso, allora ero
ancora
vivo? Ero ancora qualcuno?
Tutto
ciò che sapevo me lo dicevano quelle voci, litanie lontane e
leggere, martellanti e confuse. Tutto ciò che sapevo era che
ero un
assassino – che fossi giustificato o meno
–, un pericolo –
per me stesso o per gli altri? –, un
mostro – ma lo ero
irrimediabilmente?
Angolo Autrice:
Eccoci, con questo terzo capitolo e uno dei personaggi che mi piacciono maggiormente. Bellamy all'inizio non mi faceva impazzire, ma quando ha dimostrato un'umanità e una debolezza maggiori rispetto a quelle che sembrava avere all'inizio ho irrimediabilmente cambiato idea su di lui. È un personaggio complesso e dalle molte sfaccettature, io ho cercato di indagare sul suo lato debole e "colpevole", sperando di aver fatto un buon lavoro. Il tratto che maggiormente lo contraddistingue è sicuramente l'amore per Ottavia, e non potevo evitare di nominarlo. Un'unica nota da fare: so che probabilmente Bellamy non avrebbe modo di conoscere il Piccolo Principe, ma mi piaceva l'idea che certe storie restano con l'umanità sempre, anche dopo cent'anni di vita nello spazio, anche dopo disastri ed esodi vari. Ci sentiamo presto, con il prossimo capitolo su Marcus Kane. Baci!