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Autore: Eustachio    15/02/2015    2 recensioni
Una sera di novembre Francesca e Massimo si incontrano sotto la pioggia. Francesca è timida e insicura, spesso messa in ombra dalla sorella gemella. Massimo ci sta provando o è tutto nella testa di Francesca?
***
Mentre Evelina ruota il braccialetto attorno al polso, mi sembra di rivedere me stessa che mi rigiro il filo d’erba tra le dita. Solo che adesso Massimo le cinge la vita con il braccio e le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei sorride e lascia perdere il braccialetto.
A volte ho l’impressione di vedere la mia vita dall’esterno: qualcun altro identico a me, mia sorella, che la vive al posto mio. Incrocio lo sguardo di Massimo, lo sguardo da innamorato rivolto a Evelina che per un attimo sembra rivolto a me. [...]
Genere: Drammatico, Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Un appuntamento

Venerdì 11 e sabato 12 dicembre 2009

Cammino con calma sul lato della strada illuminato dal sole. L’autobus era strapieno, sono in anticipo e ne ho approfittato per scendere alla fermata precedente e fare quattro passi. Il sole mi solletica le guance. Ho le dita gelate, la mano destra accarezza l’iPod in tasca. I Coldplay cantano Was a long and dark december. Accenno le parole col labiale. Il mondo, con la musica e gli occhiali da sole, sembra ovattato. Gli edifici dell’università si stagliano contro il cielo bianco, il sole nascosto dietro le nuvole. Alcuni studenti sono sdraiati sul prato. Potrei sedermi su una panchina e leggere un po’, in fondo la lezione non comincerà prima di mezz’ora.

Qualcuno mi picchietta col dito sulla spalla. Mi volto di scatto. È Massimo, avvolto in una sciarpa a quadri. Dice qualcosa, ma tutto quello che sento è: If you love me, won’t you let me know? Fermo la musica e mi tolgo le cuffie.

«Ciao».

«Ah, avevi le cuffie! Cosa ascolti?»

«Violet Hill».

«Coldplay, eh?» Sogghigna. «Bella».

Dovevo dire Rammstein o qualcosa del genere. Arrotolo le cuffie mentre camminiamo.

«Hai lezione?» chiede.

«Sì, alle dieci e mezza».

«Anch’io». Guarda il cellulare. «C’è tempo per un caffè, se ti va».

Mi rimetto l’iPod nella tasca del cappotto. Addio alla mezz’ora di solitudine.

«Certo, andiamo».

Al bar insiste per offrire lui e lo lascio fare. Oltre al caffè io prendo un cornetto, lui una bomba alla crema. Mangio a piccoli morsi, attenta a non sbriciolarmi addosso.

«Volevo scusarmi per l’altra volta» dice Massimo.

Aggrotto la fronte. «Per cosa?»

«È che lo faccio un po’ con tutti, ma non mi conosci e magari ti ho offeso. La cosa che non sei un tipo da discoteca e compagnia bella».

«Oh». Mi pulisco le labbra col tovagliolino di carta. «No, non l’avevo presa sul serio».

«Se dovessi dar retta alle prime impressioni e agli stereotipi, dovrei fare Informatica, Ingegneria o qualcosa del genere».

«Com’è che hai scelto Filosofia?»

Si stringe nelle spalle. «Mi è sempre piaciuta al liceo».

«È quello che conta». Il caffè è amaro. Aggiungo un’altra bustina di zucchero e ruoto il cucchiaino. «Anch’io ho scelto Lettere per quello, adoravo Italiano e Latino. Secondo i miei invece dovevo fare Lingue o Architettura».

Massimo si sfrega lo zucchero dalle mani. «Perché mai?» dice a bocca piena.

«Per mio padre con Lingue almeno oltre alla letteratura avrei studiato altre lingue. Una cosa in più sul curriculum, se non altro per avere più materie con cui dare ripetizioni. Era un compromesso, credo. Ad Architettura non so neanche come ci sono arrivati».

«Non vogliono una figlia disoccupata, ho capito».

«Possono permettersi una figlia disoccupata, hanno già mia sorella che farà meraviglie».

«Studia illusionismo?»

«Medicina».

Massimo solleva le sopracciglia mentre beve il caffè. La tazzina tintinna quando la posa sul piattino. «Avrai tutto il tempo di trovare un lavoro per quando si laurea lei. A che anno è?»

«Ha appena cominciato».

«E tu?»

«Lo stesso. Siamo gemelle».

«Oh. Anch’io sono al primo». Accartoccia il tovagliolino e fa canestro nel cestino. «Ho un piano. Quando lei aprirà il suo studio, fai visite e firmi ricette al posto suo. Non serve neanche essere veri medici per quello, basta avere una grafia incomprensibile. In farmacia si inventeranno qualcosa».

«Peccato mi dicano tutti che ho una bellissima grafia».

«Non va bene». Schiocca la lingua sul palato in segno di disapprovazione. «Devi lavorarci su o non andrai da nessuna parte».

«Non posso garantire nulla, eh». Controllo il cellulare. È il caso che vada o non troverò posto. «Andiamo?»

Ho fatto bene ad accettare il caffè. Evelina non ha tutti i torti, è carino. È gentile. Forse cerca troppo di farmi ridere, ma non è una cosa cattiva. Con la barba sembra più grande. Mentre si sistema la sciarpa mi viene voglia di accarezzargliela. Ecco cosa sembra, un orsacchiotto. Ma perché sorride? No, è solo gentile. È la seconda volta che ci vediamo, si è trasferito da poco, probabilmente ha difficoltà a fare amicizia. Certo, con un carattere del genere non so proprio come possa avere difficoltà, ma chi sono io per dirlo? È carino e gentile, tutto qui. Usciti dal bar avrà saldato il suo debito e la prossima volta che ci vedremo ci saluteremo da lontano con un cenno della mano. Non dovrò togliermi le cuffie e lui non avrà tempo per un caffè.

Nel campus abbiamo un breve tratto di strada in comune. A un bivio ci fermiamo.

«Io devo andare da questa parte» dico.

«Filosofia è di là».

«Ci vediamo. Grazie per il caffè». Faccio per incamminarmi.

«Aspetta». Mi ferma con un gesto della mano. «Mi chiedevo, hai mica da fare stasera?»

«Non… non so, ho un’uscita in forse. Perché?»

«Ci prendiamo un aperitivo, se ti va. O qualcosa da bere dopocena. Sempre se ti va».

Con le mani nelle tasche dei jeans è adorabile. Sposta il peso da un piede all’altro come un bambino.

«Scusami» s’affretta a dire, «hai ragione, ci conosciamo appena, è solo una cosa che mi è venuta in mente così, sul momento».

«No, che dici». Aggrotto la fronte. «Va bene, devo solo vedere se riesco a liberarmi da quell’altro impegno».

«Non me la prendo, davvero».

«Ti faccio sapere». Prendo il cellulare dalla tasca. «Mi dai il tuo numero?»

Ci scambiamo i cellulari. Mi restituisce il mio sorridendo. «Giuro che capirò se…»

«Ti faccio sapere» ripeto. «Ora però devo andare. Ciao, buona lezione».

«Ciao, Francesca».

Il modo in cui pronuncia il mio nome mi dà un brivido. È tutta suggestione. Cammino a passo svelto. Mi sembra di sentire il suo sguardo dietro la nuca, ma quando mi volto non è più lì.

A lezione arrivo in ritardo. In fondo all’aula la classe è un brusio continuo e la voce del professore si sente appena.

Ho un appuntamento. Forse. No, è solo un’uscita con uno di cui neanche so il cognome. Non è neanche detto che ci esca, devo ancora confermare. Posso inventarmi una scusa, ma voglio farlo davvero? È carino e gentile. Non mi costringe nessuno. Se dico di no penserà che non mi piace. Se dico di sì però penserà che mi piace e si aspetterà qualcos’altro. Lui ha proposto di uscire come appuntamento o senza impegno? Probabilmente se gli piaccio non sarebbe così ovvio. Me l’avrà chiesto senza pensare. Ma se è davvero un appuntamento cosa faccio? La scelta è solo mia.

A fine lezione mi trovo con due righe di appunti. Uscendo dall’aula caccio il cellulare e scrivo a Evelina: Stasera usciamo?

 

Riflesso nello specchietto retrovisore, Massimo è davanti al bar e alterna lo sguardo dal cellulare alla strada.

«È lui» dico.

«Gliel’hai detto che venivo anch’io, vero?» chiede Evelina.

«No, perché?»

«Avrebbe invitato anche lui qualcuno». Evelina fa spallucce. «Vacci da sola, ti passo a prendere dopo».

«Non dire sciocchezze, non è un appuntamento».

«Quindi non ti piace?»

Con la mano sulla maniglia, esito. «No. Cioè, solo come amico, forse. Lo conosco appena».

«Quindi ci stiamo uscendo perché non volevi dirgli di no e perché forse è un tuo amico».

«Proprio così».

Evelina mi lancia un’occhiata. «Tutto chiaro, andiamo».

Scendiamo dalla macchina. I tacchi di Evelina rintoccano sull’asfalto. Si è vestita bene. Il nuovo cappotto rosso le sta benissimo. I capelli le ricadono dolcemente sulle spalle. Quando Massimo guarda nella nostra direzione gli faccio un cenno, Evelina qualche passo dietro di me.

«Ciao» dice Massimo.

«Ciao».

Fa come per chinarsi, ma ci stringiamo solo la mano. Arrossisco appena.

«È venuta anche mia sorella, non ti spiace? È con lei che dovevo uscire».

«Nient’affatto». Massimo le sorride.

«Evelina, Massimo. Massimo, Evelina».

«Piacere».

«Piacere».

Evelina gli porge la mano, ma si scambiano anche un bacio per guancia.

Massimo è un po’ sorpreso. «Entriamo?»

Ci sistemiamo a un tavolo e ordiniamo. Massimo indossa una camicia azzurra. Anche Evelina indossa una camicetta, però color crema. Io ho un maglione verde veronese a collo alto. Pensavo che Massimo fosse il tipo da felpa, non da camicia. Avrei dovuto scegliere qualcos’altro, osare con gli stivali. Non ci devo pensare. Mi appoggio sullo schienale della sedia, mentre Massimo, con i gomiti sul tavolo e le dita intrecciate, dice: «So che ve lo chiederanno tutti, ma ho una domanda per voi gemelle e non so ancora quanto potrò trattenermi».

Evelina e io ci scambiamo uno sguardo complice.

«Spara» dico.

Sto già per indicargli il fianco destro, dove ho la cicatrice dell’appendicite, e…

«Chi di voi è la gemella buona e chi la cattiva?»

Scoppio a ridere. No, questa è la prima volta che la sento.

«Sono io la cattiva» dice Evelina.

«Oppure» dice Massimo, «lo dici solo perché sei troppo buona per capire che in realtà la cattiva è Francesca».

«No, lei non farebbe male a una mosca». Evelina sorride. «Fidati, sono io la cattiva».

«Non è vero, non sono così buona» dico.

«Fidati» dice Evelina. «La sua principessa preferita è la bella addormentata. Io tifavo per Malefica».

«Piace un sacco anche a me!» dice Massimo. «Da bambino mi faceva paura».

«In ogni caso non vale, non può prendersi il ruolo di gemella cattiva solo per un cartone».

«Finché non avremo prove della tua cattiveria, temo proprio che ti toccherà essere la gemella buona». Massimo sogghigna.

Sbuffo teatralmente.

Evelina mi dà un pizzicotto. «Un punto in più per me».

Il cameriere porta l’aperitivo. Dopo un sorso di spritz, mi do alle arachidi.

«Puoi sempre seguire il mio piano» dice Massimo con metà pizzetta in bocca.

«Quale?»

«Quello dello studio medico, delle ricette…»

«Ah sì».

«Di cosa state parlando?» chiede Evelina.

«Gli ho detto che studi Medicina e visto che tra le due troverai sicuro lavoro prima di me, col fatto che siamo gemelle potrei fingermi te».

«Dimentichi il problema della grafia».

«Ah sì. Devo anche peggiorare la mia grafia, altrimenti corro il rischio di scrivere ricette comprensibili».

«Se le ricette sono incomprensibili com’è giusto che siano» — Massimo deglutisce — «non le serve neanche studiare qualcosa per essere convincente, basterà quello».

«Dimenticate un piccolo dettaglio» dice Evelina.

«Quale?» chiediamo in coro.

«Non scriverò ricette. Voglio fare ricerca». Ruba un’arachide dalla mia ciotola e se la lancia in bocca. «Voglio trovare cure per malattie serie, non malanni».

«Non me l’hai mai detto» mormoro.

«È davvero nobile». Massimo per qualche istante la guarda serio prima di aggiungere: «Mi sa che con questo ti sei guadagnata il ruolo di gemella buona a vita, Malefica o meno».

Evelina beve un sorso di spritz, facendo un gesto noncurante con l’altra mano. «Vedremo».

 

Dopo l’aperitivo andiamo al cinema. Stavolta guido io: Evelina ha fatto un secondo giro con lo spritz e le gira la testa. Nel tragitto in macchina Massimo, seduto sul sedile anteriore, chiede di nuovo: «Sei sicura di non voler tornare a casa? Al cinema possiamo andarci un’altra volta».

«Non è niente». Evelina ridacchia. Ha le guance rosse, gli occhi le brillano. «Chi è il medico qui?»

«Non sappiamo neanche gli orari del cinema» dico. «Cosa danno?»

«Non lo so» risponde Massimo.

«Qualunque cosa va bene, è troppo presto per tornare a casa». Evelina abbassa il finestrino, socchiude gli occhi e sporge la testa. «Accelera».

Massimo tamburella le dita sullo sportello. Cambio marcia sospirando. La serata sta andando bene. Massimo è simpatico e senza Evelina ad appoggiarmi sono certa che mi sarei chiusa in me stessa. Però qualcosa è cambiato. Credo che Massimo sia un po’ a disagio. Ed Evelina stessa si sta comportando in modo strano. L’alcol lo regge molto meglio di così. Due bicchieri di spritz non le hanno mai fatto questo effetto. Non riesco a capire cos’abbia. D’altra parte ha ragione: è troppo presto per tornare a casa. Una delle due deve guidare, non possiamo andare a bere in qualche locale. E fa troppo freddo per girare senza meta. Il cinema può andare.

Prendiamo i biglietti per 500 giorni insieme. Siamo appena in tempo per l’inizio dello spettacolo delle undici meno un quarto, ma finiamo tra le prime file. La sala pullula di coppiette, le luci sono già spente, c’è una pubblicità su un’automobile. Massimo si siede al centro, io a sinistra, Evelina a destra.

A film iniziato sussurro a Massimo: «Lui è lo stesso tipo di 10 cose che odio di te, vero?»

«Mi sa di sì».

«Avevo una cotta per lui».

«Davvero?»

Annuisco. «Lei sembra Katy Perry».

«Già».

È concentrato sul film, non toglie gli occhi di dosso dallo schermo. Sembra proprio il tipo a cui piace godersi il film fino in fondo senza distrazioni. Scelta infelice di posti: se fossi io al centro, perlomeno potrei commentare gli attori con Evelina e punzecchiare lui solo di tanto in tanto. Ma è stato un caso, Evelina li ha presi e li ha distribuiti al volo.

Il film è carino. Non è la classica commedia romantica americana con battute che non fanno ridere. Lui in 10 cose che odio di te era proprio un cucciolo, qui sembra quasi un’altra persona. Vorrei farlo notare a Massimo, ma non voglio disturbarlo.

Ha i gomiti poggiati sui braccioli, lo sguardo sempre fisso sullo schermo. Sul suo viso si alternano le luci del film. Con la mano sinistra si gratta una guancia. La destra ce l’ha appoggiata sul bracciolo e stringe… un’altra mano. Evelina. Le loro dita sono intrecciate. Massimo condivide il bracciolo con lei. Il vecchio braccialetto di Evelina sembra brillare di luce propria. Il color crema della camicetta spicca sull’azzurro della camicia anche nella penombra della sala.

Mi manca il respiro. Nella sala del cinema sono sola, una bambina con le braccia incrociate. Perché sta stringendo la sua mano, perché non la mia? Si sono appena conosciuti. Sarebbe dovuto toccare a me. Ma l’ho appena conosciuto anche io, non volevo arrivare a tanto. È il primo appuntamento. Neanche era un appuntamento, era solo un’uscita tra amici. Forse a lui piacevo davvero, ma non gli ho dato nessun segnale e si è accontentato di lei perché in fondo siamo identiche, no? È questo che pensano tutti, che solo perché siamo gemelle siamo intercambiabili e se non ti vuole una va bene l’altra. Perché Evelina non ritira la mano? Lo sa… No, non lo sa, non gliel’ho detto, non le ho detto nulla perché non c’era nulla da dire. Il cinema era solo una scusa, avremmo dovuto rimandare. Voglio tornare a casa.

«Oh be’» fa Massimo appena le luci della sala si riaccendono.

Ci alziamo nel trambusto generale.

«Ti è piaciuto?» mi chiede.

Non si tengono più per mano. Evelina è a testa bassa mentre si riallaccia il cappotto.

«Che hai fatto?» Massimo mi guarda con la fronte aggrottata. «Hai gli occhi lucidi».

Tiro su col naso, scuoto la testa. «Sono le luci, mi danno fastidio agli occhi. Il film è carino».

«Non starla a sentire, è una sentimentalona, lei» dice Evelina. «Non ti è piaciuto che alla fine non tornano insieme, di’ la verità!»

«È carino». Mi faccio largo tra i sedili e comincio a scendere le scale. Evelina e Massimo mi raggiungono parlottando del film. Dall’uscita del cinema fino alla macchina cammino in silenzio, il mento dentro il bavero. Ridono e citano le scene del film. Quando mi coinvolgono rispondo con un tono affabile o con una scrollata di spalle o con una risatina. In macchina guido sempre io. Evelina e Massimo si scambiano i numeri di cellulare e quando lo lasciamo sotto casa saluta prima lei e poi me.

Abbandonato la folla e i locali del venerdì sera, la strada è deserta e a rallentarci sono solo rotonde e semafori.

«Sei stanca?» chiede Evelina.

«Un po’». Tiro su col naso.

«È andata bene, no?»

«Penso di sì».

I vetri si stanno appannando. Abbasso di qualche centimetro entrambi i finestrini.

«Non gli hai reso proprio giustizia, a Massimo» dice Evelina. «È proprio tanto carino. Se sapevo che c’erano ragazzi del genere a Filosofia mi evitavo la fatica di entrare a Medicina».

«Ma se hai a malapena aperto libro. E hai preso anche il massimo».

«Non è questo il punto».

Faccio spallucce.

«Ma che hai?» chiede.

«Niente. Sono stanca, tutto qui. Ti spiace se non parliamo?»

Evelina controlla il cellulare. Trattiene una risatina, poi scrive un messaggio.

«È Massimo?»

Evelina esita. «Sì».

Sono stupida, stupida, stupida. Non dovevo parlargliene. È sempre così. Ogni volta che provo a farmi degli amici, Evelina mi mette in ombra. Avrei dovuto approfittare dell’università per allontanarmi da lei, e invece…

«Ci hai visto baciarci, vero?»

Mi manca il respiro. Quando si sono baciati? Se lui si fosse chinato su di lei durante il film l’avrei notato con la coda dell’occhio. O si sono baciati dopo mentre camminavamo? Non possono essersi baciati. Non possono fisicamente essersi baciati.

«Non importa».

Evelina fa un respiro profondo prima di parlare.

«Hai detto che non ti piaceva se non come amico, e forse neanche quello. Hai detto che non era un appuntamento. Hai invitato anche me e quando ti ho chiesto se preferivi che tornassi a casa hai detto di no».

La sua voce è ferma, tagliente. Non è cattiveria, è la verità.

«Fai come ti pare» mormoro.

Parcheggio davanti casa. Spengo il motore, mi slaccio la cintura di sicurezza.

«Ti adoro» dice Evelina. «Sei mia sorella e sei la mia migliore amica, ma non puoi pretendere che il mondo stia ai tuoi comodi».

Scende, chiude lo sportello. Aspetto che il rumore dei tacchi sul vialetto scompaia, poi scendo e rientro in casa anch’io.

   
 
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