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Autore: AliceRose    29/11/2008    2 recensioni
Il racconto inizia a New York,qualche mese prima dello scoppio del caso Kira in Giappone. Principalmente si tratta di una storia d'amore, ma in seguito si riallaccerà con le vicende dell' anime,modificandole in parte. Come capirete dal titolo mi è stata ispirata da una canzone secondo me molto azzeccata. Buona lettura!
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, L
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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2.  Dialogo

Guardai Sue allontanarsi dal tavolo e tornare dietro il bancone, con una strana sensazione, quasi d’angoscia, la stessa che si prova da bambini quando la mamma si allontana dopo averti lasciato a scuola il primo giorno. Scacciai quell’idea ridicola e mi accorsi che il bizzarro sconosciuto si era proteso in avanti e mi sventolava sotto il naso la mia metà di torta infilzata nella forchetta.

“Oh…g-grazie..” Balbettai porgendogli il piatto.

 “Non c’è di che.” Replicò facendo atterrare la cheesecake a destinazione.

 Iniziammo a mangiare in silenzio, io sbirciandolo di sottecchi, lui completamente assorbito dal dolce. Mi accorsi che la torta sarebbe finita in breve tempo e che io non ero ancora stata in grado di articolare una conversazione. Cosa insolita da parte mia. Forse mi trovavo ancora in imbarazzo per la situazione, forse non riuscivo a capacitarmi che il ragazzo non avesse le scarpe.

“Le scarpe mi danno fastidio” Dichiarò improvvisamente.

Doveva essersi accorto che non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi piedi nudi. Continuavo ostinatamente a collezionare brutte figure.

“Ah, capisco.” Non potei fare a meno di blaterare nonostante fossi ben lungi dal capire effettivamente.

 Ci rimanevano si e no due bocconi, quando finalmente arrivò l’ispirazione. A dire il vero non era un’ispirazione ma una pura banalità che tuttavia avevo inspiegabilmente trascurato.

“Mi chiamo Audrey.” Esclamai sentendomi una perfetta idiota.

 Per sottolineare l’affermazione gli porsi la mano.

Con estrema riluttanza il ragazzo appoggiò la forchetta e la strinse. In realtà dire che la strinse non è esatto, con la punta delle dita afferrò per un istante la mia mano senza esercitare la minima pressione.

“Ryuzaki.” Mormorò e riprese a mangiare.

 Ero sempre più perplessa, non mi era mai capitato di suscitare quello che pareva ribrezzo in un uomo, tutt’altro. Stavo ancora meditando se sentirmi offesa o meno quando vidi che Ryuzaki aveva finito il dolce. Dovevo inventarmi qualcosa prima che se ne andasse.

“Facciamo due passi?” Chiesi a bruciapelo.

Lui non rispose, mi studiò un attimo nel quale probabilmente tornai ad arrossire, dopodiché domandò piano:

“Finisci la torta?”

 “Naturalmente” Fu la mia risposta decisa.

Per qualche ragione imperscrutabile parve soddisfatto.

Mi sembrò di impiegare un’eternità a finire di mangiare sotto quello sguardo inquisitorio.

 Involontariamente sospirai di sollievo quando finalmente terminai il dolce. Ci alzammo e mentre Ryuzaki si infilava svogliatamente le scarpe io mi diressi verso la cassa ma lui mi interruppe:

“Ho già pagato.”

 Mi domandai quando, invece dissi:

“Ok, allora facciamo a metà”.

“No.” Fu il suo commento lapidario.

“Ah beh..Come vuoi..Grazie..” Farfugliai confusa.

Non capivo come mai Ryuzaki riuscisse a mettermi un’agitazione tale da non riuscire a formulare una frase coerente.

 Una volta usciti, lontani dalle occhiate di ammonimento dal significato inequivocabile (fai attenzione è un tipo strambo) che mi lanciava Sue, mi sentii meglio, quasi a mio agio. Constatai che Ryuzaki era piuttosto alto e magro. Chissà se mangiava abbastanza. Ebbi una strana visione di lui appollaiato sulla  poltrona bianca e pelosa  di casa mia intento a divorare un’enorme torta cucinata dalla sottoscritta. Che bel quadretto. Mi scappò una risatina isterica e Ryuzaki mi guardò con aria interrogativa.

“Oh non è niente, mi capita a volte..Penso a qualcosa di buffo e rido da sola.” Tentai di scusarmi.

 Sorrise ma non fece commenti. Per fortuna. Stavamo praticamente gareggiando su chi dei due desse all’altro la maggior impressione di essere psicopatico.

 Dovevamo apparire piuttosto inusuale come coppia, camminavamo in silenzio, io dritta come un fuso, lui un po’ingobbito, io curata, lui trasandato, sembravamo vistosamente alle antitesi tuttavia stavo iniziando a pensare che qualcosa in comune dovevamo avere. Il pomeriggio tornò ad essere incredibilmente piacevole, il sole ancora caldo, le foglie degli alberi dipinte di mille sfumature, il chiacchiericcio della gente che ci camminava accanto, forse un po’spazientita dalla nostra andatura lemme, l’aria che in quel momento profumava di…

“Waffles!” Esclamò Ryuzaki con entusiasmo, affrettandosi verso il chiosco.

Poco dopo eravamo intenti a divorare un grosso waffles allo sciroppo d’acero ciascuno.

“Mezza fetta di cheesecake non era abbastanza soddisfacente.” Bofonchiai con la bocca piena.

“Hai ragione” Annuì Ryuzaki con convinzione.

 Ci sorridemmo. Forse avevo terminato con le gaffe.

La passeggiata proseguì silenziosa ma gradevole, fino a quando in lontananza si sentirono suonare le campane. Ryuzaki si fermò di colpo e mi guardò a lungo come se volesse imprimere il mio viso nella memoria e disse:

“Devo andare, è stato un piacere conoscerti Audrey.”

Cercai di mascherare il mio dispiacere che era del tutto fuori luogo visto che lo conoscevo da quel pomeriggio e replicai:

“Non c’è problema, sono praticamente arrivata a casa. È stato un piacere anche per me, davvero”.

Ryuzaki mi rivolse un’ultima lunga occhiata con quei suoi profondi occhi neri  e si voltò per andarsene, ma io, nuovamente priva dell’intero possesso delle mie facoltà mentali lo richiamai:

“Ryuzaki?”

Lui si girò di nuovo verso di me in attesa.

“Spero di rivederti… Io me la cavo bene con i dolci sai?”

Non riuscii a credere di aver davvero pronunciato quelle parole, ero pietrificata. E tendente al bordeaux.

Ryuzaki annuì, mi fece un cenno con la mano e si allontanò.

Rimasi a contemplarlo mentre andava via sempre con quella sua strana andatura, nella mia mente si rifece viva una nota vocina:

“Potevi almeno chiedergli il numero di telefono imbecille, anziché delirare sulla tua abilità di pasticcera.”

 “Oh e sta zitta!” Sbottai.

Un passante mi guardò male.

  
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