CAPITOLO
DUE
Realizzai, in quei
giorni, di essermi sbagliata. Quelle persone, quando parlavano di lupi,
intendevano proprio forti e pelosi lupi che ululavano alla luna. Non erano due
clan nemici, ma due branchi di lupi mannari: quello della famiglia di Vera, che
controllava il territorio a nord-est del fiume Neva, e quello della famiglia di
Liev, dall’altra parte, nella zona sud-ovest di San Pietroburgo.
Vera Volkov, la
ragazzina scampata per un soffio alla morte, non era una comunissima umana,
bensì un lupo mannaro, non altrettanto fragile, ma comunque mortale.
Nel corso dei secoli,
avevo visto arrivare nella mia città le più strane creature soprannaturali.
All'epoca dello zar Nicola II, San Pietroburgo aveva ospitato una colonia di upyr[1],
vampiri dall'aspetto umano perfettamente integrati nell'alta società, che erano
riusciti addirittura a entrare nella Duma. Durante l'invasione dell'armata
tedesca, invece, avevano varcato le porte di Leningrado[2]
alcuni krayl, demoni capaci di trarre
energia da luoghi in cui sono avvenuti massacri.
Per moltissimi anni,
coloro che erano riusciti a guardare al di là della banalità del mondo degli
umani e a riconoscere l’esistenza di creature soprannaturali, avevano
annoverato anche me tra queste ultime. Eppure c’è una differenza sostanziale
tra quelli come me e quelli come loro: le creature soprannaturali muoiono,
seppur con tempi molto diversi da quelli umani. Per di più, i mortali, quando
vengono da questa parte, sono tutti uguali. Dalla notte dei tempi, la morte ha
livellato le anime di umani e non, rendendole nient’altro che soffi di vite
passate che, prima o poi, sarebbero svaniti tra i venti del tempo. Ha privato
di ordine e bellezza antiche gesta[3],
collocate in una storia irrilevante di fronte all'oblio. Da questa parte, le
anime non sono altro che anime, specchi vacui di una corporeità insignificante.
Tuttavia, in quei
giorni Vera Volkov iniziò a farmi credere che la vita poteva non essere
insignificante.
Quando tornò a casa
dopo l'incontro con Liev, Isey la stava aspettando con impazienza.
«Tuo padre ha giurato
di uccidermi lentamente se ti lascio andare via di nuovo», dichiarò non appena
lei ebbe varcato la soglia di casa.
«Non preoccuparti, gli
sei sempre stato fedele», lo rassicurò Vera. «Non ho dubbi che ti concederà una
morte rapida e indolore.»
«Ti spiacerebbe lasciarmi
continuare a vivere?»
Vera non rispose e si
diresse verso la sua camera. Isey la seguì.
«Vuoi dirmi dove sei
stata?»
«No», rispose
semplicemente. «Mi dispiace tenerti all'oscuro, ma è meglio così, credimi.»
«Maledizione, Vera! Sto
già rischiando tutto per te!», sbottò alla fine. «Ho il diritto di sapere per
che cosa lo sto facendo.»
Lei sostenne il suo
sguardo furioso per qualche secondo, poi si ammorbidì. «Non per che cosa. Per
chi», disse lei. «Mi sono innamorata.»
Isey la guardò a bocca
aperta. «Stai scherzando, spero.»
«Per niente.»
Isey la scrutò per
qualche altro secondo, aspettandosi forse che lei ritirasse ciò che aveva appena
detto, ma Vera non lo fece. «È un umano, vero?», disse lui. «Se fosse uno dei
nostri non avresti motivo di incontrarlo di nascosto. Sei la figlia dell'alfa,
potresti avere chiunque tu voglia.»
Lei non rispose, in
modo da non confermare né smentire le sue ipotesi.
«Mio padre non deve
saperlo», disse invece. «Altrimenti siamo morti entrambi», concluse guardandolo
con aria seria.
«Lui ti ama?»
Vera sussultò,
evidentemente non si aspettava quella domanda.
«Se non fosse così»,
rispose, «non rischierebbe così tanto per me.»
Nei giorni successivi,
il padre di Vera passò a controllare di tanto in tanto che la figlia non
andasse in giro senza permesso. Si assicurò che riprendesse a frequentare la
scuola e affidò a Isey l’incarico di accompagnarla e andare a prenderla in auto,
visto che quella della ragazza era distrutta.
Alla fine, Vera si
decise a chiedere di nuovo l’aiuto di Isey.
«Domani devo
incontrarlo», dichiarò. «Se invece di accompagnarmi a scuola mi dai un
passaggio fino a Petrogradskaja mi risparmierai un sacco di tempo e potrò
tornare per la fine dell’orario scolastico.»
«L’ultima volta che sei
stata da quelle parti sei finita con la macchina contro un semaforo», osservò
Isey.
«Per mia fortuna questa
volta guiderai tu», dichiarò Vera.
Isey sospirò. «Ti
accompagno fin lì solo se mi prometti che non attraverserai il ponte della
Trinità.»
Il ponte della Trinità
collegava Petrogradskaja alla sona sud-ovest di San Pietroburgo, territorio del
branco di Liev.
«Te lo prometto», mentì
lei.
La mattina dopo, Isey
lasciò Vera vicino ad Alexander Park, raccomandandole di tornare in tempo. Vera
lo ringraziò e lo salutò, poi aspettò che si allontanasse e aggirò il parco per
dirigersi verso il lato est della fortezza di Pietro e Paolo.
Nonostante fosse già
marzo, la neve non accennava a smettere di cadere delicatamente dal cielo,
imbiancando costantemente la città.
Liev era appoggiato
pigramente a un cartello che segnava la fermata degli autobus e il sottile
strato di neve accumulata sulle sue enormi spalle dimostrava che era stato
fermo ad aspettare in quella posizione almeno per un po’.
Vera gli si avvicinò
mentre lui la seguiva con lo sguardo. Era evidentemente difficile reprimere
l’istinto di nascondersi, eppure la gioia sul volto di entrambi era più che
eloquente quando Liev prese la mano di Vera e strinse a sé la ragazza su un
marciapiede affollato della città.
«Siamo ancora in
territorio neutrale», sussurrò lei cercando invano di sottrarsi alla stretta di
Liev.
«Allora andiamocene
subito», tagliò corto lui.
La trascinò attraverso
le strade di Petrogradskaja che costeggiavano il margine settentrionale della
Neva, fino al ponte della Trinità.
«Non avevo mai
attraversato il ponte», dichiarò Vera mentre lei e Liev percorrevano gli oltre
cinquecento metri che separavano Petrogradskaja dalla zona meridionale di San
Pietroburgo. «E non sono mai stata dall’altra parte della città.»
«Allora ti sei persa un
grande spettacolo», dichiarò Liev. «Vedremo di rimediare.»
Lei gli sorrise
riconoscente.
Camminarono lungo la
prospettiva Nevskij per circa due ore. Vera era affascinata da quasi tutti gli
edifici storici che incontravano percorrendo quella strada. Aveva sentito tante
volte le storie della sua città, i racconti delle grandi guerre patriottiche,
ma vedere con i suoi occhi la Strada del 25 ottobre[4]
era tutta un'altra storia.
Alla fine, i due si
sedettero su una panchina di un piccolo parco e Liev colse l'occasione per
proporre a Vera di andare a casa sua.
«Ti confesso che mi
sento a disagio», disse lei. «Essere qui mi rende vulnerabile e venire
addirittura a casa tua non mi pare una buona idea.»
«Vera, sto parlando di
un piccolo appartamento vuoto in cui vivo da solo, non della casa di mio padre»,
disse lui. «Non ti porterei mai lì, lo sai.»
«Non vivi con tuo
padre?», gli chiese lei sorpresa.
«No. Qui sono vicino
alla scuola e libero di tenermi fuori dagli affari di mio padre, anche se lui
continua a trascinarmi nella direzione opposta», spiegò.
Vera si alzò e si mise
di fronte a lui, con le mani tese per suggerirgli di alzarsi. Pallidi raggi di
sole filtravano dal cielo arrabbiato e le illuminavano i capelli scuri. Anche
le sottili lastre di ghiaccio che rivestivano l'asfalto, sembravano brillare
sotto la coraggiosa luce di marzo. Il Generale Inverno[5]
stava chiaramente perdendo la sua battaglia contro la primavera.
«Andiamo», dichiarò
lei. Lui le sorrise.
L'appartamento di Liev
era piuttosto piccolo, ma c'era spazio a sufficienza per una persona sola. Era
insolitamente ordinato per essere abitato da un ragazzo che viveva da solo, ma
c'erano qua e là i segni della personalità di Liev: sul tavolo della cucina
c'era un portatile di ultima generazione, nella camera da letto, le cui pareti
erano tappezzate di poster, un enorme impianto stereo occupava un terzo dello
spazio della stanza.
Vera si guardava
intorno affascinata, come se potesse cogliere aspetti sconosciuti di Liev anche
solo guardando le sue cose. Poi si sedette sul suo letto, testandone la
morbidezza.
«Mi piace», disse
lanciando un'ampia occhiata alla stanza.
Liev sorrise e la
baciò.
Questa volta, mentre si
toglievano i vestiti, a nessuno dei due gli occhi cambiarono colore, sebbene
brillassero comunque per ragioni puramente umane.
«Devo tornare a casa»,
dichiarò Vera. «Si è fatto tardi.»
Liev, steso pigramente
accanto a lei, con un braccio sotto la sua testa e l'altro attorno alla sua
vita, mugolò in segno di protesta. Le stava baciando dolcemente la fronte, con
il naso affondato nei suoi capelli.
«Dico sul serio», disse
lei staccandosi da lui e guardandolo negli occhi. Poi sorrise.
«Devo dirti una cosa,
prima», dichiarò Liev. Il sorriso di Vera si spense e il suo sguardo divenne
improvvisamente duro.
«Ho scoperto perché mio
padre vuole che mi avvicini a te. Secondo lui, in questo modo, mi sarà più
facile ucciderti quando verrà il momento di prendere il suo posto», disse Liev
in tono grave.
Vera sospirò. «Lo
sospettavo.»
«Io ho il diritto di
succedergli come alfa del branco in quanto suo figlio, ma per dimostrare di
essere meritevole del ruolo devo uccidere un lupo mannaro. E naturalmente è
preferibile che non sia un membro del mio branco. Ma suppongo che tu sappia già
queste cose.»
Vera annuì. «Mio padre
me le ha spiegate. Vale lo stesso per me, ovviamente.»
Liev chiuse gli occhi. «Troverò
il modo di fargli cambiare idea. Altrimenti gli dirò che mi hai scoperto e non
accetterai più di incontrarmi da sola. Io comprendo la necessità di una prova
di forza, ma non posso accettare che sia tu a farne le spese.»
Vera rise amaramente. «Se
non io, sarà un mio fratello o una mia sorella a pagare le conseguenze di
questa concezione arcaica del potere dell'alfa. Ma d'altra parte, se ci
rifiutassimo di provare la nostra forza, un altro lupo si sentirebbe
autorizzato a sfidarci e ci ucciderebbe senza dubbio contando su un'esperienza
che noi non abbiamo, quindi non abbiamo molta scelta. In più, tuo padre vuole
che tu uccida me per colpire anche mio padre.»
«Già. Perché tuo padre
ha ucciso mia madre», osservò, ma non c'era accusa nella sua voce.
«Dopo che il tuo aveva
dato ordine di uccidere la mia. Non si tratta di colpe da distribuire, Liev, ma
di vecchi rancori che sono così radicati da non poter scomparire neanche con il
passare delle generazioni.»
Lui sorrise. «Io
credevo che noi fossimo l'esempio lampante che si può mettere una pietra sopra
agli eventi passati e guardare avanti. Perché dobbiamo pagare per le colpe dei
nostri padri?»
«Non lo so», rispose
Vera alzandosi dal letto. «Quel che è certo è che dobbiamo adattarci alla
situazione attuale. Ed essere pronti a reagire.»
[1] L’upyr è
il vampiro russo per eccellenza. Secondo il folklore russo ha un aspetto
particolarmente disgustoso e un’indole crudele e aggressiva, ed è immune alla
luce del sole. In questo caso, l’upyr è descritto come una creatura
dall’aspetto umano, molto più civilizzata e perfettamente in grado di
integrarsi nella società.
(Fonte:
http://it.wikipedia.org/wiki/Vampiri_nel_folclore_europeo#In_Russia)
[2] La città di San
Pietroburgo assunse il nome di Leningrado dal 26 gennaio 1924 al 6
settembre 1991. L'assedio di Leningrado, durante la seconda guerra mondiale,
durò dall'8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944.
[3] Questa frase riprende una citazione di Galimberti (“infonde ordine e bellezza ad antiche gesta”) in cui si riferisce alla poesia, spiegando come sia in grado di trascendere il tempo, la storia e la morte.
[4] Durante i primi anni dopo la Rivoluzione
d'ottobre, la prospettiva Nevskij venne chiamata anche Strada del 25 ottobre.
[5] Il Generale
Inverno è l'inverno particolarmente rigido tipico del clima della Russia.
L'espressione nacque in occasione della Campagna di Russia napoleonica, quando
una lettera del maresciallo Ney affermò che l'Armata francese era stata
sconfitta dal clima rigido più che dalle armi. (Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Inverno_russo)