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Autore: TheNewFrontiersman    23/03/2015    1 recensioni
Una ragazza come tutte le altre, persa nella Grande Mela. Una ragazza pervasa da una curiosità illimitata e un essere misterioso. Entrambi non possono sopportare la propria immagine riflessa nello specchio. Due vite monocromatiche. Ma c'è chi vede grigio e chi vede bianco e nero...
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rorschach/Walter Kovacs
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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*Note dell'autrice: si ringrazia NightshadowCat per il punto di vista di Rorschach. Buona lettura!

 

Diario di Rorschach, 19 Ottobre 1985.

Comprata Gazzetta per Daniel. Letto un pezzo: Manhattan se n'è andato, sparito su Marte. Curioso, incredibile. Ricordarsi di indagare il prima possibile.

Una poppante è svenuta sulle scale di fronte all'edicola. Offerto denaro per pagare il caffè. Mi sento strano, mi sento male. Non mi piace.

Non mi piace quella ragazza, mi guarda insistentemente. Forse ride del mio aspetto. 

Troppo contatto fisico per oggi, con una donna poi è sconveniente. Toccato il palmo mentre consegnavo i soldi. Brutta sensazione.

Forme femminili nella mia testa, Walter è debole, non riesce a reprimere certe sensazioni. Vanno soppresse.

Una così, poi. Capelli troppo corti, come la gonna, non in ordine. Almeno sono biondi. Giubbotto da uomo. Indecente.

Vista bazzicare nei pressi della quarantaduesima. Forse una puttana. Forse a corto di soldi. A corto di soldi, come mia madre.

 

Walter sapeva che la madre aveva iniziato quel lavoro per mantenere sé stessa e lui, ma non l'aveva mai giustificata. Si era detto che forse in fondo se lo meritava, che da come lo trattava poteva comprendere il motivo per cui il padre l'avesse abbandonata. Si era ripromesso che mai avrebbe aiutato una prostituta. Non sapeva perché l'aveva fatto, ma si disse che quando indossava la pelle di Walter Kovacs tutto era più incerto. Non gli piaceva. Quell'insicurezza, quel grigiore…a volte il debole Walter tornava, e a Rorschach questo non piaceva, non gli piaceva affatto. Nonostante fosse troppo umano e suscettibile, talvolta liberarsi di lui non era per niente facile. Kovacs non riusciva a restare indifferente alla vista di una figura femminile, il suo corpo, non ci riusciva. Era sempre stato così, fin da piccolo. Nel profondo covava un odio radicato verso la madre, ma ne era anche fin troppo influenzato, troppo attaccato alla figura materna. Rorschach non gradiva il travestimento in cui era costretto per mostrarsi alla luce del giorno. Con la sua faccia, invece, si sentiva invincibile, al riparo da tutto. Era come un muro, che lo proteggeva e lo teneva lontano dalle tentazioni. Con quell'armatura poteva scorgere la lussuria della quale il mondo era impregnato e guardarla dall'alto in basso, senza esserne schiavo. Poteva sputarci sopra, dominarla, calpestarla. Poteva essere forte.

Era Walter ad aver aiutato la ragazzina. Walter, che era stato maledettamente compassionevole. Maledettamente fragile. Dannato Walter: così difficile liberarsi di lui. Quello smidollato si stava fidando di nuovo della persona sbagliata, ne era certo. Ne era certo, ma non sapeva come impedirglielo. Odiava ammetterlo, ma era impotente, e lo era perché "quello smidollato" era parte di lui, e sebbene l'avesse abbandonato in quella casa che puzzava di stupro e omicidio, sebbene l'avesse ucciso, per farsi strada e uscire alla luce, Rorschach non era riuscito a farlo sparire. Walter continuava a risorgere, e lui glielo permetteva. Odiava questo suo lato e non si sarebbe mai arreso, non avrebbe mai abbandonato l'impresa apparentemente impossibile, quella che prevedeva l'eliminazione definitiva del vulnerabile Kovacs. 

Ma ora, di nuovo, si sentiva impotente di fronte alla scelta del suo doppio. Anche se aveva visto quella donna aggirarsi tra le puttane, i suoi occhi non avevano perso la purezza. Forse era ancora pulita. 

 

Walter sbuffò leggermente e si strinse nelle spalle.

Hurm.

 

_____________________________________________

 

Raggiunsi la caffetteria. Entrai; la trovai modesta ma carina e mi sedetti con la grazia di un elefante su una delle sedie del bancone, chiedendo un caffè. Mi servì un uomo sulla cinquantina, probabilmente il proprietario, dato che non vedevo nessun altro cameriere nei paraggi, pensai che mi sembrava una brava persona. Stavo per portare alla bocca la tazza quando sentii entrare qualcuno. Non importava, il mio corpo necessitava di caffeina o sarei crollata sul tavolo ancor prima di riuscire ad ingurgitare il pasticcino alla crema che accompagnava la mia bevanda. Un omaggio per la signorina, aveva detto il barman. Gentile da parte sua.

Nel frattempo qualcuno si era seduto di fianco a me, probabilmente la persona che aveva varcato la soglia poco prima. 

“Ehi Walter! Come al solito no?” 

Non ci badai e continuai a sorseggiare il caffè. 

“Sì.” 

 

Un momento, ma quella voce …

 

Mi voltai verso la fonte della risposta monosillabica. Già, era lui. 

 

Walter. Ecco come si chiama.


Ripetei più volte quel nome tra me e me e mi chiesi dove avesse lasciato il suo inseparabile cartello, così, giusto per occupare la mente, per non pensare a cose più serie. Per non chiedermi se la sua vita andasse bene, se avesse una famiglia…tenere a bada la curiosità con altra curiosità, ma più sciocca, era l'unico modo per dominare l'innato istinto che mi portava a pormi costanti domande sulla vita di chi mi interessava. Purtroppo questo metodo non era infallibile.

La caffeina iniziò ad  andare in circolo abbastanza velocemente, quindi mi venne un'improvvisa, irrefrenabile voglia di socializzare e iniziai a parlargli. 

“Grazie mille di nuovo per il caffè.  Mi sono un po' ripresa da prima…” 

Esitò un po' prima di regalarmi un conciso e profondo “Prego". Bastava. Bastava anche se il suo sguardo era fisso nel vuoto e non certo su di me. 

Quel silenzio continuo però mi imbarazzava parecchio perché non potevo far altro che guardarlo, ma l'assenza di dialogo forse dimostrava che in fondo la cosa lo infastidiva ed era solo troppo educato per dirmi di smetterla. No, molto probabilmente l'unica spiegazione plausibile era che a lui di me non fregava proprio niente. Estrasse dalle tasche dell'impermeabile una sorta di taccuino malconcio e una matita che con tutta probabilità era stata temperata con un coltello, e iniziò a scrivere sulle pagine ingiallite del diario.  Inutile, non potevo fare a meno di guardarlo, seppur con la coda dell'occhio. La curiosità esondava, guidando le mie azioni.

“Sei uno scrittore?” 

“No. Appunti.”

Sì, gli stavo dando fastidio. Si vedeva lontano un miglio; eppure continuai e lui continuò a rispondermi, sempre con un certo contegno. 

Strano. Chiunque altro al posto suo mi avrebbe zittito, invitandomi a farmi i fattacci miei. 

Scoprii alcune cose su di lui e lui ne venne a conoscere altre su di me, anche se bofonchiava sempre risposte brevi non lo faceva col tono seccato che mi ero immaginata. Mi rivelò che durante l'adolescenza aveva lavorato in una specie di fabbrica tessile, ma non molto di più…era fin troppo riservato. Nonostante avessi schierato una sola tazza di caffè contro le 20 ore di mancato sonno, resistevo e anzi, non sentivo la stanchezza…stavo…bene. Era da un po’ che non provavo questa sensazione. Il mio stomaco non era d'accordo e iniziò a ribellarsi di nuovo nel tentativo di cercare di dire la sua sul fatto che non riceveva carburante da troppo tempo. Com'era ovvio, stavolta gorgogliava pure più di stamattina…che vergogna. 

 

Improvvisamente Walter si alzò e si rivolse al proprietario della caffetteria. 

“Scatole”.

 

Scatole?

 

Il barman doveva avermi letto nella mente perché gli fece la stessa domanda, ma subito dopo parve pensarci su un attimo e giungere a un'ovvia conclusione, che tuttavia a me ancora sfuggiva, esclamando illuminato: "Oh, ma certo! Ne tengo sempre da parte per te, sai…ormai sei praticamente di casa, qui. Le vado a prendere”.

"Due", si affrettò a rispondere il rosso.

Il proprietario sorrise. "L'avevo capito".

Walter parve indugiare in una smorfia di leggero stupore prima di rispondere con un anonimo “Bene. Grazie” .

Me ne stavo zitta aspettando di capirci qualcosa in più quando vidi l'uomo della caffetteria tornare con due barattoli. Barattoli di fagioli. 

 

Fagioli in scatola?

 

“Senti, amico…so che a te questa roba piace anche così, ma che ne dici se per la signorina li scaldiamo?" e detto questo si affrettò ad aprire la scatola, schiaffare i legumi in un pentolino e mettere il tutto sul fuoco. "Mary! La salvia".

Una ragazza che avrà avuto pressappoco la mia età sbucò di fretta dalle cucine con in mano qualche spezia e una ciotola. "Immaginavo, eheh! Ho fatto un po' di pasta veloce, nel mio paese è un piatto tipico!" aveva un leggero accento italiano. Sembrava stranamente eccitata dalla situazione e mi dava l'idea di essere una persona alquanto iperattiva.

Un piatto dall'aspetto invitante, i cui fumi odorosi mi inebriavano piacevolmente le narici, venne appoggiato sopra il bancone, esattamente di fronte al mio commensale. Ci mancò poco che sbavassi.

"Come ti sembra, eh Walter? Può andare?". 

"Mh". A Walter bastò allungarmi il cibo senza nemmeno guardarmi.

“Buon appetito, oggi offre la casa” esordì il cuoco, che dopo averci fornito due cucchiai tornò a servire gli altri clienti. 

L’uomo dai capelli rossi grugnì come al solito. Non sapevo cosa dire, avevo il cervello in tilt. Encefalogramma piatto, la fame era tanta ma mi sembrava proprio di approfittare della strana gentilezza di una persona che avevo appena iniziato a conoscere, e che non mi sembrava certo potesse permettersi di offrirmi da mangiare. 

"Mangia”. Forse l'avevo infastidito. Come biasimarlo, dovevo avere una faccia da ebete. Però nonostante tutto alla fine per lui ero una sconosciuta…pensai che con tutta probabilità quello era il suo modo per dirmi che mi stava offrendo un valido mezzo di sostentamento, visto il mio penoso collasso mattutino. Riuscivo a scorgere una generosa manciata di gentilezza, dietro quel suo linguaggio duro e stringato; in fondo non sapeva nemmeno il mio nome, eppure stavo pranzando grazie a lui.

Ringraziai e, impugnato il cucchiaio come fosse un badile, mi fiondai sul piatto divorando con una voracità inimmaginabile abbondanti cucchiaiate di fagioli nonostante non fossero il mio cibo preferito. Il silenzio che solo la fame cieca sa generare calò immediatamente fino a quando non ebbi spazzolato tutto per bene; anche lui aveva finito il suo barattolo e si apprestava a scrivere qualcosa sul suo taccuino. Ma la mia bocca ormai era vuota e ansiosa di riprendere la conversazione.

 

“Scusa…ehm…secondo te qui mi assumerebbero come cameriera? Come penso tu abbia intuito, sono rimasta senza soldi e…” 

 

Caspita. Ero davvero insopportabile.

 

“Probabile”.

“Ah, grazie...” 

Silenzio. 

 

Walter parve arrendersi al fatto che non avrebbe potuto scrivere in santa pace così, estratto dalla giacca il suo “New Frontisierman”, (sapevo che era un lettore abituale! Ebbi la certezza di non essermi sbagliata nel dedurre le sue abitudini e gongolai mentalmente) si mise a leggere, cercando di troncare i contatti con l'esterno. Poco importava, ormai l'avevo inquadrato e avevo capito che non amava dilungarsi in infinite conversazioni. Decisi di lasciargli il suo spazio per darmi da fare nella mia ricerca di un impiego con cui campare, così domandai al proprietario, che fu felice di assumermi per un periodo di prova. Sarei stata di grande aiuto a Mary, o almeno questo era il suo parere. E poi gli sembravo una brava ragazza e capiva la mia situazione. Non potevo ancora credere a tutta la fortuna che mi stava piovendo addosso.

 

“L'orario lavorativo va dalle sette di mattina fino alle undici di sera…so che sono orari abbastanza massacranti però vedi, sono disperato. Questa tavola calda per mia fortuna sta riscuotendo un discreto successo e da soli non ce la facciamo più. Ma ovviamente nessuno accetta orari così e quindi non riesco mai a trovare qualcuno” 

 

Uh…dovevo immaginarlo. Pazienza, ho un lavoro. Quando avrò guadagnato abbastanza soldi da potermi mantenere e pagare un alloggio si parlerà di cambiare impiego.

 

Lo ringraziai, a dir la verità avrei voluto inginocchiarmi ai suoi piedi e venerarlo come un dio, ma trattenni i miei stupidi istinti. Non sapevo perché ma la prima cosa che volevo fare era dare la bella notizia al mio silenzioso salvatore, come se fosse un amico, una persona speciale. Era sempre il Walter che non sapeva il mio nome, però. Come al solito ignorai i miei pensieri e seguii l'istinto.

 

“Walter!” 

Abbassò il giornale e si girò verso di me con un'espressione leggermente irritata; forse odiava il suo nome o, decisamente più probabile, si era stufato di sopportarmi. L'incrociare il suo sguardo mi fece sussultare. Erano poche le volte in cui avevo avuto modo di osservare direttamente i suoi occhi abissali, perciò ogni volta mi stupivo di quanto potessero essere penetranti.

 

“Mi hanno presa! Da domani incomincio a lavorare qui!” 

 

Non disse nulla e continuò a guardami fisso negli occhi. Pregai che la smettesse, dato che mi imbarazzava a morte.

 

Finalmente distolse lo sguardo biascicando un “bene” e si apprestò a riporre il giornale all'interno della giacca, sostituendolo con il diario. Ancora. La mia curiosità sfacciata e invadente prima o poi avrebbe avuto la meglio sulla mia già precaria educazione, me lo sentivo. Scrisse per due minuti circa, poi lo mise via e si alzò per andarsene. Sulla soglia, mi guardò con la coda dell’occhio salutandomi con un “a domani” e se ne andò. 

 

Cosa? Cioè … davvero? "A domani" implica il fatto che conta di rivedermi? Forse mi sto solo montando la testa per un briciolo di gentilezza ricevuta…

 

Mi accorsi di essere arrossita leggermente. Brutto segno, stavo davvero iniziando a trovarlo affascinante. Mi stavo scottando per così poco? Assurdo. E intanto lo stavo guardando andar via senza nemmeno salutarlo. Decisi che dovevo seguirlo (che novità) e gli corsi dietro. “Aspetta!”, sfiorai appena il suo braccio e si girò immediatamente, guardando prima la mia mano, poi me. 

 

Oh, Cristo. 

 

Per evitare di distrarmi continuai: “Non ti ho salutato, e non sai nemmeno il mio nome …”  

“Ah. Lasciami il braccio.” Mi accorsi con imbarazzo che adesso le mie dita erano strette intorno al tessuto della giacca che indossava. Mi ritrassi subito, facendo caso al suo disagio in campo "contatti umani". O forse gli dava fastidio solo il mio? 

"S-sì scusa, non volevo…ecco, volevo solo dirti…ecco…”, non finii la frase.

 

Cavolo.

 

“Alex”, ripresi. “Mi chiamo Alex”. 

 

Ce l'avevo fatta. Non era un'impresa così grande, ma in quel momento mi sembrava un'enorme conquista.

 

“Ci si vede, Alex”. Lo disse normalmente, senza particolare entusiasmo o che, ma in quel preciso istante mi sentii pervasa da un'improvviso senso di benessere.

 

Sorrisi, e solo quando non lo vidi più all’orizzonte mi voltai e tornai alla tavola calda. Mi sentivo strana. Era da un bel po’ di tempo che non mi capitava di provare quella sensazione. 

Mi sedetti un attimo al bancone. Tutto sommato per quel giorno ero ancora una cliente del bar, quindi potevo approfittarne per riposare un po'; iniziavo a sentirmi spossata, la caffeina aveva esaurito il suo effetto e l'adrenalina di cui ero colma mi stava pian piano abbandonando. Percepii la testa appesantirsi a poco a poco, cercai di combattere per rimanere sveglia, non potevo certo addormentarmi in un luogo pubblico, ma fu tutto vano. Lasciai fluire liberi i pensieri e lentamente sprofondai in un altro mondo, complici le palpebre appesantite. Buio.

 
   
 
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