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Autore: Alaska__    10/03/2015    1 recensioni
{ Queste storie partecipano all'iniziativa Drabble Meme, indetta dal gruppo facebook The Capitol}
O6 ~ Keith (OC)/Blight (friendship • tribute/mentor) ~ OS (1.914 parole) ~ during 69th Hunger Games ~ prompt: « Gatti »
«Io…» indugiò un istante sulle parole da pronunciare, «… vado in giro. Di notte, nei boschi. Ho un buon senso dell’orientamento. E so muovermi furtivamente» abbassò lo sguardo sul muffin mangiucchiato che giaceva sul piatto, «… come un gatto» aggiunse quasi senza rendersene conto, e un sorrisetto malinconico incurvò le sue labbra.
«Un gatto?» Blight aggrottò la fronte, ma sorrideva.
«Un gatto» confermò Keith. «È il mio soprannome». Non sapeva perché gli stesse raccontando quell’aneddoto – di solito, lui non amava molto parlare della sua vita – ma sentiva il bisogno di sfogarsi e liberarsi, per non aver più sullo stomaco il peso della malinconia.

[...]
«Gatto» sussurrò Blight, come se stesse parlando tra sé e sé. «Quindi, i tuoi talenti nascosti sono infrangere la legge e fare il gatto. Sei anche bravo a miagolare?»
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovi Tributi, Tributi edizioni passate, Un po' tutti, Vincitori Edizioni Passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sparks • Picking up the pieces. '
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Prompt: Gatti;
Personaggi: Keith Wood (OC), Blight;
Coppia: Keith/Blight; Friendship; Tributo/Mentore;
Rating: verde;
Genere: missing moments; a little bit introspettivo. 
Lunghezza: One-Shot (1.914 parole);
Avvertimenti: //
Note: Also, credo che io debba dare qualche spiegazione in merito ai perché e ai per come.
Keith è un mio OC, tributo durante la sessantanovesima edizione degli Hunger Games. In realtà lo creai per una storia su Finnick e sui suoi Hunger Games, ma essendomi affezionata molto, ho voluto resuscitarlo. Nel mio headcanon ufficiale, comunque, Keith vince i sessantanovesimi Hunger Games, all'età di diciotto anni, dopo essere stato mandato ai Giochi come condanna per aver ucciso un Pacificatore che stava per abusare di sua sorella. Il suo mentore durante gli Hunger Games, appunto, è stato Blight, con cui ha instaurato un bel rapporto di amicizia. 
Verranno fatti alcuni accenni al fatto che la compagna di Distretto di Keith lo tratta in maniera fredda e distaccata; non vorrei aggiungere altro in questa OS per non fare spoiler, poiché la storia degli Hunger Games di Keith la vorrei raccontare in una futura long dal titolo Dunkelheit. 
Ah, sì, il ragazzo ha la fissa per il buio e la notte; nel mio headcanon nei Distretti più rivoltosi - come il 7 - vige il coprifuoco, anche perché immagino che nelle altre fazioni di Panem l'oppressione dei Pacificatori non sia easy come al Distretto 12 prima dell'arrivo di Thread. E Keith, che va in giro di notte, nei boschi (soffre d'insonnia, povero ciccY) è un potenziale criminale, ecco. Lo chiamano Gatto, sì x3 
Ultimo, ma non ultimo, lo so che il pv di Blight non è Bobby Jordan, aka l'attore che lo interpreta nei film. Purtroppo, di foto sue ce ne sono poche e con una risoluzione pessima, per cui ho preferito cercarne un altro, anche in base a come lo figuravo mentre leggevo il libro. Quello a sinistra nel banner è Keith e quello a destra Blight, dunque. Nel mio headcanon (moooolto complicato xD) lui ha vinto i cinquataquattresimi Hunger Games all'età di sedici anni. Volevo renderlo coetaneo di un paio di altri miei Vincitori che hanno vinto le due edizioni successive alle sue xD 
Spero vi piaccia!


Ringrazio tantissimo Tinkerbell92 per il prompt ♥



 
 
 



Picking up the pieces



VI. « Gatti »


 
Ansia. Paura. Agitazione.
Furono queste le prime emozioni che travolsero Keith Wood quando aprì gli occhi nello scompartimento dove era stata allestita la sua camera.
La squillante voce di Jane – l’accompagnatrice capitolina – aveva fatto sì che si destasse dal sonno poco profondo e agitato in cui era piombato qualche ora prima, al termine di un lungo tempo passato a girarsi e rigirarsi sul comodo materasso dove si era sdraiato la notte precedente.
«Svegliati, begli occhi! Ti attende una giornata lunga, ma strabiliante!» furono queste le ultime parole di Jane, prima che si allontanasse accompagnata dal solito ticchettio prodotto dai suoi tacchi a spillo sul pavimento in legno.
Grugnendo qualche imprecazione per essere stato svegliato da una tale e ripugnante donna, Keith si mise a sedere, toccando, con i piedi nudi, un morbido materasso, che giaceva accanto al suo letto.
Si stropicciò con vigore gli occhi, alzandosi e sbadigliando sonoramente. Gettò una breve occhiata alla sveglia posta sul comodino, appurando così che erano le otto di mattina.
Inarcò un sopracciglio con fare sorpreso. Era convinto che fosse molto più presto, dato il sonno che si trascinava dietro – si disse quindi che doveva essere tutta una conseguenza dell’aver dormito poco.
I suoi vestiti penzolavano da alcuni appendiabiti alla parete. Erano gli stessi che aveva indossato la sera prima, dopo la doccia, quando si erano riuniti tutti per osservare il riepilogo della Mietitura.
Ricordava ben poco di quel filmato – gli erano rimasti impressi solamente tre o quattro volti – ma decise che non era importante. Avrebbe avuto tutto il tempo nei giorni successivi di studiare la concorrenza. Quel mattino, con il sonno che sembrava non dargli tregua nemmeno mentre si metteva i comodi pantaloni della tuta, non riusciva a riordinare i pensieri. Sapeva solo che sarebbe dovuto andare nel vagone allestito a sala da pranzo, dove tutti lo stavano aspettando per la colazione.
Senza minimamente controllare il proprio aspetto allo specchio, il tributo del Distretto 7 si avvicinò alla porta – la quale, come previsto, si aprì automaticamente, dandogli accesso al corridoio che separava le varie stanze.
Si passò una mano tra i capelli castano scuro, cercando di metterli a posto alla bell’è meglio, giusto per non sorbirsi le prediche di Jane. Già il giorno prima non gli aveva dato tregua, tartassandolo su quanto fossero orribili i suoi capelli spettinati e le occhiaie che cerchiavano i suoi occhi verdi.
Keith aveva cercato di ribattere gentilmente e in maniera diplomatica, ma la parte arrabbiata di lui aveva preso il sopravvento e la bocca aveva sputato fuori un «li avresti anche te, se stessi per morire in questi Giochi di merda» che aveva zittito la capitolina e aveva fatto sì che il suo mentore gli lanciasse uno sguardo assassino.
Entrò nel vagone con uno sbadiglio, coprendosi la bocca appena in tempo. Al tavolo erano già seduti tutti: Jane, la sua compagna e i loro mentori. Blight – colui che era stato incaricato di curarlo in quei giorni – gli fece un cenno con la mano, indicandogli la sedia vuota dall’altra parte del tavolo, proprio davanti a lui.
Il diciottenne notò che il Vincitore era distante dagli altri membri del loro gruppo – forse, pensò Keith, era per parlare tranquillamente con lui della strategia, senza che nessun’altro sentisse i loro discorsi. Del resto, il giorno prima, la sua compagna di Distretto si era rifiutata fin da subito di fare squadra con lui; quando i mentori avevano chiesto loro cosa preferissero, la giovane gli aveva lanciato uno sguardo così fulminante che Keith aveva temuto di essere già entrato nell’Arena.
«Buongiorno» lo accolse il mentore, mentre versava del succo di frutta in un bicchiere stretto e lungo. «Dormito bene?»
Keith fece spallucce, prendendo la sedia e spostandola dal bordo del tavolo. Si sedette, avvicinandosi di nuovo e appoggiandosi alla superficie lignea – in quel momento coperta da tovaglie e vassoi – con i gomiti. Appoggiò le guance alle mani strette a pugno, con lo sguardo perso su una torta dall’aria prelibata.
«Mangia» ordinò Blight, dando un colpetto con il coltello che stava usando per spalmare la marmellata su un pezzo di pane tostato. «Devi farlo, se vuoi essere in forze».
«Non ho fame» borbottò Keith, ma il gorgoglio proveniente dal suo stomaco smentì la sua affermazione. Blight fece una risata.
«Sembra che lui non sia d’accordo». Indicò lo stomaco del tributo con un cenno del capo. Sorridendo suo malgrado, il diciottenne afferrò un muffin posato su un piatto lì vicino, avvicinandolo alle labbra con cautela, come se temesse che da un momento all’altro potesse trasformarsi in un ibrido.
Il pensiero di poter vedere quelle orribili bestie che tanto spesso aveva osservato in televisione gli fece stringere nuovamente lo stomaco, ma si impose di dare almeno un morso al dolce – che scoprì poi essere davvero delizioso.
«Dunque…» solitamente, Keith non era molto loquace alla mattina, ma in quel momento desiderava tutto fuorché pensare all’Arena e agli Hunger Games, «oggi che si fa?»
Blight addentò la fetta di pane spalmata di una marmellata dall’insolito colore vermiglio, masticando con lentezza e guardando qualche punto imprecisato del vagone; aveva l’aria pensierosa. Una volta ingoiato, scosse il capo con aria di noncuranza.
«Salone di bellezza» rispose semplicemente, alzando lo sguardo sul suo tributo. Keith aggrottò la fronte, domandandosi cosa intendesse.
Aprì la bocca per chiederglielo, ma Blight lo interruppe parlando prima di lui. «Arrivati a Capitol City sarai nelle mani del tuo staff di preparatori, che ti laveranno, coccoleranno» nel dire l’ultimo verbo fece il segno delle virgolette con le dita, «e truccheranno. Ti prepareranno per la parata, che sarà verso sera».
«Tutto qui?» Keith si aspettava di fare altro, non solo un intero pomeriggio passato tra le mani di un gruppo di diabolici capitolini.
Le labbra di Blight si incurvarono in un sorrisetto. «Hai fretta di cominciare?»
«No». Il diciottenne scosse la testa, afferrando una brocca di ceramica contenente del latte caldo con cioccolato. Un lampo di consapevolezza e di comprensione passò negli occhi marroni del Vincitore, ma sparì veloce come era arrivato.
«No, oggi non sarà nulla di che. Il vero spettacolo comincerà domani. Per intanto, direi che possiamo parlare dei tuoi punti di forza, che ne dici?»
Keith annuì, portando la tazza di latte alle labbra, mentre pensava a cosa rispondere. Non sapeva che punti di forza potesse avere, all’infuori del saper maneggiare le asce – cosa che ogni ragazzo del Distretto 7 sapeva fare quasi ad occhi chiusi, raggiunti i diciotto anni.
La bevanda calda parve anche riscaldare leggermente il suo animo, mentre gli riempiva la bocca di un sapore dolce, ma gradevole. Keith si sentì più sveglio di qualche minuto prima, ma comunque stanco e spaventato.
Osservò per un istante Blight, il quale, nell’attesa che il giovane rispondesse, si stava preparando un’altra fetta di pane. C’era qualcosa in lui che gli ispirava fiducia, anche se non sapeva spiegare che cosa esattamente. Forse i suoi occhi gentili, il suo sorriso ironico e l’aria gentile con cui lo aveva accolto il giorno prima, al suo arrivo sul treno. O forse era semplicemente il fatto che lui fosse riuscito a sopravvivere, che facesse in modo che Keith si fidasse di lui.
Fino a quel momento, il diciottenne aveva riposto la sua fiducia in poche cose e in poche persone. Era giunta l’ora di iniziare a provare quella fiducia anche nei confronti di qualcun altro.
«Le asce. Le so usare» rispose dopo un attimo di esitazione, con le mani ancora strette attorno alla tazza. Blight alzò gli occhi verso di lui e sorrise in maniera ironica.
«Questo lo so già. È la stessa cosa che mi dicono tutti i tributi quando salgono sul treno per andare a Capitol City». Appoggiò il coltello da burro su un tovagliolo accanto al piatto. «Ma saper solo maneggiare le asce non basta. Devi avere qualche altro talento nascosto».
Il giovane fu ben lieto che Blight non avesse citato il perché lui fosse andato agli Hunger Games – non come aveva fatto il suo migliore amico il giorno prima ai saluti, congedandosi con un «beh, Wood, hai già ucciso un Pacificatore, uccidere qualche bambinetto non sarà poi diverso». Era certo una frase ironica, fatta per sdrammatizzare, ma sentir nominare ciò che aveva fatto diventare Keith un tributo bruciava ancora come sale sulle ferite, anche a distanza di mesi.
Poi, all’improvviso, arrivò l’illuminazione.
I boschi. La notte.
Fece per rispondere, ma qualcosa lo bloccò. Era vietato girare per i boschi una volta che il coprifuoco era in vigore e nessuno a parte pochi fidati sapevano che Keith faceva cose tanto illegali.
Poi si ricordò anche che aveva deciso di fidarsi di Blight e decise che tanto valeva dirglielo. In fondo, lo stavano già mandando agli Hunger Games e rischiava di morire: un crimine in più saltato fuori all’ultimo momento non poteva affondare poi di tanto la sua dura situazione.
«Io…» indugiò un istante sulle parole da pronunciare, «… vado in giro. Di notte, nei boschi. Ho un buon senso dell’orientamento. E so muovermi furtivamente» abbassò lo sguardo sul muffin mangiucchiato che giaceva sul piatto, «… come un gatto» aggiunse quasi senza rendersene conto, e un sorrisetto malinconico incurvò le sue labbra.
«Un gatto?» Blight aggrottò la fronte, ma sorrideva.
«Un gatto» confermò Keith. «È il mio soprannome». Non sapeva perché gli stesse raccontando quell’aneddoto – di solito, lui non amava molto parlare della sua vita – ma sentiva il bisogno di sfogarsi e liberarsi, per non aver più sullo stomaco il peso della malinconia.
«Però, originale. E come mai ti chiamano così?»
Il tributo mangiò ancora un po’ del suo dolce, sovrappensiero. «Te l’ho detto. Mi so muovere al buio, in silenzio, e quasi meglio di quando c’è il sole. Ha iniziato mia sorella a chiamarmi così e tutti gli altri si sono aggregati».
«Gatto» sussurrò Blight, come se stesse parlando tra sé e sé. «Quindi, i tuoi talenti nascosti sono infrangere la legge e fare il gatto. Sei anche bravo a miagolare?»
Keith scoppiò a ridere, reclinando la testa all’indietro. La sua compagna di Distretto si girò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo, ma ci fece poco caso. Era dal giorno prima che quella quindicenne gli si rivolgeva con freddezza, guardandolo dall’alto in basso come fosse stato uno scarafaggio.
«Se vuoi, posso farti vedere» propose, facendo l’occhiolino. Blight rise a sua volta, appoggiando il bicchiere sul tavolo.
«Magari un’altra volta». Il mentore ridacchiò, prima di morsicare un pezzo di pane.
«Cos’è, non ti piacciono i gatti?» ribatté Keith con aria di finto risentimento. «Sei un mentore degenere».
«Bada a come parli, Keith Denis Wood. La tua vita è quasi nelle mie mani, nelle prossime settimane. E comunque… i gatti mi sono sempre piaciucchiati, basta che non si mettano a graffiarmi mentre li carezzo».
«Non preoccuparti». Il diciottenne fece un mezzo sorriso. «Io graffio solo chi mi sta antipatico. Tu mi stai simpatico, per ora. E bada, per ora».
«Siamo quasi giunti a destinazione!» L’irritante voce di Jane interruppe il discorso tra mentore e tributo. Keith sbuffò, inclinando un po’ il capo verso destra per vedere fuori dal finestrino, ma il panorama era quello di poco prima. Probabilmente stavano per entrare nel passaggio tra le montagne che circondavano la Capitale.
«Allora» Blight riprese laddove avevano interrotto, «ti consiglio di tirare fuori gli artigli. Là fuori ci sarà tanta gente a starti antipatica».
Keith sorrise con aria da spaccone, prima di bere un altro sorso del suo latte – ormai quasi finito.
Mancava ancora poco meno di una settimana.
Avrebbe avuto un po’ di tempo per limare bene i suoi artigli e usarli nell’Arena. 

 

Alaska's corner

Oltre a voler ringraziare ancora Tinkerbell92 per il prompt, volevo anche ringraziare chi ha recensito fino ad ora ♥ Se mancano risposte alle recensioni, arriveranno presto u.u
Alla prossima!
Alaska. ~
   
 
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