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Autore: Calenzano    21/02/2015    1 recensioni
“E fuochi accesi ad ardere i Tuoi fianchi, tracce nel tempo, segni per il cuore.
Ma come è pietra risalire a Te, Jerusalem...”

I tre giorni che hanno cambiato per sempre Gerusalemme, ricordati e narrati da coloro che, per caso o per amore, hanno avuto a che fare con il Nazareno.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Non era l'uomo che credevo fosse. Non lo era. Ho fatto quello che era giusto. Nient'altro. Lo ripetevo tra me, più e più volte, fino a far diventare le parole una cantilena senza senso. Il vento che soffiava da est mi portava, a tratti, l'eco lontana delle grida che venivano da lassù, dal pendio brullo e riarso del Golgotha.

​Avrebbe potuto salvarsi, se fosse stato quello che diceva di essere. Perché non l'ha fatto? La gente lo amava, l'avrebbe seguito. Bastava vedere come gli andavano dietro ovunque si recasse, come acclamavano il suo nome solo pochi giorni fa. Sarebbe bastata una sua parola. Il popolo sarebbe insorto a centinaia, a migliaia, i Romani sarebbero annegati nel loro sangue. Li avremmo cacciati da Gerusalemme, dalla Giudea, da tutta la nostra terra, e Israele sarebbe stato di nuovo libero. Come ai tempi gloriosi di Saul, o di David. Quando avevo sentito che quel rabbì, di cui si dicevano cose straordinarie, era un discendente del grande monarca, non avevo avuto dubbi. Il Messia era finalmente giunto. E quando era arrivato nel mio villaggio gli ero corso incontro, facendomi largo con impazienza tra la folla,
 e l'avevo implorato di prendermi tra i suoi discepoli. Sembrava che non volesse, aveva addirittura cercato di dissuadermi. Ma sapevo che mi stava mettendo alla prova, di certo voleva saggiare la mia determinazione, e io gliela avevo mostrata. Ero arrivato a umiliarmi, prostrandomi davanti a lui come un cane. E alla fine aveva ceduto.

Ero riuscito a guadagnarmi la sua fiducia, nonostante gli altri spesso mormorassero alle mie spalle. Credevano non li sentissi, quando mi davano del ladro e del frequentatore di prostitute. Ma io non me ne curavo, e seguivo il rabbì di Nazareth in quella vita randagia per le strade della Giudea, della Samaria e della Galilea. Ma ero stato costretto a ricredermi. Avevo visto con i miei occhi prodigi incredibili, ciechi che riacquistavano la vista, paralitici che tornavano a camminare, indemoniati sanati, persino un morto uscito dal sepolcro. Ma ogni volta che ci preparavamo ad acclamare Gesù nostro re, quello spariva in qualche luogo deserto. Proprio quando sembrava giunto il momento giusto, era riuscito a fare il vuoto attorno a sé, proclamando dottrine assurde, mai sentite prima. Non era quello che volevo. I miei contatti con gli Zeloti nascosti sulle colline premevano, volevano sapere quando saremmo entrati in azione. Presto, avevo promesso loro, non appena il Rabbì entrerà a Gerusalemme. Ed era stato un trionfo, quando l'aveva fatto. Due ali di folla lo avevano accolto esultanti, intonando benedizioni, agitando rami di palma e stendendo i mantelli sulla strada, mentre i bambini correvano per le vie della città strillando che passava il figlio di David. Ma ancora una volta lui ci aveva delusi tutti. Non ci avevo visto più. Volevo il Messia, e lo avrei avuto, a qualsiasi costo. Se lui non voleva entrare in azione, l'avrei costretto io. Accordarsi con le autorità del Tempio non era stato affatto difficile, conoscevo molti di loro.

Solo quando avevo sentito la sua voce, nel buio del Getsemani, affermare tranquilla “sono io”, avevo vacillato. Ma non potevo tornare indietro, le guardie del Sinedrio mi sbarravano il passo, e ormai mi ero spinto troppo oltre.

Gli ero andato incontro, come per caso.

“Rabbì.” Avevo salutato, odiando la mia voce che tremava.

E poi l'avevo baciato.

Il resto degli eventi era corso via come un brutto sogno. La cattura, il processo, la condanna. L'assoluta assenza di reazioni. Potevo vederlo, da lontano, ridotto come l'ultimo dei criminali, non fare parola mentre il suo destino si compiva. Ma prima che lo conducessero via, avevo avuto l'impressione che guardasse proprio dalla mia parte. Era dolore quello che avevo intravisto? Non lo sapevo. Sapevo solo che in quel momento mi ero reso conto del mio errore. E mi ero sentito l'uomo più miserabile della terra. Con le mani tremanti, ero corso al Tempio, con l'assurda speranza di poter ancora fare qualcosa per rimediare. Avevo offerto indietro il denaro, dichiarandomi pentito, chiedendo di fermare tutto. Ma si erano rifiutati di ascoltarmi, mi avevano trattato come un pezzente.

“Che importa a noi? È affare tuo.” Avevano affermato, prima di sbattermi la porta in faccia. Caifa non aveva neppure sollevato gli occhi delle sue occupazioni.

E mi ero ritrovato di nuovo per le strade polverose, il pianto strozzato in gola. Avevo oltrepassato le porte della città, e per ore avevo vagato per la campagna, privo di meta, fino a fermarmi esausto. Ero solo. Avevo capito che non c'era rimedio, e che mai più, anche se fossi vissuto quanto l'Eterno stesso, avrei potuto avere pace. Mi era sfuggito un verso lungo, rauco e stonato, che era risuonato rumorosamente nel paesaggio deserto. Mi ero morso le labbra con forza, fino a sentire il sapore del sangue, ma era tutto inutile. Il dolore che provavo era troppo, per poterlo contenere. Io non avevo commesso un errore, l'errore ero io. Mi ero ripiegato su me stesso, senza badare ai sassi spigolosi sotto le ginocchia, e avevo gridato tutto il mio rimorso contro il cielo arroventato.

 


Solo dopo quelle che mi erano parse ore, avevo smesso di sussultare. Avevo fissato il terreno pietroso, in silenzio. Poi mi ero risollevato. Ora sapevo cosa fare. Non c'era più disperazione. Solo una fredda determinazione. Con calma, mi ero incamminato alla ricerca del luogo ideale, allontanandomi dal sentiero. Finalmente l'avevo trovato, un robusto sicomoro con un massiccio ramo orizzontale, perfetto per lo scopo. Con calma mi ero sciolto la cintura, con calma avevo formato un cappio, e mi ero arrampicato sull'albero per legare l'altra estremità. Sul profilo del Cranio, in lontananza, tremolanti per il calore dell'aria, si intravedevano le sagome delle croci.

Mi ero passato il cordone attorno al collo. Non pensavo a nulla. Ma, un attimo prima di lasciarmi scivolare giù dal ramo, avevo sentito nelle orecchie la voce amara del Maestro:

“...sarebbe meglio per lui se non fosse mai nato.”

Un istante dopo, lo schianto secco aveva cancellato anche quelle.






 

  
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