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Autore: dream_more_sleep_less    22/01/2015    1 recensioni
A diciotto anni non si sa mai esattamente cosa si voglia dalla vita, né chi si voglia diventare. Si passa il tempo a porsi domande accompagnate da porte in faccia, e rimaniamo indecisi fino all'ultimo. Leeroy invece è cresciuto con la convinzione di poter diventare esattamente ciò che vuole: un calciatore. Non ha mai voluto altro e non ha mai sognato altro. Gli studi non fanno per lui. La sua presunzione lo porta a distruggere i sogni della squadra del suo liceo proprio alla finale di campionato. Ha deluso soprattutto i compagni che stanno ormai per diplomarsi. Per loro non ci sarà un'altra possibilità, sono arrivati all'ultimo giro di giostra. Alla fine scenderanno da vincitori o da perdenti. Dipenderà tutto da Leeroy, che dovrà riuscire a mettere le redini al suo ego per andare d'accordo con il portiere. Secondo lui, Lance è la vera causa della loro sconfitta.Troppo calmo, troppo sicuro di sé. Ma il loro rapporto dovrà cambiare per permettere ad entrambi e al resto della squadra di guadagnarsi il titolo di campioni. { In corso }
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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The last chance
IX

 

C'erano state troppe novità tutte in una sola volta: Leeroy si sentiva come se avesse preso una botta in testa. Stranamente Stan aveva accettato l'assurda proposta di Abigail, dopo il ritorno di Liam e Kurt l'uomo sembrava più incline ad assecondare le sue richieste, cosa mai accaduta prima di allora.

Avevano iniziato da poco e stavano facendo i consueti giri di campo; non c'era nulla di strano, se non il fatto che Abigail gli si era attaccata alle costole e sembrava non volerlo mollare. Akel e Daniele correvano dietro di loro e allo stesso tempo confabulavano tra di loro, come due vecchiette ad un circolo di cucito; e, come se non bastasse, il capitano si voltava ogni tanto per lanciare occhiate atroci al difensore.

“Non ti avevo detto che non ho assolutamente intenzione di fare da balia a te e Reginald?”, chiese scocciato. La ragazza non rispose, sembrava assorta nei suoi pensieri.

“Si può sapere che hai?”

“Niente”, rispose lei, aumentando il ritmo e lasciando indietro il ragazzo.

Stranamente era taciturna: di solito gli veniva il mal di testa per tutto quello che diceva. Il turco e l'italiano sghignazzavano alle spalle del terzino.

“La piantate? Non vi sopporto più”.

“Calmati, stiamo solo scommettendo sulla possibilità che Miles ti spacchi la faccia dopo gli allenamenti”.

“Ancora con questa storia? Avete rotto le palle, basta. Non posso nemmeno aiutare una persona che iniziate a lagnarvi come delle checche”, sbottò all'improvviso. Non aveva voglia di stare a sentire ulteriori critiche sui suoi modi di agire. Raggiunse la ragazza subito dopo, lasciando gli altri indietro. Akel e Daniele si guardarono quasi sconvolti: non si aspettavano una risposta simile. Avrebbero immaginato un “vaffanculo” gratuito.

 

“Smettila di pensare a lei, stai diventando ridicolo”, sospirò Lance annoiato mentre faceva i piegamenti sull'erba. Lentamente aveva iniziato ad avanzare l'autunno: non avevano più i problemi a causa del caldo come l'estate durante gli allenamenti. Il cielo era pieno di nubi che minacciavano pioggia, sarebbe stato un vero problema se avesse cominciato a piovere. Non poteva andare a casa a piedi.

“Non dire cavolate. Sono solo stupito per il fatto che Stan la lasci allenare con noi”, disse con una alzata di spalle prima di dare il cambio all'altro.

“Certo, e non stai tipo maledicendo Rogers perché in questo momento lo preferisce a te”.

Il capitano lo fulminò con uno sguardo e il rosso scoppiò a ridere. “Visto che ho ragione? Smettila di fare così, te l'ho detto già mille volte”.

“Senti, con lei ci ho provato a parlare, ma quella scema di Rebecca si è messa di mezzo”.

Spostando lo sguardo vide Kurt cambiare posto assieme a Liam e mettersi vicini alla ragazza e al terzino; quasi si sentì morire, mentre Lance continuava a ridere.

“Cosa vuoi fare ora? Ammazzare tutti i tuoi compagni di squadra?”, chiese il portiere cercando di essere il più serio possibile.

 

“Allora Abi, come mai ti alleni con noi?”, domandò Kurt mentre faceva gli addominali. Inutile dire che stava solo cercando di mettersi in mostra agli occhi di lei.

La ragazza finì il suo esercizio prima di rispondere. “Mi hanno sospesa dagli allenamenti per un po', quindi vi farò compagnia”. Diede il cambio a Leeroy, che si sdraiò, mentre la ragazza gli teneva ferme le caviglie.

“Hai bisogno anche di allenamenti privati? Io sarei disponibile”, propose con aria maliziosa. Il difensore era già pronto a rispondergli ma la pallavolista fece prima di lui.

“No grazie, non penso di averne bisogno. Non ho passato il tempo ad oziare in Spagna a bere sangria”, esordì con tono cristallino e un enorme sorriso stampato in faccia.

Liam e Leeroy scoppiarono a ridere stesi sul terreno. “Si vede così tanto che non abbiamo fatto nulla?”, chiese Kurt imbarazzato. La ragazza cercò di contenersi dal ridere in modo esagerato come facevano le compagne della sua età. Lei odiava farlo.

Leeroy non poteva che darle ragione: Liam e Kurt avevano fatto uno scambio culturale all'inizio di giugno ed erano rimasti a Barcellona per quattro mesi andando anche a scuola. Il difensore non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Odiava le lingue. Odiava lo studio. Socialmente l'idea di dover andare in un'altra nazione a studiare lo terrorizzava. Era più il tipo da divano e partita che da avventura fuori casa. Probabilmente sarebbe andato all'estero solo se reclutato da un'importante squadra tedesca o italiana.

“Almeno vi siete divertiti o avete passato il tempo solo a studiare?”, domandò.

“Certo che hai proprio una brutta opinione di noi, Roy”.

“Siete due secchioni”.

“A te studiare un po' non farebbe male, sai?”, lo stuzzicò Abigail, ridendo.

*

Finiti gli allenamenti, Abigail fu la prima ad andarsi a cambiare, e subito dopo scappò a casa, salutando tutti tranne Miles.

“Ti si è spezzato il cuore?”, domandò Lance al capitano in un orecchio, senza farsi sentire.

“Fottiti”, rispose cercando di mantenere la calma. Non aveva paura della cosiddetta concorrenza, che poi non poteva nemmeno chiamarla così: Abigail era una buona amica, non poteva vedere Leeroy come un usurpatore. Lei era libera di frequentare chi meglio credeva.

“Guarda che lo scemo è bello, non ti sei accorto di quante ragazze gli vanno dietro?”, commentò ancora Lance con una punta di malizia.

“Ti diverti a farmi perdere la pazienza?”

“No, però ora pagherei per vederti solo con lui mentre devi dargli ripetizioni”, ripose scoppiando a ridere.

 

“Che facciamo stasera?”, chiese Akel, “non ho voglia di andare a letto come le galline, è solo giovedì”. I ragazzi si stavano cambiando lentamente quel giorno; erano tutti senza energie, ringraziavano il cielo che era finalmente quasi fine settimana.

“Io niente, me ne vado a letto. Se volete vi accompagno dove volete, ma poi vi saluto”, sbottò Leeroy, con un tono quasi infastidito.

“Sei nervoso perché Abigail è già andata via?”, scherzò come suo solito Daniele.

Si chiese come potessero minimamente pensare che lui fosse in qualche modo interessato alla ragazza. Sapeva che scherzavano, ma erano sempre più insopportabili. Non moriva dalla voglia di vedere l’espressione di Miles una volta che sarà arrivato al limite della sopportazione. Solo un idiota non si sarebbe accorto della gelosia e rabbia repressa nei suoi confronti. E quell’idiota era Daniele. Vide Reginald con la coda dell’occhio che cercava di trattenersi dall’aprir bocca. Il capitano non avrebbe mai creato un motivo di lite nella sua squadra, ma interiormente sapeva che gli sarebbe venuto a parlare. Sperò solo che tutto quello non avrebbe impedito Miles dal dargli ripetizioni, perché in fondo un po’ ci sperava in un suo aiuto.

“Ora basta, o ve ne andate a piedi”, disse con tono alterato Leeroy. Daniele capì subito che non stava ironizzando. Che lo avesse irritato fino a quel punto? Stava per sdrammatizzare quando Kurt si fece avanti: “Ragazzi, non vi preoccupate, vi portiamo noi. Tanto volevamo andare a fare un giro per pub”.

“Oh! Veniamo con voi allora”, Rispose con enfasi Akel senza pensarci due volte.

“Allora muovetevi”, aggiunse Liam ormai quasi pronto.

Leeroy lasciò perdere tutti finendo di cambiarsi. Dopo aver legato i lacci delle scarpe, notò con la coda dell’occhio Reginald che usciva, sbattendo la porta. Lance aveva provato a fermarlo senza successo; lo vide girarsi puntando lo sguardo nel suo. Ora mi ammazza!, pensò deglutendo. Il portiere però distolse subito gli occhi, che subito dopo gli sembrarono più sorpresi che arrabbiati.

“Tu non vuoi proprio venire, vero?”, domandò nuovamente Kurt.

“No, grazie. Vado a casa”.

Quando si voltò di nuovo verso l’uscita, il portiere era sparito senza nemmeno salutare. Rimase colpito. Sicuramente era corso dietro a Miles per tentare di fargli passare la fase da “maritino geloso”, causata dai suoi migliori amici. Per un istante l’idea di andarsi a scusare gli attraversò la mente, ma qualcosa la rispedì subito da dove era uscita: il buon senso. Sarebbe certamente stata una cosa cortese, ma non l'avrebbe fatto. Quella pagliacciata non era stata ideata da lui, anche se vi era finito in mezzo per colpa dei due diretti interessati. Pertanto non aveva voglia di calarsi ulteriormente in quel ruolo, che nemmeno gli si addiceva.

“Sei peggio di una vecchietta”, commentò acidamente Akel sentendosi scemare il buonumore.

Leeroy guardò gli amici. Certe volte gli passava la voglia di vederli, quello era il motivo principale dei suoi giorni, o addirittura mesi sabbatici dove staccava internet e il cellulare vivendo come un eremita. In certi momenti avrebbe voluto esserlo sulle Highlands scozzesi, lontano da tutto e tutti.

“Ci vediamo domani a scuola, fatemi il piacere di non ubriacarvi”, si raccomandò gettando un’occhiataccia a Liam e Kurt. Li conosceva bene. O meglio, lui era uno di quelli che cercava di fare concorrenza ai due quando si trattava di bere, ma ogni volta dopo il quarto bicchiere cadeva in catalessi. Erano i due festaioli per eccellenza. Anche se Liam, da quando stava con Michelle, aveva messo la testa in cassetta. Dopo l’ultima festa a cui aveva partecipato aveva deciso di darci un taglio, o sarebbe finita male. Leeroy si sarebbe per sempre ricordato la faccia di Amanda, a metà tra il disgusto e la rabbia quando, rientrando a casa alle 4 del mattino, aveva vomitato sul divano di vera pelle in salotto. Non reggeva proprio l'alcol. Liam e Kurt quella sera avevano assistito alla scena, e avevano riso come due matti fino a che la signora Rogers non li sbattè fuori di casa dopo aver chiamato un taxi. Leeroy aveva passato la notte nel bagno a vomitare.

“Non preoccuparti, con noi sono in buone mani!”, commentò Liam sorridendo come un bambino. “E’ di questo che mi preoccupo infatti!”, sospirò incamminandosi alla porta.

“Non preoccuparti, ci sarà anche Michelle con noi”, esordì Julio comparendo quasi dal nulla.

“Che? L’hai chiamata?”

“Sì almeno porta la sorella”, rispose lo spagnolo facendo l’occhiolino all’amico.

“No, me ne vado a casa anche io allora”, fece Liam. Anche se Michelle era la sua ragazza e non si vedevano da un po’ di mesi, non voleva uscire assieme a lei se c'erano anche gli altri. Era un gruppo che semplicemente non funzionava e portava solo guai. Soprattutto per colpa della ragazza e della sua lingua lunga, o meglio per i suoi commenti acidi su tutto. A lui piaceva proprio per quel motivo, perché era spregiudicata e aveva sempre un'opinione. Era difficile farla tacere, a differenza di molte altre ragazze con le quali non si poteva parlare al di fuori di trucco e vestiti. Ma non significava che fosse lo stesso anche per le altre persone: Kurt, ad esempio, la trovava irritante, e finivano sempre a litigare.

“Dove pensi di andare? Se non vieni, non verrà Michelle e di conseguenza addio a Sarah. Perché vuoi fare questo ad un tuo amico!?”

“Ragazzi, sbrigatevela da soli. Ciao”, fece il difensore, al limite della sopportazione. Leeroy non poteva farsi fermare ogni volta da quelle sceneggiate, gli facevano perdere solo tempo. Fuori dallo spogliatoio, il sole era già tramontato e una brezza gelida gli carezzò subdolamente il collo. Rabbrividì solo perché il corpo reagiva di conseguenza. Finalmente stava arrivando l’inverno.

''Rogers, mi dai un passaggio?''.

Leeroy si girò verso l'entrata dello spogliatoio e trovò Lance appoggiato di schiena al muro con una sigaretta tra le labbra e iĺ borsone gettato ai suoi piedi. ''Da quando fumi?'', domandò sorpreso.

“Ogni tanto me lo concedo”, rispose in un soffio di fumo prima di gettare la sigaretta a terra. Dopo di che si avvicinò al difensore. ''Dicevo. Mi accompagneresti a casa? Miles mi ha lasciato a piedi, grazie ai commnti di Balboa”, spiegò con tono piatto.

“Come vuoi”, rispose semplicemente: non aveva voglia di discutere anche con lui.

Lance raccolse il borsone e lo seguì al parcheggio.

Saliti in auto, il portiere domandò se potesse fumare nell'abitacolo. Il difensore annuì. Adorava la sua Range Rover Sport, ma non era una di quelle persone che odiava l'odore di fumo, come sua madre per esempio. Intanto aveva messo in moto la macchina e si era unito al traffico dell'ora di punta in città.

''Sai che Miles è ad un passo dal prenderti a pugni?'', chiese distrattamente Lance, come se la cosa non lo toccasse minimamente.

''Ma sai che non lo avevo capito?'', rispose ironicamente l'altro. ''Se quell'idiota mi desse retta, invece di incazzarsi con me, non sarebbe di certo scappato a casa''. Non potè fare a meno di essere schietto. Sperò che Lance non si aspattasse delle scuse da parte sua, perché in quel caso lo avrebbe deluso.

''Non sei l'unico che glielo fa notare. Dice tanto di te che non gli dai retta, e poi non riesce a gestire una cavolata del genere”. Anche il portiere diede voce ai suoi pensieri senza riserve.

Leeroy si chiese l'utilità che potesse avere quella conversazione: Lance avrebbe dovuto sapere che non ci avrebbe mai provato con Abigail. O meglio, Miles avrebbe dovuto saperlo. Paradossalmente la secondogenita di casa Twain era una sua vecchia conoscenza e una cara amica da tempo immemore. Molti dei guai che aveva combinato avevano anche lei come complice. Negli ultimi anni però si erano persi di vista.

“Te lo dico ora e non lo ripeterò ancora. Quindi se vuoi una prova fai una registrazione e falla ascoltare a Reginald”.

Lance lo guardò sorpreso.

''Non potrei mai e poi mai baciare o fare sesso con Abigail. Andavamo all'asilo insieme, sarebbe come baciare mia cugina”, disse con tono irremovibile.

“Guarda che con me non devi giustificarti”.

“Da come ne parli però sembrerebbe il contrario”.

La discussione finì per quel momento, in quanto il difensore era troppo preso dal traffico per poter rispondere ad ulteriori domande.

“Potresti fermarti al prossimo incrocio?”, chiese il portiere quasi allarmato. “Parcheggia davanti al bar. Mi sono scordato di prendere i turni per la prossima settimana”, spiegò subito dopo. Di solito era molto responsabile, ma il giorno prima era corso velocemente a scuola e aveva dimenticato di prendere la tabella.

Rogers sbuffò maledicendosi per aver voluto accompagnarlo.

“Che palle Lee. Se entri e fai il bravo ti offro un caffé”, disse con un tono volutamente simile a quello di una madre che parla al figlio capriccioso.

Il difensore sbuffò nuovamente e si fece coraggio. Un espresso era ciò di cui aveva bisogno.

 

Parcheggiò davanti al locale nel posto adibito al carico/scarico merci. Lance gli disse che si sarebbero trattenuti giusto il tempo necessario per un caffè. Scesi dall’auto, il rosso fece strada dentro il locale. Si trattava di un piccolo bar che apriva prima dell’alba per le persone che andavano presto a lavoro, o per i ragazzi che rientravano da festeggiare il sabato e la domenica mattina. Leeroy pensò che il portiere non dovesse avere tanto tempo per il divertimento dopo aver dato un'occhiata veloce agli orari. Dentro si respirava un piacevole profumo di caffè e di aromi per dolci. “Viene fatto tutto a mano?”, domandò incuriosito. “Sì, dicono che facciamo i muffin più buoni della città”, rispose distrattamente l'altro, dirigendosi verso la stanza adibita al personale. “Siediti pure e ordina quello che vuoi, faccio in un attimo”, aggiunse poi, chiudendosi la porta alle spalle.

Leeroy ne approfittò per guardarsi un po’ intorno. Non c'erano tanti tavolini, erano giusto una decina. Si sedette ad uno vicino al banco dei dolci. Le pareti erano ricoperte da carta da parati argento con ghirigori a forma di ginestre e fiori di ciliegio, alternate a zone dipinte a righe nere e bianche. Quel posto sarebbe sicuramente piaciuto a Jo. In effetti un po' di fame l'aveva.

Un uomo arrivò a prendere la sua ordinazione: doveva trattarsi del proprietario, a giudicare da come parlava con i clienti. ''Sei un amico di Lance?'', domandò sorridente. Era un signore sulla quarantina vestito come un cameriere di un hotel importante, con tanto di cravatta e gilet nero. “Giochiamo nella stessa squadra”.

“Spero che quest'anno riusciate a vincere”.

“Abbiamo buone possibilità”.

“Cosa ti posso portare?”, domandò gentilmente.

Leeroy guardò distrattamente il centrotavola, non capendo come estrarre il menù. L’orchidea che stava a mò di decorazione lo fece rabbrividire: era uguale a quelle che comprava sua cugina da piccola per fargli delle coroncine. Si era sempre domandato perché diavolo sua zia avesse avuto solo una femmina: se avesse avuto anche un altro figlio, Jo non avrebbe traumatizzato la sua infanzia. Sicuramente la cugina aveva ancora delle foto nascoste chissà dove. Rabbrividì di nuovo, pensando se fossero finite in mano di sua madre. Sperò vivamente di no!

Capì poco dopo che doveva semplicemente schiacciare la clip. ''Intanto un espresso, un bicchiere d'acqua... e gradirei una fetta di cheesecake con la frutta di stagione”, disse con un sorriso di gratitudine e cortesia. Era una di quelle cose che gli riuscivano bene.

Lance, che aveva assistito alla scena, non rimase stupito dai modi di fare del difensore, si immaginava avesse dei modi così ben educati, in fondo. La cosa lo innervosì un po'. La sensazione di stare cadendo in un buco nero lo colpì come una doccia gelata. Si era ripromesso di non coltivare quel sentimento di gelosia nei confronti delle altre persone, ma vedendo Leeroy ordinare si sentì fuori posto persino nel locale dove lavorava. Eppure l'altra volta non era andata allo stesso modo, anche se allora i loro rancori erano più presenti che mai. Scosse la testa come per scrollarsi quella sensazione di dosso.

“Jack, a me porti un cappuccino, per favore?'', chiese al suo capo. L'uomo annuì.

“Domani ricordati di portare la pendrive con il nuovo menù della settimana”.

“Non preoccuparti”.

Si sedette di fronte al difensore, che continuava a guardare la carta; gli sembrò molto concentrato. Forse era uno di quei amanti dei dolci come Adam o sua sorella.

“Li prepari anche te?”, domandò sovrappensiero Rogers, chiudendo il libricino.

“No, faccio solo le bevande e servo ogni tanto”.

Rimasero in silenzio fino all'arrivo delle ordinazioni. Non avevano molto da dirsi in fondo, o almeno così pensavano.

“Ecco a voi, naturalmente offre la casa”, disse Jack facendo l'occhiolino a Leeroy, poi se ne andò con un sorriso malizioso. Il ragazzo rimase interdetto, non capendo il significato di quel gesto.

“Pensi che Miles mi darà comunque le ripetizioni?”. Notò che il rosso non aveva versato zucchero nel suo cappuccino. La cosa lo disgustò un po': personalmente non riusciva a berlo amaro, quel sapore forte lo infastidiva.

“Certo che sei proprio un opportunista”, commentò scherzando, ma ciò non tolse che stesse dicendo la verità.

“Non sono un opportunista è lui ad essersi preso un impegno”.

“Allora ti consiglio di chiarire con lui”.

Lance si stupì nell'udire quelle parole: che il compagno di squadra ci tenesse infondo ai suoi risultati scolastici, o era una scusa solo per poter disputare le partite? Non voleva pensarci troppo, non erano affari suoi, ma lo innnervosiva il suo comportamento nei confronti di Reginald.

“Cosa ne sai te di queste cose poi? Non sai nemmeno come si trattano le ragazze”, commentò irritato il difensore dopo qualche momento.

Il portiere inarcò un soppracciglio, spiazzato da quell'uscita. “Scusa ma che centra?”, rispose con lo stesso tono.

“Quella ragazza ci ha provato con te e l'hai trattata con sufficienza, ed era bella. Che hai nella testa?”, domandò prima di addentare il dolce che gli era appena stato servito per la rabbia. Il rosso si chiese a cosa potesse mai servire quell'esempio.

“Ma sei scemo? Non sono affari tuoi ciò che faccio. Ma se vuoi saperlo, non è il tipo di persona con cui potrei avere una specie di relazione, se così la vuoi chiamare”, fece con tono ancora più irritato del dovuto. Odiava le domnde personali, specialmente da persone che non sapevano nulla di lui e si preparavano a gettare giudizi come se fossero elemosina.

Leeroy non si agitò e non alzò la voce; lasciò finire l'altro mentre sorseggiava il suo espresso con un cucchiaino e mezzo di zucchero.

“Sarai mica gay?” chiese allora innocentemente, dopo aver riappoggiato la tazzina sul piattino, guardandolo finalmente negli occhi.

Se prima il portiere era irritato e quasi furibondo, ora si era stranamente calmato. Puntò a sua volta lo sguardo in quello dell'altro.

“Potrei dire lo stesso di te”, rispose con una calma irreale.

“Non sono una persona che lancia pregiudizi a cazzo come i miei due amici”.

Ed era vero: voleva solo infastidito un po'. Non gli fregava nulla della vita sessuale del portiere, o meglio, della sua vita privata in generale. Gli piaceva punzecchiarlo, e lo divertiva il fatto che fosse l'unico a fargli perdere le staffe.

“Non si direbbe”.

“Senti, non ho intenzione comunque di parlare con Reginald. Se la deve vedere lui. E' carino che tu voglia prendere le sue parti, lo avrei fatto anche io, ma non delicatamente come stai facendo tu”.

Lance si massaggiò le tempie. Si sentiva tutte le energie prosciugate solo per aver parlato con quel cretino. Non gli interessava cosa pensasse di lui, ma odiava le sentenze.

In quel mentre arrivò Jack. “Ragazzi tutto bene? Ho notato un po' di tensione, non vorrei che vi prendeste a pugni del locale”, scherzò.

Il rosso maledì mentalmente Leeroy per avergli fatto fare brutta figura con il capo.

“Non preoccuparti, non è così stupido da picchiarmi in un locale pubblico... anche se in realtà è già successo”.

“Ah già, al pub vicino alla pizzeria di Daniele a marzo... Non posso più metterci piede”, raccontò con un sospiro di delusione. Gli piaceva quel locale, avevano una buona birra e bella musica.

“Nemmeno io posso metterci più un piede dentro, grazie a te”.

*

Adam arrivò mezz'ora prima della chiusura del locale. Lo faceva spesso. In realtà era la sua passione per quei muffin fatti in casa e per il cappuccino a spingerlo là ogni volta. Entrò facendo un cenno di saluto a Jack, che stava parlando e scherzando ad un tavolo con tre ragazze; doveva aver già finito il turno e si stava godendo una buona compagnia. Si sedette al bancone dove Lance stava preparando dei cappuccini. “Buonasera!”, disse per attirare l’attenzione del ragazzo più giovane.

Il portiere lo guardò poco sorpreso, si aspettava che arrivasse in anticipo. Sapeva già cosa voleva. “Il solito?” chiese prendendo i cappuccini e avviandosi al tavolo che li aveva richiesti.

“Altrimenti non sarei qua”, rispose con un’aria furba da ragazzino. Adam Twain era più grande di lui di tre anni, ma per certe cose sembrava un bambino di dodici anni. Ringraziò solo di non lavorare in una gelateria o in un ristorante. “Oggi devo fermarmi mezz’ora di più, ho l’inventario da fare e Jack tra poco va via”, lo avvisò.

“Nessun problema”. Twain si alzò e andò a sedersi ad un tavolo che si era appena liberato vicino alla parete destra. Notò che il proprietario aveva rinnovato i centrotavola: fino a una settimana prima c’erano delle statuette di terracotta che raffiguravano pesci e stelle marine. Aveva sempre trovato le altre statuette troppo appariscenti. Ora invece vi erano delle piccole orchidee azzurre e rosa in vasetti in vetro nero e bianco, a lato dei quali vi era come una clip fatta in modo da tenere il menù del locale. Ad Abigail sarebbero piaciute, magari poteva farsi dire dove le aveva prese e comprarne un paio per la sorella.

Fu riportato alla realtà dall’arrivo di Lance. “Ti è permesso restare qua solo perché stai simpatico a Jack”, disse con tono duro il rosso, appoggiando cappuccino e il muffin ai mirtilli sul tavolo. Adam rise.

“In realtà posso perché Jack era a scuola con mio padre, e sa dove venirmi a prendere se dovesse mancare qualcosa dall’incasso”.

Il giovane lo guardò con sguardo torvo. Adam sembrava non badare mai molto alle minacce degli altri: solo le minacce reali lo spaventavano, come poter finire in galera o prendere una multa. Un ragazzo avrebbe anche potuto minacciarlo di morte e lui non si sarebbe scomposto, lo avrebbe guardato in faccia e avrebbe riso. Lance a volte si chiedeva se non vivesse in un suo mondo, fatto di quadri, musica ed erba.

“Allora mettiti comodo e aspetta che vadano via i clienti”. Lance si allontanò andando a servire le ultime persone della serata.

Adam notò che il collega aveva un ottimo charm con i clienti. Riusciva a vendere alle persone tutto quello che voleva, e nessuno si lamentava mai del prezzo. Il ragazzo sapeva vendere. Avrebbe saputo però vendersi? Quando sarebbe arrivato il momento, sarebbe riuscito a far in modo che qualcuno scommettesse su di lui? Non importava se sarebbe stato per l’università o per il calcio, ma avrebbe dovuto farlo. Altrimenti non sarebbe mai andato via, non sarebbe mai cresciuto. Il timore che tutti i suoi sforzi non sarebbero serviti a nulla era un presentimento che lo assillava da molti mesi a quella parte. Alexandra ci era riuscita. Il suo, però, era un dono naturale, per questo ora poteva fare ciò che voleva. Ma non era sicuro che la ragazza fosse libera o meno da tutto ciò che si era lasciata alle spalle. Sicuramente non si era ancora liberata dei suoi demoni. A confermarlo era il fatto che quando chiamava Lance non chiedesse mai della madre. L’amico non glielo aveva raccontato, ma lo aveva intuito, e poi conosceva lei. Quanto aveva pregato per la sua felicità?

Prese lo zucchero e lo versò nella bevanda calda: due cucchiaini per lui non bastavano, abbondava sempre almeno poteva sentire un po’ di dolcezza. Lui non aveva i problemi degli Stark, ma aveva i suoi. Ed era per quelli che faceva ciò che faceva. Bevve tutto in due sorsi. Appena rivide Lance passare ne ordinò un altro.

“Certe volte rompi le palle”.

“Come sta Alex?”, cambiò discorso. Non voleva veramente chiederlo, ma le parole gli erano uscite di bocca.

Il cameriere inarcò un sopracciglio: Adam non lo aveva mai stupito come in quel momento. Non gli aveva mai chiesto come stesse la sorella, anzi: non l’aveva mai nominata da quando era andata via per studiare a Liverpool. Mentre lei chiedeva ogni volta di lui.

“Ma ti droghi?”, disse senza pensare.

“Ogni tanto”, rispose il più grande cercando di mantenere un profilo serio, ma stava per scoppiare a ridere.

“Idiota”. Lance gli strinse la spalla fino a fargli male.

“Sai che non sono come gli altri ragazzi quando parlo di lei”, rispose con un sorrisetto isterico per celare il dolore fisico che stava provando. Il rosso lo lasciò andare. “E’ questo il problema”.

“Stark, sei stronzo come tua sorella”, scherzò dolorante.

“Dote di famiglia”.

*

Dopo che Lance aveva gentilmente mandato via anche gli ultimi clienti insieme al proprietario, chiuse la porta a chiave. Adam si accese una sigaretta e ne offrì una all’amico, che intanto aveva spento le luci più forti per accendere quelle soffuse. Infine si sedette di fronte all’altro. “Allora... in poche parole siamo nella merda fino al collo. Se facciamo il prossimo colpo rischiamo seriamente di essere beccati”, disse Adam senza tanti giri di parole. Era sicuro al cento per cento che durante l’ultima “commissione” il vicino del loro “ospite” fosse quasi riuscito ad intravedere la sua auto. Sapeva che sarebbe potuto essere facilmente rintracciato. Per questo dovevano dare un fermo alle “vendite” almeno per un po’. Per lui non era un problema farlo, ma sapeva che per il collega non era lo stesso. Il cameriere espirò il fumo della sigaretta lentamente per prendersi un po’ di tempo per sé, poggiando i piedi sul tavolino.

“La cenere buttala nel piattino. Grazie”, suggerì Lance all’amico. Non gli andava di pulire il doppio di quello che già avrebbe dovuto. Alzò la testa al soffitto con la sigaretta in bocca pensando sul da farsi. Avevano già stabilito i possibili piani di fuga se si fosse dovuto presentare un inconveniente come quello. Per lui però decidere era difficile. Non poteva fermarsi.

“Quindi abbiamo un mese?” domandò, ma la vera domanda che pose a se stesso fu: “Ho un mese?”

“Sì”. Adam annuì gettando fuori il fumo dalle narici. “Per un mese non si farà più nulla”.

“Sai già che non me lo posso permettere”, commentò con tono piatto. Non stava obbligando Twain a seguirlo e a farlo rischiare di essere beccato solo per i suoi problemi. Stava solo ribadendo com'era la sua situazione.

I loro sguardi si incontrarono senza alcun timore dell’altro. Gli occhi di Lance erano troppo grigi e spenti per un ragazzo della sua età; Adam non vi vide alcuna supplica, solo una piena consapevolezza delle conseguenze.

“Ti farò avere foto e altre info sulla villa. Dopo di che la nostra collaborazione finirà. Ovviamente tornerò a trovarti al bar oppure qualcuno si potrebbe insospettire, ma per il resto te la dovrai vedere tu”. Il ragazzo più grande non era mai stato serio come in quel momento, e per Lance sembrava una specie di barzelletta. Si domandò se Adam alla fine ci tenesse veramente alla considerazione dei suoi genitori dal non voler finire in galera, o più semplicemente il suo autocontrollo sapeva quando dire basta. Il portiere spense la sigaretta nel piattino e ne prese un’altra sfilandola dal pacchetto del collega, accendendola subito.

“Hai del whisky?”

“Offro io”, rispose alzandosi e andando dietro il bancone. Si mise la sigaretta tra le labbra e sfece il codino che fino a quel momento aveva portato e riutilizzò l’elastico a mò di fascia, tenendo i ciuffi troppo corti lontani dagli occhi. Alle donne piaceva vederlo quando lavorava, se ne era subito accorto e solo per quel motivo continuava a portare i capelli raccolti; con quel trucchetto riusciva sempre a beccarsi delle buone mance. Però, quando il lavoro finiva, ritornava ad essere se stesso. Quelle ciocche lo avevano infastidito sin da bambino.

“Tagliati quei capelli per l’amor di Dio, sembrano quelli di una ragazza”.

“Ma non rompermi la palle”, rispose tornando con la bottiglia e due bicchieri.

Il cellulare di Lance squillò.

“Fai pure”.

Il cameriere accettò la chiamata. “Pronto?”

“Dove sei?”, chiese la voce di Miles.

“A lavoro?” rispose con tono ovvio. “Oggi ho l’inventario, rimango fino a tardi. Avevi bisogno di qualcosa?”. Il portiere sentì la voce del capitano insicura per un momento: che non si fidasse delle sue parole?

“No, non fa niente. Ci vediamo domani”, rispose infine con tono poco convinto, riattaccando subito. Che qualcosa non lo convincesse, o che fosse ancora nervoso per la storia di Abigail? Non lo sapeva. Si chiedeva perché certe volte avesse paura di porgli domande per quanto personali potessero essere. Miles era sempre lì per lui, lo proteggeva o almeno così pensava di poter fare, tenendolo lontano da persone come Twain, ma non era così. Reginald non avrebbe mai potuto capire.

“La tua fidanzata ti controlla?”, scherzò il ragazzo più grande.

“Sai che se ti vede ti spacca la faccia?”

“E nonostante ciò è innamorato perso di mia sorella. Dai, è un ragazzo coraggioso. O semplicemente deve rivedere le sue priorità”, aggiunse sempre con tono ironico.

Lance gli rivolse uno sguardo torvo. “Potrei dirti lo stesso”.

A quel commento Adam quasi sbiancò. “Ripeto, voi Stark siete proprio dei gran bastardi”.

Il cameriere versò l’alcolico ad entrambi. “A noi Stark” propose il più giovane prendendo in giro il collega, il quale rise amaramente e ribattè: “A voi Stark”. E bevve tutto d’un sorso.

   
 
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