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Autore: Relie Diadamat    08/03/2015    4 recensioni
Un libro, quattro vite, destini incrociati.
L'amore che sfida il futuro.
Il passato che si mescola al presente.
Una scelta per cambiare la propria vita. Per sempre.
Arthur lo guardò indignato, arrendendosi nel lasciargli campo libero «Oltre ad essere uno scrittore da strapazzo è anche un idiota.»
«Terribilmente idiota.» precisò il corvino, chinandosi per prendere un pacco sigillato e porlo al giovane «Ma fa parte del mio fascino.»
«Cos’è?» chiese il giovane, indicando con lo sguardo il pacco.
«Il pacco che non ho avuto il coraggio di gettare al rogo.» l’uomo insistette, porgendoglielo ancora una volta, finché il biondo non parve convincersi, rigirandoselo tra le mani con fare indagatore.
«Sei una brava persona, Arthur Mecoalt e meriti le risposte che desideravi.» gli disse solamente, per poi incurvare le labbra in un sorriso nostalgico. Arthur lo guardò allontanarsi, rigirandosi ancora per una volta quel pacco tra le mani, poi decise di entrare.

[Quarta classificata al contest "A time of magic" indetto da hiromi_chan sul forum di EFP.]
[Merlin/Morgana] [Modern!Arthur/Mithian]
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Mithian, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Morgana
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Più stagioni, Contesto generale/vago
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2. Poi un giorno… 


Il libro stava funzionando e la piccola peste non gli stava più dando fastidi la notte. Arthur però stava rivalutando il fattore ‘la pazza non si accorgerà dell’assenza del libro’ siccome era passata una settimana, ma non gliel’aveva ancora reso.
Si era così deciso a farne delle fotocopie e farlo comparire sotto gli occhi della sua proprietaria, come per magia.
Quella mattina si era perciò alzato prima del previsto, aiutando la bambina nel vestirsi e nel contempo per prepararsi al meglio per il lavoro. Aveva imparato che i marmocchi non mangiano uova fritte, né bevono caffè al mattino, così si era munito di cereali e latte al cioccolato.
Aveva poi riposto con cura il libro della ‘pazza’ nella sua borsa a tracolla, sicuro di potersi togliere quel peso dalla coscienza, uscendone con le mani pulite.
 
Libreria, ore 7.40
 
Aveva aperto da poco le porte della sua libreria. L’aveva ereditata da suo padre e ne era follemente innamorata: tutta la sua storia era sparsa in quei volumi, in tutte quelle pagine, ma all’appello mancava il libro più importante di tutti. Lo aveva lasciato sul bancone della libreria e poi non l’aveva più trovato e stava dando di matto.
Quel libro era tutta la sua vita.
Si sedette afflitta sulla sua sedia rossa imbottita, riposta con cura dietro il grosso bancone di legno, in tonalità noce chiaro. Sbuffò sonora, sporgendo il capo all’indietro e gli occhi al soffitto. Dove poteva mai averlo messo quel dannatissimo libro, continuava a ripetersi.
Improvvisamente nella sua mente ci fu la luce. Si era accesa la lampadina. Aveva lasciato il libro sul bancone e poi si era allontanata verso una cliente, ma in libreria c’era ancora un’altra persona…
«Il biondino!» disse a se stessa, con una punta di irritazione mista ad un’illuminazione divina «Come ho fatto a non pensarci prima?» si chiese ancora, scioccamente.
Non le importava del rapporto che correva tra lei e quel tizio, il libro doveva ritornare immediato nelle sue mani. Lo avrebbe anche strozzato lei stessa al costo di riaverlo. Era troppo importante per lei. Dannatamente importante.
Decisa come un condottiero, si alzò dalla sua sedia comoda, balzando in piedi. Fissò per una frazione di secondi il suo orologio da polso, rendendosi conto di aver fatto bene i calcoli. Prese cappotto, sciarpa e guanti, indossandoli di fretta, ma con una certa eleganza che la contraddistingueva. Di solito, nelle scuole primarie, la prima campanella suonava entro le otto e lei era ancora in tempo per arrivare all’entrata e cogliere il biondino sul fatto: era ovvio per lei che chiunque chiedesse un libro di favole, avesse un bambino a proprio carico. E quale posto migliore, se non la scuola primaria, per cercare un bambino a cui piacciano le favole della buona notte?
Armata di determinazione sin dentro la sua perfetta dentatura bianca, si accinse a lasciare la libreria, voltando il cartello che dava alla vetrata, dove vi era la scritta ‘TORNO SUBITO’.
Subito, certo. Perché dopo aver subito la sua ira, Arthur Mecoalt sarebbe divenuto un capitolo chiuso, sepolto.
 
*
 
Era riuscita a raggiungere la scuola elementare giusto in tempo. Lo spiazzale della scuola era gremito di genitori pronti a salutare i propri bambini che, pimpanti, correvano nell’edificio. Scrutò con lo sguardo le varie famiglie, cercando di cogliere il viso del biondino da qualche parte. Niente. Sembrava non esserci da nessuna parte.
«Verrà a prendermi la mamma?»
Nell’udire quella voce, la mora si voltò, scorgendo la figura di una bambina platinata, ritta al fianco di un uomo in completo.
«Ne abbiamo già parlato, non insistere.» l’aveva liquidata lui.
Gli occhi della donna si sgranarono vistosamente. Conosceva perfettamente quella voce ed un po’ anche quel tono arrogante che lo caratterizzava: quell’uomo era Arthur.
La bambina bofonchiò qualcosa e poi si allontanò. Un sorriso tirato comparve sul volto della donna; molto probabilmente Arthur e la madre della piccola si erano separati. Ovviamente per colpa sua, pensò lei, ma si decise che non erano affari suoi e che l’unica cosa che al momento le servisse era il suo libro.
Inspirò impettendosi, iniziando a muovere dei passi verso l’uomo quando qualcosa la destò. Una donna, probabilmente sulla quarantina, era corsa da lui chiamandolo «Signor Mecoalt!»
Vide l’uomo girarsi e squadrarla con gli occhi, per poi assumere un’aria vagamente difensiva «Sì?»
«Sono Kelly Campbell, la docente di Ygraine.» disse cordiale lei, mentre vide l’uomo irrigidirsi all’istante. Era rimasto pietrificato da quell’affermazione, fin quando non si sentì richiamato di nuovo «C-certo… mi dica.» proferì allora, cercando di trovare stabilità con la voce.
«Vede…» cominciò Kelly, mantenendo un tono educato e cordiale «la situazione, ci sta scivolando di mano. Ygraine è spesso assente ed a volte si rifiuta di rispondere ai docenti, quindi mi chiedevo se… ci fossero complicazioni nel nucleo familiare.»
L’uomo rimase in silenzio per una frazione di secondi, poi la mora lo vide aprir bocca «Ygraine…» disse, quasi stranito da quel nome, per poi correggersi «La madre di Ygraine ci ha lasciati da poco. Il padre è partito per l’Afghanistan, quindi mi occupo io di lei in questo ultimo periodo.» terminò gelido, quasi come se il sol pensiero lo ferisse.
In quel momento la giovane abbassò lo sguardo, esattamente come la signora Campbell, per poi sentirle dire «M-mi dispiace.» balbettò la donna, quasi commossa da quella situazione.
«Le garantisco che… Ygraine riprenderà le sue sane abitudini.» rispose solo, liquidandola con un commiato formale.
La mano della mora cominciò a tremare lievemente, mentre sentì una strana sensazione attanagliarle lo stomaco. Pensò che forse Arthur avesse subito una grave perdita e che probabilmente si era affrettata nel giudicarlo.
 Improvvisamente le parve di vedere quell’uomo sotto una luce diversa. La sua arroganza, il suo essere scostante, le apparirono più chiari nella sua mente: quell’uomo si stava difendendo con l’unica arma a sua disposizione. Quell’uomo si stava difendendo con se stesso.
Cercò di ricongiungere entrambe le mani, intrecciando forte le dita tra loro, almeno per quanto fosse capace. Tremavano ancora lievemente.
Chiuse gli occhi, inspirando quanta più aria possibile. Anche lei avrebbe voluto difendersi con una possibile arma, ma il suo era un caso perso in partenza. Non c’erano armi a contrastare quella guerra che l’aveva colpita e che la stava costringendo a cadere a pezzi.
Aprì piano gli occhi, scoprendo di fronte a sé lo spiazzale quasi vuoto. Erano rimaste solo quattro persone sulle cinquanta precedenti. Quella era la metafora più triste e dolorosa alla quale si stava abituando. Sapeva che, un giorno avrebbe aperto gli occhi, ed avrebbe trovato il nulla ad attenderla. Per sempre.
“Non essere ridicola, Mithian. Il tempo rende il futuro incostante e nessun uomo per quanto straordinario può sapere cosa gli riserva l’indomani. Quindi non promettere costanza per qualcosa d’ignoto. Ne rimarresti delusa.”
La saggezza, nelle parole di suo padre, l’aveva riportata al presente, quello dove il ‘per sempre’ non esiste. Tentò di accennare un sorriso, per poi smuoversi finalmente dal suo posto.
 
*
 
Alcune volte, aspettare nel bus non era proprio l’ideale. La maggior parte delle persone fissavano le immagini scorrere dal finestrino, gli adolescenti messaggiavano tamponando costantemente con i polpastrelli il display dei loro cellulari; le donne più avanti con l’età o le donne maritate in compagnia, si perdevano in futili chiacchiere. Arthur, invece, non sapeva mai cosa fare.
Avere semplicemente pazienza, ed aspettare l’arrivo di una fermata non era il suo forte; non rientrava nel suo stile. Aveva un costante bisogno di tenersi impegnato, anche nella più stupida delle azioni. Il cellulare era ufficialmente fuori questione, siccome, dopo l’ultima avventura nel bus, si era ritrovato con una crepa enorme sullo schermo.
Vinto dalla noia, portò le mani nella sua borsa a tracolla, estraendone il libro che ogni sera a quella parte, leggeva ad Ygraine. Ricalcò quel nome nella sua mente, un tempo sofficiente a farglielo suonare strano, per poi aprire di scatto il libro.
Non voleva cadere nel baratro dei suoi pensieri. Non voleva nemmeno sapere perché mai la sua ex, nonché defunta, ragazza avesse dato il nome di sua madre alla bambina che aveva partorito.
Costrinse i suoi occhi alla visione della pagina biancastra, ricoperta da intere parole tinte di nero. L’unico modo per non pensare, era pensare ad altro.
 
Libro, pagina 20
 
I giorni passavano, così come l’acqua scorreva nei torrenti.
Camelot era splendente, come un cristallo tra mille pietre grezze. Il castello era abbellito da decori sfarzosi, seta purissima e rosso accecante. Eppure, c’era un qualcosa di macabro in quel regno. Vivere a Camelot, sembrava più un sonno perenne che una favola medievale. Vivere a Camelot, era un’impresa ardua, non accessibile ai deboli di mente e di cuore.
Merlin aveva imparato a convivere col suo segreto. Riusciva a guardare negli occhi il principe senza tentennamento nel tono di voce. Era riuscito a trovare un equilibrio statico per la sua sopravvivenza, eppure c’era qualcos’altro che lo tormentava.
Morgana.
Era la persona più sbagliata alla quale il suo cervello era avvezzo a pensare. Ne aveva ormai scalfito nella mente ogni singolo particolare, ogni minima sfaccettatura di quella fanciulla.
Il suo, era un assurdo e univoco sentimento dannoso. Sarebbe dovuto restare tra lui ed il suo cuore, almeno se teneva alla sua testa. Uther, re di Camelot, lo avrebbe fatto giustiziare se solo avesse osato sfiorare la sua dolce figliastra.
Ma Merlin non si sognava nemmeno di sfiorarla. Lui avrebbe solo voluto ascoltarla parlare, per tutte le ore del mattino e tutte quelle della sera. Avrebbe voluto osservare le sue palpebre appesantite, scivolare nel sonno. Desiderava tenerla accanto al sorgere del sole, sognava di vederne la pelle diafana ferita dal rosso di un tramonto. Non l’avrebbe nemmeno sfiorata con un dito, l’avrebbe solo contemplata in silenziosa passività.
Spesso, quando il lume della ragione lo abbandonava e l’istinto prendeva il sopravvento, si fermava ad osservarla più tempo del dovuto, regalandole sorrisi segreti, che mai e poi mai avrebbe visto.
Anche il suo corpo veniva sopraffatto da quel sentimento accecante: quelle volte che si ritrovava con Gaius fuori città, si fermava spesso a raccogliere dei fiori di campo; se li stringeva tra le mani, immaginandoli tra quelle della castellana, poi sorrideva contento.
Il sorriso è l’immutabile stato d’animo dell’innamoramento.
Il servo del principe lo aveva imparato a sue spese.
Quando tornava a castello, trotterellava silenzioso nelle stanze della figliastra del re, poggiando delicatamente i fiori sul suo letto.
Non lasciava scritto nulla. Non le lasciava intendere in nessun modo che fosse egli stesso l’artefice di quei continui doni floreali. Bastava sapere che li ricevesse. Che ne odorasse il profumo. Che se li portasse alle mani, esattamente come lui, nel momento in cui li coglieva.
Tutta questa messa in scena si ripeteva perennemente, con normale equilibrio.
Poi un giorno…

*
 
Lo sguardo di Arthur abbandonò le eleganti pagine del libro, ritrovandosi costretto a scendere alla sua fermata. Leggere purtroppo non era servito a niente, Ginevra era ritornata nei suoi pensieri.
 
*
 
«Sono preoccupato per te, Arthur!»
Il giovane non schiodò lo sguardo dai mille fogli della sua scrivania e, se suo padre non fosse stato così vicino, molto probabilmente avrebbe sbuffato.
Quella era la solita frase che Uther Mecoalt utilizzava, puntualmente, prima di ogni paternale.
«Non hai alcun motivo di farlo. È tutto sotto controllo.» il biondo cercò di deviare il discorso, prendendo una delle tante scartoffie sulla scrivania, portandosela tra le mani.
«Sotto controllo?» gli fece verso il padre con fare austero «Fare sempre ritardo a lavoro ti sembra avere la situazione sotto controllo?!» sbottò, lasciando il figlio inerme, senza parole.
«Quella bambina deve sparire dalla tua vita, immediatamente!» continuò categorico, con un tono che non ammetteva repliche.
Senza neanche rendersene conto, Arthur diede voce ai suoi pensieri «Sparirà dalla mia vita, quando Lancelot riapparirà nella sua.»
Uther accigliò lo sguardo, avvicinandosi sempre di più alla scrivania del figlio, quasi a volerlo incenerire col solo sguardo «Tu, cosa?!» la sua voce era pungente, le parole ancora di più e non solo perché erano urlate «Arthur, quella bambina è la figlia di Lancelot, quel pezzente che quella svergognata della tua ragazza si è portata a letto, gettando disonore sulla nostra famiglia! Ed ora tu che fai? Te ne prendi cura! Ti rendi conto di quello che sta succedendo sì o no?!»
Il giovane biondo, che fino a quel momento non era riuscito a guardarlo negli occhi, si voltò verso il padre, serrando la mascella, ingoiando anche quell’ennesimo boccone amaro.
Parlò a denti stretti, puntando i suoi occhi in quelli dell’uomo «Ti ho detto che sparirà dalla mia vita. Non hai motivo di preoccuparti.» l’oltrepassò come se niente fosse, come se fino a quel momento non avessero discusso; si diresse verso la porta, indossando la sua giacca.
«Dove diamine stai andando, adesso?!» chiese il padre, corrugando la fronte, gli occhi ancora pieni di rabbia.
Arthur ormai nemmeno lo stava più guardando, che già si stava incamminando verso l’uscita «A prendere Ygraine.» digitò sul cellulare il numero di un taxi «Non le piace aspettare.»
 
*
 
«Non mi piace!» Ygraine aveva storto il volto, arricciando vistosamente le labbra quando Arthur le offrì un cono gelato al cioccolato.
«Impossibile! È statisticamente provato che la maggior parte dei bambini impazzisce per il cioccolato!» il giovane insistette con la sua proposta, fin quando la bambina, capricciosa, non scosse la testa, voltando il capo dall’altra parte «La mamma mi faceva mangiare solo quello alla fragola.»
Un sorrisetto nostalgico si disegnò sul suo volto, per pochissimi istanti.
“Ci dia due coni gelato al cioccolato, grazie.”
Arthur si era sporto per pagare alla cassa, quando Ginevra lo interruppe “No, no. Per me a fragola, grazie.”
“Fragola?!” chiese il ragazzo, puntando i suoi occhi azzurri come l’oceano in quelli scuri e intelligenti di lei “Come fai a preferire la fragola al cioccolato?”
Lo scetticismo del suo ragazzo la inteneriva, così tanto da farla arrossire visibilmente, dietro i ricci ribelli “Una volta assaporato la perfezione, non hai più voglia di cercare altro.”
Era davvero ironico il fatto che le parole di Ginevra, iniziassero ad avere un senso solo dopo molto tempo, solo quando ormai era diventata irraggiungibile.
«Mia madre invece mi ha sempre preparato quello al cioccolato.» continuò ad insistere, porgendole ancora una volta il cono gelato «Vedrai che è molto più buono della fragola!»
La piccola tentennò, ma alla fine afferrò il biscotto a cono, portandosi la crema gelato alla bocca.
Si erano seduti accanto una fontana pubblica.
Arthur adorava andare in quel posto, specialmente quando voleva rilassarsi e non pensare a niente.
Frugò nella sua borsa a tracolla, estraendone il libro che Ygraine adorava, mostrandoglielo «Se io ti leggo questo libro, devi promettermi di fare la brava in classe!»
Gli occhi della piccola si erano già illuminati di luce propria, euforica come non mai squittì una serie incontrollata di sì, finché non vide il biondo aprire il libro ed iniziare a leggere.
«Poi un giorno…»
 
Libro, pagina 25
 
Poi un giorno, Merlin entrò nelle stanze della figliastra del re, incurante della sua presenza.
«Sono stufa di questa vita di corte! Tutte queste leggi stupide, tutti questi divieti, sono soffocanti!» la ragazza parlava, nascosta dietro il divisorio, incurante della presenza del servo nella sua stanza.
Il corvino si paralizzò all’istante, non riuscendo a deviare lo sguardo dalla figura candida e angelica della fanciulla. Gli sembrava così perfetta, in così tanta semplicità.
L’amore è cieco. Non permette agli occhi di scrutare i mille difetti della persona amata, ma tende ad ombrarli, mettendo in risalto solo i pregi.
«Voglio evadere!» annunciò infine la corvina, mentre elegantemente cercava di togliersi i suoi regali vestiti da dosso «Vedere come si respira l’aria di Camelot senza essere oppressa da stupide usanze!» il tono della sua voce ebbe un’inflessione sognante, che fece palpitare irregolarmente il cuore del servo.
Non aveva detto nulla di spettacolare, né tanto meno gli aveva promesso amore eterno, eppure, quelle parole seppero scaldargli il cuore: se la immaginò vestita da semplice popolana, i maestosi capelli, scomposti e sempre in disordine. Sarebbe stata perfetta, più di quanto già non fosse.
Perché se Morgana fosse stata una donna qualsiasi, il giovane sarebbe stato libero di amarla. Avrebbe potuto avere il lecito dubbio che lei lo avesse ricambiato.
«Oh… Gwen… credo di aver un problema con il corpetto.» ammise la corvina, immobilizzandosi sul posto.
Il cuore, nel petto del giovane mago, impazzì. Non seppe dirsi se batteva all’impazzata o se avesse improvvisamente cessato di farlo. Una cosa era certa, non sapeva più come si facesse a respirare.
«Gwen?» chiamò ancora la donna, stranita nel non ricevere risposta.
Il servo, seppur scettico ed incerto, avanzò dei passi, col cuore in gola. Un passo, dieci battiti. Due passi, niente pulsazioni.
Camminava, deglutendo a vuoto, sapendo di andare incontro al più grande errore della sua vita.
La giovane, sentendo dei passi si rassicurò e si rigirò di schiena, certa che fosse la sua serva alle sue spalle.
Quando si ritrovò a pochissimi centimetri dalla schiena della castellana sussultò interiormente. Se avesse allungato la mano, avrebbe trovato accesso alla sua pelle diafana, liscia e fresca.
Il profumo di cedro che la pelle bianchissima della donna emanava, gli riempiva le narici, gli offuscava i sani pensieri, gli rendeva impossibile l’utilizzo del senno.
Sedotto dal suo solo odore, Merlin allungò entrambe le mani ai lacci del corpetto della giovane, sfilandoglielo con estrema cura e lentezza. Le mani gli presero a tremare, come le ultime foglie d’autunno, sui rami di un albero, nel bel mezzo di una tempesta.
La ragazza d’altro canto non seppe dirsi il perché, ma sentì il cuore palpitarle in modo strano, quasi come se, sapesse di non essere in compagnia della sua fidata serva.
Era come se il giovane riuscisse a trasmetterle le sue emozioni, sfiorandole appena la pelle, svestendola, in tutti i sensi possibili in natura.
«Porgimi il vestito blu, Gwen.» dalla bocca della corvina, le parole uscirono come un tremolio incerto, dovuto all’ignoto più totale dei suoi sentimenti.
Il ragazzo, le mani ormai fredde e tremanti, il cuore in tumulto, si voltò piano, cercando quasi di non fare rumore, prendendo il vestito regale tra le mani, con una tale eleganza da meravigliarsi da solo.
La castellana alzò le braccia, come per mettere a chiunque le fosse alle spalle di infilarle il vestito indosso. Il servo represse l’istinto maschile, concentrandosi il più possibile nel non essere scoperto.
Issò le braccia, cercando d’infilare nel miglior modo possibile, il vestito regale alla figliastra del re. Le sue mani sfiorarono, seppur di poco, la pelle candida della giovane. Era fresca e liscia, esattamente come aveva sempre immaginato.
«Portami un tuo cambio.» proferì decisa, certa delle sue ipotesi «Gli abiti maschili andranno più che bene.»
Il servo sentì il cuore morirgli in gola.
Morgana era una donna e sapeva distinguere il tocco di un uomo da quello di una serva.
«Sì, mia signora.» soffiò lui, con voce malferma e tremante.
Stava per uscire dalla stanza, volendosi dissolvere nel nulla. Il suo cervello non riusciva ed elaborare quanto accaduto. Sentiva ancora il cuore danzargli nella trachea.
«E grazie per i fiori.» sentì dirgli ancora. Sorrise imbarazzato, sgamato ancora una volta da quella donna bella ed intelligente, poi si voltò, uscendo dalla stanza.
 
Libreria, ore 16.40
 
Mithian era tesa, quasi quanto una corda di violino.
Teneva lo sguardo fisso contro la vetrata della sua libreria, sperando di veder passare il biondo con la bambina.
Le cose erano cambiate. Arthur, per i suoi occhi, non era più un giovane borioso e pieno di sé, ma al contrario, era un uomo che aveva sofferto e che, forse, stava soffrendo ancora molto.
Voleva parlargli, ne sentiva il disperato bisogno.
 «Mi scusi signorina… avrei bisogno di una mano per…» un cliente sulla sessantina, cercava disperatamente l’aiuto della giovane impiegata, ma l’altra non lo stava ascoltando. Al contrario, alzò una mano in segno di pausa «Mi scusi, torno subito.» farfugliò, prima di correre verso l’uscita.
Arthur Mecoalt era passato davanti alla libreria, continuando a camminare a passo spedito, con una bambina dai boccoli d’oro al suo fianco.
«Ehi!» aveva richiamato lei, quel tanto necessario da far voltare entrambi.
Il biondo sbiancò per un momento, ma non si perse d’animo «Posso spiegare.»
«Non voglio spiegazioni, Mecoalt.» la mora scosse lievemente il capo, per poi guardarlo negli occhi «Mi basta sapere che lo tratterai con cura.» alluse al libro.
Arthur l’aveva guardata, per la prima volta da quando si erano incontrati, negli occhi; quelli nocciola, che brillavano nella fioca luce del tramonto «Perché fai questo?» le chiese poi, con un pizzico di diffidenza nel tono di voce.
Era rimasta ad osservare i suoi occhi, fino a saperli descrivere senza neanche guardarli «Perché sei una domanda che non è stata ancora mai posta.» sorrise sbilenca, prima di porgergli la mano destra «Sono Mithian.»
Il biondo sembrò far crollare, almeno in minima parte, quel muro di diffidenza che aveva eretto fin dall’inizio. Strinse la mano alla mora, sostenendo il suo sguardo «Piacere di conoscerti, Mithian.»
La giovane sporse il suo sguardo verso la bambina che, silenziosa, se ne stava al fianco di Arthur, sorridendole amichevolmente.
«Se mai avrai bisogno di qualcosa…» azzardò la mora, soppesando al meglio le parole da usare «Puoi contare su di me.»
«Beh, Mithian… ti ringrazio per l’intensione, ma ti assicuro che non ho bisogno proprio di nessuno.» il biondo cercò gentilmente di chiudere la questione, ma poi sentì la donna incalzarlo «Tutti abbiamo bisogno di qualcuno.»
«Io no.» chiuse la questione, categorico, per poi trascinarsi a sé la bambina «Adesso, se non ti spiace, dovremmo andare.»
Mithian rimase inerme, guardando il giovane allontanarsi con la piccola; un’improvvisa stanchezza invase il suo corpo. Era come se, tutte le forze d’un tratto, fossero scemate.
La mora digrignò i denti: quello era solo un suo effetto collaterale. E, purtroppo, non poteva essere placato.
Era incredibile, continuava a ripetersi. Aveva offerto il suo aiuto ad uomo che, apparentemente, sembrava senza problemi quando ella stessa, solo osservandola meglio, si poteva benissimo capire che necessitasse disperatamente del sostegno di qualcun altro.
Eppure Arthur aveva rifiutato il suo aiuto.
Non ho bisogno di nessuno, le aveva detto.
Mithian sospirò, cercando di mantenersi il più attiva possibile.
Lei aveva il disperato bisogno che qualcuno stesse al suo fianco, eppure si era ritrovata da sola, nascondendo per quanto poteva, tutto quello che le stava succedendo.
Perché anche lei voleva dimostrare al mondo che non aveva bisogno di nessuno, ma più che altro non voleva diventare un rogo. L’idea, di vedere bruciare vive tutte le persone che più le erano care l’annientava. Perché quando si è malati si diventa così, continuava a ripetersi.
La malattia non colpisce soltanto chi n’è affetto, ma anche tutte quelle persone che ci circondano. Gli effetti devastanti si manifestano in poco tempo; la malattia diventa come un fuoco che crudelmente ferisce ogni strato di pelle ed incurante delle sofferenze ti riduce in cenere.
Perché a volte, il fuoco non purifica. Le fiamme incendiano e lasciano solo cenere.
 
Dimora Mecoalt, ore 18.30
 
Ygraine si era finalmente convinta a svolgere i suoi compiti scolastici e questo fu un vero sollievo per il suo tutore.
Nel vederla armeggiare con la penna sui suoi quaderni, Arthur si era concesso una meritata pausa nel salotto, stendendosi a peso morto sul divano. Si era portato dietro anche il libro.
Dopo le ultime pagine lette, il biondo si era leggermente allarmato sulla vera natura dello scritto, non voleva di certo incorrere nel rischio di una qualche scena incensurata. Così, armato di buona pazienza, si era ripromesso di leggerlo tutto, tanto per avere una vaga idea del contenuto. Si sarebbe pertanto accertato se alcuni spezzoni dovessero essere censurati o meno.
Aprì il libro, portandoselo alla stessa altezza degli occhi. Poi, s’immerse nella lettura.
 
Libro, pagina 26
 
Il valletto reale si accinse a procurarsi un suo cambio, il più pulito che possedesse.
Prese tra le mani un paio di pantaloni ed una blusa blu, carezzandoli piano col palmo destro. La pupilla del re avrebbe indossato quegli stessi abiti. Quel corpo, tanto immacolato quanto perfetto si sarebbe ricoperto dei suoi indumenti; vestiti che il mago stesso aveva già indossato in precedenza.
Sentì uno strano calore nel petto, quasi come se un rogo si fosse animato tra le ossa della sua gabbia toracica.
S’ammonì da solo per quei pensieri insani: Morgana era la figliastra del re e sarebbe stato solo doloroso cadere in tali fantasie.
Il rintocco del castello annunciava l’arrivo del vespro. Merlin si sarebbe recato dapprima nelle stanze del futuro erede al trono poi, verso la prima veglia si sarebbe diretto nelle stanze di Morgana, come concordato.
Non riuscì a comportarsi in modo naturale, sentiva le mani tremargli continuamente, perfino quando gli toccò aiutare il principe nel farsi un bagno.
Carezzò la pelle umida del biondo e per un attimo immaginò di sfiorare quella della castellana. Il suo tremolare, insospettì il giovane principe.
«Non sto attestando la tua virilità, Merlin.» punzecchiò il futuro erede al trono «Puoi anche smetterla di tremare.»
Il servo si destò dai suoi pensieri, puntando i suoi occhi sul corpo nudo che stava toccando «S-sì.» boccheggiò imbarazzato dalle sue fantasticherie.
Quella situazione gli stava provocando molti danni e si convinse ancor di più che non fosse una buona idea assecondare i piani della regale corvina.
Quando il giovane fu congedato dai suoi doveri si ritrovò inquieto. Tentennò svariate volte nel corridoio; le stanze di lady Morgana erano poco distanti da quelle del principe e questo bastò per procurargli ancora più ansia.
Sospirò, cercando inutilmente di calmare il suo irrequieto battito cardiaco. Arrivò dinanzi alla porta che lo separava dalla castellana. Alzò un braccio in aria per bussare, ma il passare di alcune guardie lo destò.
Il continuo sentirsi sotto pressione accrebbe la convinzione di essere in errore. Continuò a ripetersi che era una cosa sbagliata e che avrebbe fatto meglio a tornarsene nelle sue stanze ad allietarsi della compagnia del suo mentore.
I suoi pensieri furono interrotti dal cigolare di una porta. Lady Morgana, in vestaglia da notte, era sgusciata col capo all’infuori della porta, tanto per osservare che la situazione fosse quieta.
Si ritrovarono accidentalmente occhi negli occhi, nel silenzio maestoso del castello e della notte. Merlin sentì il cuore accelerare vistosamente, solo nell’osservare la cotanta bellezza nelle iridi della giovane. Sembravano due smeraldi lucenti, incastonati alla perfezione nelle sue cavità oculari.
 «M-mia signora.» salutò con reverenza il servo.
La regale sembrò squadrarlo con lo sguardo «L’hai portati?» chiese in un sussurro, temendo di essere ascoltata da orecchie indiscrete.
«Morgana, vedete… non penso che questa sia una buona idea…»
La corvina sembrò scuoiarlo col solo sguardo «Non pensi, Merlin?» ricalcò accusatoria «E cosa credi che ne penserebbe invece Uther, se sapesse che ti sei intrufolato nelle stanze della sua pupilla?»
Il servo sbiancò, senza riuscire a proferire neanche una parola.
Vittoriosa, la giovane castellana ritornò sui suoi passi «Orbene, ribadisco la mia domanda: li hai portati?»
«S-sì, mia signora.» il mago riuscì a dire, consenziente, porgendole gli abiti rigorosamente ripiegati, nascosti dietro la sua schiena.
«Bene.» soppesò la nobile, rigirandoseli tra le mani «Aspettami qui.» ordinò poi, scomparendo nelle sue stanze.
Merlin credette di aspettare, impalato, fuori dalle stanze della pupilla del re, il tempo di due veglie, mentre ansioso si torturava le mani. Di tanto in tanto muoveva qualche passo in segno di nervosismo, andando su e giù accanto alla porta lignea della sua signora.
La porta delle stanze di Lady Morgana si aprì piano, mentre cautamente la castellana, varcava la soglia. Il servo, che intanto continuava ad andare su e giù, si fermò di colpo. Le sue iridi azzurre vennero catturate dalla figura armoniosa della fanciulla.
La figliastra del re si era raccolta le lunghe onde nere in una treccia laterale che, graziosa, le ricadeva lungo al petto, fino a fermarsi al fianco destro.
La blusa, che il servo stesso aveva indossato qualche giorno prima, era adagiata sulla pelle candida della regale. Vederla calzare i suoi pantaloni poi, lo fece avvampare. Ripensò alle linee sontuose della nobildonna ed il suo viso rischiò d’imporporarsi.
Morgana si accorse dell’espressione attonita del servo e s’affrettò a corrugare la fronte «Che c’è? Non sono forse nelle mie vesti migliori?»
«Siete incantevole…» il mago sentì le sue labbra muoversi da sole, mentre il suo sguardo se ne stava assorto sulla figura della nobile.
La castellana un po’ si sentì avvampare. Sorrise appena a quel tenero complimento, per poi tornare seria «Dovremmo andare.»
«S-sì.»
Merlin distolse repentino lo sguardo dalla corvina, avanzando il passo. Sentiva i passi della figliastra del re alle sue spalle e questo gli procurava sempre maggior ansia. Era come un continuo sentirsi sott’esame, un’interminabile pena. Sentiva costantemente un fuoco ribollirgli nelle vene, nelle viscere del suo stomaco, nelle sue ossa.
 
Quando furono fuori dalle mura del castello, tra le strade buie e fredde, la castellana si sporse a guardare il servo che, con lo sguardo in avanti, procedeva incurante della notte.
Si soffermò sul suo profilo. Dapprima ne ridisegnò i lineamenti del volto con le iridi smeraldo, poi si convinse a prestare attenzione alle mani pendolanti ai suoi fianchi.
Calde.
Le mani di quel servo erano costantemente calde. Ne aveva sentito il calore sulla sua pelle, e in qualche modo, le sembrava di avvertirlo anche in quel momento.
Affusolate e pallide come il suo viso, quelle mani potevano tranquillamente essere scambiate per quelle di un giullare che suona la cedra.
Erano delicate. Mani come quelle avrebbero carezzato dolcemente qualsiasi cosa, assuefacendole al loro tocco. Erano mani da incantatore… ed i suoi erano pensieri divergenti. La corvina spostò repentina lo sguardo sulla strada, cacciando via dalla sua mente certe stucchevoli fantasticherie.
 
**
 
Arthur spostò lo sguardo dalle pagine del libro al soffitto. Tutte quelle storie d’amore… erano così diverse, ma così simili tra loro da far vomitare. Il giovane Mecoalt evitava quanto più gli fosse possibile di leggere romanzi rosa. Li trovava stupidi, banali e ripetitivi.
Non riusciva a trovarci nulla di unico e sensazionale in qualche riga buttata giù a caso, magari in un triste pomeriggio d’autunno. Odiava gli scrittori. Li riteneva persone ridicole che, invece di vivere ogni singolo momento della loro vita, si perdevano tra inutili appunti d’amore.
 
“Se tu fossi in punto di morte… me la scriveresti una lettera d’amore?” Ginevra indossava una leggera camicia di seta, rigorosamente bianca. Le risaltava particolarmente la carnagione scura e gli occhi intelligenti.
“Perché in punto di morte… e poi perché una lettera scusa?!”
Arthur non capiva. Era solo un ragazzo non ancora maggiorenne e di dimostrazioni d’amore, così come dell’amore stesso, ne sapeva ben poco.
“Perché solo in punto di morte scriveresti una lettera d’amore e poi perché… mi piacerebbe poter rileggere all’infinito le tue ultime parole. Mi piacerebbe portarle sempre con me. Quella lettera sarebbe come un libro decorato dal nostro amore. In quanti non sognano una cosa simile?”
 

Il biondo carezzò, forse anche inconsciamente, le pagine del libro che aveva tra le mani, poi lo richiuse con stizza.
L’ultima lettera prima della morte… Il giovane sembrò pensarci a fondo.
Forse, Ginevra aveva lasciato qualcosa per iscritto prima di andarsene, pensò.
Già, ma tutti i suoi pensieri sarebbero rivolti a Lancillotto e non di certo a lui. Fatto tesoro di questa convinzione, si decise che per quel giorno, la revisione del libro era stata più che sufficiente. Così, si alzò dal divano e decise di allontanare ogni tipo di pensiero dalla sua mente.
 
Scuola elementare, ore 14.00
 
«Se continui ad avere quel viso imbronciato, ti si deformerà la faccia.» l’ironia pungente del biondo era un suo marchio di fabbrica, ma Ygraine sembrava ignorarla.
«E’ colpa della maestra!» decretò la piccola.
Il giovane si sistemò nel suo – consueto – sedile posteriore del taxi, sospirando, per poi assumere un’espressione di massima autorità, quasi come un re che accetta l’udienza di un plebeo «Ascoltiamo cosa, questa strega, s’è inventata stavolta.»
«Ci sarà una recita.» continuò la piccola «Ed io dovrò ballare.»
Arthur soppesò la circostanza, senza riscontrarci aspetti negativi «Dunque?»
«Io non so ballare!» sbottò Ygraine, imbronciandosi nuovamente.
«Suvvia, non sarà poi così difficile muovere qualche passo!»
La piccola lo scrutò, ritrovando improvvisamente il buonumore «M’insegnerai tu?» chiese speranzosa.
Alla non risposta del giovane, la piccola sembrò perdere ogni speranza, azzardando una sua supposizione «Non sai ballare…»
«Certo che so farlo!» ribadì Arthur, ferito nell’orgoglio, promettendole che le avrebbe insegnato ogni minimo passo di danza, ma facendo ciò firmò la sua condotta a morte: il giovane non sapeva neanche come si ballasse un lento ed era un vero pezzo di legno, ma non gli andava di essere preso in fallo.
La bambina batté allegramente le mani, felice di poter imparare a danzare. Il biondo, al contrario, guardò fuori dal finestrino, deglutendo a vuoto. Doveva trovare una soluzione al più presto.
 
Libreria, ore 16.30
 
La libreria era deserta e Mithian si beava di quei momenti per poter sfogliare le pagine di qualsivoglia libro, perdendosi nelle righe d’inchiostro nero.
Aveva tra le mani il romanzo di William Shakespeare Romeo e Giulietta, mentre ne rileggeva le ultime pagine.
E così, con un bacio, io muoio.
La mora passò la mano destra sulla frase, quasi volesse accarezzarla, delicatamente. Chissà, forse anche lei sarebbe morta con un bacio, magari.
I suoi pensieri furono interrotti dal continuo tamburellare di nocche contro la vetrata. Alzò lo sguardo e riconobbe la figura aitante di Arthur Mecoalt che, volendo sembrare impacciatamente autoritario, le faceva cenno di avanzare verso di lui.
Sorrise d’istinto, poi però, una volta aperta la porta, aggrottò la fronte sinceramente incuriosita «Che ci fai qui?»
«Cause di forze maggiori.» tagliò corto lui.
La giovane accennò una risata, squadrandolo con finta aria accusatoria «Stai chiedendo il mio aiuto?»
«Il fine giustifica i mezzi!» filosofò il giovane, volendosi tirare fuori da ogni possibile impiccio «Normalmente non te l’avrei chiesto, ma… è una questione delicata.»
Mithian pensando al peggio diventò seria di colpo «E’ successo qualcosa alla bambina?»
Un silenzio innaturale scese tra i due per dieci secondi d’orologio, finché il biondo non si decise a parlare ancora «Deve imparare a ballare.»
 
Dopo che Arthur le avesse spiegato accuratamente la situazione beccandosi una grossa risata della ragazza come risposta, quest’ultima si offrì d’insegnare a ballare alla piccola, ma il biondo rifiutò categoricamente: doveva essere lui ad insegnarlo ad Ygraine, mentre Mithian lo avrebbe insegnato a lui.
Così, mentre la piccola si distraeva alla vista della tivù, i due si segregavano nella camera del giovane Mecoalt, improvvisando lezioni di danza.
«Non è tanto difficile, devi solo seguire i passi.» spiegò lei, cercando di trovare posizione in quel ballo. Arthur però, era così rigido da non consentire neppure alla mora di eseguire un solo passo «Sei troppo teso, Arthur! Devi rilassarti!»
«Sono rilassato!» sbottò l’altro «E smettila di darmi ordini!»
Andarono avanti così, a suon di rimproveri ed anche grosse risate. Mithian cercò di mettere da parte la stanchezza che la sua malattia le provocava, reprimendola, cercando di non darlo a vedere al giovane e sembrò anche riuscirci.
Alla fine riuscirono nel loro intento, così, dopo due settimane di continue prove, Mithian ed Arthur decisero di mostrare alla piccola Ygraine come si ballava.
 
Libro, pagina 28
 
Lady Morgana insistette per entrare in una taverna, dove la presenza delle donne – a maggior ragione a quell’ora tarda – fosse inconsueta.
Merlin, ancora sotto minaccia, dovette accettare i patti della sua signora ed accompagnarla nella locanda.
Appena varcarono la soglia della porta, il servo del futuro erede al trono si convinse che presto, la figliastra del re, se la sarebbe data a gambe levate, inorridita dallo scenario che le si presentava dinanzi alle sue regali pupille.
I tavoli erano occupati pressoché da energumeni o scapoli in cerca di perdersi nel buon sapore della birra che tracollava dai boccali. Popolani molto schietti e sciatti tracannavano forti bibite ed esprimevano, con flatulenze poco signorili, il loro gradimento. Altri tavoli, erano invece popolati da cavalieri, vestiti di semplici vesti, altri con ancora indosso la loro armatura ed il mantello rosso Pendragon.
«Ordina due boccali di cervogia.» comandò la nobildonna al giovane servo.
Merlin, dal canto suo, rimase dapprima spiazzato dalla reazione contenitiva della fanciulla, poi iniziò a rodersi le interiora per averle dato retta fin dall’inizio. Nonostante tutto, fece come gli fu ordinato.
Mentre sorseggiavano i due boccali, la castellana si rese conto delle occhiate languide che molti uomini le propinavano. Il valletto reale ne sembrò quasi infastidito. Quegli uomini avevano intenzioni tutt’altro che nobili, se ne convinse il giovane.
 «Li invidio.» ammise la nobildonna, tutto d’un tratto.
Il mago aggrottò la fronte, riservandole il massimo interesse «Che intendete dire?»
«Insomma guardali! Sono uomini liberi. Liberi di guardare una donna come se fosse una pagnotta di pane e loro bestie affamate. Liberi di tracannarsi interi boccali di birra, incuranti dell’etichetta di corte.»
Il corvino sorrise quasi intenerito, abbassando lievemente lo sguardo «Non sono liberi perché sono popolani, mia signora. Sono uomini, è quella la differenza tra voi… e quei…» il servo cercò il termine esatto da usare, ma le parole gli sfuggirono dalla bocca.
«Vorrei tanto andare via, Merlin.» la voce di Morgana aveva un che d’amaro nel suo timbro «Alcune volte, mi sento soffocare.»
Il giovane servo accennò una risata d’istinto. Lui doveva compiere il Destino, salvando quotidianamente la pelle a quell’Asino Borioso, nascondendo costantemente il suo segreto, Merlin non era sicuro che la nobildonna potesse mai sentirsi soffocare quanto lui.
«Ridi delle mie ferite?» lo accusò, anche se conservava, nel senso molto lato del termine, una vena scherzosa.
«N-no, certo che no, mia signora.» balbettò, cercando di porre rimedio al suo stupido danno.
La donna sorrise compiaciuta della sottomissione del servo nei suoi confronti, poi levò lo sguardo verso l’altro lato del locale «Vorrei tanto danzare.»
 
**
 
Mithian si divertiva nel volteggiare al fianco di Arthur, mentre la piccola Ygraine batteva le mani soddisfatta. Per un secondo non si sentì nemmeno malata. Guardava gli occhi d’oceano del giovane e si riscopriva felice, proprio come lui.
Molte volte, durante la sua giornata, aveva una continua paura della sua malattia, paura degli effetti collaterali che causava. La perdita dell’equilibrio era tra quelle, ma quel giorno non cadde, rimase semplicemente in equilibrio, sorretta dalle braccia muscolose e guidata dai passi seppur arrangiati del biondo.
Era come se il rogo al suo interno si fosse placato di colpo.
   
 
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