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Autore: aniasolary    30/01/2015    3 recensioni
Natalie Truman, diciannove anni, buone intenzioni e scarsa capacità a far andare le cose come vorrebbe, non ha paura della vita. Tra sogni difficili, l’amore per un ragazzo irraggiungibile, impropri pasticci e situazioni imbarazzanti, il desiderio di diventare grande e sentirsi grande si fa sentire, rendendo il suo nido famigliare sempre più opprimente.
Il mondo è ai suoi piedi.
Al tempo stesso, quel mondo può caderle addosso.
L’unico modo per affrontarlo è cominciare a camminare con le proprie gambe, sperando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.
«Un po’ per volta, il dolore se ne andrà. Non dimenticherai niente, ma starai bene. È un po’ come ricominciare a scrivere una melodia, ma senza cancellare le note precedenti. Con l’esempio del vecchio, puoi metter su davvero qualcosa di nuovo e migliore.»
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Almeno torna indietro e inventati un addio.
Facciamo finta che ci sia stato.
Clementine, da “Spotless of the sunshine mind”
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
La porta che si chiude – Antonia Pozzi
25.
Liverpool.
Sollievo.
La mia vecchia casa.
Sono arrivata con un mezzo privato per assicurarmi un minimo di tranquillità durante il viaggio, anche se la tranquillità è ormai completamente scomparsa dal mio organismo. I paparazzi hanno scoperto dove abito. Scendere in pigiama per buttare la spazzatura e ritrovarmi un flash in faccia non è mai stato il sogno della mia vita, e quello che prima ne aveva la fattezze si è trasformato solo in un incubo dissacrante.
Mi bastava solo questo per decidermi: riconoscere di avere il bisogno di passare un po’ di tempo in un posto familiare che non evochi dei ricordi che, con la loro assenza, mi trafiggono. Per questo eccomi: trascinando un piccolo trolley sul vialetto di casa, cammino verso l’entrata di villa Truman con Wanda e mamma a guardarmi sulla soglia, senza nemmeno l’inizio di un sorriso.
Mi lasciano entrare senza una parola.
«Ehi,» comincio a dire. «Sono tornata prima che passasse un mese. Non solo ho mantenuto la promessa, l’ho rispettata anche prima dei tempi!» dico, ostentando un entusiasmo che in realtà non c’è.
Mio padre, che mi dà le spalle seduto sul divano, si alza dal suo posto per guardarmi, anche lui serio.
«C’è qualcosa che non va?» chiedo, senza capire.
«Dovrei essere io a farti questa domanda, signorina,» risponde lui.
Mi mordo l’interno della guancia: mi chiama signorina solo quando è arrabbiato, solo quando faccio qualcosa di davvero sbagliato e, quanto è ironico tutto questo, ormai ho perso il conto di tutti gli errori che mi porto dietro.
Wanda va in cucina e chiude la porta del cucinino: ora ci siamo solo io, mamma e papà.
«Arthur Benkinson?» fiata mia madre, con una voce che semplicemente soffia; è una tramontana che mi travolge e mi graffia col suo gelo che dice, in un solo respiro, quel nome.
Arthur Benkinson.
«Oh, mamma…» comincio a dire, e mi mordo le labbra, mi passo le mani tra i capelli e faccio un passo indietro, avanti e giro, la testa gira, sono una trottola che non riesce a spostarsi dal punto in cui balla perché circondata da ostacoli, intrappolata in un foro invisibile del pavimento. Che cosa posso dire, ai miei genitori?
«Io lo uccido,» conclude papà. «Andrò in prigione per omicidio premeditato anche con la migliore delle difese, ma non importa: io lo uccido.»
Spalanco gli occhi.
«Papà,» sbotto. «Ma sei impazzito?» Mi manca il fiato.
Gli occhi azzurro chiaro di mio padre mi catturano in uno sguardo di rimprovero e dolore. «Si è preso già una delle mie figlie. Nessuno mi restituirà la nostra Jadie. E lo so che non è stata colpa di Benkinson se non è più qui… lo so che non ha avuto nessun ruolo in quel che è successo! Ma nel primo modo che esiste a questo mondo ce l’ha portata via comunque. È stata la prima cosa a portarcela via. Perché anche te, Natalie? Dio, non ha senso, perché…» Si passa una mano tra i capelli – bianchi di vecchiaia, pena, troppi pensieri – e finisce per coprirsi le palpebre.
«Buford…» lo richiama mamma, si avvicina a lui e lo abbraccia forte. «Natalie è qui con noi. La nostra Natie è qui,» la sento sussurrare.
Un sapore di bile mi invade la bocca. Guardo in alto, cerco aiuto nel cielo che non posso vedere perché con lo sguardo trovo solo il soffitto, un lampadario di cristallo che vorrei mi cadesse addosso per finire tutto così. Ma non è me, che vuole. I miei genitori soffrono non perché non ci sono, ma per il contrario.
«Siete così stupidi,» mi ritrovo a dire. «Pensate davvero che Arthur si debba interessare a me? Era tutta una bugia, pubblicità di marketing, finzione!» Distolgo lo sguardo da loro e mi spreco in un ultimo sussurro. «Siamo solo vittime di tutto questo.»
Corro verso le scale per raggiungere la mia camera prima che mamma e papà sciolgano l’abbraccio e possano guardarmi.
Prima che si accorgano che sono alla deriva.
***
Mi faccio portare il pranzo in camera da Wanda, mamma e papà non vengono a fare domande. Credo che siano troppo imbarazzati per la reazione che hanno avuto, per le cose che papà ha detto. Io mi sto prendendo solo del meritato riposo: non disegno, non leggo, non guardo la televisione.
Ma respiro. Sdraiata a letto lancio contro il soffitto una pallina da tennis – uno dei tanti sport che ho lasciato – contando i secondi che passano mentre lo stereo manda l’ultimo live dei Paramore.
Qualcuno bussa alla porta ed apre senza aspettare la mia risposta.
«Non mi pare di aver detto “avanti”,» farfuglio.
«Ti ho già vista nuda negli spoiatoi di danza, sono passati un po’ di anni ma la misura delle tette è rimasta la stessa. Vuoi che aspetti che tu mi dica “avanti”?»
Faccio un sospiro, non so se di sollievo o di fastidio, ma so che sono grata della sua presenza anche quando non riconosco di esserlo. «Pam.»
«Hai capito benissimo,» ride e si sdraia accanto a me. Quando la pallina di tennis torna indietro dopo l’ennesimo lancio, leggermente deviata verso destra, è lei ad afferrarla.
«Credevo restassi a Londra anche questo fine settimana,» le dico. «Per stare con Leo.»
Pamela lancia la pallina contro il soffitto e questa volta la afferro io, la rilancio, torna indietro e Pamela la riprende.
«Non potevo,» dice, sicura. «Non posso lasciarti sola adesso.»
Pam lancia la pallina, quella colpisce il soffitto, mi arriva, la rilancio.
«Ma io sto bene.»
Pamela afferra la pallina e non la lancia più: la lascia cadere lungo il suo fianco. «Ed io sono mago Merlino.»
La guardo di traverso, lascio andare indietro la testa e chiudo gli occhi. «Allora fa’ un incantesimo, ti prego.»
«Che tipo di incantesimo?» mi chiede.
«Cambia il passato,» sussurro. «Dammi un’altra vita. Ci sono tanti motivi per cui dovrei essere grata a quella che ho ma altrettanti per mandarla al diavolo.»
«Natalie…»
Mi stropiccio gli occhi. «Pamela, perché mi lasci pensare? Vengono fuori queste cretinate. Forza, dimmi qualcosa di divertente. Ho passato tutta la settimana tra annunci e cataloghi. Ho trovato un appartamento per il nuovo ufficio, ho già dato acconto e conferma.. anche se per uscire di casa, Dio! Paparazzi ovunque e quelle loro frasi del cazzo! Volpe sorrida un corno! Come sta il suo fidanzato? ‘Sto cacchio! Ho scritturato Derek come segretario, chiamato designer per gli interni, messo annunci per grafici, esperti del web per la mia rivista… una rivista tutta mia…»
«E questo è fantastico,» mi dice Pamela. «Ma Ewan…»
«Non voglio parlare di lui,» dico subito.
«Vuoi davvero finirla qui?» esclama con una voce che tende all’isterismo. «Voglio dire, sul serio? Dopo tutto quello che è successo?»
«Be’, devo farlo,» mormoro. «Non è tornato la notte dopo, la notte dopo ancora, la notte ancora dopo…»
«E lo accetti?»
«A Londra l’ho cercato ovunque, non l’ho trovato, se n’è andato, l’ho chiamato, il telefono non dà segni di vita…  non vuole che io lo trovi,» continuo. «Pensa che io gli abbia sempre mentito anche se non è vero e questo rimarrà sempre irrisolto… ma non posso fare niente di più di quello che ho fatto. Ho perso tutto e devo farmene una ragione.»
Apro finalmente gli occhi, sono davvero stanca: Pamela si mette a braccia conserte e mi guarda con uno sguardo pieno di inquietudine. «Stai sbagliando. Non hai perso tutto ma, se ti rassegni così presto, lo perderai davvero.»
Così stanca.
«So come ci si sente quando si perde qualcuno. Tu, Pamela Jefferson, evviva la vita, oh ma quanto è luminoso il sole, oh quanto sono strafiga, che cosa ne puoi sapere?»
Gli occhi di Pamela, verde chiaro, foglie di limone, luci di primavera, mi fissano immobili perché lei non respira.
«E tu, Natalie Truman, oh quanto sono sfigata e bruttina e incapace, come puoi dirlo?» ribatte con foga. «Sfigata? Hai sempre avuto dei genitori uniti, che si amano, pronti ad aiutarti quando ne avevi bisogno; sei ricca, vivi in una villa che sembra un castello, hai un conto in banca da capogiro… bruttina? Arthur Benkinson ed Ewan Lynch si sono innamorati di te perdutamente e non sono ragazzi qualunque…  incapace? Hai creato una linea che sta facendo il giro del mondo!» Scoppia in una risata amara. «Ti prego, fammi essere sfigata, bruttina e incapace come te,» sbotta.
«Tu dici?» le sputo contro. «Ma certo! Dovrei essere la ragazza più felice del mondo per quello che ho, hai ragione! Ma ho perso la prima persona che io abbia mai amato, Jade è la prima persona che io abbia mai amato e non importa quanto ho avuto, quanto ho, quanto avrò! Ne sentirò sempre la mancanza e allora io sarò sempre, sempre infelice!» La mia voce si incrina su se stessa come dentro mi incrino io: sono stata contruita male, ho le fondamenta di sabbia, i pilastri non reggono e non reggeranno mai quello che sono diventata.
«Ed io sono la tua amica superficiale, giusto?» mi chiede, la voce aspra. «Oh, la mia vita fa schifo, andiamo da Pamela, se è sempre allegra è solo perché è un’oca…» Scuote la testa, la lacrime a spezzarle le ciglia, a caderle sul viso. Si alza dal letto, velocissima, e si avvicina alla porta.
Che cosa sono diventata?
Mi alzo anch’io, resto in ginocchio sul materasso, tremo.
Non anche lei.
«No, Pamela… Pam… Era tutto un mare di stronzate. È perché non mi funziona il cervello, il cuore, il metabolismo... Sono a pezzi.» Ed è a pezzi anche la mia voce. «Vorrei solo essere te, per un solo secondo. Bella e saggia e matura e forte come te. Così saprei di farcela. Così saprei di valere il tempo di qualcuno.»
Pamela corre indietro e mi abbraccia così forte che mi mozza il respiro, voglio che non se ne vada mai.
«Sei così scema a volte, Nat,» mi sussurra sulla spalla. «Non posso nemmeno tenerti il broncio, adesso, ti rendi conto? Io… ti voglio così tanto bene. E voglio solo che tu sia felice.»
Inclino la testa, soffio per togliermi il ciuffo di capelli che mi è caduto davanti agli occhi e qui, adesso, mi rendo conto di come stona quello che ho detto con tutto questo.
«Non è vero che ho perso tutto. Sei la mia migliore amica, è senza di te che non potrei mai essere felice.» Mi avvolge nel suo abbraccio fatto di respiri e profumo di balsamo al cocco – ricordi d’infanzia, poster di cantanti, risate, pianti miei e suoi. Pamela è il nord della mia bussola. Non importa che cosa può succedere nella mia vita, con lei so sempre dove andare.
«Grazie,» sussurro contro la sua spalla.
«E di cosa?»
«Di essere la sorella che io non ho più.»
***
Avevo sei anni.
Mi ero divertita a farmi spingere sull’altalena da papà, che discuteva di cose che non potevo capire con il signor Benkinson. Per raggiungere lo scivolo dovevo salire delle scale di legno ed attraversare un ponte traballante, a un metro e mezzo da terra. Una sciocchezza, direi ora, eppure quel metro e mezzo per me era un abisso. La risata di mia sorella Jade mi fece voltare la testa, fece ridere anche me, riconobbi gli elastici rosa chiaro che le raccoglievano i capelli mentre si chinava a raccogliere le margherite nel prato.
In quel momento caddi.
Senza respiro mi aggrappai al primo pannello di legno che trovarono le mie mani; ci misi tutta la mia forza, scorticandomi le unghie, ma non fu abbastanza.
«Natalie!» gridò Jade nello spavento. Aveva tredici anni, indossava la maglietta dei Backstreet Boys e lasciò tutto per corrermi incontro.
Persi la presa.
Mi slogai solo il polso; niente di grave a parte la paura di cadere nel vuoto, la paura di cadere e basta.
La sera stessa mi accorsi che, aggrappandomi al legno, nel polpastrello dell’indice della mano destra si era insinuata una scheggia. Provai a toglierla ma il dolore intenso che sentii mi suggerì di lasciar perdere.
La me di sei anni preferì imparare a convivere con quella scheggia.
Una settimana dopo il dito indice mi si gonfiò: si era infiammato e doleva il triplo.
«Avresti dovuto dirlo, così l’avremmo strappata all’istante,» mi disse papà.
«Ma faceva troppo male.»
«Devi ferirti fino in fondo, per imparare a guarire
Sono sicura che si impara da ogni esperienza, legata all’infanzia o alla vita adulta, e la cosa che più desidero al mondo adesso, la cosa più vicina al possibile che posso avere, è imparare a guarire.
Mi siedo al mio pianoforte.
Dormivi.
Avevamo spostato la televisione in camera tua, ti era venuta l’influenza, mi avevi imposto di restare sulla sedia per non attaccarmi i germi. L’ultimo concerto dei Nirvana trasmesso sull’emittente satellitare ti aveva fatto venire i lucciconi agli occhi. E così ora dormivi, col respiro pesante, stanco, il volto rilassato eppure sempre contratto, i tuoi lineamenti marcati che a volte percorrevo solo per avere la tua impronta dentro, come se non fossi già riuscito a lasciarmi il segno di te ad ogni parola, litigata, sorriso.
Tu dormivi, Ewan Lynch. Ed è allora che l’ho fatto.
È allora che ho cercato e ho trovato lo spartito della tua another place.
Ti sei rigirato tra le coperte, ho avuto paura che ti svegliassi, che ti arrabbiassi con me.
Ma non è successo, sorridevi nel sonno, sognavi qualcosa di bello.
Potrai anche essere andato via, ma questo mi resterà sempre. Quel che siamo stati mi resterà sempre.
Suono, dapprima intensa, poi più decisa, con foga, trasporto, e chiudo gli occhi. Devo lasciarli chiusi, per vederti.
Another place mi apparterrà sempre.
La scheggia che devo strappare si trova sotto la superficie.
Mi chiedo ancora quando hai cominciato ad amarmi, mi chiedo ancora perché; mi chiedo quando ho cominciato a farlo io, e riconosco il perché.
Riconosco che hai fatto venir fuori tutto il peggio che avevo dentro per schiacciarlo, per far spazio al meglio, eppure non immaginavi che ci fosse così tanto male in questa ragazza dai capelli arancioni, alta un metro e qualche tappo di sugaro, appassionata di sogni.
Tu non potevi saperlo, Ewan, e mi dispiace.
Mi dispiace di averti fatto cadere insieme a me.
Lascio che tu mi prenda per mano – il ritornello – e imprima sulla mia pelle una carezza – la seconda nota – e mi respiri sulla pelle – il terzo accordo – e perda il respiro – la prima pausa – e mi baci piano – altre note – poi forte – altre note – e mi faccia volteggiare come se non potessi mai inciampare – altri accordi – e mi faccia cadere tra le tue braccia – una nota – un’altra carezza – pausa – uno sguardo all’orizzonte – la musica, difficile e semplice insieme. Incantevole, delicata e forte, triste e gioiosa insieme, veloce e poi lenta, un’unione di diversità che crea un perfetto, melodioso equilibrio.
L’ultimo pezzo…
Devo dirti addio. Siamo a casa nostra, tu mi guardi, stai per andare via: i tuoi occhi blu a guardarmi, velati e brucianti.
«Non so se tornerò.»
Nella mia mente ci sei ancora: non hai ancora fatto quel passo, non hai mosso la mano verso la maniglia, il tuo corpo schiaccia il mio anche senza toccarmi.
«Lo sai, invece, devi solo dirmi addio. Hai il coraggio di dirlo?» ti sussurro. «Una parola. Addio.»
Un sorriso impercettibile, da chi ti ha sempre in pugno, da chi conosce ogni segreto. Da chi non può più essere ferito. Sei un’immaginazione, no? Posso almeno pensare che qui tu non stia soffrendo come me.
«Dillo prima tu, Natalie. È solo una parola, no?»
Un’altra nota.
La gola mi trema in un singhiozzo, le parole si sfaldano nell'inizio di un pianto, non riesco a parlare.
Devo dirti addio, Ewan…

«Oh, Natalie.» È la voce di mia madre, ancora una volta forte e soffiata, un vento pacato questa volta ma pieno d’emozione. «Sei… sei diventata così brava…»
«No, mamma, non così tanto.»
«È la stessa musica che ha suonato Ewan al tuo compleanno, non è vero?» mi chiede, mi si siede accanto, sospira. «È splendida… L’ha scritta lui, giusto?»
«Sì,» mormoro.
L’ha scritta per me.
Mia madre fa un’alzata di spalle, resta in silenzio qualche secondo e sbuffa. «Natie, vuoi dirmi che succede?»
Volto la testa di scatto, mi mordo le labbra, lascio che l’accenno di lacrime – quelle fastidiose vibrazioni in gola – si esauriscano in se stesse. Ho gli occhi asciutti eppure li chiudo ancora una volta, la gola continua a vibrare e mi rendo conto che non sono solo lacrime. Sono parole fatte di lacrime e per questo più pesanti, che scendono sulla lingua, sfiorano i denti, spingono sulle labbra ed io devo farlo – per non soffocare, per sopravvivere, perché è un altro modo per strappar via quella maledetta scheggia – e lo faccio.
Parlo.
«Amo Ewan ed ho rovinato tutto ed è tutto finito,» dico tutto d’un fiato.
Mamma trattiene il respiro.
«Lo sapevo,» sussurra.
Torno a guardarla. «Che cosa?»
«Sei mia figlia, Natalie Hanna Truman, vuoi che non mi accorga di certe cose?» esclama con irruenza. «Il modo in cui l’hai guardato mentre suonava il pianoforte… Natie, sarò anche di un’altra generazione, ma nella mia vita mi sono innamorata anch’io. Perciò…»
«Perciò nulla, mamma.»
«Non ti chiederò se ci sei andata a letto.»
«Mamma!»
«Non voglio saperlo.»
«Dio mio…»
«Ma tanto so che è successo, non pensare di prendermi in giro.»
«Porca puzzola, mamma!»
«Non vuoi raccontarmi? Togliendo la parte che non voglio sapere.»
Scuoto la testa, forte.
«Non voglio ignorare niente, voglio riconoscere che è accaduto, ma adesso devo strappare questa scheggia.»
La mamma storce la bocca, inclina la testa, per la prima volta mi sembra che sappia tutto quello che io ho bisogno di sapere.
«Ed Arthur?» chiede.
Roteo gli occhi. «Ho sempre saputo che era impossibile.»
«Ma ci hai sperato.»
«Certo che ci ho sperato! Come sarei sopravvissuta senza sperare?» sbotto. «Era un inferno per tutti, mamma. È stato inevitabile, si trattava… di Arthur.»
« Ed era impossibile perché eri una bambina. Tu sarai sempre la mia bambina, ma per il mondo oggi sei una giovane donna. Questo ha cambiato tutto.»
«So solo che… se è andata così, è perché  non sono ancora abbastanza grande per l’amore.»
Mamma sbuffa. «Non lo sarai mai abbastanza. È l’amore ad essere troppo grande per tutte le persone del mondo messe insieme,» ribatte lei. «Crescerai ancora, e te ne accorgerai ancora. È una guerra con armi diverse: tante volte non si vince niente e si perde e basta. Ma poi arriva il momento in cui, quando perdi, non sei sola. Non lo sei mai, qualunque cosa sia successa, accada e accadrà. E l’amore è quello.»
Non riesco a risponderle.
***
Wanda ha cucinato per cena l’arrosto con l’intento di migliorarmi l’umore e, nel suo sguardo, ho visto così tanta dolcezza che mi sono impegnata a farle credere che ci fosse riuscita.
Seduta alla mia scrivania con un foglio a righi davanti a me, batto la matita contro la superficie in legno di faggio.
La volpe di Liverpool.
Sbuffo.
Devo trovare un altro nome, la volpe di Liverpool non sono io: la volpe di Liverpool è la ragazza bella, brillante, intraprendente che Ewan credeva che fossi. Questa convinzione è caduta da entrambe le parti.
Due colpi leggeri contro la porta della mia stanza.
Sollevo la testa. «Wanda, il pigiama per la notte alla fine l’ho trovato… Sono vestita, puoi entrare.»
So che la porta si è aperta, anche se non ha emesso alcuno scricchiolio; mi accorgo della presenza di qualcuno grazie all’ombra che la sua figura proietta sul muro con la luce soffusa della lampada.
E la sagoma scura che si proietta sul muro non è quella piccola e magra di Wanda, quella della mamma che più somiglia a me, quella di papà con il suo accenno traslucido di occhiali da vista.
Riesco a riconoscerlo anche nell’ombra.
«Arthur…» 
L’essere più meraviglioso presente in quest’universo canta un mio vecchio pensiero. Quando non ero ancora riuscita a fuggire, quando le catene mi tenevano ancorata qui, quando non potevo che amare lui e nessun altro.
Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo, proprio a quel momento. Io, un vestito nero preso a caso dall’armadio, lo smalto rovinato sui piedi, il respiro trattenuto in gola e lui, che sorride scuotendo di poco la testa, in modo che i capelli biondi e ondulati lunghi fino al mento si spostino per non dargli fastidio. Ha un sorriso che mi fa sentire sul punto di cadere giù da un burrone.
«Sì, solo Arthur,» dice.
Mi alzo dal mio posto, mi metto a braccia conserte e trovo il coraggio di continuare a guardarlo negli occhi senza frantumarmi l’anima.
«Non sarai mai solo Arthur.»
Ma sembra che così si frantumi la sua, di anima, perché distoglie lo sguardo dal mio.
«Non mi aspettavo di trovarti qui.»
«Non mi aspettavo che papà ti facesse salire in camera mia.» Riesco addirittura a sorridere, piano, a fatica, a metà.
«Non ci sono i tuoi genitori. C’è solo Wanda, stava per andare a letto… scusami per essere qui adesso. Ma oggi mi sono licenziato daIstyle e ho saputo che anche tu hai lasciato Vogue, me l’ha detto il direttore… il signor Roman. Ti cercavo e il signor Zot mi ha detto che eri tornata a casa.» Torna a guardarmi. «Ma credevo che volessi passare del tempo con il tuo ragazzo dopo il viaggio.»
Faccio un respiro profondo, mi passo una mano tra i capelli, vorrei solo diventare invisibile e sparire e non trovarmi qui ora.
«È vero, avrei voluto,» mormoro.
Arthur solleva la testa di scatto. Altra sorpresa, altra incertezza nel suo sguardo. «Come…?»
«Non c’è bisogno di altre parole, non so nemmeno dove sia adesso,» sentenzio. Prendo il dolore, lo comprimo, me lo annido nel cuore in modo che si noti meno, anche se riesco a sentirlo.
«Non dirmi che Shanghai ha influito su questo.»
Sbuffo; e non so se è l’inizio di un pianto che riesco a bloccare subito o l’inizio di una risata che si esaurisce ancor prima di vivere.
«Arth… sarebbe così facile darti la colpa di tutto, ma ho imparato a essere sincera con me stessa: è stata colpa mia. È dipeso solo da me, non da te.» Mi trema la voce. «Perché mi cercavi?»
«Perché volevo vederti felice,» mi risponde, quasi senza pensare. La delusione nei suoi occhi. «E non è quello che vedo adesso.»
Non riesco a crederci ma dovrei, perché Arthur è sempre stato così. Ha sempre pensato al bene degli altri prima del suo, anche se ha sempre vissuto nello stesso mondo falso che io ho abbandonato. Ha sempre pensato al mio bene prima di chiunque altro.
«Allora dovresti andartene ed essere contento.» Stringo le palpebre, respiro lentamente, mantengo il controllo di me stessa. «Ti ho spezzato il cuore, non me lo merito?»
«Per quanto tempo?» mi chiede, veloce, improvvisamente travolto da un calore rabbioso. «Per quanto tempo io ho spezzato il tuo senza che me ne accorgessi? »
L’aria diminuisce, io non riesco più a prenderla, parlo con un filo di voce. Era vicino il mio quindicesimo compleanno, ricordo, quando Arthur entrò da quella stessa porta ed io lo guardai e e fu come vederlo per la prima volta, anche se lo conoscevo da sempre, fu come se ogni cosa al mondo non l’avessi mai davvero capita perché ora vedevo, per la prima volta, chi era Arthur Benkinson per me. Chi desideravo che fosse. Chi sognavo che fosse.
«Cinque anni… cinque anni e mezzo, forse,» sussurro. Gli anni più belli, potrebbe pensare qualcuno, ma non lo sono mai stati davvero per me.
«Allora puoi farlo.» La voce di Arthur è forte e decisa eppure mormorata, intensa, mi imbroglia le budella. «Hai tutto il diritto di spezzarmi il cuore, Natalie Truman.» Si avvicina, mi prende il viso tra le mani. «Spezzami il cuore quante volte vuoi,» continua.
Respiro forte. «Non sai quello che dici.»
«Tu non sai cosa farei con te in questo momento.» Le sue mani tremano a mantenermi il viso, il suo sguardo è acceso, mi risucchia via. «Ma non lo farò: ti amo, sono sincero con me stesso e non mi approfitterò di te. È successo quello che doveva succedere: sei diventata grande, hai vissuto e ti sei innamorata di un altro ragazzo.» Fa un respiro profondo. «Ed ora devo chiederti di fare una cosa.»
Chiudo gli occhi. Non so cosa sta per chiedermi, ma so che non potrei rifiutarmi. So che farei semplicemente qualunque cosa mi chieda.
« Non sarai più felice con me, ho scelto che le cose andassero in questo modo… prima ancora che capissi quanto tutto questo importasse. Ma tu non ti arrendere. Scegli che cosa vuoi, Natalie. Non lasciare niente in sospeso. Trova quel ragazzo.» Mi sfiora la fronte con le labbra. Sto tremando. Un sussurro tra i miei capelli. «Sii felice.»
*
*
*
*
Dopo due settimane, eccomi qui! ^^ Mi rendo conto che si tratta di un capitolo di passaggio, ma era necessario per Natalie e tutte le persone intorno a lei, tutte consapevoli di qualcosa di nuovo e di quello che è stato. Adesso la nostra volpe deve scegliere tra rassegnarsi o non arrendersi, e vedremo il non arrendersi che cosa comporterà per lei, se farà questa scelta. La citazione all’inizio del capitolo è del film Eternal sunshine of the spotless mind, uscito in Italia con il titolo Se mi lasci ti cancello che, detto così, può farci pensare ad una commedia romantica… ma in realtà è tutto il contrario. Si tratta di uno dei miei film preferiti <3 La poesia è della splendida Antonia Pozzi, una poetessa italiana poco conosciuta ma meravigliosa.
Spero di aggiornare con puntualità, nel frattempo per chiunque fosse interessato, se vi va di chiacchierare con me questo è il mio profilo facebook : )
Vi ringrazio di cuore per leggere. Non immaginate quanto mi rendete felice con questo, grazie, grazie mille *_________*
 
Un bacione e a presto,
Ania <3
   
 
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