CAPITOLO
UNO
La camera di Vera
puzzava di disinfettante e medicinali e i corridoi dell'ospedale in cui era
stata ricoverata in seguito all'incidente erano animati da un continuo viavai
di gente. Suo padre e alcuni altri uomini erano costantemente impegnati a
liquidare le domande dei medici, che si interrogavano sull'inspiegabile
rapidità con cui la ragazza stava guarendo.
A Vera, infatti, non
era rimasto che qualche graffio e un paio di lividi dopo sole due settimane di
convalescenza e i dottori non riuscivano a comprendere come avesse potuto
riprendersi così in fretta.
«Non preoccupatevi»,
continuava a ripetere uno degli amici del padre di Vera, «conta solo che stia
bene.»
Isey era un uomo alto e
grosso, di quelli che mettono paura agli altri con la loro sola presenza, senza
fare niente in particolare. Di conseguenza, aveva la preziosa capacità di
mettere a tacere le persone senza il minimo sforzo, inclusi i dottori di Vera.
Ronzava attorno alla ragazza come una guardia del corpo in piena regola,
vegliando su di lei e sopportando pazientemente le sue vane proteste.
«Hai intenzione di
farmi da baby-sitter ancora per molto?», gli chiese Vera irritata.
«Solo finché tuo padre
lo riterrà necessario», replicò lui tranquillamente.
«Sono un lupo», ribatté
lei offesa. «So cavarmela da sola.»
La prima volta che
sentii quella risposta, pensai a un gioco di parole sul suo cognome[1].
In un secondo momento, mi convinsi che la ragazza si riferisse ai Lupi di
Tambov[2].
Non mi parve difficile immaginare il padre di Vera, un uomo imponente e
dall’aspetto autoritario, a capo di una banda. Lo stesso Isey sembrava
perfettamente in grado di essere un membro di qualche organizzazione criminale.
Questa teoria avrebbe spiegato l’enorme quantità di persone che andavano e
venivano dall’ospedale: se Vera era realmente la figlia del capo andava
protetta a ogni costo.
Ci vollero solo pochi
altri giorni prima che Vera avesse il permesso di lasciare l’ospedale.
«Credi che papà mi
lascerà qualche ora di libertà adesso che sto bene?», chiese Vera a Isey. Suo
padre andava a trovarla spesso, ma solo per pochi minuti, giusto il tempo di
ricordarle di restare sempre vicina alla sua guardia del corpo.
«Potrai chiederglielo
quando sarai tornata sana e salva a casa», replicò tranquillamente Isey.
Vera parve non
ascoltarlo neanche, impegnata com’era a ticchettare sulla tastiera del
cellulare.
«Facciamo così»,
iniziò. «Va’ a casa e di’ a mio padre che tornerò tra un paio d’ore. Se dovesse
arrabbiarsi troppo inviami un SMS e vedrò di tornare il prima possibile.»
Isey la guardò con un
sopracciglio sollevato. «Tu vuoi farmi ammazzare, signorina.»
«In realtà no», replicò
tranquillamente lei. «Se avessi voluto questo sarei già scappata.»
Isey sospirò. «Hai
intenzione di dirmi dove vai?», chiese rassegnato.
Vera scosse la testa.
«Questo è esattamente il genere di informazione che ti farebbe ammazzare.»
«Perché dici questo?»
Isey, che di solito
sembrava saperla lunga quando parlava con Vera, questa volta pareva davvero
sorpreso.
«Perché secondo mio
padre l’ambasciatore porta pena, quando porta un brutto messaggio.»
«Non ti seguo.»
«Lascia perdere»,
tagliò corto Vera, prendendo la propria giacca dalla sedia e infilandosela. «Ci
vediamo a casa tra un paio d’ore.»
«A meno che tuo padre
non mi faccia a pezzi prima.»
«Sei il mio eroe», concluse
schioccandogli un bacio sulla guancia. Lui le sorrise.
Geograficamente,
Alexander Park era esattamente al centro della città, nel cuore di Petrogradskaja[3].
Vera aveva corso fino al parco il più velocemente possibile, passando per
strade secondarie e voltandosi di tanto in tanto per controllare che nessuno
l’avesse seguita. Quando finalmente arrivò a destinazione, entrò nel parco e si
sedette su una panchina, su cui era già seduto un ragazzo, più o meno della sua
stessa età. I due non si scambiarono neanche un’occhiata e rimasero in silenzio
per diversi minuti.
«Ti hanno seguita?»,
mormorò lui dopo un po’, senza voltarsi a guardarla, come se stesse parlando
tra sé.
«No», replicò secca
lei. «Ne sono certa.»
«Bene», rispose lui. La
tensione abbandonò finalmente le sue spalle.
Il ragazzo seduto su
quella panchina aveva l’aria di chi sta aspettando qualcosa e non sta più nella
pelle. I suoi occhi verdi fissavano il vuoto, ma il tremolio della sua gamba
tradiva la sua impazienza. Vera, al contrario, sembrava perfettamente a suo
agio, come se sedersi su quella panchina fosse per lei la più quotidiana delle
azioni.
«Uscita dal parco gira
a sinistra e procedi per un centinaio di metri», prese a dire lui. «Sulla
destra c’è una stradina che solitamente è deserta.»
«Ho capito», disse
semplicemente lei.
Lui si alzò senza
ancora degnarla di uno sguardo e si diresse verso l’uscita del parco. Vera
rimase seduta per qualche altro minuto a contemplare i fiocchi di neve che si
posavano sui rami spogli degli alberi, poi si avviò anche lei verso l’uscita,
seguendo le impronte già sbiadite lasciate nella neve dal ragazzo.
Seguì alla lettera le
sue istruzioni e dopo cento metri sulla strada principale, svoltò in un vicolo
abbastanza stretto. Improvvisamente, una mano la afferrò per il braccio e la
trascinò al riparo dagli occhi dei passanti.
Il ragazzo del parco la
strinse in un abbraccio soffocante e lei emise qualche mugolio di protesta,
ancora ammaccata dopo l’incidente. Poi lui le prese il viso tra le mani e la
baciò. Lei sorrise contro le sue labbra, poi mise le proprie mani sopra le sue
e ricambiò il bacio.
I due ragazzi si
baciarono per alcuni interminabili istanti, immersi in un mondo tutto loro,
così personale e lontano dalla realtà da rendere quasi magico quel vicolo
nascosto di San Pietroburgo, al punto che mi sentii in colpa a osservarli in un
momento tanto intimo. Eppure, un’inspiegabile forza mi impediva di distogliere
lo sguardo da quello spettacolo straordinario, magnetico, scaturito dalla
potenza di un sentimento così profondo che, mi resi conto, doveva essere una
delle ragioni per cui valeva davvero la pena vivere.
«Stai bene? Non sai
quanto sono stato in pensiero per te», disse il ragazzo. «Sono stato più volte
sul punto di telefonarti.»
«Così ci avrebbero
scoperto subito», replicò lei. «Sai che il massimo che possiamo concederci sono
SMS privi di informazioni.»
Vera sembrava piuttosto
tesa e continuava a lanciare occhiate indagatrici in giro.
«Lo so», disse lui, «ma
quando ho saputo dell'incidente sono andato nel panico. Se oggi non avessi
ricevuto il tuo messaggio per incontrarci al parco avrei sicuramente fatto
qualche sciocchezza.»
Lei si addolcì,
tradendo il suo profondo affetto per lui. «Per fortuna ti ho preceduto», disse
sorridendo. «Sto bene, Liev. Ma adesso dovremo trovare un altro posto dove
incontrarci. Il parco non è più sicuro.»
«Controllano i tuoi
messaggi?», chiese lui preoccupato.
«Non ancora, ma ho il
sospetto che mio padre inizierà presto a farlo. Isey non può coprirmi per
sempre.»
Liev sospirò. «C'è una
cosa che devo dirti, Vera.»
La ragazza si irrigidì,
probabilmente temendo il peggio, ma la sua voce non tradì alcuna emozione. «Dimmi.»
«Mio padre vuole che io
mi avvicini a te. Mi ha chiesto di... conquistarti.»
Vera emise un risolino
nervoso. «E tu gli hai detto di no, vero?»
Fu il turno di Liev di
ridere. «Mio padre ti sembra una persona a cui si può dire di no?»
Vera deglutì. «Perché
vuole che ti avvicini a me?»
«Non lo so ancora. Ma
so per certo che non permetterò che qualcuno ti faccia del male. Però possiamo
volgere la situazione a nostro vantaggio.»
«Non vedo come», disse
Vera scoraggiata.
«Potremmo vederci nella
zona ovest della città. Nessuno dei tuoi si avventurerebbe in territorio nemico
senza un motivo valido e invece gli uomini di mio padre potrebbero confermargli
di averci visti insieme. Noi non dovremmo più nasconderci, saremmo liberi di
stare insieme.»
«E se tuo padre ti
chiedesse di sfruttare il tuo collegamento con me ai danni della mia famiglia?»
«Faremo il doppio
gioco. Possiamo cavarcela.»
Vera sospirò. «Non
abbiamo molta altra scelta, vero?»
Liev fece un sorriso
amaro e la abbracciò. «Io cercherò sempre il modo di stare con te, Vera. Non
importa quanto mi costerà.»
Lei lo baciò di nuovo.
Quando si separarono,
Liev si tolse il giubbino e lo lasciò cadere a terra. Poi afferrò il collo
della propria maglietta e se la sfilò con un gesto elegante.
Vera lo guardò e
sorrise, poi lo imitò e si tolse la giacca.
Devo confessare che
conoscendo la passione che i vivi hanno per il sesso, il mio primo pensiero fu
che i due ragazzi si sarebbero accontentati anche di quel vicoletto, pur di
stare insieme. Per questo pensai che avrei dovuto lasciarli soli e rispettare
la loro privacy, anche se l'imbarazzo era uno di quegli stati emotivi
tipicamente umani che non mi appartenevano. Fortunatamente, le mie
elucubrazioni furono interrotte da un luccichio che catturò la mia attenzione.
Gli occhi di Vera
divennero gialli e brillarono nel buio.
Mentre finiva di spogliarsi,
la ragazza si piegò in avanti, allungando le braccia verso terra. Gli arti le
si ricoprirono di una folta pelliccia bianca, che a poco a poco raggiunse il
busto e la schiena e la rivestì completamente. Le orecchie divennero più
appuntite e il muso si allungò. Con un ululato, Vera completò la sua
trasformazione in lupo.
«Shh», la zittì Liev, mentre anche i suoi occhi diventavano di un
arancione brillante. «Ci sentiranno», la ammonì con dolcezza. Poi, molto più
rapidamente di Vera, si trasformò in un grosso lupo dal pelo grigio, decisamente
più grande di lei, ma altrettanto aggraziato.
Giocando come due
cuccioli liberi da ogni preoccupazione, i due innamorati si addentrarono ancora
di più nel vicoletto nascosto, percorrendo le strade segrete di San Pietroburgo.
[1] Il cognome di
Vera, Volkov, molto diffuso in Russia, può essere tradotto anche come
“lupo”.
[2] La Banda di
Tambov o Lupi di Tambov è una grande banda di San Pietroburgo, molto
attiva in Asia centrale per i suoi traffici di eroina, da dove si
approvvigiona, in direzione dei paesi dell'Unione europea. Tra le altre
attività sono state individuate le frodi finanziarie e il riciclaggio di
denaro. Ha rapporti di collaborazione con l'organizzazione criminale russa
Solntevskaja.
(Fonte:
http://it.wikipedia.org/wiki/Banda_di_Tambov)
[3] L’isola Petrogradskaja si sviluppa lungo la riva nord del fiume Neva ed è il quartiere centrale di San Pietroburgo; è collegata alla città dal ponte della Trinità.