Capitolo 2. Anime fragili
Il treno
frenò stridendo forte sui binari e quando le porte si
aprirono gli
studenti scesero sulla banchina come un rumoroso sciame d'api. Il
castello li attendeva nella sua maestosa imponenza e, se ispirava
fiducia e protezione a chi lo vedeva per la prima volta, non si
poteva dire lo stesso per coloro che vi facevano ritorno. Il ricordo
della feroce battaglia, come una nube nera carica di poggia, oscurava
la luce di tutti gli anni passati insieme tra le mura della
scuola.
Draco
Malfoy, fermo in piedi accanto al suo baule, sentì un
tremito
attraversargli le viscere.
Aveva paura.
Irrazionale
terrore di varcare la soglia di Hogwarts e trovarli in attesa del
loro arrivo, avvolti nei cappucci neri e con le facce coperte dalle
maschere.
Accese un
sigaretta, ostentando la gelida calma che gli era sempre stata
richiesta. Cosa ne sarebbe stato di lui? Si sentiva perso, spogliato
del suo ruolo e privato di una base solida su cui poggiarsi.
Azkaban
era un luogo di non ritorno per i mangiamorte. Solo ai maghi
canterini
era concessa la libertà, ma una volta usciti di prigione le
possibilità di restare vivi erano infinitesimali.
Pansy e
Theodore non avevano fatto domande quando l'avevano visto arrivare e
gli si erano accodati come un tempo, in religioso silenzio. A
differenza degli altri due compagni, Blaise sembrava aver percepito
il suo malessere e non gli aveva tolto gli occhi di dosso per tutta
la durata del viaggio.
I
loro genitori erano stati più furbi e previdenti,
li avevano
tenuti lontani dalle riunioni e dalle missioni ufficiali, evitando
così di comprometterli. Per quanto potente potesse apparire
il
Signore Oscuro, l'unico a credere ciecamente alla sua ascesa era
stato Lucius. Si era esposto fin dall'inizio, trascinando tutta la
famiglia Malfoy nel baratro, senza pensare alle conseguenze, senza
piani di emergenza. Aveva messo a repentaglio la vita del suo erede,
di sua moglie, ed ora entrambi pagavano lo scotto di quelle azioni
sconsiderate.
Suo padre era ancora a piede libero, fuggito subito
dopo la morte di Voldemort, mentre Narcissa era stata ritenuta
complice di ogni efferatezza compiuta dal marito.
Il
pensiero di sua madre, rinchiusa in una cella a marcire, mentre le
altre mogli dei mangiamorte si godevano gli agi dei loro palazzi, gli
fece salire la bile in gola.
Respirò a fondo l'ultima
boccata di fumo e gettò la sigaretta a terra. Aveva affidato
a quel
mozzicone i suoi tormenti e lo pestò per metterli a tacere.
«Draco,
dobbiamo andare» la mano grande e leggera di Blaise gli si
posò
sulla spalla.
Guardò le dita lunghe e scure di traverso, ma
non degnò il loro proprietario di una risposta. Erano le
prime
parole che qualcuno gli rivolgeva quella mattina e scoprì di
non
sentirne la mancanza.
Il dialogo era sempre stato un gioco
pericoloso e non aveva voglia di iniziare una partita contro il suo
avversario più temibile, l'unico in grado di scovare e
recidere i
suoi nervi scoperti. Si sarebbe chiuso in un bieco mutismo piuttosto
che cedere.
Riprese a camminare, mantenendo un'andatura lenta e
rilassata, nonostante il cuore minacciasse di esplodergli in petto.
Blaise era il suo migliore amico, gli aveva fatto visita ad Azkaban
ogni mese nell'unico giorno che gli era concesso e fino ad allora si
era fidato di lui, come fosse sangue del suo sangue, ma da quando era
stato rilasciato temeva che tutto fosse cambiato. La fiducia riposta
in Blaise vacillava, insinuata dal dubbio, ed era certo che il
sentimento fosse reciproco.
Ricorda
Draco, se vuoi sopravvivere non fidarti di nessuno. Mai.
Quelle
parole gli risuonarono in testa come un monito gridato dall'alto
impossibile da ignorare.
Nel frattempo erano arrivati alle
carrozze e, alle occhiatacce risentite di Blaise, si unirono quelle
colme di sdegno e ostilità degli altri studenti, scoccate
come dardi
avvelenati nella loro direzione.
Irrilevanti,
pensò.
Vide i thestral, attaccati alle vetture scure, mentre
brucavano l'erba scuotendo di tanto in tanto le ali carnose.
Dovrei
spedire un biglietto di ringraziamento a mio padre per lo spettacolo,
si disse, disgustato.
Il litigio tra Harry e Ginny
era
iniziato a metà strada, lui aveva urtato per caso il succo
di zucca
che lei teneva in mano, rovinando per sempre il suo “grazioso
maglioncino color crema”.
Arrivata sulla banchina,
Hermione aveva preferito lasciarli indietro a risolvere la questione.
Purtroppo, però, quando era da sola diventava più
difficile tenere
insieme i cocci. Pensieri terribili le occupavano la mente,
intrecciandosi in una serie infinita di riflessioni sterili di cui
non riusciva a liberarsi. Aveva detto addio alla sua vita babbana, ai
suoi genitori, per non metterli di nuovo in pericolo, ma non avrebbe
mai pensato di dover rinunciare all'ennesimo pezzetto di cuore.
Ron
non era stato più lo stesso dopo la morte di Fred. Per
quanto si
sforzasse di pensare al futuro, a loro due insieme, felici in un
piccolo appartamento al centro di Londra a condividere ogni momento,
sapeva in partenza che era una stupida illusione. Le premesse
portavano su una strada completamente diversa ed era sempre
più
difficile credere il contrario, tuttavia aveva continuato ad
alimentare la fiamma della speranza nutrendola di bugie.
Erano
passati solo due mesi dalla fine della guerra e in un giorno di fine
luglio Ron era tornato alla Tana dopo un viaggio a Londra, il volto
accigliato e le spalle basse. Non avrebbe mai dimenticato
l'ostinazione con cui il suo ragazzo continuava a guardarsi la punta
delle scarpe, né la sensazione di gelo che le aveva
accarezzato la
schiena facendola tremare. Odiava i silenzi di Ron, non portavano mai
a nulla di buono e così l'aveva rimbeccato, gli aveva urlato
contro,
nel solo modo che conosceva per mascherare le lacrime... e allora lui
aveva parlato, le spalle di nuovo dritte e negli occhi una
straordinaria determinazione.
Sospirò torcendosi le mani e
mordendosi le labbra.
Resisti,
Hermione.
Il
senso del dovere le diceva che era indispensabile per lei, nuova
Caposcuola, presenziare alla cena di benvenuto, ma il corpo le urlava
di correre veloce ai dormitori, dove nessuno avrebbe assistito al
triste spettacolo di Hermione Granger che crollava a pezzi.
Aveva
indugiato un po’ fuori, non badando alla fiumana di persone
che si
dirigeva in Sala Grande, così quando si decise ad entrare la
trovò
quasi al completo.
Non badò molto al brusio che accompagnò il
suo ingresso, ma si diresse impacciata al tavolo dei Grifondoro.
Calì
e Lavanda richiamarono la sua attenzione e prese posto accanto a
loro, pronta a dover ignorare una quantità spropositata di
frecciatine.
«Ma dov'eri finita?!» la voce di Harry la fece
sobbalzare. Non lo aveva visto, troppo presa dal nascondere alle
compagne di casa la propria angoscia, eppure lui era lì
davanti a
lei, da solo.
«I-io avevo bisogno d'aria» disse con poca
convinzione «E Ginny?»
Harry abbassò lo sguardo e prese a
giocherellare nervoso con le posate.
«Aveva bisogno d'aria anche
lei» sospirò senza aggiungere altro.
Il Cappello Parlante
aveva cantato la sua canzone, gli studenti del primo anno erano stati
smistati e dopo l’ultimo ragazzino ci fu una pausa. Un
silenzio
carico di aspettative si protrasse per minuti interminabili,
finché
la professoressa McGranitt, nuova preside di Hogwarts, si
avvicinò
al pulpito dorato.
Harry provò a deglutire più volte senza
successo. Guardò la McGranitt e non poté fare a
meno di pensare a
Silente, ai suoi occhi che si spegnevano dietro l'alone verde della
morte e al suo corpo che precipitava nel vuoto.
Il succo di
zucca gli parve troppo arancione e le posate troppo scintillanti, si
mosse sulla panca come fosse coperta di spine e serrò i
pugni sotto
il tavolo.
Vide davanti a sé Severus Piton, con gli occhi lucidi
e il sangue che a fiotti sgorgava dagli squarci sul petto. Aveva
sacrificato tutto per proteggerlo e lui l'aveva ripagato con odio e
rancore.
Che
ingrato.
All'improvviso
i suoi compagni di casa erano troppo vicini e l'aria nei polmoni
troppo poca. Hermione gli tese una mano attraverso il tavolo e lui si
appigliò a quelle dita fredde, mentre la preside si
accingeva a
parlare.
«Miei cari ragazzi, sono lieta di dare il benvenuto ai
nuovi studenti che quest’anno si apprestano ad iniziare un
lungo e
prospero percorso di crescita personale; spero che impegnerete tutte
le vostre energie affinché possa essere il più
proficuo possibile.
Ci aspettiamo grandi cose da voi! E un bentornato a chi questa scuola
ha già visto crescere. Se uno tra i periodi più
bui della storia è
giunto al termine è anche grazie a voi, che siete rimasti e
avete
difeso tutto il mondo magico dalle insidie delle arti oscure.
Grazie!» la McGranitt finì così per
commuoversi tra gli applausi
scroscianti di tutti gli studenti, alzatisi in piedi per rendere
omaggio alla scuola e a loro stessi.
Il discorso, però, non
era ancora terminato.
«Bene!» batté le mani
«Passiamo alle
novità. Accogliamo il nuovo professore di Babbanologia, il
signor
Brett Dukes!»
L’uomo si alzò di scatto facendo stridere la
sedia e rovesciando il calice addosso al professor Vitious. Chiedendo
mille volte scusa si sistemò gli occhialetti sul naso e fece
un
goffo saluto alla Sala, caduta nel silenzio.
Il signor Dukes
era un uomo sulla trentina, capelli castano scuro ed occhi blu
acciaio, abbastanza alto, il suo fisico faceva pensare a tutto,
tranne che fosse un tale imbranato da non riuscire a mettere un piede
davanti all’altro senza combinare un disastro.
La preside
lo guardò sconcertata, ma per superare il momento di
catastrofico
imbarazzo invitò gli studenti ad applaudire.
Presentò poi la nuova
professoressa di Trasfigurazione, la signorina Green, una donnetta
anziana dall’aspetto severo, che storse la bocca in una
smorfia più
simile ad un ghigno che ad un vero sorriso.
Un posto restava
vuoto.
«Il Ministero ha deciso che quest’anno non ci
sarà
un insegnante di Difesa contro le Arti Oscure» a queste
parole
esplose un coro di voci, sussurri e lamenti.
«Silenzio!» gridò
la preside, aiutata da un Sonorus.
«Dicevo, non un insegnante
bensì un’intera squadra di Auror! Vi
presento Matthew Turner,
capo-squadrone della settima divisione!» disse indicando
l'entrata
con un ampio gesto della mano.
Un ragazzo poco più che
venticinquenne, impettito e con le mani incrociate dietro la schiena
raggiunse la McGranitt. Sembrava che la divisa gli fosse stata cucita
addosso tanto era impeccabile, senza nemmeno una grinza, i capelli
mossi erano tenuti in perfetto ordine dal gel, mentre dagli occhi
chiari non trapelava nulla. Lasciò correre lo sguardo per
tutta la
sala e poi si soffermò a guardare un tavolo in particolare,
quello
dei Serpeverde.
Draco sentì le viscere torcersi quando quegli
occhi grandi e sporgenti fecero una breve sosta nei suoi.
L'adrenalina si diffuse dalla pianta dei piedi fino alle mani in un
doloroso tremito.
Strinse il tovagliolo mentre il desiderio di
fumare una sigaretta pungeva in fondo alla gola secca.
Matthew
Turner con passo solenne si diresse al centro della sala.
«Buonasera
ragazzi!» tuonò «Il Ministero ha
ritenuto necessario fornirvi
un'istruzione adeguata ai tempi, dunque, da quest'anno e per sempre,
noi Auror ci occuperemo di insegnare a voi, che siete il nostro
futuro, come sopravvivere. Rivoluzioneremo
il modo di intendere Difesa contro le arti oscure! Il corso
includerà
i principi base della lotta corpo a corpo, della scherma e di tiro
con l’arco. Sarete protagonisti di vere e proprie simulazioni
di
situazioni ad alto rischio, perché il Ministero ritiene
obsolete
lezioni affrontate solo su base teorica» appariva calmo,
tuttavia il
modo in cui si alzava sulle punte dei piedi alla fine di ogni frase,
tradiva un certo nervosismo.
«Ci sono domande?» chiese agli
studenti.
L'istinto spinse Draco a rivolgere lo sguardo verso i
Grifondoro, alla ricerca di una ben conosciuta testa piena di ricci,
nella convinzione che la mano di Hermione Granger fosse già
puntata
al cielo. Rimase deluso e allo stesso tempo sorpreso nel vederla
china a contemplare il vuoto di fronte a sé.
«Mi scusi,» una
vocetta squillante spezzò il silenzio inquietante della sala
«mi
chiamo Brenda Sullivan e frequento il quarto anno, appartengo alla
casa Corvonero e vorrei sapere il motivo di questo cambiamento. Credo
che le attività da lei prese in considerazione siano cose da
auror e
credo che dovremmo essere liberi di scegliere dopo la scuola se
praticarle o meno.»
Brenda Sullivan, una ragazzina alta come uno
gnomo e magra come un elfo domestico, il volto nascosto da uno grosso
paio di occhiali e la lingua lunga tipica delle ragazze Corvonero.
Nonostante passasse gran parte del suo tempo sepolta sotto montagne
di libri in biblioteca, non spiccava di certo per qualità,
ma era
conosciuta da tutti in quanto dotata di un talento naturale nel
mettere i puntini sulle i. Non le sfuggiva nulla, la vista da talpa
era compensata da un udito eccellente e da uno spirito polemico senza
rivali, che la cacciava spesso nei guai.
Molti studenti,
incoraggiati da quell'intervento le diedero manforte e lei
gonfiò il
petto, per la prima volta non derisa ma appoggiata dai compagni.
Peccato che quel momento idilliaco non fosse destinato a
durare.
Matthew Turner scattò in avanti e, aggirandosi tra i
tavoli come un lupo famelico in cerca della preda, riprese a parlare:
aveva buttato via la maschera.
«Se pensate... se siete convinti
che sia tutto finito, ho una brutta notizia per voi!» urlava
come un
sergente davanti alle reclute, enfatizzando ogni parola e muovendosi
a scatti, le mani dietro la schiena e un sorriso largo e finto, in
netto contrasto con gli occhi spiritati.
«Viviamo un momento
particolare, quello degli strascichi, quello dei rimasugli, quello
dei ratti di fogna da spedire ad Azkaban!» gridò e
poi batté un
piede imprecando.
«Signor Turner!» lo rimbeccò la preside
con
tono duro, ma lui alzò una mano per tranquillizzarla,
asciugandosi
con l'altra la saliva agli angoli della bocca.
«Per eventuali
chiarimenti mi troverete nell’ufficio destinato al professore
di
Difesa» un leggero cenno della testa e l’auror
prese posto al
tavolo degli insegnanti, indifferente al vociare generale.
La
cena non era durata più delle altre volte, ma a lei era
sembrata
lunga e noiosa come non mai.
Auror a parte.
Sapeva che anche
Harry la pensava allo stesso modo, lo capiva dalle occhiate piene di
sconforto e dal modo in cui giocava con il cibo nel piatto senza
mangiarlo davvero.
Dal canto suo ogni singola portata era
priva di attrattiva e aveva mandato giù solo un piccolo
budino al
cioccolato.
Erano
stati un trio per ben sette anni e ognuno di loro era un elemento
importante a cui non era possibile rinunciare. Prese a torturarsi il
labbro inferiore nel tentativo di trattenere le lacrime di nostalgia
che le inumidivano già le ciglia. Distolse lo sguardo dal
proprio
tavolo e per caso incrociò quello dell'ultima persona che
avrebbe
voluto vedere.
Occhi grigi circondati da segni scuri e
malsani le restituirono un'espressione inquieta. Draco Malfoy
sussultò, come colto in flagrante, e lei si sentì
profondamente
turbata da quel contatto.
L'ultima volta che aveva visto il suo
viso era sulla Gazzetta del Profeta, una foto grande in prima pagina,
accompagnata da un articolo al vetriolo in cui, dopo una breve
parentesi sul processo che aveva stabilito per lui il carcere a vita,
ci si chiedeva cosa avesse indotto i giudici a far cadere le accuse
per effettiva mancanza di prove. Harry lo aveva letto con attenzione
durante il viaggio in treno, ma era certa che non ne avesse parlato
per non far agitare Ginny.
Un'altra conversazione che avrebbero
dovuto tenere in privato.
Guidata da una forza superiore alla sua
stessa volontà, si mise ad osservarlo con attenzione. Era
lui, il
perfetto miscuglio genetico di due delle famiglie purosangue
più
importanti di Londra, capelli chiari e morbidi che ricadevano leggeri
sulla fronte, occhi grigi e pelle diafana, eppure le
sembrava diverso,
quasi irriconoscibile. Ricordava lo sguardo fiero e tagliente, il
mento alzato e la bocca piegata in un ghigno sardonico, una sfida al
mondo circostante, troppo piccolo, troppo infimo e miserabile per
tenere testa all'Ultimo Discendente, il Principe delle Serpi.
La
spavalderia adolescenziale era scomparsa assieme a quel ghigno e al
suo posto Hermione percepiva qualcos'altro. Il Draco Malfoy che
conosceva non avrebbe sussultato, no, lui l'avrebbe guardata con
disprezzo e disgusto. E invece era lì, continuava a
guardarla con
aria smarrita, le mani intrecciate davanti alla bocca come stesse
pensando a qualcosa di molto importante.
Sostenne quello sguardo
stanco senza batter ciglio, incapace di comprende persino le sue
stesse azioni, finché i mantelli degli studenti, che si
alzavano per
la fine della cena, non le coprirono la visuale e ciò che
vide dopo
fu un posto vuoto: era andato via.
La sua nuova stanza
era una singola, privilegio riservato ai soli Caposcuola, e
ringraziò
mentalmente se stessa per essere stata sempre costante e diligente.
Non avrebbe avuto la forza necessaria per ascoltare pettegolezzi,
risatine e pianti notturni.
Infilò il pigiama, pronta a mettersi
a letto, quando due colpi alla porta la fecero sobbalzare. I muscoli
in tensione e i nervi a fior di pelle, afferrò la bacchetta
e la
puntò di fronte a sé.
«Chi è?» chiese, provando a non
sembrare troppo esasperata, ma l'unica risposta che ottenne furono
altri colpi concitati.
Ricopriva una carica importante e non
sarebbe stato poi così strano trovarsi di fronte ad un nuovo
prefetto in difficoltà, ma ormai aveva perso la battaglia
con la
paranoia.
Spezzò il colloportus e quasi le venne un colpo quando
Harry, ancora in divisa, emerse da sotto il mantello
dell'invisibilità. Il cuore le salì in gola,
trasformando l'urlo in
un singhiozzo spaventato, ma l'amico fu veloce e la spinse dentro la
stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
«Harry! Che
diamine stai combinando?!» esclamò in preda ad una
crisi isterica,
ma lui sembrava non sentire, impegnato a lanciare incantesimi di
protezione.
«Hermione,» sospirò affranto, dopo aver
insonorizzato la camera «ho asciugato tutte le tue lacrime,
ascoltato tutte le tue lamentele, subìto i tuoi sbalzi
d'umore...»
si sdraiò sul letto accanto a lei, che nel frattempo si era
seduta a
braccia conserte «...e adesso sono venuto a
riscuotere!» picchiettò
una mano sul materasso invitandola a stendersi.
«E va bene,»
sospirò lasciandosi andare all'indietro «che hai
combinato?»
«Io?
Perché dovrei aver combinato qualcosa?»
«Harry, lasciatelo
dire, sei una vera schiappa nel rapporto di coppia.»
«Sì, è
vero, ma stavolta non ho fatto nulla, giuro!» si difese.
«Ah,
no?» sentì il sopracciglio sollevarsi fino a
raggiungere
l'attaccatura dei capelli.
«No! Io sto solo cercando di...» fece
una pausa ed Hermione alzò gli occhi per poterlo guardare in
volto
«...io voglio vivere una vita normale, capisci? Per quanto mi
è
possibile, s'intende.»
«Lo vogliamo tutti» percepì un'ombra
addensarsi sul cuore ripensando al sorriso di Ron.
«Ginny sta
soffrendo per la morte di Fred, ma c'è dell'altro. Non si
dà pace
pensando al figlio del professor Lupin e più passo del tempo
con
lei, più mi rendo conto che mi ritiene il diretto
responsabile»
infilò le dita sotto gli occhiali per strofinare le palpebre
in un
gesto a cui Hermione era abituata.
«Credevo avessimo già
stabilito che non è colpa tua. Sai, è storia
vecchia, comincia a
puzzare di stantio» disse pizzicandogli il fianco.
«Lei non mi
ha mai accusato direttamente...» lasciò cadere il
discorso.
«Hai
provato a parlarle?» chiese la ragazza in tono paziente.
«Certo
che sì! Non ha voluto» disse tra i denti
«e, prima che tu dica
altro, il bernoccolo che ho sulla fronte ne è la
prova!»
Hermione
si puntellò sui gomiti e notò il grosso
rigonfiamento rossastro
sulla fronte dell'amico.
«Fa male?» gli chiese trattenendo le
risate con scarso successo.
«Oh, Hermione, sai che amo un po' di
sano dolore fisico! A volte sono costretto a provvedere da solo al
mio piacere, mi capita di sbattere la testa al muro o punirmi come
fossi un elfo dom...»
«Ok, ok» lo fermò mettendogli una mano
sulla bocca «ho capito!»
L'amicizia
è un'anima sola che vive in due corpi,
lo aveva letto in un libro una volta, ma non ricordava chi fosse
l'autore, quel che però sapeva, in quel preciso istante, era
che lei
e Harry stavano diventando così simili da assumere gli
stessi
atteggiamenti senza neppure rendersene conto.
Negli ultimi tempi
erano acidi, fragili e incazzati neri, ma anche tristi e giù
di
corda, in una giostra di diverse emozioni che si alternavano seguendo
una logica tutta loro.
Riuscivano a capirsi al volo, bastava uno
sguardo. Con Harry era tutto semplice e immediato, il dolore e la
fatica di un rapporto instabile erano un brutto ricordo ed era facile
mettere da parte le preoccupazioni. I problemi iniziavano
quando
dei fratelli dai capelli rossi entravano nelle loro vite, mettendole
a soqquadro e lasciandoli poi da soli a riordinare i pezzi.
«Harry,
forse dovresti lasciarle del tempo per riflettere...»
«Ma lei
non vuole del tempo per riflettere!» la interruppe balzando
in piedi
«Mi vuole sempre vicino e allo stesso tempo sembra non
sopportare la
mia presenza» la guardò negli occhi attraverso le
lenti storte e
piene di impronte.
«Cosa vuoi sentirti dire?»
Harry
iniziò a girare per la stanza, si passò
più volte le mani tra i
capelli e alla fine prese in braccio Grattastinchi, accarezzandolo
come una furia mentre il povero gatto cercava di divincolarsi senza
successo.
«Metti giù il gatto, adesso»
scandì piano, parola
per parola, sillaba per sillaba, ma lui non la stava più
ascoltando,
troppo preso dal flusso dei suoi pensieri.
«Io non lo so. Dimmi
che ho qualche speranza di vederla di nuovo sorridere. Dimmi che
è
solo un brutto momento e che prima o poi passerà. Non posso
perdere
anche Ginny» Grattastinchi scivolò via dalle
braccia finalmente
molli e arrendevoli del ragazzo.
Vedere Harry sconfitto e
ferito, ancora
una volta.
Non
avere le risposte che lui stava cercando, ancora
una volta.
Si
sentiva impotente. Avrebbe dovuto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma
riuscì solo a restituirgli un volto afflitto e un silenzio
fin
troppo pesante.
Aveva fallito, ancora
una volta.