2.
Dialogo
Guardai
Sue allontanarsi dal tavolo e tornare
dietro il bancone, con una strana sensazione, quasi
d’angoscia, la stessa che
si prova da bambini quando la mamma si allontana dopo averti lasciato a
scuola
il primo giorno. Scacciai quell’idea ridicola e mi accorsi
che il bizzarro
sconosciuto si era proteso in avanti e mi sventolava sotto il naso la
mia metà
di torta infilzata nella forchetta.
“Oh…g-grazie..”
Balbettai porgendogli il piatto.
“Non
c’è di
che.” Replicò facendo atterrare la cheesecake a
destinazione.
Iniziammo a
mangiare in silenzio, io sbirciandolo di sottecchi, lui completamente
assorbito
dal dolce. Mi accorsi che la torta sarebbe finita in breve tempo e che
io non
ero ancora stata in grado di articolare una conversazione. Cosa
insolita da
parte mia. Forse mi trovavo ancora in imbarazzo per la situazione,
forse non
riuscivo a capacitarmi che il ragazzo non avesse le scarpe.
“Le
scarpe mi danno fastidio” Dichiarò
improvvisamente.
Doveva
essersi accorto che non riuscivo a
distogliere lo sguardo dai suoi piedi nudi. Continuavo ostinatamente a
collezionare brutte figure.
“Ah,
capisco.” Non potei fare a meno di blaterare nonostante
fossi ben lungi dal capire effettivamente.
Ci
rimanevano si e no due bocconi, quando finalmente arrivò
l’ispirazione. A dire
il vero non era un’ispirazione ma una pura
banalità che tuttavia avevo
inspiegabilmente trascurato.
“Mi
chiamo Audrey.” Esclamai sentendomi una
perfetta idiota.
Per
sottolineare l’affermazione gli porsi la mano.
Con
estrema riluttanza il ragazzo appoggiò la
forchetta e la strinse. In realtà dire che la strinse non
è esatto, con la
punta delle dita afferrò per un istante la mia mano senza
esercitare la minima
pressione.
“Ryuzaki.”
Mormorò e riprese a mangiare.
Ero sempre
più perplessa, non mi era mai capitato di suscitare quello
che pareva ribrezzo
in un uomo, tutt’altro. Stavo ancora meditando se sentirmi
offesa o meno quando
vidi che Ryuzaki aveva finito il dolce. Dovevo inventarmi qualcosa
prima che se
ne andasse.
“Facciamo
due passi?” Chiesi a bruciapelo.
Lui
non rispose, mi studiò un attimo nel quale
probabilmente tornai ad arrossire, dopodiché
domandò piano:
“Finisci
la torta?”
“Naturalmente”
Fu la mia risposta decisa.
Per
qualche ragione imperscrutabile parve
soddisfatto.
Mi
sembrò di impiegare un’eternità a
finire di
mangiare sotto quello sguardo inquisitorio.
Involontariamente sospirai
di sollievo quando
finalmente terminai il dolce. Ci alzammo e mentre Ryuzaki si infilava
svogliatamente le scarpe io mi diressi verso la cassa ma lui mi
interruppe:
“Ho
già pagato.”
Mi domandai
quando, invece dissi:
“Ok,
allora facciamo a metà”.
“No.”
Fu il suo commento lapidario.
“Ah
beh..Come vuoi..Grazie..” Farfugliai confusa.
Non
capivo come mai Ryuzaki riuscisse a mettermi
un’agitazione tale da non riuscire a formulare una frase
coerente.
Una volta
usciti, lontani dalle occhiate di ammonimento dal significato
inequivocabile
(fai attenzione è un tipo strambo) che mi lanciava Sue, mi
sentii meglio, quasi
a mio agio. Constatai che Ryuzaki era piuttosto alto e magro.
Chissà se
mangiava abbastanza. Ebbi una strana visione di lui appollaiato sulla poltrona bianca e pelosa di casa mia intento a
divorare un’enorme torta
cucinata dalla sottoscritta. Che bel quadretto. Mi scappò
una risatina isterica
e Ryuzaki mi guardò con aria interrogativa.
“Oh
non è niente, mi capita a volte..Penso a
qualcosa di buffo e rido da sola.” Tentai di scusarmi.
Sorrise ma
non fece commenti. Per fortuna. Stavamo praticamente gareggiando su chi
dei due
desse all’altro la maggior impressione di essere psicopatico.
Dovevamo
apparire piuttosto inusuale come coppia, camminavamo in silenzio, io
dritta
come un fuso, lui un po’ingobbito, io curata, lui trasandato,
sembravamo
vistosamente alle antitesi tuttavia stavo iniziando a pensare che
qualcosa in
comune dovevamo avere. Il pomeriggio tornò ad essere
incredibilmente piacevole,
il sole ancora caldo, le foglie degli alberi dipinte di mille
sfumature, il
chiacchiericcio della gente che ci camminava accanto, forse un
po’spazientita
dalla nostra andatura lemme, l’aria che in quel momento
profumava di…
“Waffles!”
Esclamò Ryuzaki con entusiasmo, affrettandosi
verso il chiosco.
Poco
dopo eravamo intenti a divorare un grosso
waffles allo sciroppo d’acero ciascuno.
“Mezza
fetta di cheesecake non era abbastanza
soddisfacente.” Bofonchiai con la bocca piena.
“Hai
ragione” Annuì Ryuzaki con convinzione.
Ci
sorridemmo. Forse avevo terminato con le gaffe.
La
passeggiata proseguì silenziosa ma gradevole, fino
a quando in lontananza si sentirono suonare le campane. Ryuzaki si
fermò di
colpo e mi guardò a lungo come se volesse imprimere il mio
viso nella memoria e
disse:
“Devo
andare, è stato un piacere conoscerti
Audrey.”
Cercai
di mascherare il mio dispiacere che era del
tutto fuori luogo visto che lo conoscevo da quel pomeriggio e replicai:
“Non
c’è problema, sono praticamente arrivata a
casa. È stato un piacere anche per me, davvero”.
Ryuzaki
mi rivolse un’ultima lunga occhiata con
quei suoi profondi occhi neri e
si voltò
per andarsene, ma io, nuovamente priva dell’intero possesso
delle mie facoltà
mentali lo richiamai:
“Ryuzaki?”
Lui
si girò di nuovo verso di me in attesa.
“Spero
di rivederti… Io me la cavo bene con i
dolci sai?”
Non
riuscii a credere di aver davvero pronunciato
quelle parole, ero pietrificata. E tendente al bordeaux.
Ryuzaki
annuì, mi fece un cenno con la mano e si
allontanò.
Rimasi
a contemplarlo mentre andava via sempre con
quella sua strana andatura, nella mia mente si rifece viva una nota
vocina:
“Potevi
almeno chiedergli il numero di telefono
imbecille, anziché delirare sulla tua abilità di
pasticcera.”
“Oh e sta
zitta!” Sbottai.
Un
passante mi guardò male.