Heilà!
Finalmente riusciamo ad aggiornare questa storia,
accidenti, dopo una settimane d'aggiornamenti (Stigma, Kuchiyose e questa fic)
c'è stata una calma piatta davvero sospetta!
In ogni modo, vi annuncio che abbiamo raggiunto lo zenit
della storia. I prossimi due capitoli saranno gli ultimi, concludendo in
bellezza (?) con un epilogo. Sette è il mio numero fortunato, ecco perché!
Avvertimenti!
Tematiche delicate e un pochino di lime, giusto perché
non si dica in giro che Hoel sia una moralista in incognito. :-P
Ulteriori note e commenti si troveranno a fine capitolo.
Infine, un sentito ringraziamento a tutti i miei lettori
e recensori, in particolare a Imoto.
Grazie anche a coloro che hanno messo questa storia tra le seguite, ricordate e
preferite.
Vi auguro una buona lettura,
H.
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Martedì, 3 febbraio 1998
- mancano 3 giorni all'Appuntamento -
Non riuscivo a togliermi dalla mente le parole di
Shisui-san.
Anche dopo che suo marito m'aveva riaccompagnato a casa;
anche dopo la doccia; anche dopo aver cenato; anche nel mio stesso futon; anche
al sospirato mattino dopo una notte costellata d'incubi, anche molti
"dopo", la sua espressione e le sue parole seguitavano a tormentarmi.
Non cessavo di domandarmi, infatti, quanto lei sapesse
riguardo al misterioso bambino dal mantello blu. E soprattutto, in che
circostanze avesse appreso della sua esistenza. I suoi quesiti erano stati
troppo diretti e sicuri, per una persona avente una conoscenza superficiale od
occasionale. Shisui-san, per motivi a me oscuri, s'era già imbattuta in quella
creatura persecutrice. Come nello specifico, però, lo ignoravo.
Guardai afflitta da fuori la finestra. Dal cielo plumbeo,
coperto da rabbiosi cirri grigi, cadeva languida una fitta neve, volteggiando
indiavolata nell'aria fino a depositarsi sui tetti, sui rami degli alberi
spogli, per terra. La ormai consolidata spossatezza mi sconquassò le ossa,
portandomi ad appoggiare la testa sul cuscino e a studiare con stanca
indifferenza il soffitto. La casa era silenziosa e fredda. I miei genitori
erano entrambi usciti presto, quel mattino. Mi raggomitolai, troppo sfinita per
intraprendere qualsiasi azione. Desideravo dormire, ma il sonno tardava a
sopraggiungere, tenendomi sadicamente sveglia e in uno stato di perenne
allerta, come se il mio subconscio temesse un attacco non appena avessi
abbassato le palpebre.
Feci bene a fidarmi.
Fu il suono del campanello a farmi balzare seduta, tesa
come una corda di shamisen. Rapida, controllai l'orologio: le dieci e mezza. Se
la mia memoria non si sbagliava, mia madre non sarebbe rientrata prima di
mezzogiorno, mentre mio padre addirittura alla sera.
Chi ... chi poteva essere?
Ma sì, il postino!, scossi il capo, dandomi della
sciocca. Decisamente, mi ero lasciata troppo influenzare dai vaneggiamenti di
Shisui-san. C'erano mille modi per giustificare razionalmente la presenza di
quei lividi. Sempre che ci fossero mai stati. Infatti, controllando la sera
precedente, prima di coricarmi, la caviglia, avevo notato come fossero
scomparsi. Molto probabilmente a causa della caduta s'era gonfiata, ecco, e
alla scarna luce del corridoio parevano i segni di una mano. E Shisui-san, cui
chissà come stavo un pelino antipatica, aveva voluto giocarmi quello scherzo di
cattivo gusto.
Già, doveva essere andata esattamente così.
Mi sentii immediatamente meglio.
Il campanello suonò di nuovo, stavolta più impaziente.
"Sto arrivando!", esclamai colpevole, correndo
trafelata al pian terreno dopo aver acchiappato la mia vestaglia. Aprii la
porta. "Mi scusi, non volevo farla aspet- ..." (Déjà vu)
Nessuno. (Déjà vu)
Davanti a me non c'era nessuno. (Déjà vu)
Assolutamente nessuno. (Déjà vu)
Serrai la mascella, dominando la paura crescente che, dalle
viscere profonde, mi stava risalendo acida e prepotente fino ad annodarsi alla
gola, premendo per uscire. "Non è divertente!", strillai agli invisibili
teppisti che la mia mente, disperata d'appigliarsi a qualsiasi logica
spiegazione che non comprendesse quel dannato bambino, aveva evocato come fautori di quella beffa. Suonare al
campanello e poi scappare. Tipico.
Sbuffando, chiusi in fretta e furia la porta col
catenaccio e mi recai altrettanto celere in cucina per prepararmi del latte
caldo. Quello m'avrebbe tranquillizzata.
Dling-dlong.
Il mio cuore smise di battere, cadde nel mio stomaco e
rimbalzò al suo posto. Tanto mi tremavano le mani, da versare del latte sul
tavolo. Rimasi lì imbambolata a contemplarlo, la mente in panne, incapace di
coordinare un qualsiasi pensiero che non contemplasse l'urlare a squarciagola.
Dling-dlong.
No.
Dling-dlong.
Basta.
Dling-dlong.
Finiscila!
Dling-dlong.
Quand'ecco che un'idea m'attraversò il cervello. In punta
dei piedi, lasciando che il campanello suonasse, mi diressi furtiva verso la
finestra della cucina. Scostando appena la tenda, spiai l'identità del
visitatore, mentre ancora s'attendeva una risposta - vana - da me.
Trattenni il fiato.
Sulla soglia di casa, ritto come un soldatino, il bambino
dal mantello blu indugiava persistente. Benché il suo indumento fosse
letteralmente zuppo d'acqua, la neve non lo scalfiva né si depositava su di
esso. Le sue gote non si tingevano del rossore provocato dal gelido vento
invernale. Non rabbrividiva in esso. Imperterrito, pazientava ch'io gli
aprissi.
Col cavolo! Mai e poi mai!
Dling-dlong.
Neanche m'avesse ascoltata, la figura del diabolico
piccino si scosse dalla sua innaturale immobilità, o meglio si voltò verso di
me, fissandomi dritta negli occhi.
Mi sorrise.
Dling-dlong.
Indietreggiai spaventata, chiudendo con forza la tenda.
Dling-dlong.
La porta vibrò sotto i suoi colpi. La maniglia si mosse violentemente,
strattonata.
Dling-dlong.
Caddi in ginocchio, tappandomi le orecchie, terrorizzata.
Dling-dlong.
"Nacchan? Nacchan, puoi per favore aprirmi? Ho
dimenticato le chiavi di casa! Nacchan! Ci sei?"
Stupefatta, spalancai gli occhi, incapace di credere a
quanto stessi udendo. Un sorriso isterico mi contorse il viso e, traballando,
mi rialzai, aprendo la porta a mia madre, la quale m'aspettava intirizzita
sotto la neve.
"Nacchan!", esclamò gioviale Okaasan, chiudendo
l'ombrello. "Finalmente! Brrr, mi pareva di morire assiderata lì fuori!
Hai dormito ancora male? Che occhiaie!", notò preoccupata, accarezzandomi
la guancia.
"Come mai così presto?", m'informai, aiutandola
a levarsi il cappotto, nel frattanto che lei si toglieva le scarpe inzaccherate
di fango.
"Ho ricevuto una chiamata da parte dei tuoi
nonni", mi spiegò concitata mia madre, sorpassandomi per salire
velocemente in camera sua. La imitai prontamente, seguendola. "Starò da
loro fino a giovedì", disse, incominciando a fare la valigia in un
vertiginoso andirivieni.
"Otōsan ne è al corrente?"
"Ma certo!", sbuffò ella, scostandosi una
ciocca ribelle dalla fronte umida. "L'ho subito informato, non appena tuo
nonno m'ha raccontato del malore di tua nonna! Non ti preoccupare, però: non è nulla
di grave!", mi consolò, elargendomi un giocoso buffetto.
Abbozzai ad un sorriso forzato, focalizzando la mia
attenzione sul pavimento. Malignamente provai ad immaginare la faccia
dell'altera avia, in caso l'avessi informata della mia condizione. Altro che malore,
sarebbe schiattata!
"Bene!", chiuse soddisfatta Okaasan il borsone,
caricandoselo su di una spalla. "Se mi sbrigo, forse faccio in tempo a
prendere la corriera delle undici! Posso fidarmi d'affidarti la casa, senza
trovarmi una discarica al mio ritorno?"
Un mese addietro avrei ribattuto scherzosamente indignata
a quella battuta. Ma non quel giorno.
"Lo prometto."
Mia madre mi fissò a lungo, meditabonda.
"D'accordo", convenne, infilandosi stavolta gli stivali. "Ah,
Nacchan!", si ricordò all'ultimo momento, fermandosi e girandosi verso di
me. "Che sia l'ultima volta, che ti vedo in compagnia d'Itachi-san,
chiaro?"
Le mie labbra rimasero sigillate.
~~~
Dling-dlong.
"Moshi moshi?"
"Otōsan ... come va il lavoro? Ne avrai ancora per
molto? Non ... non potresti tornare a casa?"
Dling-dlong.
"Te l'ho già
spiegato, fra dieci minuti devo presenziare ad un meeting, non posso filarmela
all'inglese!"
"Però, Otōsan ..."
"Nacchan, non
dirmi che adesso hai paura di rimanere da sola in casa! Sei grande, mica una
bambina ... Ma stanno suonando al campanello?"
Dling-dlong.
"Otōsan! Per favore! Torna a casa alla prima
occasione disponibile, d'accordo?! Se ... se non hai nulla d'importante,
almeno! Ti supplico!"
Dling-dlong.
"E va bene,
frignona, non iperventilarmi! Sarò da te fra un'ora, va bene?"
"Sì! Sì! Va benissimo! Grazie! Grazie di tutto
cuore!" e riattaccai.
Dling-dlong.
Mi appiattii ulteriormente al muro, stringendo
convulsamente al petto il telefono, neanche avesse potuto proteggermi.
Quel ... quel bambino dal mantello blu m'aveva cinto
d'assedio, imprigionando a casa e mi guardava insistente dalla finestra, le
mani appoggiate sul vetro, gli occhi così spalancati che le sue iridi si
vedevano appena, rimpicciolite dal bagliore dei candidi bulbi oculari. Sempre
sorridente.
In seguito alitò, scrivendo sulla condensa:
Vieni a giocare con me ...
Corsi in preda al panico in camera mia, sbattendo la
porta e tirando le tende. Mi sedetti sul mio futon portandomi le ginocchia
sotto il mento, dondolando impaurita e pregando qualsiasi esistenza divina di
accelerare il ritorno di mio padre.
Dling-dlong.
Lacrime di stizza presero a colarmi sulle guance.
Dling-dlong.
~~~
A cena riuscii a persuadere Otōsan a farmi dormire in
camera sua.
All'inizio egli n'era rimasto sinceramente sorpreso,
levando interrogativamente gli occhi dal suo piatto: infatti, avevo smesso di
avanzargli simili richieste da quando avevo incominciato le elementari, su mia
stessa iniziativa, poi. Per le emergenze potevo sempre ricorrere a Menma-nii.
Siccome però in quel momento non ero più una bambina e mio fratello si trovava
a Tokyo col suo meco, non mi rimaneva altra soluzione che affidarmi alla bontà
d'animo di mio padre, il quale accettò pur domandandone il motivo.
Inventare una panzana risultò difficile. In tutta onestà,
non mi riusciva di spiegargli esaustivamente il mio intimo terrore, circa il
dormire da sola in camera mia. Non mi sentivo sicura da nessuna parte, in
quella casa, non fintanto che sarei rimasta da sola. Forse quel maledetto
bambino si sarebbe fatto un baffo di mio padre, però non avrebbe osato
avvicinarsi a me in sua presenza. Sperai nella validità del mio ragionamento.
In caso contrario ... Ignoravo come avrei reagito. Non bene, comunque.
La serata trascorse in fretta, scandita dagli
aggiornamenti di Otōsan circa i nuovi progetti per Konoha. Lo ascoltai
distrattamente, rimanendo però avvinghiata al suo braccio e, dal luccichio
nelle sue iridi celesti nonché le fuggevoli occhiate lanciatemi, percepii la
sua contentezza per quella mia inaspettata regressione infantile. "Sei
cresciuta talmente in fretta, Nacchan, che mi pare ieri di averti accompagnata
al tuo primo giorno di scuola", mi confidò ad un certo punto, mentre si
serviva della tisana. "Ancora m'è arduo rassegnarmi all'idea, che presto
uno spasimante ti porterà via da me ..."
Affondai il viso nel maglione di mio padre, respirando a
pieni polmoni la sua rassicurante Eau de
Cologne. "Non ti preoccupare, non avverrà in un futuro tanto
immediato!", lo rassicurai.
Otōsan mi studiò dolcemente, accarezzandomi il capo.
"Nacchan", esordì, il tono divenuto d'un tratto
serio. "In seguito alla nostra telefonata, ho provato più volte a richiamarti
sul cellulare, ma risultavi costantemente irraggiungibile. Perché l'hai
chiuso?"
"Forse m'erano finite le batterie ...", mi
giustificai, grata che la penombra nel salotto celasse la mia menzogna.
"Ah!", sbadigliò egli, stiracchiandosi sul
divano. "Pensavo che l'avessi fatto per evitare Sasuke-kun ..."
Mi si contorsero le budella.
Numero di
chiamate perse: 20.
"N-no ... perché dovrei?"
Mio padre si pizzicò la radice del naso, sospirando
profondamente. "Non star a badare a tua madre, Nacchan. A modo suo ti
vuole molto bene e cerca d'aiutarti, ma questa è la tua vita e devi fare le tue
scelte, non viceversa. Non puoi permettere che lei o chiunque altro scelga per
te. Non sei più una bambina, anche se la cosa mi rattrista grandemente",
disse, puntandomi contro quegli schietti occhi cerulei che avevo ereditato.
"Mi rendo conto che a lei Sasuke-kun stia simpatico quanto un riccio di
mare sotto il piede; ciononostante non la giudico una valida ragione per essere
sgarbata con lui, specie se non se lo è meritato."
"Come fai a sapere che lo sto evitando?"
"Tesoro", sogghignò complice Otōsan, "è
dai tempi d'Izanami-sama e Izanagi-sama che voi donne utilizzate la fuga, per maltrattare
quei poveracci che vi corteggiano!"
A stento trattenni un risolino, rifugiandomi nell'abbraccio
sicuro e forte di mio padre.
Quella notte non feci incubi; dormii al contrario
talmente bene e di gusto da riacquistare il controllo su di me e sulle mie
facoltà mentali. Il bambino dal mantello blu m'appariva distante, alieno,
giustamente relegato nel dimenticatoio. Sembrava che una spugna l'avesse
letteralmente spazzato via dal mio cervello e rimasi sorpresa della mia
stupidità per essermi lasciata influenzare al punto da morirne di paura, o
quasi.
Mi sentivo euforica, piena d'energia, come se niente e
nessuno m'avrebbe mai più spaventata né costretta a riconsiderare le mie
decisioni.
La giornata del 4 febbraio si presentava soleggiata,
limpida, apportatrice di serenità.
Sicuro.
La calma prima della tempesta.
***
"Certo che la gente non sa proprio farsi gli affari
propri!", protestò vivacemente Tobirama, lasciandosi cadere sulla sedia.
"Se dico che voglio quattro ciambelle farcite al cioccolato, vuol dire che
voglio quattro ciambelle farcite al cioccolato e magari senza le tue opinioni del cazzo! Pago e pretendo!" e
prese a bere il suo latte caramellato, un'espressione decisamente imbronciata
sul suo viso alabastrino.
Aveva giudicato - scioccamente purtroppo, visti i
risultati - che lasciarsi invitare da
Hashirama a colazionare da Starbucks avrebbe distratto la sua mente
dall'imminente intervista. Pia speranza. Adesso, nutriva più stizza e
insofferenza di prima.
"Che ha combinato stavolta quel povero
barista?", inquisì placido Hashirama, affatto scioccato dalla boccuccia di
rosa dell'horror writer. La sua lingua lunga e il caratteraccio pungente erano
una realtà alla quale s'era da molto tempo rassegnato, eppure non comprometteva
il suo affetto nei suoi confronti.
"Quando ho fatto le ordinazioni, m'ha guardato come se
avesse davanti un'orca assassina! Insomma, le pago quelle ciambelle, mica
gliele ho chieste gratuitamente! Cosa mi va a commentare che potrebbero essere
un po' troppe?", berciò.
Il castano annuì, comprensivo. "E' normale avere
paura, Tobirama. E comunque non sei un'orca assassina. Sei una balena."
"Eh?", cascò dalle nuvole l'adesso decisamente
irritato cetaceo antropomorfo. "Vuoi che ti meni?"
Ignorando l'ultimo commento, il maggiore espresse il suo
modesto parere: "Domani il romanzo verrà ufficialmente distribuito nelle
libreria e l'intervista avrà luogo dopodomani. E' logico sentirsi agitati e
innervosirsi per un nonnulla!", afferrò poi Hashirama la mano dell'horror
writer con estrema dolcezza. "E tu hai sempre mangiato alla stregua d'un
maiale, quando l'ansia ti coglie!", aggiunse birbante.
Tobirama sbuffò, grattandosi la nuca. "Non è proprio
quello il motivo ...", ammise a malincuore.
"Ah, no?"
"No."
Un vivace luccichio vagò negli occhi del più anziano dei
due. "Ah ... Ma non mi dire ... "
"Eggià."
"Ti prego, non uccidermi Izuna! E' l'unico che
riesce a sopportarti senza volersi suicidare, dopo aver interagito con te per
cinque minuti!"
"Oh, farò di meglio ... Promesso!"
I due fratelli sorrisero furbescamente complici.
"A proposito, ho saputo che sarà Terumi Mei-san ad
intervistarti. Ti garba?", riprese il Senju il discorso, sorseggiando il
suo caffè.
"Non mi dispiace. Per informarmi su di lei, ho
leggiucchiato dei suoi articoli. Interessanti, lo ammetto. La donna dev'essere
stata un elmetto rosa, ai tempi dell'attivismo per la legalizzazione della
pillola anticoncezionale."
"Chi meglio, dunque, per recensire L'Appuntamento?"
L'horror writer annuì senza particolare entusiasmo.
"Già", commentò seccamente. "Hōzuki Gengetsu-bastardo-san m'ha incastrato per bene ..."
***
Di norma, Tobirama non si faceva mai prendere dall'ansia
alla vigilia della pubblicazione di un suo romanzo. Che si trattasse di
eccessiva presunzione o confidenza nelle sue capacità, nutriva una cieca
fiducia sull'esito positivo delle sue opere.
Ma non questa volta. Non per L'Appuntamento.
Era ... come dire,
una storia troppo intima.
I commenti, poi, dei suoi fan su Facebook, Twitter, blog
e forum di certo non l'aiutavano. Alcuni giuravano all'horror writer eterna
fedeltà, qualsiasi cosa avesse pubblicato. Altri giuravano un'orribile morte
(la sua), in caso avesse deviato dal suo solito stile.
Ma
vaffanculo!, grugniva mentalmente, mordicchiando irascibile prima
l'unghia e in seguito la pellicina, facendo sanguinare quest'ultima.
Lo schermo scomparve all'improvviso dai suoi occhi, su
cui era calata una tiepida oscurità.
"Adesso basta, non ti fa bene", avvertì l'alito
caldo d'Izuna solleticare la sua nuca. Un vago ma persistente profumo di
bagnoschiuma corteggiava il suo olfatto, avvolgendo la sua persona nella
frescura di chi s'era appena congedato da una doccia serale.
"Sto benissimo, invece!", si tolse l'horror
writer le mani del compagno dagli occhi, sennonché queste ripiegarono sulle sue
spalle, impedendo la fuga.
Il moro arcuò scettico il sopracciglio.
"D'accordo, forse un po' bene."
Gli occhi d'Izuna si strinsero in due fessure.
"Uffa! Me la sto facendo sotto dalla fifa,
contento?", sbuffò petulante l'horror writer, appoggiando la guancia sul
palmo della mano. "Se dapprincipio avevo grandi certezze su questo
romanzo, adesso non so proprio più cosa pensare. Insomma, non è ancora stato
pubblicato, che già mi minacciano di morte! Mi domando chi abbia fatto la spia,
spifferando che L'Appuntamento si
scostava dalle mie solite storie ... Che palle ..." e mirò puerilmente
infelice il suo compagno, che invece ricambiava intensamente il suo sguardo.
Izuna aveva più volte sperimentato le scene madri di
Tobirama che, similmente a tutti gli artisti, soffriva di acute crisi di
divismo, tartassando il prossimo con le sue infinite e assurde fisime.
Stavolta, però, poteva leggere in quelle acute iridi scarlatte del genuino
timore e incertezza, come se la determinatezza (o testardaggine) che v'abitava
all'inizio vi avesse affogato. D'altronde se l'aspettava: l'aveva detto sin dal
principio, che il rischio era grosso, ma figurarsi se Tobirama rinunciava ad
una sua idea, quando questa l'appassionava. Diveniva uno tsunami. E poi
dicevano che fosse una persona insensibile e apatica. Pah. Nondimeno, ciò non
avrebbe dissuaso il moro dal continuare a sostenere quella testa matta (e
geniale) fino alla fine. Non si sarebbero scelti, altrimenti, come compagni.
"Lascia che gracidino simili ai rospi che
sono!", dichiarò bellicoso, inginocchiandosi alla sua altezza. "E che
s'azzardino pure a sfiorarti! Non avranno più dita per scrivere le loro
stronzate, né occhi per leggerglieli!", l'assicurò e si ripromise di
mantenere ogni parola appena pronunciata.
Mica scherzava. In passato era già accaduto che qualche
fan, anzi fanatico, avesse
infastidito pesantemente l'horror writer o per un finale non gradito; o per lo
sviluppo di certi personaggi o per le pause che di tanto in tanto si prendeva,
tra una pubblicazione e l'altra. La parola "moderazione" proprio non
sussisteva nel loro vocabolario. Peccato che la impararono a loro spese, quando
uno di questi squilibrati osò pedinare Tobirama fino a casa sua, allungando
perfino le zampe. Fu fortunato che quel giorno Izuna fosse stato di buon umore
abbastanza da limitarsi di riempirlo di ceffoni e prenderlo a pedate fino alla
strada, spaventandolo a tal punto da fargli definitivamente passare la voglia
di cimentarsi in atti di stalking ai danni dell'horror writer.
Ci erano voluti anni per esorcizzare i fantasmi di
Tobirama. E che Izuna fosse dannato per l'eternità se qualcuno osava
rievocarli, provocando una ricaduta nel suo prezioso bijou. Si erano perfino
trasferiti lontano, ricominciando da zero.
"Non temere di loro, non ti feriranno. Ci sono io
tra di voi, dovranno prima passare su di me. E sai come sono delicato con chi
t'infastidisce ...", mormorò, massaggiando le spalle, il collo e lo scalpo
della sua "dolce" (= polemica, cervellotica, arrogante, intelligente)
metà. "... tanto quasi un carro armato ..."
Tobirama fremette, respirando pesantemente dal naso, le
nari dilatate.
Adorava quando Izuna entrava in mode macho-alfa-iperprotettivo.
L'arrapava da morire. Assieme a lui ogni cosa era fattibile; si sentiva
invincibile, intoccabile. Al sicuro. Al contempo però, per quanto lusinghiere
fossero codeste considerazioni, non gli avrebbe mai confessato questo suo
segreto: il moro si sarebbe troppo gasato, approfittandone vigliaccamente.
Nondimeno vederlo così combattivo e devoto per amor suo, agitava pensieri poco
casti nel suo petto. Tradotto: lo voleva. Sì, voleva per sé e soltanto per sé
quel fiero, generoso, appassionato e possessivo masnadiere. Tobirama mai come
in quel momento desiderò così follemente il suo uomo. Lo reclamava tra le sue
cosce, ora, subito, senz'indugi. Imperativo categorico.
E ciò che Tobirama esigeva, Tobirama otteneva.
Ma questo giocando sporco, ovviamente.
"Ah! Prima che mi dimentichi", assunse infatti
il tono di voce più casuale e innocentino del suo repertorio. "Devo dirti
una cosa molto importante!"
"Sentiamo."
Con espressione furbetta, l'horror writer gli fece cenno
col dito d'avvicinarsi. Una volta avuto il compagno più presso, gli sussurrò
rapidamente qualcosa all'orecchio.
Gli occhi del moro si spalancarono, dilatandosi e
scurendosi selvaggiamente. Impallidì, scostandosi bruscamente e guardando
stralunato Tobirama, che annuì grave. Sicché l'uomo assunse una smorfia ferina,
non dissimile a quella del pazzo cui viene dato credito. Esattamente quella che
l'horror writer desiderava contemplare.
"Perciò", proseguì solenne "per punizione,
dovrai farmi l'amore per tutta la notte. E ho grandi aspettative a riguardo.
Che ne dici? Accetti la sfida?"
Punto sul suo intrinseco orgoglio virile, Izuna raccolse
il guanto, passando all'azione. Non se lo fece proprio ripetere due volte:
caricatosi sulle spalle quell'impertinente, si recarono spediti in camera da
letto, pronto alla pugna amorosa. Anche se ambedue sapevano che non ci
sarebbero stati alla fine né vinti né vincitori ma due innamorati esausti e
appagati. "Ottima idea, la tua, di dare una vacanza anticipata alle
belvette", dichiarò il moro, mentre appoggiava il suo fardello sul futon.
"Meravigliosa, brillante e caparbia creatura ..."
"Mio ...", ansimò Tobirama, tirando a sé
l'amato, affinché l'avvolgesse nel suo abbraccio. "Mio Izuna .. mio ...
soltanto mio ..."
"Esatto. E non dubitarne mai!"
Per tutta la notte, i loro corpi non cessarono mai di
cercarsi e di amarsi, gioiosamente, sfrenatamente.
Izuna venerò con dovizia Tobirama, baciando insaziabile
la sua bocca fine, il suo collo niveo, il suo petto ansante, i suoi fianchi
tentatori. E non si poté dire che Tobirama non avesse ricambiato con
altrettanta avidità, accogliendo Izuna dentro di sé con tale passione da
oltrepassare la divisione concreta tra il prendere e l'essere presi. Che
importava? Stupidi sofismi della biologia.
Si amavano e questo era sufficiente.
Il resto? Irrilevante.
Quando i due
furono troppo stanchi per seguitare a fare l'amore, s'accontentarono di
trascorrere abbracciati gli ultimi sgoccioli notturni prima dell'alba,
dilettandosi nella loro posizione preferita, quella del cucchiaio e cucchiaino.
Izuna fu il primo ad addormentarsi, indugiando con la
mano destra sul ventre di Tobirama, mentre con la sinistra intrecciava le sue
dita con quelle dell'horror writer, offrendo lo stesso braccio come cuscino. Il
suo respiro solleticava dolcemente la nuca bianchissima, scostando qualche
riccio umido.
L'horror writer si lasciò cullare, ascoltando il forte
battito del cuore del compagno.
Domani ci sarebbe stata la pubblicazione del romanzo.
Dopodomani l'intervista.
Poi, sarebbe finito tutto.
***
Mercoledì, 4 febbraio 1998
- mancano 2 giorni all'Appuntamento -
Dopodomani sarebbe finito tutto.
O così m'illudevo.
Trascorsi l'intera mattinata vagabondando pigramente per
il centro di Konoha, guardando annoiata le vetrine, cogitando su cosa cucinare
per mezzogiorno.
La mattina del 4 febbraio si presentava bella, frizzante,
appena sfiorata dal gelido vento del nord. Un limpido e schietto sole brillava
gioioso sul suo trono, un cielo incredibilmente privo di nuvole, azzurrissimo.
Una di quelle rare e miracolose mattinate- conoscendo infatti la plumbea incostanza
del clima invernale - la cui dolcezza e serenità propiziavano null’altro che la
tanto sospirata pace interiore, dove il corpo e lo spirito riuscivano
finalmente ad essere entrambi felici ed appagati. L’aria bellicosamente fresca,
pulita, pregna del sentore cristallino della neve e degli abeti umidi,
accarezzava l’odorato assieme all’acre profumo della legna bruciante nei camini
e l’anima con la sua fragranza gelida eppure inebriante. Normale era, quindi,
bere quell’aria a grandi sorsate (con la bocca bene aperta) la quale
s’attaccava birichina sulla gote arrossate, s’infilava tra le vesti, pungente e
delicata allo stesso tempo. Nulla a che vedere con le cupe giornate precedenti,
le quali di sicuro avevano influenzato negativamente i miei nervi già di loro
scossi, ingannandomi con sciocche apparizioni.
Andava tutto bene.
Ero calma e in pace con me stessa.
Allora, come mai mi rifiutavo di rispondere a Sasuke, il
cui numero di chiamate perse era montato a trentacinque? Sebbene avessi
riaperto il cellulare, premevo di riflesso il tasto rosso non appena lo sentivo
vibrare, prima ancora di permettere alla suoneria di sconquassarmi il sistema
nervoso subdolamente allerta. Non calcolai, invece, la musichetta riservata
agli sms.
Strano, chi poteva essere? Forse Menma, giacché il mio
meco si dimostrava relativamente allergico a messaggiare il suo prossimo,
preferendo telefonare.
Contrariamente alle mie supposizioni, lessi col cuore in
gola il messaggio.
Sas'ke
→ Me (11:45 am)
Che cosa ti
ho fatto?
Un brivido freddo mi percorse la schiena: dovevo averlo
messo sul serio alle strette, per costringerlo ad inviarmi degli sms al posto
d'inutili chiamate senza risposta. Mettendolo in silenziatore, decisi
d'ignorare anche quel tentativo (disperato e infruttuoso) di conversazione.
Peccato, che non ci fosse nulla contro le vibrazioni.
Sas'ke
→ Me (11:57 am)
Perché non
rispondi?
Fissai indecisa lo schermo: replicare o meno? E che cosa
avrei mai potuto scrivergli? Ogni parola mi suonava falsa, fuori luogo. Non ce
la facevo. Le mie dita rimanevano immobili sull'apparecchio.
Sas'ke
→ Me (12:05 am)
D'accordo,
non mi vuoi parlare. Però almeno puoi riferirmi tramite Itachi-nii se stai bene
o meno? Sono preoccupato, Naruko, non è da te quest'atteggiamento!
Ringhiando la mia snervata frustrazione, feci per
chiudere il cellulare, facendo contemporaneamente dietrofront e talmente in
fretta da non guardarmi attorno. Di conseguenza, non dovetti sorprendermi se
collisi con chi stava camminando nella direzione opposta. "Oh, mi scusi,
non l'ho fatto apposta ...", bofonchiai velocemente, piegandomi per
raccogliere il telefonino, sennonché lunghe e delicate dita guantate mi
anticiparono, conducendomi al viso del loro proprietario.
"Ora si spiega, perché Sasuke-kun ci sta
perseguitando con le sue chiamate: e io che pensavo si trattasse di nostalgia
di casa!", commentò freddamente Shisui-san, restituendomi il maltolto.
"Gli stavo per rispondere", mentii velocemente.
Gli occhi grandi e scuri della donna si strinsero in due
linee scettiche, tipiche del docente che fiuta la bugia dell'alunno, circa il
perché non abbia svolto i compiti per casa. "Allora sbrigati, non
lasciarlo aspettare", mi suggerì, non accennando tuttavia a muoversi di un
solo centimetro, neanche avesse voluto assicurarsi che lo facessi sul serio e
non per finta.
"Adesso non ho tempo; ma quando sarò a casa
..."
"Se hai intenzione di troncare con Sasuke-kun,
perché non glielo dici apertamente, invece di tormentarlo nel dubbio coi tuoi
silenzi da codarda? Non lo troveresti più onesto?", m'interruppe
bruscamente Shisui-san, inchiodandomi con lo sguardo.
Mi ribellai. "Non sono codarda!", proruppi
violentemente, punta sul vivo. Perché aveva ragione. La verità bruciava peggio
dell'acido.
"Non lo sei?", soffiò lei, implacabile. Portò
il suo viso a qualche spanna dal mio naso, obbligandomi ad indietreggiare onde
mantenere l'equilibrio. "Oramai è evidente che lui non t'interessa più;
perché altrimenti lo eviteresti? A meno che, a spronarti non sia il senso di
colpa per aver ..."
"Shisui-chan! Finalmente ti ho trovata! Non devi
correre così, alla mia età non riesco a starti dietro!", boccheggiò Mikoto-san,
raggiungendoci dall'altra parte della strada. Poi, notandomi, mi salutò
allegra: "Ah, Naruko-chan! Che piacere vederti! Come stai? Hai visto oggi
che bella giornata? Che ne diresti di prendere assieme un tea?"
Feci velocemente segno di no col capo. "Mi dispiace
Mikoto-san, ma mio padre rientra presto oggi e devo ancora preparare il pranzo.
Buona giornata!", mi congedai altrettanto in fretta, correndo quasi verso
casa e tuttavia cosciente del peso dello sguardo di Shisui-san dietro di
me.
~~~
Respirai più liberamente non appena misi piede a casa.
Chiusa la porta a doppia mandata, mi abbandonai per
terra, appoggiando la fronte sulle ginocchia e realizzando in quel momento,
quanto la previa serenità non fosse altro che un'ingannevole apparenza, un
subdolo meccanismo di difesa della mia mente contro lo stress generato
dall'inesorabile avvicinarsi dell'appuntamento. Le parole di Shisui-san avevano
completamente infranto questa mia fragile barriera d'ottimismo, lasciandomi
crudelmente degli inutili frammenti cui appigliarmi.
La verità? Ero sfinita. Non ne potevo veramente più.
Avevo scioccamente creduto che risolvere questo problema sarebbe stato semplice, lineare. Quante mi avevano
preceduto, facendo ricorso a questa soluzione? Non ero la prima e non sarei
stata l'ultima. Eppure, man mano che trascorreva il tempo, l'ansia e un infido
senso di colpa mi opprimevano il petto, istillandomi l'atroce dubbio sulla mia
scelta. (L'andata è facile, il ritorno fa
paura.) Non che l'avessi mai fin
dall'inizio presa sottogamba, tuttavia ... non m'immaginavo tutte queste
complicazioni. (... il ritorno fa paura
...) Incominciando da quel dannato bambino
che traeva un meschino diletto a tormentarmi con la sua sinistra presenza. ( ... fa paura ...) Se solo fossi riuscita
almeno a domandargli, che accidenti volesse da me!
Con un grande sospiro, mi rimisi in piedi, avanzando in
stato pressoché sonnambolico verso la cucina, auspicandomi di rimettermi in
fretta dal mio sconforto: non volevo, infatti, che Otōsan mi beccasse in quello
stato pietoso.
Sennonché, il mio piede destro scivolò su qualcosa di
freddo e umido, facendomi per poco perdere l'equilibrio. Di riflesso
m'aggrappai al corrimano della scala, rimanendo bloccata per una manciata di
secondi, incapace di metabolizzare quanto accadutomi. Solo quando mi reputai
abbastanza padrona di me, osai staccarmi dal mio appiglio di fortuna, valutando
perplessa la situazione.
Una piccola pozza d'acqua.
Ecco cosa m'aveva per poco fatto ruzzolare.
Una stramaledetta pozzangheretta d'acqua.
Ma da dove veniva? Dal soffitto? Dalle tubature? Da
qualcuno che aveva appoggiato l'ombrello bagnato in mezzo corridoio? Dal
borsone dei surgelati?
Oppure, che Otōsan fosse rientrato in anticipo, bagnando
il pavimento? Strano, le sue scarpe non si vedevano in entrata.
Scrollai le spalle. Poco importava, non era nulla che non
si potesse rimediare con una bella passata di straccetto. Mentre mi piegavo ad
asciugare, sogghignai amaramente sarcastica tra me e me a causa di
quell'ironico (e scampato) incidente: perché mai m'ero così agitata per non
cadere? Non si sarebbe risolto tutto, se avessi battuto per terra? Non mi sarei
neanche dovuta incolpare, giacché si sarebbe trattato appunto di una disgrazia
...
Terminato la mia incombenza, m'apprestai a rialzarmi e
riporre lo straccetto in cucina. Quand'ecco che, posando casualmente l'occhio
là dove avevo asciugato, m'accorsi con mia somma confusione come il pavimento
fosse ancora bagnato. La pozza d'acqua se ne stava lì, riflettendo malignamente
sorniona la mia espressione disorientata. Circospetta, passai di nuovo il
panno, studiando ogni singolo mio movimento.
Ecco fatto, asciugata.
La mia vittoria fu di breve durata.
Neanche sotto il parquet si trovasse una sorgente, dalle
sue fessure riemerse l'acqua, spandendosi nella ormai nota forma della
pozzangheretta, non un centimetro in più, non un centimetro in meno.
Esibendo un'esasperata smorfia, l'asciugai con maggior
fervore rispetto a prima.
Niente. Ritornava.
Ancora, passai nervosamente lo straccetto.
Invano. Come se non l'avessi mai fatto.
Imponendomi di non cedere alla montante isteria, corsi in
cucina ad afferrare il mocio e il secchiello.
"Lo vedremo", ringhiai bellicosa contro
un'identità a me stessa sconosciuta, "lo vedremo chi si stancherà
prima!" e nettai violentemente quella pozza, facendo pressione sul
pavimento, manco fosse mia intenzione spaccarlo.
Ma, similmente all'Idra dei miti greci, più m'ostinavo a
far scomparire quella pozzangheretta, più essa ricompariva, finché non prese ad
espandersi per tutto il corridoio. Inutilmente cercavo di raccogliere quanta
più possibile acqua: il tempo appena di scorrere il mocio e si ricominciava
daccapo. Era ... incontrollabile.
Plick. Plick.
M'irrigidii peggio d'un rigor mortis. Da dove veniva quel
gocciolare? Da dove?
Indietreggiai, mi guardai attorno, l'orecchio teso onde
captare la fonte di quel rumore.
Plick. Plick.
Serrai la mascella.
Plick. Plick.
I gradini delle scale gocciolavano. No, sul serio. Non
ero vittima d'allucinazioni. Gocciolavano. Neanche ... neanche si fossero
trasformati in una grottesca fontana.
Snervata, li passai tutti col mocio, digrignando i denti
alla vista dell'acqua riaffiorare tra le sue treccine. Vi applicai quindi dei
fogli di giornali vecchi e altri strofinacci, sperando che assorbissero quel
dannato liquido. Fu allora che, dopo un raro istante in cui sembrava che fossi
riuscita nel mio intento, la scala conducente al piano superiore si trasformò
in un mini-ruscello, costringendomi a scendere velocemente, prima che mi
facesse rotolare dabbasso, tanto era divenuta sdrucciolevole e pericolosa. Inavvertitamente
cozzai contro il mobiletto d'ingresso, balzando spaventata non appena constatai
come dalle fessure dei cassetti colasse dell'acqua. Similmente, i vetri si
presentavano rigati da scie di pingui gocce.
In nemmeno dieci minuti, l'intero corridoio si
trasformava in un minuscolo laghetto, venato addirittura da minuscole
increspature.
In trappola, questo fu il mio primo pensiero.
Prigioniera.
E sapevo benissimo, ora, di chi.
"Lasciami in pace! Vattene via!", gridai al bambino dal mantello blu, che mi fissava
da in cima alle scale e il cui sorriso
s'allargò oscenamente al mio tentativo d'intimidazione. "Questa non è casa
tua! Sparisci!", gli indicai la porta, obbligandomi a suonare quanto più
determinata e minacciosa possibile.
Ma la mia voce tremava. Il mio dito tremava. L'intero mio
corpo tremava di una paura folle, assoluta, che si sperimenta soltanto in punto
in morte.
"Perché?", mi
domandò innocentino il pargolo, comparendo all'improvviso al mio fianco. Sussultai
terrorizzata, allontanandomi di riflesso da lui (o lei?, il mantello m'impediva
d'identificarne il sesso e la voce stessa suonava troppo neutra per
determinarlo). Sennonché questi m'anticipò, afferrandomi per il braccio. Una
presa d'acciaio. Gelida. Sentii il sangue ghiacciare nelle mie vene. "Perché non vuoi giocare con me? Sei
cattiva. Io voglio solo un po' di compagnia!", cinguettò,
indietreggiando d'un passo. Poi di un altro. E un altro ancora, costringendomi
a seguirlo.
Mi stava trascinando via.
Senza neppure concedermi il tempo di riflettere, ghermii
lo stipite della porta, obbligando i miei muscoli ad eguagliare la
sovrannaturale forza del piccino, la quale stava mettendo a dura prova la mia
resistenza fisica.
"Mi
annoio! Mi annoio da morire! Giochiamo, Naru-tan! Giochiamo!", cambiò tono
quella creatura, per assumerne uno più petulante. "Giochiamo! Ora!", mugghiò lagnoso, strattonandomi
violentemente. Caddi sulle ginocchia e poi sul fianco, bagnandomi dalla testa
ai piedi non appena il mio corpo toccò il pavimento. "Ho aspettato abbastanza!", disse, trainandomi ora
facilmente verso ...
... il butsudan?
"Chi sei?", gli gridai, sperando di guadagnare
tempo ma al contempo genuinamente incuriosita dal suo interesse verso l'altare
di famiglia. "Cosa vuoi da me?"
Ma il bambino non rispose. Si bloccò invece
all'improvviso, allerta, come quando le sue controparti "reali"
vengono beccate con le mani nella marmellata. E, a giudicare dalla sua
espressione colpevole e indispettita, mai paragone fu più azzeccato.
"Sei un bambino davvero maleducato ed
insistente", lo rimproverò severa una voce a me conosciuta alle mie
spalle. "Agli adulti si ubbidisce senza discutere! Fila in punizione,
canaglia!"
Piegando la bocca in una smorfia piagnucolosa e facendo
una regale linguaccia, il pargolo si voltò, prese la rincorsa e si ... (vi scongiuro: credetemi!) ... si buttò
nel butsudan, il quale si chiuse inaspettatamente, benché lo avessimo lasciato
sempre aperto, tranne per alcuni giorni di precetto.
Un malsano e pesante silenzio cadde nel salotto.
Non osavo muovermi, sussultando quando percepii delle
dita stringersi incoraggianti alle mie spalle. Riconobbi subito la fede nuziale
all'anulare sinistro.
"S-Shisui-san ...?"
La donna annuì gravemente, aiutandomi a ripormi in piedi
quel tanto d'accompagnarmi al divano, dove mi sedetti intontita, quasi
m'avessero pesantemente malmenata.
"Come ti senti?", s'informò incolore,
congiungendo le mani all'altezza del pancione.
"Come ... come hai fatto ad entrare?", controbattei.
"La porta era aperta."
"No!", negai animosamente. "Non è
possibile, io ... io l'ho chiusa a chiave ...", mormorai, passandomi una
mano sulla fronte, guardandomi scoraggiata attorno alla disperata ricerca di
una logica spiegazione, d'un brandello di lucidità in quella situazione tanto
assurda quanto ... "Perché sei venuta?"
Shisui-san non mi degnò d'una risposta. Invece, levatasi
il cappotto e lanciatolo sulla poltrona, raccolse il mocio e il secchiello,
iniziando ad asciugare energicamente. Quel giorno non indossava il mofuko
kimono, bensì un vestito di lana lungo fino alle ginocchia, che accentuava il
suo stato di gravidanza. Malgrado ciò, non appariva sgraziata, anzi, puliva con
la medesima professionalità di una donna delle pulizie.
"Shisui-san?", provai ad attirarla in un
chiarimento, desiderando infatti apprendere come fosse riuscita ad entrare e
soprattutto cosa l'avesse spinta a recarsi a casa mia. "Shisui-san, potrei
sapere ...?"
La donna scaraventò con tale subitanea forza il mocio per
terra, che feci un balzo all'indietro, spalancando gli occhi e bocca alla
stregua d'un pesce morto sul bancone della pescheria. "Pensavi si
trattasse di uno scherzo da parte mia, vero?", ringhiò, fulminandomi coi
suoi grandi occhi scuri. "Pensavi che ti stessi pigliando per i fondelli?"
"Non capisco ..."
"Taci! Sai benissimo a cosa mi riferisco! Quei
lividi ... Credi che non abbia già sentito storie simili alla tua? Non aiuta
essere professoresse dell'ultimo anno di liceo ...", esclamò indignata e
per un attimo venni colta dal dubbio se fosse stato per la mia decisione o per
non aver dato il giusto peso alle sue parole. "Quante ragazze più giovani
di te hanno cercato in me conforto, confessandomi in lacrime come non avessero avuto altra
scelta che quello, come il rimorso le
stesse perseguitando ... L'andata è
facile, il ritorno fa paura ..."
Impallidii, abbassando vergognosa il capo. Questo
spiegava molte cose. Ma non completamente.
"Dunque, non m'ero sbagliata, Naruko-san",
sentenziò e la sua formalità mi afflisse maggiormente. Tuttavia, raccolsi
abbastanza coraggio da domandare la fatidica conferma a quanto da me assistito
negli ultimi giorni:
"Shisui-san, anche tu lo puoi vedere?"
La donna congedò la mia curiosità con un nervoso svolazzo
della mano. "Ovvio, sono incinta. Prima del parto la sorte del feto è
sempre oscura e questo mi rende piuttosto sensibile a certe visioni ... O mi
sbaglio?", aggiunse maligna, accennando col capo ricciuto al mio ventre,
ancora così piatto rispetto al suo.
Non trovai alcuna parola adatta per obiettare,
limitandomi a riabbassare lo sguardo e reprimendo per l'ennesima volta di
piangere. Soltanto ... non ci riuscii. Manco avessi aperto un rubinetto, piansi
indecentemente, rumorosamente, senza curarmi della persona che avevo dinnanzi,
tanta era la pena e l'imbarazzo che provavo per me stessa. Mi coprii la bocca
con la mano, cercando inutilmente di soffocare i miei ingolati singhiozzi. La
mia prostrazione dovette commuovere Shisui-san, o perlomeno ammansirla, giacché
la sua espressione s'addolcì e, preso posto accanto a me, mi circondò con le
sue braccia, cullandomi mentre mi accarezzava la schiena fino al capo, che
tenevo appoggiato al petto. Mi sfogai finché non terminai le lacrime (che
comunque scesero assai copiose), afferrando supplice un lembo del
maglione-vestito di Shisui-san. Mi sentivo assolutamente smarrita, simile ad
una bambina perdutasi nel bosco, di notte.
"Posso comprendere ciò che provi, Iesu-sama ne è
testimone. Alla fine, siamo sempre noi donne che paghiamo per gli errori degli
uomini ... Per questo motivo dobbiamo imparare ad essere moralmente più forti
di loro", mi sussurrò, seguitando nelle sue carezze consolatrici. Qualcosa
mi disse che non parlava a vanvera, che le sue parole provenivano da
un'esperienza dieci volte più dolorosa della mia. Shisui-san si staccò un poco
da me, costringendomi a guardarla dritta negli occhi. "Non ti giudico,
Naruko-chan, ma questo non significa che io approvi ciò che hai fatto. E ciò che stai tuttora facendo a Sasuke",
dichiarò, frugando nella borsetta un fazzoletto, che fissai interdetta. Notando
la mia muta esitazione, la donna mi domandò piano se ci fosse qualcosa che non
andasse.
"E' proprio questo il punto!", esclamai
sconvolta, ma più di ogni altra cosa ansiosa di convincere Shisui-san della mia
sincerità. L'afferrai esagitata per le spalle, scotendola leggermente. "Io
non ..." e presi fiato, risolvendomi infine a pronunciare quel verbo tabù,
che per settimane non avevo avuto addirittura il coraggio di pensarlo. "Io
non ho abortito! Non ancora almeno ... Devo ... è fissato per dopodomani!
Devi credermi! Non sto mentendo!"
Le raccontai in fretta ogni cosa.
Ogni singolo avvenimento, senza edulcorare la pillola,
senza alcun tipo di censura. Mi sbottonai completamente con lei, giacché la
reputavo l'unica in grado di ascoltare e analizzare razionalmente quanto da me
passato, tralasciando biasimi e moralismi. Del resto, stando alla conversazione
tra Menma e Itachi-san, anche lei aveva per un folle istante contemplato
l'aborto. Quindi, sapeva come ci si sentisse durante il processo in cui si
decideva se concedere o meno al feto di vivere. Sperai di non sbagliarmi, di
aver riposto saggiamente tutta la fiducia che in quell'istante provavo per quella
donna.
Al termine del mio
frenetico racconto, fu il turno di Shisui-san d'assumere un'espressione
sbigottita. "Allora, se ancora non hai ancora abortito ... Come mai?",
chiese più a se stessa che alla sottoscritta, la quale non capiva oramai più
niente di quel grottesco vaudeville.
"Cosa?"
La cognata di Sasuke si appoggiò allo schienale della
poltrona, la fronte corrugata e massaggiandosi meditabonda il pancione. "Se
tu mi giuri che ancora non hai abortito ... Come mai sei perseguitata da un
Mizuko?", si voltò verso di me, cercando d'estrapolare dalla mia faccia
una risposta, che io per prima non ero in grado di fornirle.
Al contrario, ne uscii più stordita che mai. "Un ...
che?", squittii la mia palese
ignoranza in materia.
Shisui-san aprì la bocca per rispondere, sennonché venne
bruscamente interrotta dallo scatto della serratura e il commento perplesso di
Otōsan: "Ma chi ha lasciato la porta aperta?" E raggiuntomi in fretta
in salotto, aggiunse: "Nacchan, ti sei dimenticata di chiu - ... Oh,
buongiorno Shisui-sensei, non ...
ignoravo che Nacchan ti avesse invitata a pranzo!", s'inchinò
frettolosamente, gesto ben presto imitato dalla donna.
"Minato-shi, il piacere è tutto mio di rivederla.
No, temo che non mi tratterrò a pranzo. Naruko-chan ed io stavamo giusto
cicalando, ma ora mi sa che termineremo una prossima volta."
Levandosi il
cappotto e la sciarpa, mio padre scosse vivacemente il capo. "Oh no, per
favore, finite pure ciò che vi stavate raccontando!", ci concesse
bonariamente, attaccando gli indumenti all'appendiabiti in entrata. "Se
volete qualcosa, mi trovate in cucina e ... Nacchan? Hai chiuso tu il
butsudan?", si rivolse sorpreso a me, squadrandomi con la medesima
curiosità.
Per tutta risposta, mi lasciai cadere sul divano,
coprendomi il viso con le mani e mettendo a dura prova le coronarie di Otōsan,
che spostando angosciato gli occhi ceruli da Shisui-san a me e viceversa, si
portò al mio fianco, cingendomi per le spalle. "Nacchan, che ti prende?
Perché piangi? E' successo qualcosa a Sasuke-kun?"
Ululai frustrata, artigliandomi i capelli neanche avessi
in progetto di strapparmeli e aumentando così il livello di preoccupazione di
mio padre, che, non sapendo più che pesci pigliare, decise d'invocare una
spiegazione dall'unica fonte disponibile e abbastanza calma lì presente.
"Shisui-sensei ... che ... che accidenti sta succedendo? Che vi siete
dette per ridurre Nacchan in questo stato?"
La donna si sedette di fronte a noi, incrociando le mani
sulle ginocchia. "Naruko-chan, posso riferire io al tuo chichi quanto mi
hai raccontato?", mi domandò il permesso.
Spiandola attraverso la fessura delle mie dita, annuii
senza un attimo d'esitazione, intimamente sollevata per averle delegato
quell'incombenza.
Shisui-san ripeté quindi con accuratezza quanto da me
confessatole, glissando tuttavia sulla questione del Mizuko, evidentemente per
non farci passare per due isteriche gestanti.
Un boato sconquassò la casa dalle fondamenta.
"Che cosa?!
Quel figlio di ...!"
"Minato-shi, se vuole insultare Sasuke-kun faccia
pure, ma la prego d'astenersi dal denigrare la povera Mikoto-san, la quale è
assolutamente estranea alla faccenda!", lo ammansì prontamente la cognata
del - secondo mio padre - gaglioffo, acciocché non peggiorasse ulteriormente la
situazione con minacce di morte e melodrammi sull'onore perduto e figlie ingravidate
alle spalle d'ignari genitori.
"Giusto", convenne Otōsan, bloccandosi prima di
pronunciare cose di cui si sarebbe in seguito pentito. Nondimeno, balzò giù dal
divano, avanzando in cerchio per il salotto più nervoso di una tigre in gabbia.
"Quell'infame, seduttore, fedifrago, bugiardo, ipocrita, criminale è un
uomo morto! Come si è permesso di mettere incinta mia figlia? Razza di porco
pedofilo!"
"Tou-san, ho ventun anni, sono ormai
maggiorenne!", m'ersi a difesa del mio meco. "Inoltre, l'età del
consenso in Giappone è a tredici anni, quindi non vedo ..."
"Come?", si strangolò per poco mio padre con la
sua medesima saliva, interrompendo il suo snervato andirivieni. "Vai a
letto con lui da quando avevi tredici anni? Depravato d'un approfittatore!"
Shisui-san si pizzicò imbarazzata la radice del naso,
mentre io arrossivo alla stregua d'un pomodoro. "Otōsan, cosa dici?"
"Ma ... ma come è stato possibile? Tu ...
incinta?"
"Minato-shi, desidera proprio conoscere anche i
dettagli più scabrosi?"
L'espressione infinitamente sconsolata di mio padre ci
suggerì di non elargirgli quell'immeritato coup de grâce.
"Diventerò nonno ... Ad appena cinquantadue anni
verrò chiamato Minato-ojisan ...",
bofonchiò stralunato il pover'uomo, cadendo pesantemente sulla poltrona e reggendosi la testa con le mani. Disertato
il mio posto, lo raggiunsi, passandogli consolatrice una mano sulla schiena
ricurva.
"Suvvia, Minato-shi! Non la prenda così male
...", lo rincuorò dolcemente Shisui-san. "Pensi che Mikoto-san hanno
incominciato a chiamarla Obasan a quarantadue
anni!"
Otōsan mugolò qualcosa di non ben definito.
Shisui-san ed io ci guardammo rassegnate, attendendo che
mio padre si riprendesse dallo shock.
"Perché è così, vero Nacchan?", si rianimò il
genitore, uscendo dal suo attimo di paterno sconforto. E dinanzi al mio sguardo
confuso, egli mi spiegò serissimo: "Che cosa hai intenzione di fare? Non
hai ancora finito l'università, progettavi inoltre di partecipare a
quell'Erasmus ad Oxford ... ", pretese di sapere, afferrandomi il polso
onde impedirmi una fuga strategica. "Insomma, terrai o meno il bambino?",
inquisì inflessibile, studiando attentamente prima la sottoscritta poi
Shisui-san, che sospirò, lanciandomi anch'ella una significativa occhiata:
"E quanto tutti noi vorremmo sapere ..."
Compreso il Mizuko.
To be continued ...
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Ebbene sì, adesso possiamo confermarlo, Naruko è incinta.
Ma questo non significa che i misteri terminano qui,
anzi, quello era solo il primo di
una punta d'iceberg di rivelazioni! Diciamo il più facile! Quindi se pensate di
terminare qui la vostra lettura, hé, non saprete mai come finirà per davvero!
;-)
Naruko non ha mai pronunciato le parole "gravidanza"
o aborto perché lei per prima si rifiutava di accettare il suo stato e per
scaramanzia (i giapponesi sono piuttosto superstiziosi, quanto gli italiani
direi) non ha voluto neppure accennare alla questione dell'aborto. Siccome il racconto è in prima persona, ci
dobbiamo accontentare degli svarioni del narratore/protagonista! ^^
Inoltre, vorrei precisare che io non voglio fare
moralismi con questa storia, ovvero se sia giusto o meno abortire. Questa è una
storia basata su di una credenza giapponese. Quale? Hehehehee, si saprà nei
prossimi aggiornamenti! Ormai non manca molto alla fine!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Alla prossima,
ciao!