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Autore: Terre_del_Nord    08/12/2008    24 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Habarcat - I.012 - Il Tocco del Male

I.012


Meissa Sherton
Spinner's End, località  ignota - sab. 22 maggio 1971

Erano passati appena due giorni dall’ultima visita a Spinner’s End, e di nuovo mi trovavo in quel parco, su un’altalena rossa, con grosse chiazze di vernice scrostata, all’ombra di un albero frondoso, mentre un vento odioso imperversava sollevando mulinelli di sabbia e foglie secche: anche quel giorno avrei aspettato impaziente le 17, quando mia madre sarebbe uscita dalla casa color topo di Eileen Prince, di là del ponte. In quel momento osservavo due bambini di circa nove anni mentre tiravano sassi dal greto del fiume; odiavo stare lì, in quel vecchio parco giochi di un insulso quartiere fuori mano, dove c’erano solo insetti fastidiosi, quello stupido fiume arido e senza pesci e quella strana ciminiera che svettava all’orizzonte, in mezzo a quelle case tutte uguali, anonime e disperate. Erano ormai settimane che arrivavamo in quella città e in quello schifoso quartiere, ma non ne conoscevo la ragione, sapevo solo che mia madre doveva incontrare la donna della casa color topo, e passare qualche ora da lei. Non avevo il permesso di stare là dentro con loro, né quello di parlare con qualcuno: la noia regnava sovrana e avevo la terribile certezza che quella tortura sarebbe durata almeno fino alla mia partenza per Hogwarts. Mi diedi un’altra spinta, più vigorosa, per prendere un po’ più di slancio. Nel giro di appena tre mesi la mia vita sarebbe cambiata enormemente, addio agli spazi aperti della Scozia, avrei passato gli ultimi giorni di libertà, prima dell’inizio della scuola, a Londra, a Essex Street: questo mi faceva sopportare anche meno il tempo sprecato lì, in quella terra di babbani e di miseria. Sospirai. Scesi dall’altalena, alla ricerca di un luogo più riparato, che fosse sempre a portata di sguardo dalla signora Shener, una maganò che fingeva di essere la mia tata in quegli inutili pomeriggi, ma abbastanza lontano perché non le fosse facile vedere bene cosa stessi facendo. Mi sistemai meglio la gonna a quadrettini, aveva preso una piegaccia su quell’altalena, e camminai spedita verso un cespuglio, sicura di essere sola, finché voci semi soffocate, provenienti da una siepe davanti a me, non mi bloccarono. C’era davvero mancato poco, stavolta!
Sbirciai di là della siepe: erano i soliti due, un ragazzino e una ragazzina, forse della mia età, o poco più grandi. Li avevo osservati da lontano, spesso, nelle settimane precedenti, ma sembrava che loro non si fossero mai accorti di me, impegnati com’erano a confabulare. Una volta, avevo visto il ragazzino girovagare nel parco tutto solo e mi ero avvicinata un po’ di più, volevo parlargli, invitarlo a giocare con me, tanto per passare il tempo più velocemente, ma avevo finito col perdere il coraggio, avevo l’ordine di non avvicinarmi a nessun babbano; decisi d farmi avanti quando c’erano entrambi, magari lei, che aveva una risata così simpatica, mi avrebbe invitata a giocare con loro. Signora Shener permettendo. Mi voltai, la tata era completamente presa dal suo lavoro a maglia e mi stava dando la schiena; forse quella era davvero l’occasione buona. Sbirciando da dietro la siepe, notai subito il ragazzino voltato di spalle, con uno spolverino scuro e informe, lei invece era di fronte, ma non mi stava guardando, presa com’era dai discorsi del compagno: aveva i capelli color rosso scuro, gli occhi verdi, le labbra rosse che risaltavano sulla pelle di porcellana, sembrava una di quelle stupende bambole che mi regalava la mamma. Mossi un passo verso di loro, ma prima mi voltai verso il ponte, proprio nell’attimo in cui mia madre usciva da quella casa e, al solito, quell’altra donna, magra e giallastra, dai capelli lunghi e neri, l’accompagnò circospetta fino al vialetto, poi tornò indietro, gracchiando qualcosa ad alta voce e rientrando subito in casa, quasi temesse chissà cosa. La Shener risistemò il suo lavoro a maglia nella borsetta, si alzò dalla panchina e si guardò intorno per cercarmi. Allora mi ritrassi, per correre incontro a mia madre; l’ammirai: alta, con i capelli rossi lunghi fino a metà schiena, gli occhi verdi carichi di luce, l’incarnato dolcemente ambrato, le mie stesse diffuse efelidi, che le davano un aspetto da ragazzina, la figura slanciata e armoniosa, nonostante la maternità, tanto da illuminare la strada con le sue semplici movenze. Sembrava non toccare nemmeno i piedi per terra. E soprattutto, mentre si avviava sul ponte per raggiungermi, aveva un sorriso d’amore stampato sul viso: ero felice, nel giro di pochi secondi avrei finalmente affondato il viso nella curva calda e profumata del suo collo. Fu allora che, mentre mia madre si era chinata a baciarmi, intravidi attraverso quei capelli rossi e setosi, la figura sgraziata del ragazzino che attraversava di corsa il ponte accanto a noi: visto così da vicino, sembrava un ragnetto e mi accorsi di quanto assomigliasse alla donna della casa.

    "Andiamo".

Mia madre si sciolse dall’abbraccio. E fu come se cadesse un velo.

*

Aprii gli occhi, ero stesa ai piedi di un cespuglio di sempreverdi, incapace di muovermi, e sentivo freddo sulle braccia, il sole stava scendendo rapidamente oltre la linea degli alberi: con una fitta di terrore mi resi conto che non ero con mia madre, né tantomeno ero a casa mia. Non sapevo dove fossi, non sapevo che ore fossero, e mentre il buio e una strana nebbia m’inghiottivano, notai che le siepi assumevano i contorni di serpenti e una figura, vestita con un lungo mantello oscuro, si avvicinava a me, gli occhi che saettavano fiamme. Aveva il viso pallido e smagrito, le dita delle mani, lunghe, bianchissime, scheletriche… il suo profilo era simile a quello di un serpente.
Gridai. Ma la voce non uscì dalla mia bocca.

*

    “Sei tu Meissa ?”

Ero ferma e immobile davanti a un cespuglio, come impietrita, non sapevo come ci fossi finita, né che ore fossero, non sapevo che fine avesse fatto l’uomo col mantello oscuro. Mi resi conto di riuscire a muovermi, così, lasciando cadere i fiori che stringevo ancora in mano, senza ricordarmi di averli raccolti, mi voltai, presa dal panico, verso quella voce, amorfa e trascinata, e intercettai due occhi color della notte, su un viso che poco per volta prendeva forma: capelli nero corvino appiccicati alla pelle pallida, le labbra esangui, strette, sotto un naso grande. Mi allontanai appena e lo misi a fuoco del tutto: era il ragazzo-ragnetto, che mi osservava con un’espressione indefinibile.

    "Si".

Tremò la mia voce, la voce della colpa; lo guardai titubante, non sapevo cosa sarebbe successo, non capivo che cosa mi fosse accaduto.

    "Tua madre ti cerca da quasi un’ora, non è per niente contenta".

Piatto come prima, nessuna nota nella voce. Prima ancora di riemergere dalla boscaglia, mi resi conto di averla fatta grossa. Il fiume non si vedeva proprio dalla siepe dove mi aveva trovata il “ragnetto” e stando alla posizione del sole erano le 18 passate. Avevo perso più di un’ora della mia vita, eppure ero convinta di essermi voltata verso il ponte mentre mia madre usciva da quella casa, e sapevo di non essere sola, e… Quando arrivai dinanzi a lei, in mezzo alle altalene, il volto di mia madre era segnato da un’aria dura che ne distorceva l’armonia, la Shener aveva un segno rosso sulla guancia destra e i suoi occhi mi fiammeggiavano contro, pieni di rabbia e di risentimento. Mi resi conto dei problemi che avevo causato, ma non feci in tempo a dire “scusi”, che la mano di mia madre mi colpì con violenza e il bruciore di una frustata si diffuse sul mio viso accaldato. Chinai il capo in segno di pentimento e m’imposi di non piangere, non avevo il permesso di farlo di fronte agli estranei.

    “Venite dentro e prendete un te, così ci calmiamo tutti.” La voce della donna dai capelli neri era piatta come quella di suo figlio.

Mia madre tradiva ancora un misto di collera e di preoccupazione repressa, ma non mi rivolse nemmeno una parola, ci incamminammo verso la casa color topo, la donna dai capelli neri aprì la porta e ci immergemmo in una fresca penombra, con un’occhiata ordinò a suo figlio di fare il tè, e c’invitò a sederci su un divano, che aveva visto tempi migliori, col semplice gesto della mano.

    “Non devi disturbarti, Eileen, ora ce ne andiamo.“
    “Nessun disturbo. Sev, quando hai fatto, puoi accompagnare Meissa di sopra, mentre io parlo ancora un po’ con la signora Sherton”.

Con un semplice gesto del capo, la mamma mi accordò il permesso e bevuto il tè, scivolammo lungo l’oscurità delle scale, diretti al piano di sopra, lasciandoci alle spalle le voci delle nostre madri. La camera di Sev era immersa nella penombra: era piccola e odorava di buono; per essere la camera di un ragazzino, e per di più di un ragazzino come quello, era tutto in un ordine perfetto, quasi irreale. Era rimasto appoggiato alla porta, avvolto dall’ombra più densa, a guardarmi, quasi ad aspettare un commento: aveva un paio di jeans, stropicciati e un po’ corti per lui, e ora che aveva tolto lo spolverino, mostrava una t-shirt che ne sottolineava estremamente il corpo esile e ossuto. I suoi occhi, seminascosti tra i capelli in disordine per la corsa, erano profondi e neri, carichi di mille domande, ardenti, per non dire famelici: non avevo idea di quali domande vorticassero dentro di lui. O meglio, un'idea, anzi un timore, l’avevo. Forse stava pensando che avevo un’espressione insolita. Se sua madre gli aveva detto qualcosa di noi, di certo si aspettava di vedere sulla mia faccia altezzosità e boria, invece dovevo sembrare un animale spaventato: e lo ero, perché non riuscivo a rendermi conto di come avessi fatto a perdermi un’ora della mia vita, e dove fossi finita poco prima che Severus mi ritrovasse, e soprattutto chi fosse quell’uomo dal mantello scuro.

    Che fosse di nuovo Riddle?

Di fronte a quei pensieri angoscianti, persino la punizione, che di sicuro mi avrebbero inflitto i miei per essere sfuggita al controllo, sembrava una stupidaggine: eppure sapevo che per situazioni come quella, dagli Sherton il perdono non era di casa. Tornai a valutare quell’assurdo ragazzino babbano: di sicuro aveva notato qualcosa di strano perché quando mi aveva trovata dietro quel cespuglio mi ero voltata con occhi pieni d’angoscia.

    “Come ti chiami?”

La voce mi uscì come un sussurro.

    “Severus, Severus Snape”.

Tirai un sospiro, feci qualche passo verso d lui e gli offrii la mano, con un altro sospiro profondo.

    “ Io sono Meissa Sherton, ma puoi chiamarmi Mey, se vuoi.”

Mi prese la mano, sorpreso, quasi ipnotizzato: sapevo di profumare di fresie già a distanza, e probabilmente gli sembravo una bambola, con le lunghe ciglia nere che mi ombreggiavano gli occhi verdi, il vestitino a scacchi bianchi e rosso, e i capelli raccolti in una treccia nera e grossa che mi arrivava fin oltre metà schiena.

    “E tu puoi sederti... se vuoi”.

Con un passo mi lasciò alle sue spalle, aprì le imposte della finestra e la camera fu invasa dall’ultimo raggio del sole al tramonto. Quando si voltò m vide ancora in piedi che guardavo il giradischi sul suo tavolo e quasi lo sfioravo con la punta delle dita, a seguirne la forma, assomigliava a quello di mio padre, quello che usavo sempre per sentire i dischi che mi aveva regalato; mi accorsi all’ultimo momento di essere osservata con attenzione e subito ritrassi la mano, quasi fossi stata scottata dal fuoco.

    “Non sai cos’è, vero?”

Rimasi interdetta, certo che sapevo cosa fosse, anche se non potevo dire di saperlo. Quello che però non capivo era perché mi facesse quella domanda. Lui sapeva qualcosa di me? Si era accorto di qualcosa quel pomeriggio? Quelli come lui e sua madre come sapevano di quelli come me?

    “Ti sei mangiata la lingua? Quello serve a sentire la musica, ma voi di sicuro avete altre cose per sentirla.”.

Stavo sognando? Quel ragazzo sapeva davvero che io, beh, sì, ero diversa dagli altri?

    “Ti stai chiedendo se, e come, so che non sei una babbana, giusto?”

A quella parola trasalii.

    “Certo che lo so, lo so perché non sono babbano nemmeno io, solo mio padre lo è, la mia mamma invece è come me, come noi.”

E sottolineò “noi” trascinando le lettere.

    “Tu non lo sei? Io credevo ….”.
    “Inoltre ormai ho undici anni” disse con tono pomposo interrompendomi “quindi quest’anno finalmente andrò a Hogwarts. E tu? Hai già 11 anni?”

Allora era vero! Lui sapeva! Tirai un sospiro di sollievo, ora tutto era più semplice. Sentii il mo viso riprendere colore e lui m guardò con sarcasmo.

    “Purosangue! Sarai stata terrorizzata più al pensiero di stare da sola con un babbano che all’idea della punizione che ti attende a casa!”

Tornai a guardarlo bene, quello era proprio un ghigno, un ghigno ironico che gli attraversava la faccia. Poi rimase di fronte alla finestra, mi diede le spalle, con la luce che sembrava affinarlo anche di più, rendendolo ancora più spigoloso.

    “Sì, ne ho già compiuti 11, partirò anche io per Hogwart a settembre”.

Feci un passo verso di lui. Severus si voltò, sempre con quel ghigno sul viso.

    “Che cosa stavi combinando dietro a quel cespuglio, con quei fiori?”

Mi accesi di un color rosso pomodoro.
   
    “Nulla”
    “Stavi provando a fare magie, vero?”

Deglutii e abbassai gli occhi.

    “Per favore non dirglielo, già mi punirà per essermi allontanata!”.
    “Che cosa pensi ti faranno?”
    “Non lo so, forse non mi farà più venire qua con lei, e mio padre mi porterà a cena dai suoi odiosi amici, sa che non mi piace andarci…“

Pronunciando quelle parole, una smorfia di disgusto m attraversò il viso ormai pallido.

    “Non sono gravi punizioni, mi pare che tu non ti diverta molto a seguire tua madre qui e non credo che sia così disgustoso andare a cena dai tuoi ricchi amici.”
    “Io mi diverto qui!”
    “Davvero? Ti ho visto in giro per il parco i giorni scorsi, sembravi un animale in gabbia.“.

E sbottò in una risata senza gioia, mentre riguadagnava il centro della stanza e m squadrava con superiorità e un leggero disprezzo, le braccia incrociate sul petto.

    “Sempre meglio qui che a Malfoy Manor, mi fa venire i brividi!”

Sev non poteva sapere di cosa e di chi stessi parlando, ma fui contenta di averlo lasciato sbigottito, almeno per qualche istante.

    “E la tua amica con i capelli rossi? È una strega anche lei?”.

Cercai di guadagnare un vantaggio mentre sembrava ancora un po’ dubbioso. Era odiosamente arrogante.

    “La mia amica?”
    “Sì, certo, credi che solo tu abbia osservato me in quel parco?”

Severus notò i pugnetti che serravo sulla stoffa della gonna, gli occhi luminosi e pungenti, la voce chiara e decisa mentre un alito di vento m muoveva un ricciolo di capelli corvini vicino all’orecchio; lo dissi proprio con quell’altezzosità che immaginava dovesse sempre avere una come me.

    “Sì, anche lei fa magie, anche se è nata babbana”.

Una nota di sfida nella voce. Questa volta fu lui a godere del mio stupore.

    “Non so perché, però è così. Immagino che per voi purosangue sia un trauma che anche il sangue impuro …”.

Non finì la frase, pensava di avermi fatto arrabbiare abbastanza anche senza concludere.

    “Parli come mio padre ….”.

La voce mi tremava, ma non di rabbia, e la cosa lo lasciò per un attimo di nuovo spiazzato, forse pensava che avrei attaccato dicendo che erano menzogne, come immaginava facessero sempre quelli come me, e invece … era forse rassegnazione quella nota in fondo alla mia voce?

    “Perché, tu forse la pensi in modo diverso da lui?”

Si avvicinò di nuovo alla finestra, questa volta non sembrava sarcastico e distaccato, ma davvero curioso di cosa potessi rispondergli.

    “Io …. Io non lo so, non ci ho mai pensato per davvero”.

E mi misi a guardare il parco giochi di là del fiume, con un’espressione che Sev non riusciva proprio a decifrare. Non riuscivo a capire nemmeno io.

    “Mey, scendi, andiamo”.

La voce di mia madre ruppe il silenzio sceso tra noi ragazzi, ed io riguadagnai svogliatamente la porta. Un “In bocca al lupo per la punizione” detto con gentilezza mi raggiunse proprio all’ultimo istante, facendomi sussultare. Non me lo sarei mai aspettato, era stato così acido con me! Mentre me ne andavo, mi accorsi che immaginavo con piacere Sev che si girava verso di me, in tempo per vedere la mia treccia corvina sparire giù per la scala: probabilmente tutto si sarebbe aspettato, quel giorno, tranne che Meissa Sherton gli avrebbe fatto visita e gli avrebbe parlato di magia nella sua stanza.

***

Regulus Black
Lacock, Wiltshire - dom. 30 maggio 1971

Fin da piccolo mi era sempre piaciuto far visita a zio Cygnus: la casa, assolutamente maestosa, era immersa in un parco magnifico, scenario perfetto per interminabili giornate di giochi e risate con mio fratello e le nostre cugine. Con Meda in particolare. Mi sparì subito il sorriso dalla faccia, secondo nostra madre era un delitto verso il nostro sangue persino pensarla. Mi guardai attorno: era una bella giornata di fine maggio, le rose dello zio profumavano e abbellivano con i loro diversi colori ogni angolo, il sole era una calda carezza sul mio viso. Quel giorno Black Manor, nei dintorni della cittadina di Lacock, nel Wiltshire, avrebbe ospitato un evento importantissimo: la mia adorata Bellatrix avrebbe finalmente sposato Rodolphus, il primogenito ed erede dei nobili Lestrange. Era un momento importantissimo per i Black, dopo lo scandalo di Andromeda, alcune malelingue avevano scommesso che i Lestrange si sarebbero tirati indietro, alcuni dicevano che avrebbero fatto come gli Sherton. Dai discorsi dei miei genitori, però, avevo scoperto che la verità era ben diversa: Mirzam Sherton, infatti, non aveva rifiutato Bellatrix per lo scandalo, lui avrebbe voluto Meda per amore, non per il nome, perciò non poteva sostituirla con Bella nella propria vita. Ora era tutto passato, anche Mirzam si era fidanzato e aveva annunciato il proprio matrimonio per la fine dell’anno, quello perciò sarebbe stato un giorno di festa per tutti. E noi Black, per l’ennesima volta, saremmo stati invidiati da tutti, tutti ci avrebbero guardati sognando, invano, di poter essere come noi. Ero soddisfatto di questo, soddisfatto di me, soddisfatto di essere un Black: il mondo intero non poteva fare a meno di girarsi per ammirarci, quando entravamo in una stanza.
Calciai un sasso sul vialetto e seguii le risate di Barty Crouch jr. e mio cugino Jimmy Rosier, che si rincorrevano nel prato. Mio fratello come sempre mi aveva lasciato solo non appena eravamo arrivati; non avevo idea di dove fosse, ma di sicuro stava facendo qualche danno: da quando aveva quella dannata bacchetta - che ancora non poteva nemmeno sfiorare, a dire il vero - non faceva altro che combinare disastri e, dopo la miracolosa tregua invernale, era tornato a passare la maggior parte del suo tempo libero in punizione nel sottotetto. Mi avviai annoiato verso casa, al contrario di Sirius, a me piaceva anche restare dentro, per ammirare e magari toccare gli oggetti strani e misteriosi che occhieggiavano qua e là, come falsi soprammobili, un po’ ovunque: quello era, in realtà, l’unico modo per me di finire nei guai, lasciarmi attirare da uno dei tanti pericolosi giocattoli dello zio. Nostra madre ci aveva preceduti nel Wiltshire da un paio di giorni, per aiutare suo fratello e sua cognata nei preparativi, io e Sir eravamo arrivati con nostro padre solo quel mattino. Zio Cygnus aveva subito attirato papà e gli altri ospiti in discorsi d’affari, sembravano tutti alquanto entusiasti per qualcosa ma ancora non ero riuscito a capire cosa fosse. Inoltre sapevo di dovermi tenere alla larga dalla mamma, perché le donne di famiglia erano ancora impegnate con mia cugina e nella sistemazione degli ultimi dettagli, per impedire che Bella avesse una delle sue proverbiali crisi di nervi. Però magari, se avessi promesso di fare il bravo come mio solito, forse nessuna di loro avrebbe avuto il coraggio di cacciarmi, così mi decisi a entrare. In realtà quel giorno ero un po’ triste: se anche Bella usciva dalla mia vita per sposare il suo fidanzato, per me si prospettava un lungo anno di solitudine, con Sirius e Cissa e la maggior parte dei miei amici a Hogwarts, erano pochi, infatti, i ragazzini della mia età o più piccoli che ero solito frequentare.
In casa assistetti alla classica scenata di mia madre contro un paio d elfi, rei di non aver sistemato un centrotavola a dovere. Scivolai rapido su per le scale, avendo cura di non farmi notare, attratto da quella che sembrava la voce di Cissa, che riecheggiava al piano di sopra: non la vedevo da Natale e avevo voglia di abbracciarla, di farmi abbracciare, di assicurarmi che almeno lei non sarebbe sparita dalla mia vita, non erano stati mesi facili a Grimmauld Place, dopo la storia di Meda e mio fratello non era esattamente la persona più indicata per farsi consolare. A pensarci, però, era strano, Narcissa doveva essere a scuola, tanto più che quello per lei era l’anno dei G.U.F.O. Avanzai lungo il corridoio, ovunque i ritratti dei miei parenti mi osservavano arcigni e come sempre ostili, chissà perché poi, ma io ero sereno e felice, perché quello che avevo sentito erano indubbiamente la voce e la risata di mia cugina, provenienti dalla stanza di Bellatrix. Bussai e intanto mi specchiai in uno dei duecento specchi distribuiti lungo il corridoio, sistemandomi i capelli di nuovo troppo lunghi, in modo da lasciar scoperti i caratteristici occhi di famiglia. Appena la porta si aprì mi sembrò di essere al cospetto di angelo: Narcissa Black, bionda, alta e armoniosa, con due occhi azzurri come il mare, era sempre dolcissima con me. Mi rivolse subito il suo meraviglioso sorriso ed io mi tuffai tra le sue braccia, facendo attenzione a non pestarle il magnifico abito pervinca che aveva già indossato per la cerimonia.

    “Regulus! Finalmente! Siete arrivati adesso?”
    “Sì, con papà ci siamo materializzati da circa una mezzoretta…”
    “Cissa, fallo entrare!”

Bellatrix era seduta, circondata da tre elfe affaccendate, aveva una lunga veste bianca di pizzo, semplice e lineare, attillato, a esaltarne la figura esile e perfetta, sopra quell’abito cerimoniale, che teoricamente avrebbe dovuto vedere solo il suo sposo alla fine della giornata, una volta che fossero stati nell’intimità della loro casa, sarebbe andata la veste matrimoniale, verde slytherins, costituito da un corpetto riccamente decorato, che scendeva poi in un suntuoso tripudio di stoffe, veli e pizzi. Stavano finendo di acconciarle i capelli, lunghi, lisci e neri, annodandoli con nastri e fiori.

    “Salazar, sei bellissima!”

Era una visione per gli occhi, mi sarei voluto mettere a piangere, attaccandomi alle sue gonne per farle giurare che non sarebbe andata di sotto, che non avrebbe sposato quell’odioso pallone gonfiato, un inetto che non meritava nemmeno di farsi calpestare da lei!

    “Hai perso la lingua?”

Mi sentii le guance in fiamme e mi guardai subito le scarpe, Bella rise, di quella sua risata strana, che spaventava quasi tutti, ma che, non sapevo il perché, nel mio cuore infiammava sempre un senso di felicità e appagamento. Quando sorrideva, era stupenda e pericolosa, la sua era una bellezza molto diversa da quella di Cissa: se Narcissa Black era la dimostrazione dell’esistenza del paradiso, Bella era il motivo per cui valeva la pena dannarsi per l’eternità, vendersi persino l’anima. Sapevo bene, già allora, che era una creatura pericolosa, venefica, ma assolutamente e inevitabilmente indispensabile, pena la disperazione eterna. Riuscivo a capire benissimo perché Rodolphus Lestrange, dopo essere riuscito a legarla a sé con il fidanzamento, fosse improvvisamente diventato un uomo felice. E quel giorno sarebbe diventato, ai miei occhi, l’uomo più fortunato della terra.

    “Sirius che fine ha fatto? Non si sarà fatto mettere in punizione anche oggi!”
    “No, no, è qui, da qualche parte, però è sparito appena siamo arrivati…”
    “Quell’idiota! Crescerà mai? Dammi retta, Cissa, quello là troverà il modo di farsi diseredare come la sua adorata Meda, prima dei vent’anni!”
    “Bella!”
    “E non fare il tuo faccino scandalizzato, Cissa! Tu non c’eri: dovevi vederlo, frignava come una ragazzina per quella sciocca… Che vergogna! Io non so che cos’ha… per fortuna c’è Regulus…”

Divenni rosso peperone.

    “… perché se il futuro dei Black dipendesse solo da quello là, allora saremmo messi davvero male…”
    “Lascia perdere nostro cugino Bella, è solo un ragazzino, ne ha di tempo per crescere, ancora… Tu invece non ne hai quasi più, tra meno di un’ora s’inizia, quindi sbrigati a prepararti!”

Cissa mi prese per mano ed io mi feci guidare, docile, fino nella sua stanza, mi misi seduto sul suo letto, odorava di lei, tutto profumava di fiori come lei, là dentro. Controllò di nuovo la sua figura allo specchio, riaggiustò un ricciolo che sembrava ribellarsi all’acconciatura e intanto mi osservava divertita attraverso lo specchio, mentre io prendevo una delle sue bambole dal comò e mi perdevo a osservarla.

    “Non ti sarai messo a giocare con le bambole!”

Mi sorrise ancora più divertita ed io mollai il pupazzo all’istante: ero color fuoco. Cercai di fare il sostenuto e di iniziare discorsi importanti, suscitando ancora di più il suo sorriso.

    “Avevo paura che non c fossi, oggi, che non avresti potuto lasciare la scuola, anche se solo per un giorno.”
    “Oh no…. Il preside è stato informato per tempo e ci ha accordato un giorno di permesso. Si rendono conto anche loro che è un evento davvero importante…”
    “Ci ha accordato?”
    “Sì, oggi ci sarà anche il fratello di Rodolphus, Rabastan, è potuto tornare a casa anche lui per il matrimonio.”
    “Ah…credevo…”
    “Credevi?”

La guardai vergognoso, e quasi soffiavi le parole tutte attaccate.

    “ChefossivenutaacasaconMalfoy…”

Cissa diventò rossa più di me ed io, se possibile, peggiorai ulteriormente, abbassai gli occhi a guardarmi nuovamente le scarpe, mentre lei, un po’ a disagio, tornava di nuovo a sistemarsi la stessa ciocca di capelli dorati.

    “No, Malfoy è rimasto a scuola, non ha motivi ufficiali per farsi rilasciare un permesso di questo genere, lui.”
    “Ma un giorno ti fidanzerai con Lucius, vero?”

Cissa mi guardò di nuovo attraverso lo specchio, era ancora un po’ rossa di vergogna, ma il suo era lo sguardo fiero dei Black. Mia cugina, con me, era solita mostrarsi per quello che era davvero, una giovane donna ben consapevole del proprio valore e di quello che desiderava nella vita; con me difficilmente interpretava il ruolo che rifilava a tutti, quello della ragazzina infantile e civettuola, spesso un po’ svagata, che faceva credere a tutti quanti di trovarsi di fronte una persona molto più debole e ingenua di quanto in realtà fosse.

    “Un giorno…forse… Se smetterà di comportarsi da sciocco e dimostrerà di meritarmi ...”

Tirai un sospiro di sollievo, almeno lei, ancora per un po’, non me l’avrebbero portata via!

    “Ora andiamo, la cerimonia si terrà tra poco, dobbiamo ricevere anche noi qualche ospite. Ti va di farmi da cavaliere?”
    “E me lo chiedi?”

Mi alzai di scatto e mi avvicinai a lei, alla toilette, mi sistemai di nuovo la cravatta e i capelli, con le dita, Cissa allora prese la sua spazzola e mi pettinò, mi sistemò il colletto della camicia e spianò per bene la mia giacca.

    “Sei proprio un bel ragazzo Reg, sei proprio un Black, perfetto!”

Mi stampò un bacio sulla fronte e alzandosi mi prese per mano. La seguii felice ma ero anche un po’ turbato, ripensando alle parole di Bella e poi alle sue. C’erano giorni in cui non sopportavo Sirius, c’erano validi motivi per cui gli avrei volentieri rotto il naso, ma quello che aveva detto Bella era terribile; peggio ancora, se si fosse avverato, se Sirius fosse stato davvero tanto pazzo da farsi buttare fuori dalla famiglia, mi rendevo conto che per quanto io avessi fatto per renderla felice, mia madre sarebbe morta dal dolore e dalla vergogna. Per altro non riuscivo a immaginarmi mio fratello con una babbana, no, quello era l’unico modo per farsi diseredare dai miei, e Sirius non poteva essere tanto scemo da fare una cavolata del genere!

    “Che cos’hai, Reg? Sei diventato tanto silenzioso!”
    “Ripensavo alle parole di Bella, io non voglio che Sirius…”
    “Lasciala perdere, Bella non diceva sul serio, è solo agitata per la cerimonia…”
    “Sicura?”
    “Ma certo cucciolo mio, poi lo sai, non è mai stata contenta che Sirius le preferisse Meda, è per questo che bisticciano sempre quei due… ma ti assicuro che gli vuole bene, forse non tanto quanto ne vuole a te…”

Si fermò e mi accarezzò di nuovo il viso, ed io le baciai la mano delicata.

    “… e poi stai tranquillo, tua madre non permetterà mai a tuo fratello di mettersi davvero nei guai, la conosci… e Sirius… non è cattivo, né pazzo, è solo un ragazzino vivace, ma vedrai, appena entrerà a Serpeverde, gli sarà subito ben chiaro chi è e cosa deve fare della sua vita per essere davvero felice…”

Ero ancora un po’ turbato, ma mi fidavo di lei; avanzai al fianco di Cissa fino a raggiungere zio Cygnus e salutare con lei gli ospiti. C’erano davvero tutti: i nostri parenti, i parenti dei Lestrange, alcuni provenienti persino dalla Francia, gli amici di zio Cygnus e di mio padre, gli amici dei Lestrange. Notai Malfoy e tirai un sospiro di sollievo quando vidi che Lucius davvero non aveva ricevuto lo stesso permesso di Cissa: l’austero mago ci salutò appena, puntando direttamente verso Lestrange senior, sembrava avessero affari importanti da discutere, in privato. Vidi poi gli Avery e i Crouch, i Parkinson e i Zabini; allarmato mi chiesi se per caso gli Sherton non sarebbero venuti: mia madre diceva sempre che il signor Sherton non poteva vedersi con il padre di Rodolphus, ma non potevo credere che per questo motivo avrebbe mancato di rispetto a mio zio, non presentandosi al matrimonio di sua figlia.

    “Cerchi qualcuno Reg?”

Cissa mi guardava ammiccante, di certo conosceva già la mia risposta. Io divenni rosso: potevo dire di cercare mio fratello, ma era evidente a tutti che di solito non ne sentivo la mancanza, così m’impappinai, strappandole infine una risata giocosa.

    “Non cercherai Meissa Sherton, vero?”

Non finì nemmeno la frase che ero già di un violento rosso porpora, le mani sudate e avevo serie difficoltà a respirare: i suoi magnifici occhi azzurri sembravano analizzarmi come fosse un legilimens, mi sentivo nudo e indifeso davanti a lei.

    “Allora mamma ha ragione: zia Walby sta facendo il diavolo a quattro perché vuole accaparrarsela per te! E a quanto pare, se ci riuscisse, ti farebbe davvero felice!”
    “A me non interessa!”

Cercai di mostrarmi fiero e determinato, ma la voce mi uscì squittendo, facendomi sprofondare in un baratro di vergogna.

    “Sì, lo vedo in questo preciso istante…”

Rise ancora, lasciandomi indietro come un idiota.

    “Guarda i tuoi amici sono già con tuo padre e tuo fratello…”

Mi riconsegnò a mio padre, poi tornò da Bella, prima che facesse una strage di elfi, scomparendo in una nuvola vaporosa di ricci dorati e profumo di fiori delicati.

***

Meissa Sherton
Lacock, Wiltshire - dom. 30 maggio 1971

Avevo sempre pensato che mio padre e i miei fratelli fossero gli uomini più belli del mondo, ma quel giorno non potei fare a meno di ammettere quanto Rodolphus Lestrange fosse affascinante, di una bellezza meno perfetta, vero, di sicuro diversa, ma era comunque molto attraente, di certo al livello di Orion Black quando aveva la sua età. Sapevo bene che era amico di mio fratello, ma non ci frequentava quasi per niente, vederlo così in sintonia con Mirzam mi fece capire che esisteva tutto un mondo tanto vicino a me, ma di cui io non sapevo praticamente nulla. Quel giorno mi resi conto anche che Rodolphus non era poi tanto più grande, le rare volte che l’avevo intravisto, forse a causa dell’aria un po’ burbera, mi era sempre sembrato molto più vecchio, ma ora, grazie alla felicità sincera che lo pervadeva, si vedeva benissimo che aveva solo tre o quattro anni più di Mir. Era alto, senza esagerazione, forte e ben piantato, senza essere grasso, aveva i capelli bruni, gli occhi simili a ossidiana blu, i tratti decisi e ben scolpiti. Si diceva che la loro famiglia fosse di origini francesi, ma mio padre sosteneva che i Lestrange erano sempre stati gente del Norfolk e infestavano le isole britanniche come un’erba cattiva fin dalla notte dei tempi. E se lo diceva mio padre, c’era da crederci.
Prima del banchetto gli adulti chiacchierarono a lungo, io come tutti gli altri ragazzini, decisi di godere della magnifica giornata di sole giocando nel parco. Mi sarebbe piaciuto parlare con Sirius, ma com’era già accaduto a Habarcat, sembrava far finta che non esistessi, appena arrivati ci aveva salutato, poi era sparito, mentre suo fratello Regulus non si era visto affatto. Morale, mi stavo annoiando a morte, perciò approfittai della momentanea scarsa attenzione di mia madre e mi allontanai, sapevo dai racconti di Sirius che Cissa aveva un gatto e chiaramente quel giorno non l’avrebbero tenuto in casa: non mi fu difficile trovarlo, girovagando per i cortili interni al maniero, e mi fermai in un chiostro a giocare con lui in attesa della cerimonia. Dopo la disavventura di Spinner’s End, ero stata in punizione, cosa rara per me: mio padre mi aveva proibito le sue stanze, quindi niente musica per due settimane. Pur sapendo che mi sarei salvata, non avevo detto la verità, non volevo turbare la mamma, preferivo stare in punizione che vederla preoccupata. Ma con mio padre era diverso: mio fratello diceva che papà era il miglior legilimens della sua generazione, ma che non praticava la sua arte nei nostri confronti, perché aveva metodi altrettanto infallibili per strapparci la verità, senza doverci far del male o violare le nostre menti. In quei giorni avevo scoperto che era il suo sguardo deluso l’arma che poteva usare contro di noi: non avevo detto nulla, eppure avevo la certezza che sapesse la verità.
Anche quel giorno, a Lacock, era particolarmente nervoso: l’avevo sentito lamentarsi di qualcosa con Orion Black, gli aveva detto che non gliel’avrebbe perdonata, che se avesse saputo che c’era anche Lui, lì quel giorno, non avrebbe portato me e la mamma. Non l’avevo mai visto così arrabbiato e Orion aveva fatto davvero fatica a difendersi, dicendo che non lo sapeva neppure lui, che la lista completa degli ospiti di Lestrange era stata un mistero fino a quella mattina. Mio padre aveva sbuffato qualcosa in gaelico e gli aveva intimato di sbrigarsi a fare quello che gli aveva chiesto, che c’era tempo fino ad agosto, o non se ne sarebbe fatto più nulla, non avrebbe più rispettato il patto. Ero triste e preoccupata: non avevo mai visto mio padre arrabbiato con Orion né Black così spaventato, non volevo che la loro amicizia finisse, perché sarebbe stata la fine anche della mia amicizia con Sirius e Regulus. Non sarebbero più venuti da noi per l’estate…

    “Gli Sherton e i gatti! Dovrebbero scriverci un trattato…”

Ero seduta su una panchina, con Basquiat, il gatto tigrato di Narcissa Black che mi faceva il panettiere sulle ginocchia, nel luogo del maniero forse meno visibile rispetto a dove si teneva il ricevimento. Alzai gli occhi: un giovane sui quindici anni stava appoggiato a una delle colonnine di pietra del chiostro millenario, una buffa smorfia sul viso dovuta al sole che gli si specchiava in faccia, la camicia fuori dai pantaloni per metà, la cravatta slytherin sciolta e la giacca sulle spalle, ribelli riccioli castano scuro a incorniciargli un viso d’angelo, illuminato da due occhi di ossidiana blu, dall’espressione tutt’altro che serafica. Sembrava reduce da una corsa o da qualche altra attività animata all’aperto, di certo non sembrava pronto per una cerimonia così importante. Lo guardai ostile, odiavo quando qualcuno mi coglieva alla sprovvista, quando qualcuno mi metteva in difficoltà, come stava facendo quel tizio, che sembrava conoscermi, mentre io non avevo idea di chi fosse.

    “E tu saresti?”

I miei fratelli mi avevano insegnato ad attaccare sempre per prima quando il mio avversario non meritava un comportamento cerimonioso da parte mia, e quello era evidentemente la situazione adatta, perché quell’idiota era stato tanto scortese da spaventarmi e non presentarsi.

    “Rabastan Lestrange per servirla, madamigella Sherton…”

Un inchino cerimonioso seguito da una risata beffarda semi soffocata: lo guardai meglio, vagamente disgustata, era evidentemente fuori di sé, come quei meschini babbani dei racconti di mio padre, quando eccedevano nel consumo di alcool e avanzavano barcollanti per le strade. In effetti, non poteva che essere il fratello di Rodolphus Lestrange, per l’esattezza la versione più giovane di circa dieci anni dell’ uomo che avevo ammirato al mio arrivo. Quest’individuo, però, al contrario del fratello, aveva qualcosa di selvaggio e ribelle in sé, qualcosa che urlava “non fidatevi di me”.

    “Ero proprio curioso, e a Natale mi eri sfuggita, non mi andava di aspettare fino a settembre per scoprire come fossi!”

Lo guardai sbalordita, quindi stava dicendo che mi aveva proprio cercato, che non era lì per caso. Il livello della mia inquietudine si alzò ulteriormente.

    “Io non sono sfuggita a nessuno. E ora, con permesso…”
    “Ti posso riaccompagnare dagli altri, se vuoi… così capisco se sei come dice tuo fratello…”
    “No grazie, dubito che Mirzam abbia parlato di me con chicchessia… senza dirmelo, poi…”
    “No, parlavo di Rigel… siamo compagni di Quidditch a serpe verde…”

Feci una faccia ancora più disgustata, se era stato Rigel si spiegavano tante cose, tra idioti, in effetti, non poteva essere nata altro che complicità… Rabastan si ricompose, si passò la mano tra i capelli e mi guardò con fare serio, io restavo guardinga sulla panchina, valutando quale fosse la migliore via di fuga. Era bene essere pronti a tutto.

    “Devo averti spaventata. Scusa… non volevo… è che sto talmente tanto con tuo fratello che mi sembra di conoscerti…”
    “Io non ti conosco e non m’interessa conoscerti, anzi, mi hai già stancata! E per chiarire, io non ho paura di nessuno… Lestrange!”

Lasciai andare il gatto di Narcissa, mi alzai, guardandolo con sguardo fermo, lui mi rimandava un’occhiataccia divertita; feci finta di non aver paura passandogli vicino: non aveva fatto nulla di strano, era solo uno sciocco, ma qualcosa in lui mi metteva sinceramente i brividi.

    “Anche sull’ostilità tra Sherton e Lestrange dovrebbero scriverci un trattato, eppure i tuoi fratelli sono la dimostrazione che non siamo poi così cattivi, visto che sono i nostri migliori amici.”
    “Dei miei fratelli, forse… Ma non i miei…”

Lo fulminai come per dirgli “Togliti dai piedi, idiota!”, alzò le mani e mi lasciò passare: ero abituata ai ragazzi idioti, ma mi ero sempre illusa che, a parte mio fratello Rigel, che era un cretino integrale, crescendo migliorassero… poi pensai a Lucius Malfoy e mi fu chiaro quanto la mia fosse solo una pia illusione. Uscii dal chiostro, avanzai per i corridoi senza aver troppa cura di dove stessi davvero andando e quando mi fu più che evidente che non mi stesse seguendo, mi misi a correre per tornare prima possibile dai miei familiari: no, non dovevo più farlo, non potevo allontanarmi da sola, non in giornate come quella, in cui c’erano tante persone che non conoscevo, in una casa che non avevo visto mai. Non volevo ammetterlo nemmeno con me stessa, ma quell’essere, viscido, mi aveva fatto gelare il sangue come l’uomo mascherato delle mie visioni. Mi ero persa nei miei pensieri e in quei corridoi: camminavo incerta, credevo di essere ormai fuori e invece mi si aprì un nuovo chiostro davanti, per un attimo ebbi paura che stessi perdendo di nuovo il contatto con la realtà come a Spinner’s End, avevo paura di riconoscere in quel chiostro il giardino dei miei incubi, iniziai a sudare freddo, non sapevo più da che parte dovevo andare. Tornai indietro, ripercorrendo un lungo corridoio con i famigerati ritratti dei Black appesi un po’ ovunque, il soffitto fatto a volta a botte, con la pietra tessuta a spina di pesce; girai a sinistra e finalmente, attraverso le colonnine tortili che decoravano la finestra, vidi il giardino allestito per la festa. Sorrisi: che sciocca ero stata! Ripresi a correre radente il muro, felice: c’era anche Sirius con mia madre e mio fratello, mio padre di sicuro stava con Orion da qualche parte a parlare d’affari. Non notai perciò la porta che si apriva d colpo, la centrai in pieno, finendo a terra, tramortita.

    “Salazar! Si è fatto male Milord?
    “No Malfoy, stai tranquillo… non si può dire lo stesso di lei invece…”

Sentii una leggera risata agghiacciante, poi una mano gelida come la morte mi afferrò per il braccio, aprii appena gli occhi e mi trovai a specchiarmi in uno sguardo strano, simile a quello di un serpente: sapevo di conoscerlo, ma non capivo, avevo la testa confusa, mi resi conto chiaramente solo che qualcosa nel mio stomaco si stava muovendo, come con mio padre a Herrengton, sulla spiaggia.

    “Merlino, è la figlia di Sherton, non è morta, vero?”
    “No, Abraxas, tranquillizzati, ha solo battuto la testa.”

Staccai con difficoltà i miei occhi da quelli strani, allungati, affascinanti che sembravano leggermi l’anima e li rivolsi all’altra figura, imponente, di nero vestita, tanto bionda da sembrare una mattina nordica.

    “Zio...”
    “Salazar ti ringrazio, mi ha riconosciuto!”

Lo zio e l’uomo dalla mano gelida mi aiutarono a rialzarmi, mi sembrava che tutto girasse e soprattutto continuavo a sentire quella strana voce sibilante che m diceva cose strane in testa. Lo guardai di nuovo: era completamente glabro, pallido, con quegli inquietanti occhi allungati da serpente, gli stessi lineamenti erano simili a quelli di un rettile, era magro, quasi scheletrico, eppure emanava una forza e la sensazione di un potere straordinario, era vestito con un lungo mantello nero, che lo avvolgeva completamente, il capo coperto da un cappuccio. Ero certa che lui capisse che lo stavo ascoltando, anche se le sue labbra, così sottili da sembrare inesistenti, non si muovevano, lesse la mia paura nei miei occhi quando ripeté più volte

    “… ho un messaggio per tuo padre…”

Mi stringeva la mano, mi sentii priva di forza, anche se ci provavo, non riuscivo a staccarla dalla sua, guardai Abraxas, quasi per chiedere aiuto, ma sembrava non rendersi conto di quello che mi stava accadendo, lo zio anzi mi parlava, ma io non capivo cosa dicesse, nella testa rimbombava solo quella voce fatta di pensieri e non di aria, sibilante…

    “… Mi incontrerai tre volte, tre occasioni avrai e alla terza morirai… se tuo padre …”

    “Meissa!”

Il contatto s’interruppe, la voce di mio padre pervase l’aria ed io tornai a respirare, uscii da quella strana bolla incorporea e senza tempo in cui mi ero ritrovata prigioniera, mi staccai da quella presa, trovandola docile e subito lo raggiunsi correndo felice verso di lui.

    “Che cosa le stavate facendo?”
    “Alshain, era caduta… Milord la stava aiutando a rialzarsi quando sei apparso anche tu…”
    “Va tutto bene Meissa? Ti fa male qualcosa?
    “No padre… io… devo essere scivolata a terra, o essere finita contro la porta mentre la stavano aprendo, stavo correndo da voi, avevo… mi sono resa conto che era tardi…”

Mio padre mi strinse la mano e m’impose di precederlo, dando rapidamente le spalle a quei due, senza rivolgergli più nemmeno una parola.

    “Alshain aspetta, dovremmo parlarti…”

Abraxas si mosse rapido fino a raggiungerci, pose la mano sull’avambraccio di mio padre, scoprendo appena la pelle del suo braccio sinistro, nascosto come sempre tra pizzi e merletti: percepii qualcosa di nero che macchiava come inchiostro la sua pelle candida, ma non capii cosa fosse, ero però certa che non si trattasse di una runa simile a quelle della nostra famiglia. Mio padre guardò quella cosa che appariva tra i pizzi e puntò uno sguardo disgustato negli occhi chiari come laghi di montagna di Abraxas Malfoy.

    “Non ora, Malfoy, non qui… non con Dei o la bambina in giro… è chiaro?”
    “Sì, scusa … Hai ragione…”
    “E prega che non ci siano conseguenze, cugino, o tu sarai il primo a pagare”

Questo lo disse a voce ancora più bassa, con tono tagliente che raramente gli avevo sentito, mi si gelò il sangue come quando, per la prima volta, l’avevo sentito parlare in serpentese. Ci allontanammo, lasciandoci Abraxas e il suo strano compagno alle spalle.

    “Padre… Chi era quell’uomo?”
    “Zitta e muoviti… faremo i conti a casa, Meissa… Non è certo così che ti ho educata, andare in giro per le case altrui a impicciarti degli affari che non ti riguardano!”
    “Ma padre….”
    “Non so cosa ti passa per la testa, ragazzina, ma è ora che impari un po’ di disciplina! Io e tua madre non ti abbiamo certo insegnato a comportarti in modo da farci sparlare dietro!”
    “Ma cosa…”
    “Cosa diavolo facevi con Rabastan Lestrange da sola qui in casa?”

Era furibondo, mai l’avevo visto così arrabbiato con me.

    “Ero in uno dei chiostri interni, giocavo col gatto di Narcissa e… è apparso quel tizio, io l’ho lasciato indietro per tornare da voi, poi… devo essermi persa…”
    “Stai alla larga da quel ragazzo, intesi? E non mi riferisco solo a oggi….”
    “Ma…”
    “Meissa, non sto scherzando… non voglio che tu gli parli ancora, mai più… è chiaro? E guai a te se ti allontani di nuovo da me o da tua madre!”

Mi strattonò malamente fin dalla mamma, alla quale mi affidò dicendole qualcosa all’orecchio, lei mi fulminò severa, poi entrambi guardarono all’indirizzo del giovane Lestrange con fare poco amichevole. Per il resto della giornata mi sembrò di stare in prigione, anche Orion prese bonariamente in giro mio padre, dandogli della chioccia e papà lo fulminò con un’occhiataccia. Dopo un po’ tutti si sistemarono ai propri posti, l’orchestra iniziò a suonare una musica molto bella, Rodolphus attendeva all’altare con accanto mio fratello a fargli da testimone, in una bella veste tradizionale verde, riccamente decorata con motivi slytherin in argento, una fascia di seta alla vita, una camicia di seta barocca, la barba tagliata più corta del solito, i capelli mossi lunghi fino al collo, le mani cariche di anelli. Aspettava la sua sposa radioso, sotto gli occhi compiaciuti di suo padre e sua madre, e quando finalmente Bella fece il suo ingresso, coperta da un velo di pizzo antico, con la sorella che sembrava un angelo a tenerle lo strascico, tutti persero letteralmente la parola. Il giardino era stato decorato con archi d’argento che sorreggevano fiori e puttini dorati che tiravano petali al passaggio di ospiti e sposi, noi tutti eravamo seduti su panche abbelliti da bouquet di rose, provenienti di certo dalle coltivazioni di Cygnus Black, a tutti noto per la sua passione per quel tipo di fiori. Il celebrante era vestito con una ricca veste cerimoniale dorata e un buffo copricapo a tre punte, che risultava ancora più ridicolo se abbinato a quegli strani occhialetti che portava sul naso: quell’immagine mi distolse dal pensiero di quello strano uomo col mantello e dalle parole che avevo sentito nella mia testa. Di certo me l’ero solo immaginate.
Furono recitate le frasi che da un millennio sancivano i patti matrimoniali nel mondo magico, tra le famiglie purosangue in particolare, Bella s’impegnava al rispetto del suo sposo, Rodolphus si faceva carico della sua sicurezza e felicità. Si scambiarono gli anelli, Bella sembrava decisamente più sicura e determinata, Rodolphus si fece sopraffare dall’emozione, quando le prese la mano ed ebbe un attimo di esitazione nell’infilarle l’anello. Quando finalmente il celebrante formulò l’ultima frase con cui si annunciava l’indissolubilità di quell’unione, l'abbracciò con passione, sollevandola quasi da terra e le diede un bacio lunghissimo, al punto che mi chiesi se non volesse per caso asfissiarla e ucciderla all’istante. Distolsi lo sguardo, disgustata, io non avrei mai permesso a Sirius di farmi una cosa del genere… Divenni rossa all’istante, era assurdo che io pensassi a quel dannato damerino inglese in quei termini, che io mi immaginassi di … Cercai di far sparire il rossore dalla mia faccia, risollevai il viso, mi guardai attorno, e subito diventai di nuovo rosso fuoco quando mi accorsi dello sguardo di Rabastan Lestrange fisso e canzonatorio su di me.

*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).

Valeria



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