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Autore: Rallienbow_    03/02/2015    0 recensioni
{ ATTENZIONE, contiene spoilers dell'originale "Everyone needs an help". }
Di cosa si tratta? Di Evan Lockwood, un giovane demone imprigionato sulla Terra, di Hikari Harvey, una strega dai capelli colorati, e del loro amore. Partiamo dall'inizio.. Anzi, no. Partiamo dalla fine e procediamo a ritroso.
« E così, semplicemente, si addormentarono, insieme, innamorati, ma senza mai dirselo. Lei perché aveva paura che lui scappasse, lui perché sapeva che lei sarebbe morta, e se avesse detto ad alta voce quello che provava poi sarebbe stato ancora peggio. 
Ma loro lo sapevano che si amavano, se lo leggevano negli occhi, non avevano bisogno delle parole. »
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Anche San Valentino era passato ormai da tre settimane, ed Evan si era comportato come un perfetto coglione, ancora ne risentiva le conseguenze. Non le aveva comprato un regalo, una scatola di cioccolatini, un palloncino, un mazzo di fiori, niente! Non si era presentato sotto casa sua con un ukulele e non aveva cantato una ballata da lui stesso scritta. Non l’aveva chiamata facendole gli auguri. Non le aveva nemmeno mandato un messaggio. Non si era fatto né sentire né vedere, si era rintanato in camera sua e non aveva avuto la minima idea di uscirne. Si era finto malato e aveva chiesto a Layla il permesso di rimanere a casa per una settimana – anche se era del tutto consapevole del fatto che lei non ci fosse cascata nemmeno per un istante. Probabilmente entrambi sapevano la verità, ma preferivano tacere. Così l’aveva lasciato in pace per un po’, e lui aveva potuto più o meno mettere le idee a posto; dopodiché l’aveva preso e sbattuto fuori casa, urlandogli contro che era ora di ricominciare ad andare a scuola, e che sarebbe stato meglio per lui se si fosse comportato bene. Non aveva avuto bisogno di aggiungere altro, Evan sapeva quanto Layla potesse essere cattiva.
Una volta tornato all’interno di quell’edificio, però, non aveva visto Hikari. Aveva cercato i suoi occhioni e il suo sorriso ovunque, eppure non era riuscito a scovarla da nessuna parte.
Era un pomeriggio di inizio marzo, la nebbia pomeridiana londinese era scesa sulla città, scoraggiando molti studenti anche solo ad uscire furtivamente per una pausa sigaretta. Non però Evan. Quatto quatto, era scivolato via dai corridoi affollati e si era rintanato nel giardino posteriore della scuola, quello di cui non importava a nessuno; era un luogo lasciato a se stesso, dove la natura aveva preso il sopravvento anche sulla costruzione stessa, tanto da colorare le mura grigie con il verde dei rampicanti. La lampada attaccata a quelle mura funzionava a intermittenza, ma era abbastanza per Evan, che tirò fuori dalla tasca l’accendino nero e il pacchetto di Camel light. Le labbra sottili si chiusero leggermente intorno al filtro marroncino della sigaretta, mentre avvicinava le mani al viso, chiudendole a coppa; sfregò poi il pollice contro la rotellina dell’accendino e si produsse la fiamma, piccola, arancione, che diede vita alla sigaretta, cominciando a consumarla. Evan inspirò profondamente, lasciando che il fumo prendesse possesso della bocca, della gola, dei polmoni, per poi far uscire un fumo bianco dalle narici, che quasi si confondeva con la nebbia circostante. Continuava a starsene lì, con le spalle appoggiate al muro, in silenzio, gli occhi assenti e persi nel vuoto, quando notò una figura in mezzo al banco di nebbia.
Nell’immediatezza quasi gli prese un colpo: non si aspettava che qualcuno fosse con lui. Molti studenti avevano messo in circolo pessime voci su quel giardino, come quella che fosse infestato dai fantasmi – cazzate, secondo la sua modesta opinione – e a causa di ciò non si vedeva mai nessuno. Quindi fu molto sorpreso. Quando poi la nebbia si diradò e la figura ne uscì, la sua espressione divenne ancora più perplessa di prima.
- Hikari? – il tono che usò lasciò trasparire volutamente tutto lo sgomento per averla ritrovata in quel luogo sinistro.
- Oh, ciao Evan. Vedo che non hai affatto perso quel brutto vizio... Beh, mi dispiace per te. -
Evan sbuffò. Conosceva l’astio della ragazza verso il fumo. Tacque, ma solo per un momento, in cui prese un’altra boccata dalla sigaretta; era già a metà di essa. Non aveva idea di cosa il fumo fosse prima di iniziare il suo periodo di tempo sulla Terra, ma dalla prima volta che aveva aspirato se ne era innamorato. Non poteva più assolutamente farne a meno, gli calmava i nervi. – È troppo sinistro questo posto. Non mi piace che tu stia qui. -
- Mi preoccuperei di più per te stesso che per me, Evan. Gli spiriti che ci sono qui sembrano avermi presa in simpatia, non corro alcun pericolo. Che ci fai qui, comunque? – Hikari sembrava essere sicura di quello che stava dicendo; si osservava intorno, come se stesse guardando sul serio qualcosa che sfuggiva, invece, alla vista di un demone, quale Evan era.
- Sì, spiriti, okay, Luce! – non aveva mai creduto a quel tipo di cose, lui, sebbene avesse trascorso la sua vita nel Sottomondo; non aveva mai sentito parlare di spiriti o fantasmi, questo argomento lo disorientava, quindi lo evitava. Era più semplice. Si moriva e il loro corpo veniva dato a Lilith, se si era stati valorosi, o venivi gettato nel fiume e dimenticato. Cercò di sviare il discorso. – Avevo bisogno di una pausa. E tu invece? Non è esattamente il posto adatto a una ragazzina come te. -
A quelle parole, il naso di Hikari si arricciò con disappunto, e puntò i verdi occhi su di lui. – E perché no? Comunque stavo solo cercando il mio zaino, che un qualche studente si è divertito a nascondere qui in mezzo all’erba alta. Almeno ha avuto la decenza di lasciarmi un biglietto nell’armadietto. -
Non capì perché, ma subito gli si irrigidì la mascella e le parole vennero fuori dalla sua bocca senza che lui potesse davvero controllarle. – Dimmi il nome. – la sigaretta quasi si sbriciolò sotto la presa della sua mano. Quando cadde a terra Evan non sentì il suono, era troppo concentrato su Hikari, sulla sua espressione arrabbiata, tanto arrabbiata, così contrastante con il suo viso a cuore, dai lineamenti delicati e dolci.
Ma lei non si sorprese affatto di quella reazione. – No. Non ti darò l’opportunità di fare a pugni con un umano un po’ strafottente. Credi che non sia in grado di evocare un incantesimo e conciarlo come si meriterebbe da sola? Lo sono, Evan, ma non è così che si fa, e Layla non approverebbe. E se ho ben capito, credo che non sia il caso di mettere altra carne sul fuoco. Cerca piuttosto di salvare quella che già è sulla brace. - Hikari lo fissò con uno sguardo che non ammetteva repliche: si era comportato veramente male con lei, e adesso pagava per le sue stupide, sciocche azioni, ma lui doveva assolutamente trovare un modo per risolvere la situazione, perché sebbene odiasse ammetterlo, gli mancava avere Hikari intorno. Doveva riaverla, ad ogni costo.
Restava comunque il fatto di dover trovare un appiglio di conversazione fruttuosa con lei, e dato che voleva evitare anche quell’argomento, provò a dire una cosa a caso. - Hai sentito della festa che ci sarà fra una settimana nel seminterrato di... Beh, non so di chi in effetti, ma so che promette bene. – Evan odiava le feste umane. Le aveva viste in televisione, se le era fatte raccontare da Kari, e niente le rendeva, ai suoi occhi, attraenti o divertenti. Ma per lei, che invece le adorava, avrebbe fatto un’eccezione.
- Emma, e le ho detto che sarei andata senza accompagnatore. Se vuoi ci possiamo vedere direttamente a casa sua, ma non posso prometterti che mi troverai sobria. – Hikari sorrise: il suo era proprio un brutto, bruttissimo vizio, e nonostante in passato ci avesse provato (beh, forse poi non così tanto), non era mai riuscita a smettere davvero.
Se Evan aveva provato a lanciare una proposta di pace, Hikari gli aveva risposto con un “ci devo pensare”. Non poteva certo biasimarla, l’aveva ignorata per tre lunghe settimane, e dopo tutto quello che era successo a Natale, a Capodanno e prima del secondo semestre, si meritava di essere trattato un po’ a pesci in faccia. - Per che ora vai? -
Hikari ci pensò su. – Credo che verso le sei e mezza, massimo le sette, farò cena con Ellie. Subito dopo andremo a casa di Emma. Anche perché mi ha chiesto una mano con la preparazione dei cocktail. Sarò da lei verso le otto meno un quarto. -
Evan annuì e basta. – Ci si vede, allora. -
- Sì, ci si vede. Ciao Evan. -
- Luce. – e con un leggero ed ironico inchino, le aprì la porta e la lasciò entrata nella scuola.
                                                        ***
Ma che cazzo ci faccio qui.
Evan si passò una mano fra i capelli, digrignando i denti e sospirando rumorosamente – ovviamente, non che si potesse sentire molto, in mezzo a tutto quel chiasso che gli umani chiamavano “musica”. Era lì da un’ora e già non sopportava più di rimanere rinchiuso dentro quella taverna. Era uscito di casa per entrarne in un’altra. Magnifico. Layla gli aveva dato il permesso, anche se continuava a non fidarsi di lui per alcuna ragione al mondo. La cosa peggiore era che non aveva visto Hikari. Non l’aveva trovata da nessuna parte. Aveva visto Ellie, ma era stata sfuggente, l’aveva liquidato con un semplice: “Adesso non può, è occupata”. Ed Evan si era chiesto come cavolo potesse essere occupata, dato che quella, tutto sommato, era una festa: ballare, bere, ridere in allegria... Quali impegni poteva avere Hikari al momento? Non ne aveva la minima idea, ma di certo la cosa non lo rallegrava affatto. Era andato lì apposta per lei, non c’erano altre motivazioni, voleva solamente che lei impiegasse un po’ del suo tempo con lui, voleva godersela, starle accanto, osservare i suoi capelli, il suo modo di muoversi, i suoi occhioni verdi, la risata, le labbra sottili, le dita delle mani lunghe e ossute, il seno quasi inesistente (e dire che l’aveva sempre disprezzato, quel tipo di ragazze), le gambe chilometriche, nonostante la sua statura nanica, il nasino tondo e piccolo.
Devi dirglielo.
Le parole di Layla gli tornarono in mente. Avevano  avuto una specie di discussione a riguardo – perché ovviamente quei due non erano in grado di parlare civilmente, dovevano per forza urlarsi addosso – perché lei era convinta che Evan dovesse dire ad Hikari la verità sui suoi sentimenti, doveva farlo, non poteva rimanere in silenzio per il resto della sua esistenza. Eppure Evan non aveva la minima intenzione di fare una cosa del genere; no, non pensava di essere in grado di farlo, aveva troppa paura, era troppo spaventato. Non ci sarebbe riuscito, mai. E poi, era un’arma a doppio taglio. Non dubitava del fatto di piacerle, di questo era abbastanza sicuro, ma non voleva mettersi in gioco, non voleva dare la possibilità a qualcuno di scoprire la sua vera essenza, di penetrargli non solo nel cervello, ma anche nel cuore. Non lo avrebbe mai permesso a nessuno.
- Certo che un bel ragazzo come te non dovrebbe proprio rimanere da solo. –
Quando Evan girò il volto per osservare la sua interlocutrice, il colorito lo lasciò del tutto. Era Arianne, ed era lì di fronte a lui. Indossava uno dei vestiti rossi più sexy che le avesse mai visto addosso (e lui ne aveva visti fin troppi dei suoi vestiti), e la sua espressione maliziosa non faceva altro che accrescere la voglia di Evan, che era sempre stato attratto da Arianne e dalla sua bellezza provocante. - Ho deciso di rimanere da solo, Arianne. Le umane sono così carine quando ballano, ho provato già un paio di volte. E poi, non mi danno mai buca, se invitate.-
Mosse qualche passo avanti, su quei tacchi vertiginosamente alti; una delle due gambe, lasciata visibile dalla coscia in giù grazie a un lungo spacco, si appiccicò al corpo del demone, e i capelli rossi, leggermente mossi, ricaddero scivolosi sul suo braccio. – Loro non sanno giocare come me. Loro non saranno mai me. Vieni a ballare, dai. – con una mano prese quella di lui, e lo trascinò sulla pista da ballo. Si chiese come lei conoscesse gli usi e i costumi degli umani. Aveva sempre odiato i libri, non ne aveva mai letto uno in vita sua, e non poteva uscire dal castello della madre. C’era qualcosa che puzzava in quella storia, ancora non si capacitava di come Arianne potesse avere tutto quel potere sulla sua vita.
Le note di una canzone scatenata, un mix fra commerciale e rock, invasero tutto d’un tratto la pista da ballo, ed Evan iniziò a muoversi come aveva imparato a fare in quei mesi, e dovette ammettere che Arianne non era niente male, in più sapeva muoversi benissimo sui tacchi – aveva sempre adorato osservarla su quei trampoli, a volte le chiedeva anche solo di camminarci, completamente nuda e i capelli raccolti – ma quella sera sembrava quasi che volesse... Indurlo in tentazione, ecco. Come aveva fatto a Capodanno. I ricordi che gli invadevano la mente erano troppi, e sebbene in un primo istante fossero travolgenti, gli si presentò in un secondo momento l’immagine di Hikari che piangeva, e lo fissava con quello sguardo pieno di disprezzo e, soprattutto, delusione. Quei pensieri furono una sorta di secchiata d’acqua gelida la mattina appena svegli, e si rese finalmente conto di quello che stava facendo. Arianne si strusciava contro il suo corpo con un drink in mano, il seno sfacciatamente messo in mostra sotto i suoi occhi. E un moto di compassione e pietà pervase l’anima del demone, che immediatamente si allontanò da lei di qualche passo e si tirò indietro.
- Sei veramente triste, Arianne. -
Il volto della ragazza andò in fiamme, e il bicchiere che aveva in mano si frantumò in mille pezzi. – Ricordati che abbiamo un accordo, io e te. E se non lo rispetterai, qualcuno si farà molto, molto male. – disse a denti stretti, per poi scomparire del tutto. L’unica cosa che rimase di quei pochi momenti furono i cocci di vetro lasciati a terra, contornati da quel liquido giallognolo. Evan era particolarmente nervoso; la visita di Arianne non gli aveva fatto per nulla bene. Un sentimento d’ira gli pervase completamente il corpo, non lasciando spazio a qualsiasi altro tipo di emozione. Un ragazzo che stava ballando gli sbatté contro, e lui per tutta risposta gli diede uno spintone e gli urlò contro un “Guarda dove cazzo vai!”. Evan odiava sentirsi in quel modo, perché sapeva come in quelle occasioni venisse fuori il il lato peggiore del suo carattere, specialmente perché spesso diceva cose che non pensava davvero, o se lo pensava le ingrandiva ed esagerava, finendo poi per dire qualcosa di falso. Fece per uscire, imboccando il corridoio stretto da cui era entrato, per prendere una boccata d’aria e fumarsi una sigaretta, dato che ne aveva decisamente bisogno per calmare i nervi, quando una delle porte di quel corridoio si aprì e ne uscì Hikari. Addosso aveva poco e, nonostante fosse marzo, dubitava fortemente che non si fosse portata dietro un maglioncino o un giubbotto. Ai piedi aveva solo una scarpa, l’altra l’aveva in mano. Le parigine nere erano arricciate, e l’altezza a cui arrivavano sulla gamba di sicuro non era quella corretta. Ai pantaloncini mancava la cintura, lo sapeva, perché glieli aveva regalati lui. Le spalline della canottiera le ricadevano sulle spalle, e lei non si preoccupava di tirarle su. I capelli rossi erano arruffati, il rossetto sbavato. Dall’interno della camera una voce maschile la chiamò, usando però le parole “Ehi, bambolina”, ed Evan non seppe interpretarne il tono, o meglio, non volle. Perché lo spettacolo cui si trovava di fronte era a dir poco osceno, e immensamente di cattivo gusto. La sua espressione si indurì, ancora di più di quanto già non fosse, mentre Hikari sembrava supplicarlo, anche se nessuno dei due avesse ancora proferito parola. Fu lui a cominciare.
- Ci sei andata a letto. Chiunque egli sia. Non posso crederci. – questa volta era lui ad essere deluso. La rabbia repressa dall’incontro con Arianne e il vederla in quello stato stava montando ancora, e non era sicuro di volerla reprimere.
- No, Evan, non è come credi. Lo giuro! – Hikari non gli aveva mai fatto così tanta tenerezza, e probabilmente, se fosse stato più calmo, avrebbe capito subito che quello era tutto un enorme malinteso, ma era troppo preso dalla rabbia per voler davvero ascoltare.
- Io ti sono stato accanto durante tutti questi mesi, e mi ripaghi andando a letto con il primo che ti capita. Davvero, sei incredibile! E io che pensavo che fossi una per bene, una diversa da me, che ti piacessi per come sono, non perché ho un bell’aspetto, o perché sono ricco! Invece sempre la stessa merda, le ragazze sono proprio tutte uguali. Non ti divertivi abbastanza con me, forse? Sai che ti dico, puoi fotterti, Hikari, hai perso tutta la mia fiducia! Sei proprio una- non finì la frase.
Quello che arrivò fu doloroso, estremamente doloroso. Uno schiaffo nel bel mezzo della guancia, una cinquina molto ben piazzata. Non gli fece male tanto per l’impatto fisico, quanto per il vero significato di quel gesto. Aveva esagerato. Non era riuscito a trattenersi. E questo era il risultato.
- E tu sei lo stesso ragazzino viziato che è salito dal Sottomondo con Layla. Non hai proprio capito niente di me, Evan. Se mi avessi dato il tempo di spiegare, invece di sbraitare, ti avrei detto che in quella camera c’è un ragazzo che si è sentito male, e che è ancora in brutte condizioni. Lo stavo aiutando. Io non ti tradirei mai, anche se non stiamo insieme. Ma a quanto pare, non sono degna della tua fiducia. – ci fu un attimo di silenzio, quello imbarazzante, in cui Evan si vergognò di ogni singola parola pronunciata il minuto prima. Avrebbe voluto inginocchiarsi e mettersi a piangere, perché nell’istante in cui aveva chiuso bocca aveva capito di aver sparato un sacco di stronzate; avrebbe voluto dirle che gli dispiaceva, che non credeva sul serio in quelle parole, che non la reputava una sgualdrina, che era la più bella cosa che potesse capitargli nella vita, ma l’orgoglio dentro di lui tenne a freno tutto ciò, dunque rimase semplicemente in silenzio. Poi Hikari riprese. - Non cercarmi più. Sei spregevole. – senza nemmeno toccarlo, superò Evan di lato ed entrò nella stanza, senza voltarsi indietro. Evan percorse quel che rimaneva del corridoio a grandi passi e, una volta trovatosi in strada, con il gelido vento che febbraio ancora si portava dietro e gli graffiava il viso, si trasportò a casa. Dopo essere entrato, non ebbe nemmeno la forza di salire le scale per arrivare nella sua camera; semplicemente, si lasciò cadere sul divano e cominciò a far fuoriuscire tutte le emozioni che aveva in corpo; si rese conto di ciò che stava succedendo quando percepì il gusto salato delle lacrime sulle labbra. Evan non era abituato a piangere, era un demone: suo padre, una figura forte, impossibile da piegare, gli aveva insegnato che nella natura di un demone non esistevano né la parola paura né la parola sofferenza. Una volta, quando ancora era molto piccolo, era tornato a casa piangendo, perché dei demoni più grandi l’avevano picchiato e maltrattato, solo perché era figlio di un demone molto conosciuto. Suo padre lo rimproverò egli disse che se mai l’avesse visto piangere ancora o lo avesse scoperto da qualcun altro, sicuramente gli avrebbe rifilato una punizione con i fiocchi. L’unica volta, da quel giorno, che gli permise di piangere, fu quando sua madre morì. Il dolore mischiato alla rabbia era una pessima combinazione per Evan. La sera del funerale era uscito a cercare la creatura che aveva ucciso sua madre, e gli aveva fatto passare le pene dell’inferno, letteralmente. Nemmeno quando quello cominciò a supplicarlo di ucciderlo, Evan si fermò. Solamente dopo aver realizzato di averlo fatto a brandelli cessò di martoriarne il corpo, e scappò a casa completamente zuppo di sangue.
In quel momento, però, non era arrabbiato con nessuno in particolare, se non se stesso. Certo, Arianne gli aveva procurato non poco nervosismo quella sera, ma l’espressione di Hikari continuava a tornargli in mente e lo tormentava. Stava singhiozzando come un ragazzino inutile. All’improvviso, una tazza bianca disegnata, emanante un buon profumo di tè al limone, si poggiò sul tavolo che aveva di fianco. Un peso leggero fece inclinare di poco il cuscino del divano, e una mano bianca e gelida gli sfiorò lievemente i capelli biondi. – Dovresti bere un qualche sorso. Il tè non ha mai sanato i cuori infranti, ma certo è che li rattoppi almeno un po’. – Evan non aveva il coraggio di guardarla in faccia. Non voleva vedere i suoi occhi ambrati scrutarlo fin dentro l’anima, anche se, dalle sue parole, aveva già intuito tutto. Layla probabilmente capì il suo stato, poiché appena finita di pronunciare la frasi si alzò. – Questo millennio ha portato molti cambiamenti. Nel 1800 se volevi risolvere una questione o spedivi lettere che chissà se e quando sarebbero arrivate, oppure ti facevi giorni e giorni a cavallo. Adesso con una chiamata o un messaggio tutto si risolve. – e detto ciò, lo lasciò ai suoi pensieri. Dopo che ebbe sentito la porta chiudersi, si sedette e cominciò a bere. Il suo telefono vibrò. Un nuovo messaggio da Eleanor.
“ Che cazzo hai combinato? Avevi promesso che l’avresti trattata bene, ma sta di nuovo piangendo a causa tua. Lockwood, se non implori perdono ti strappo tutto ciò che hai in corpo. Io devo rimanere qui, lei sta andando a casa.”

Guardò l’ora: erano le tre di mattina. Maledizione, perché la lasciava andare a casa da sola a quell’ora in una città come Londra? Produsse un suono basso, come un ringhio; prese velocemente un foglietto e lo lasciò sul tavolo, insieme alla tazza vuota, dicendo grazie a Layla per il tè e che sarebbe tornato appena avrebbe potuto.
                                                        ***
Evan era sulla soglia di casa sua. Adesso lei lo guardava dall’uscio di casa, si sentiva alta anche solo con quei tre gradini di differenza. Un mega maglione di lana verde la copriva interamente, ma era sicura che lui potesse vederla oltre quello. Ci erano già passati.
- Hikari... -
- Mi sembrava di averti detto di non cercarmi. – chiaramente era arrabbiata, molto arrabbiata. E ci provava a fare la fredda con lui, a sembrare acida e distaccata, ma sapeva di non riuscirci. Lei non era così. Ed entrambi lo sapevano. Evan mosse qualche passo e salì sul primo di quei tre scalini. La guardava dritta negli occhi. Poteva scorgere perfettamente la sua paura, e poteva notare quanto fossero rossi: aveva pianto? Beh, anche i suoi lo erano, perché lei aveva pianto di sicuro. Si nascose un po’ più dietro la porta laccata di nero, voleva vedere come avrebbe reagito senza poterle parlare faccia a faccia.
- Hikari, voglio che tu mi ascolti. – a quel punto chiuse la porta, scivolò con la schiena lungo essa e si sedette per terra, ma lasciò la finestrella del gatto aperta. Anche se non aveva alcuna voglia di ascoltarlo. – Perché devo essere io ad ascoltare te? In questi mesi l’ho sempre fatto, e non ho ottenuto granché in cambio, Evan. -
Silenzio. Sentì però il suo corpo sedersi dall’altra parte della porta.
- Allora ti ascolto. Parla. -
Non si sarebbe mai aspettata una frase del genere da lui. Prese quindi un grosso respiro e cercò di mettere insieme frasi di senso compiuto. – Stasera ho ballato un sacco prima che tu arrivassi, e ho anche bevuto, ma quando ti ho visto alla festa la prima volta, ho pensato che fossi bellissimo. Volevo avvicinarmi, ma una ragazza ti ha chiesto di ballare e siete andati in pista. È stato davvero buffo. Perché lei sembrava così dannatamente sexy, e tu invece... Si vede che non sei di questo mondo. Avrei voluto dirti che balli proprio come una gelatina. – si fermò per ridacchiare, poi riprese. – Poi Ellie mi ha detto che c’era un ragazzo che stava male, così mi sono precipitata. Era messo davvero in brutte condizioni, era di un bianco pallido impressionante. Così sono uscita per prendergli dell’acqua e ti ho visto parlare con la ragazza dai capelli rossi, quella di capodanno. Sono tornata immediatamente nella camera con l’acqua e mi sono occupata solo di lui, non ho più voluto pensare a te, perché mi stavo già facendo un sacco di paranoie. Quando poi ci siamo visti in corridoio e abbiamo avuto la discussione, non ho capito subito perché sei giunto a quella conclusione. Poi mi sono guardata in uno specchio e, beh, come non pensarlo. Mentre ballavo mi si è sciolto il trucco e i capelli sono andati a farsi benedire, nel mentre devo anche aver perso una scarpa e non me la sono rimessa. Poi per aiutare quel ragazzo e trasportarlo dal divanetto alla stanza è stata una faticaccia. Forse devi anche aver sentito quel “Ehi, bambolina” che era per Ellie, dato che è un ragazzo che frequenta. Ed ecco tutto chiarito. -
Hikari continuava a non sentire nemmeno un rumore dall’altra parte, e aveva paura che Evan se ne fosse andato e non avesse voluto fermarsi. Stava per alzarsi quando invece Evan parlò. – Mi dispiace di averlo pensato, non avrei dovuto dubitare di te. – dalla finestrella del gatto si infilò la mano di lui, ed Hikari ci andò incontro con la sua, di dimensioni decisamente minori. Intrecciarono le dita, fredde di lui e calde di lei. Hikari poggiò la testa sulla porta, sperando che aggiungesse qualcosa. – E comunque non ballo come una gelatina. – Hikari scoppiò a ridere. – Sì invece! -
- Nient’affatto! Sono un vero schianto. -
- Se ne sei convinto tu! -
Hikari lasciò la mano di Evan per aprirgli la porta e farlo entrare in casa. Subito lo abbracciò, lasciando che i brividi provocati dai suoi vestiti infreddoliti dall’aria di Londra le si scatenassero sulla pelle. Evan prese il suo viso fra le mani e le diede un bacio pieno d’amore, che lei ricambiò alzandosi sulle punte.
E poi il resto venne da solo.
  
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