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Autore: Reyvateil    18/02/2015    2 recensioni
"E’ assurdo, mi sembra di aver vissuto più di cent’anni e allo stesso tempo sono ingenua come una ragazzina. Ricordando ciò che sono stata, la mia anima si carica di un peso che a malapena riesco a sopportare, ma voglio scrivere. Come se fosse il primo giorno, il momento in cui un soldato mi puntò la pistola contro, in una notte piovosa e senza Dio. Il giorno in cui venni catturata, e paradossalmente la mia allora miserabile vita cambiò."
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Una storia che intreccia le la vita della protagonista e degli altri personaggi a cavallo fra due Mondi; infanzia e adolescenza da una parte, età adulta dall'altra. Una storia di crescita, consapevolezza, paure e principi per cui imparare a lottare. Enjoy.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia picchiettava incessantemente sul vetro della finestra e il suo suono cominciava a trapanarmi la testa; più attendevo nel silenzio, più sarebbe peggiorato, sentivo che dovevo cominciare a parlare a ruota libera o sarei affogata nei miei stessi segreti.


CHAPTER FIVE -  MONSTERS OF THE PAST



“Come ti accennai tempo fa, casa mia era a Neara. E’… una piccola cittadina ferma nel tempo, piena di tradizione ma che riserva sempre un sorriso per i nuovi arrivati. Si trova a sud est di East City, in un’area relativamente lontana da altri centri abitati ma comunque non isolata. … Ricordo ancora le sue strade polverose e i muri in pietra che proteggevano dal torrido caldo estivo. In quelle zone il clima comincia ad assomigliare più a quello dei confini dell’est; secco, caldo, non era una novità se l’acqua scarseggiava, ma ce la cavavamo sempre. La mia famiglia… Era molto classica, se possiamo definirla così, il tradizionale nucleo famigliare di una popolazione ishibeliana: nostro padre era molto devoto a Ishvara e voleva crescerci “nella luce della sua fede”, come spesso lui stesso diceva. Ma mia madre… Lei era diversa, un fiocco di neve nel deserto, che faticava ogni giorno per mantenere la sua integrità. Lei veniva dalle lande del Nord, era bella ed elegante per natura, e vivere a Neara l’ha sempre fatta soffrire. Conobbe mio padre a East City durante un viaggio di lavoro, molti anni fa; inutile dire che la sua fu una fuga d’amore, andò contro il volere della sua famiglia per sposarlo, mollò tutto e non fece più ritorno a casa. Credo che col tempo si fosse pentita della sua scelta, nonostante continuasse ad amare mio padre.”
 
Alphonse mi stava ad ascoltare con trasporto. Era seduto composto sul mio letto e non smetteva di guardarmi, come un bambino a al quale viene raccontata una favola; ma non avrebbe certamente trovato lieti fine in questa e per fortuna non sarei stata in grado di scorgere il disappunto nel suo sguardo.
 
“Che dire, non siamo mai stati particolarmente agiati, i miei genitori hanno sempre lavorato sodo per mantenere me e i miei fratelli, Mourin, Levi e Kuriah. Io ero la più piccola dei quattro, l’unica femmina e la “speranza” di mia madre; voleva a tutti i costi che io portassi avanti le sue tradizioni nordiche, era diventata fissata, e non riusciva a capire che tutto quello che mi interessava, a 6 anni, era correre per le strade con i miei fratelli a piedi scalzi e ginocchia sbucciate. Loro… Erano molto simili a mio padre. Avevano una pelle mulatta e gli occhi rubino, ma i capelli erano chiari grazie alla mamma. Inutile precisare che ero l’unica “bionda occhi azzurri”. All’inizio, da quel poco che ricordo, la nostra vita era tutto sommato serena. Papà faceva il commerciante, ricordo ancora tutte quelle volte in cui mi faceva salire sul suo carro. Vendeva un po’ di tutto, era un asso nell’arrangiarsi come meglio poteva e la spuntava sempre, non importava in che guaio si mettesse o quante ansie procurasse alla mamma. Ma dopo pochi anni dall’inizio della rivolta a Ishibar del 1901, razzismo e povertà raggiunsero anche la nostra tranquilla cittadina; avevo 7 anni quando mio padre partì con Levi (di ormai 17) in cerca di fortuna, non facendo più ritorno. Mia madre tentò di avere loro notizie per anni ma era sempre troppo impegnata a mandare avanti quello che papà aveva lasciato: una casa e una famiglia da sfamare. All’età di 10 anni già vendevo al mercato la verdura del nostro orto per conto di mia madre, diventando scaltra in poco tempo, e alla sera davo una mano in casa assieme ai miei fratelli. Ma restavo pur sempre una bambina.
Era una sera primaverile quando uno sconosciuto si presentò al mio bancone ortofrutticolo, ormai stavo già cominciando a chiudere la baracca.
Lo vidi avvicinarsi piano, con un caldo sorriso che, non so perché, metteva ugualmente i brividi. Portava un cappello nonostante non facesse freddo e non ci fosse più molto sole. Prese uno dei miei pomodori e, dopo aver dato un’attenta occhiata, come per mostrare che se ne intendeva, mi disse:
“Dei bei pomodori, belli davvero, hanno un aspetto splendido”
“Non devono essere belli, ma buoni” risposi, con la mia solita schiettezza e un pizzicò di ingenuità infantile. Avevo solo 12 anni.
“E dimmi, quanto guadagni ogni giorno con questi ortaggi?”
Dopo avergli timidamente detto la somma mi guardò, fissandomi per quella che mi era sembrata un’eternità. Non era solo uno scambio di sguardi, i suoi occhi verdi mi scrutavano con attenzione, mi leggevano, mi trapassavano da parte a parte. Mi sembrò una violenza.
“Come te la cavi con gli animali?” mi chiese
“… Non ne ho mai avuti, a parte quando è stagione di lucertole e io e i miei fratelli andiamo a stanarle… Ma… Ma mi piacciono molto! Soprattutto i cani.”
Gli si illuminò il volto, come se la sua aura minacciosa si fosse dissolta in un soffio. “Avrei un lavoro per te allora. Part time, s’intende. Ti pagherò il triplo di quanto prendi con questa baracca. Vediamoci domattina presto dietro il tempio e ti dirò di cosa si tratta”.
Detto questo, si dileguò.
Non dissi nulla alla mamma, nonostante ne avessi una gran voglia. Sembrava preoccupata già così, avrei voluto dimostrarle che anche io sapevo fare la persona grande una volta tanto. E’ tipico dei bambini, vero? A pensarci ora era un pensiero davvero stupido. Il giorno dopo, quel tizio mi stava già aspettando nonostante fossi in anticipo. Mi fece cenno di seguirlo e così feci, lo seguii fra le strade senza proferir parola, per poi raggiungere la periferia est della città, dove si trovavano le case benestanti. Infatti la sua era una di quelle con tanto di giardinetto dal prato ben curato. Ero stata raramente in quella zona, inutile dire che ero nervosissima mentre varcavo la porta di casa sua; ero piccola ma i miei occhi avevano già conosciuto il mondo abbastanza bene da averne un po’ paura, e non auguro a nessun bambino un’infanzia come la mia. Ma quando mi trovai un cagnolone nero che mi annusava incuriosito mi rasserenai subito.”


Senza aggiungere parola, Al sussultò. Lo vidi poi stringere un po’ i pugni, titubante, non sapeva se avrebbe dovuto farmi delle domande o se era meglio tacere. … Lo vedevo struggersi perché voleva mettermi a tutti i costi a mio agio e avrebbe fatto di tutto per permettermi di continuare a raccontare, e col senno di poi lo trovai un comportamento davvero tenero. Abbozzai un sorriso di comprensione, sfiorandomi le grandi orecchie da lupo, strofinando un po’ il pelo nero fra le dita.

“Sì… sono sue. Ti lascio immaginare quanto andai nel panico la prima volta che me le tastai sulla testa.
“Lei è un lupo nero, si chiama Blue. Ti sembrerà grande ma non ha neanche un anno, è buona sai? Lascia che faccia la tua conoscenza.” Mi disse l’uomo con un sorriso “Io lavoro molto, nonostante sia sempre a casa non riesco a prendermi cura di lei come vorrei; per questo ti offro un ruolo come sua badante, so che ti sembrerà ridicolo ma ne ho davvero bisogno.”
Inutile dire che accettai, e io e Blue facemmo presto amicizia. Non avevo mai visto un animale come lei, con un pelo nero come la notte e gli occhi incredibilmente chiari; più avanti mi fu detto che probabilmente non era al 100% lupo, che qualche suo antenato doveva essere stato un ibrido tra lupo e cane, poiché non vi sono esemplari così in natura. Forse per questo motivo era così amichevole con un’estranea come me, o forse ci fu una connessione tra noi fin dal principio. Lei era giovane, adorava giocare ma aveva sempre quei modi così eleganti nella corsa e nel modo di approcciare con gli altri, dei modi tipici del grande “lupo della della foresta”, e il suo sguardo era così penetrante, sapeva guardarti l’anima…”
 

“Come il tuo” aggiunse Alphonse, quasi senza pensarci. Arrossii immediatamente e vidi che anche lui cercava di ricomporsi in maniera impacciata. Distolsi lo sguardo imbarazzata, cercando di riordinare le idee per continuare.
 
“Scoprii in seguito che il nome del mio datore di lavoro era Richard Telamy, un alchimista. Lo scoprii frugando fra le sue carte mentre lui non c’era, poiché non mi volle mai dire come si chiamasse. Spesso, mentre io e Blue giocavamo in giardino lui stava seduto su un tavolino, fra fogli e blocchi di appunti, e giurai che stesse scrivendo qualcosa su di noi perché spesso alzava lo sguardo verso me solo per poi prendere la penna come se aggiungesse delle note.
Passarono 3 mesi e in tutto questo tempo avevo tirato fuori le peggio scuse da dire a mia madre per poter andare dal mio lupo preferito, giacché ormai eravamo inseparabili. Una mattina entrai in casa, come ogni giorno, usando le chiavi che mi erano state consegnate. Tutto era buio, le tapparelle erano abbassate, chiaramente fu strano; Telamy poteva essere uscito lasciando la casa chiusa, ma preoccupata di non veder Blue venire a farmi le feste mi addentrai subito.
“…Blue?”
Fu l’ultima cosa che dissi prima del disastro: ricevetti un forte colpo alla testa e tutto si fece buio.
 
Al mio risveglio il dolore era lancinante, non solo sul capo bensì in tutto il corpo, riuscivo appena a respirare nei primi minuti di coscienza. Mi trovavo in una gabbia e c’era solo la luce soffusa di qualche candela nella stanza, ma non fu la cosa che mi preoccupò maggiormente… Avevo delle zampe nere al posto delle mani. Volli urlare ma non uscì nulla dalla bocca, nel panico generale mi resi conto che anche gli arti posteriori erano quelli di un cane. Di mio avevo ben poco, i miei capelli erano lunghi e neri, parevano fondersi con la pelliccia del corpo; non potevo sapere se il mio viso fosse lo stesso o no.
“Ben svegliata.”
Telamy entrò nella stanza, il suo sorriso era quello di un deviato. Piansi silenziosamente, mentre cercavo di chiedere aiuto almeno a lui. L’alchimista avvicinò uno sgabello alla gabbia, si sedette calmo e sussurrò queste parole: “E’ meglio che tu ti abitui subito a questo corpo, lo avrai per tutta la vita.” disse “Forse muterà un po’, ancora non posso saperlo con certezza; è questo il bello degli esperimenti, giusto? Tu e Blue avete acquisito un’affinità sufficiente da potervi fondere senza rigetti, ma ancora non ho prove certe.”
Lo guardavo con gli occhi spalancati senza capire nulla di quello che dicesse. Chiaramente parlavamo la stessa lingua ma non riuscivo a ragionare sulle sue parole, nonostante tutt’oggi io non le possa dimenticare.
“Giusto, dobbiamo andare per gradi io e te, mia piccola creatura: sei mezzo lupo adesso, non so ancora se questo ha avuto ripercussioni sull’apprendimento e la comprensione. Sappi comunque, giusto perché il panico non ti uccida, che potresti sentire un “intruso” nella tua mente, bambina mia. Potrebbe essere Blue che interferisce con i tuoi pensieri: istinto, ormoni che entrano in contrasto, ma non è solo questo… Io ho avuto successo dove tutti hanno fallito… Non sei una comune chimera. Entrambe le vostre anime si trovano in questo corpicino deforme, entrambe siete in vita, ora sta solo a noi vedere chi prevarrà. Ahhh, sono così emozionato, sono un bambino a Natale! Sarò l’invidia di tutti i miei colleghi, si sta facendo la storia dell’alchimia!”
Vaneggiava, questo pensavo. Credevo fosse totalmente pazzo, che fossi nelle mani di un maniaco. Ma forse era solo abbastanza crudele da non essersi fatto scrupoli a sfruttare una povera bambina, affamata dalla povertà e illusa dalla dolcezza di un cagnolino. Al solo pensiero non so se piangere o urlare dalla rabbia…
 
Non so quanto tempo passò prima che riuscissi a scappare. Non davo mai segni di poter camminare, ero sempre accasciata a terra, e forse questo lo persuase ad aprire la gabbia con noncuranza mentre mi riempiva la ciotola d’acqua. Feci finta di essermi addormentata e appena fu fuori dalla stanza, raccolsi tutte le mie forse per correre verso la porta; mi resi conto di essere diventata incredibilmente veloce. Con un salto arrivai alla maniglia e fui fuori prima che se ne accorse, corsi come un razzo verso casa mia e non mi voltai mai indietro; era notte fonda e le strade erano fortunatamente deserte, ma mi resi conto di quanto fossi agile e silenziosa nei movimenti, le mie zampe avevano la stessa elegante andatura di Blue… Ma cercai di non pensarci troppo.
Inutile dire che una volta sull’uscio di casa, dopo aver tentato di chiamare qualcuno con quello che sembrava un misto tra un ululato e la voce roca di una vecchia, mia madre aprì, ma non mi riconobbe e spaventata riuscì ad affondare il coltello da cucina all’altezza della mia spalla prima di darmela a gambe. Quella notte corsi fino a quando le zampe non iniziarono a sanguinare, fino a quando non caddi a terra e non ebbi più la forza di rialzarmi e dovetti trascinarmi fino a un riparo sicuro, tra gli alberi, ormai lontana dalla città.
Da quel giorno per molto tempo non feci altro che vagare tra una zona boschiva e l’altra, viaggiando di notte, subendo dolorose trasformazioni che cambiavano anche totalmente l’assetto del mio corpo; era una tortura, ma nonostante tutto volevo ancora vivere, questo grazie allo spirito di sopravvivenza insito in Blue. Capii come cacciare e tantissimi accorgimenti che, anche se malnutrita, mi consentirono ad arrivare fino ad oggi. Dopo qualche mese il mio corpo cambiò per l’ultima volta, restando come lo vedi ora. Di Blue ho le orecchie, la coda, gli occhi e un po’ della dentatura… Mi considero immensamente fortunata anche solo per questo, e pare che anche a lei non dispiaccia, come se sapesse quanto stessi male con il corpo iniziale e mi avesse voluto assecondare. La vedo ancora nei miei sogni, nonostante la senta comunque spesso nella mia testa e il suo sangue scorra nelle mie vene. Andiamo spesso d’accordo come Telamy aveva previsto, ma in passato ho avuto diversi “black out” in cui non controllavo il mio corpo e non vedevo ciò che accadeva, spesso quando non sapevo più gestire una situazione di panico; alle volte mi sono svegliata lontano da ogni pericolo, mentre stavo scavando buche o dissotterrando carogne… Ma ci sono stati momenti in cui mi risvegliavo coperta di sangue. E non era il mio.”


Alphonse vedeva quanto mi sforzassi per tirare fuori quelle parole. Ormai parlavo con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, ma mi sentivo ugualmente la pressione della verità sulle spalle e il riflesso della sua armatura sul vetro mi ricordava che stavolta non avrei parlato invano. Era incredibile quanto avessi parlato, mi sentivo in un mare di sudore e mi girava la testa; come avevo fatto a tenermi tutto questo dentro? Presi un bel respiro, pregando che Al non scappasse da un momento all’altro con la mia confessione fra le mani. Dovevo fidarmi di lui, ne avevo eternamente bisogno.
 
“Ci vollero due anni prima di arrivare a quella che era Central City… Ormai ero abbastanza abile da potermi muovere anche in città senza destare sospetti, facevo la ladra, rovistavo nella spazzatura… Non lo stile di vita migliore del mondo, ma era più facile trovare del cibo. … Dopo poche settimane, beh, mi avete trovata.
Ed ecco tutto.”

 
Mi voltai verso di lui, in attesa di una risposta, di qualsiasi genere. Avevo vomitato le mie emozioni e il mio passato, la verità mi aveva dissanguata eppure mi sentivo ancora tesa come una corda di violino, c’era qualcosa che mancava. Avrei voluto pensare che fosse finita, ma in realtà avevo ancora molte sfide e sofferenze che mi aspettavano e lo sapevo bene. Avrei voluto sorridere e ringraziarlo di avermi ascoltata, ma sarebbe stato riduttivo, la mia gratitudine non poteva essere quantificata e ogni tentativo l’avrebbe soltanto sminuita.
“Laisa, io…” accennò con voce tremante, tendendo una mano verso il mio viso.
Fu a quel punto scoppiai in lacrime di fronte a lui, senza ritegno. Era tutto ciò che potessi fare e in quell’esatto istante mi resi conto che era anche la cosa giusta da fare. Senza esitare un istante, Alphonse scacciò tutta la sua emozione e il suo imbarazzo e mi prese con sé, fra le sue braccia, non disse nulla ma la sua stretta forte e dolce allo stesso tempo non lasciava spazio a nessuna parola esistente; io mi accovacciai sulle sue gambe continuando a piangere a dirotto. Il cuore andava a mille e la testa mi girava, ma sapevo che prima o poi avrei pagato quel prezzo per stare meglio. Presa dalla stanchezza, pian piano la mia vista già offuscata si fece ancora più imprecisa e confusa, poi caddi in un sonno profondo.
La pioggia smise di cadere e quel silenzio, tanto atteso dopo mille sofferenze e lacrime, portò pace anche a Blue, persa nel buio della mia mente.
   
 
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