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Autore: Halley Silver Comet    25/03/2015    8 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 12



- Capitolo Dodicesimo -
Vento di Tensioni




N
on appena fu in grado di distinguere ogni lettera dello stemma illuminato della Polizia di Stato, Guido capì di essere arrivato troppo vicino per tirarsi indietro. La porta del commissariato Celio I1, incastonata tra mattoncini rossi a pochi passi da lui, rappresentava la sua via di fuga, oppure di eterna dannazione, a seconda della prospettiva da cui si guardava la faccenda, giacché, se avesse detto tutto quello che sapeva agli sbirri, avrebbe, sì, aiutato Beatrice, ma si sarebbe anche inimicato Navarra fino alla fine dei suoi giorni.
Il pensiero che quel delinquente potesse vendicarsi fece vacillare all’improvviso quel poco coraggio che era riuscito a mettere insieme e che l’aveva portato fino a lì, provocandogli un’angoscia mai avvertita prima. Ciononostante, non avrebbe mai potuto abbandonare Beatrice al suo triste destino ed era soltanto colpa sua se la sorella era sparita: molto probabilmente, infatti, l’avevano portata via con la forza quella mattina mentre stava andando a lavorare.
Che fare, dunque?
Tentennò per qualche altro secondo, accennando un passo avanti, per poi farne, subito dopo, almeno due indietro.
Intanto, l’agente piantonato vicino alla porta, un giovanotto che doveva avere circa vent’anni, lo scrutava con sospetto, con gli occhi ridotti a due fessure, come se avesse intuito che stava nascondendo qualcosa. In fondo, era il suo lavoro, ormai doveva aver sviluppato un intuito particolare nel riconoscere al volo chi potesse essere un mascalzone con la coscienza sporca, un potenziale testimone o, come nel caso di Guido, entrambe le cose.
«Ha intenzione di continuare questo ridicolo balletto ancora per molto?» lo apostrofò ad un certo punto, portandosi le mani sui fianchi e incenerendolo con lo sguardo.
«N-No...» balbettò il ragazzo, sobbalzando. Ora che era stato notato, il cuore prese a martellargli nel petto con ancor più forza.
«Se deve entrare, entri! Se invece sta cercando il circo, arriva tardi. Ma può sempre inseguirlo» continuò quello, sfiorando con una mano la fondina dove teneva la pistola.
A quel gesto, il giovane si sentì congelare e le parole gli uscirono da sole: «I-Io vo-voglio s-solo che ri-ritroviate la m-mi’ sorella!»
L’agente rimase a fissarlo, scettico, come se dubitasse della veridicità dell’affermazione, poi inarcò le sopracciglia, facendole quasi convergere fino a formare un angolo acuto.
«Cos’è successo a sua sorella?»
«L-L’han rapita... Stamane... Per colpa mia» disse stentatamente Guido, accasciandosi a terra: si sentiva esausto, ma in parte sollevato, giacché si era finalmente liberato di un peso sulla coscienza che non aveva mai voluto ammettere: il fatto che la responsabilità del rapimento di Beatrice fosse unicamente la sua. Infatti, se non avesse deciso di sfidare Navarra a poker, quella sera lontana, non avrebbe accumulato nessun debito di gioco, arrivando perfino ad impegnare la vita di sua sorella.
Per giunta, la quantità di creditori dello spagnolo era tale da sospettare che quelle carte fossero state manomesse, così da assicurargli di vincere ogni mano: se lo avesse saputo prima, sicuramente ci avrebbe pensato due volte prima di accettare un suo invito a giocare. 
E dire che Beatrice, da sola, era riuscita ad incantare quel ricco sfondato di Marcello Tornatore. Se solo Guido l’avesse lasciata fare, senza impegnarla allo spagnolo, probabilmente si sarebbe sposata con quello scorbutico e anche lui, in qualità di fratello della sposa, ne avrebbe tratto vantaggio...
Intanto, mentre osservava l’asfalto, velato dall’umidità della notte, udì un rumore di passi che si avvicinavano e poi due paia di braccia robuste che lo aiutavano ad alzarsi.
Allarmato, si voltò a destra e a sinistra, scorgendo due poliziotti che lo sorreggevano, mentre quello che gli aveva rivolto la parola lo scrutava diffidente.
«Portiamolo dentro, quest’individuo deve chiarirci molte cose».

La stanchezza della settimana appena trascorsa investì Alberto Molinari nello stesso momento in cui si sedette alla sua scrivania, sfogliando distrattamente il fascicolo che gli avevano consegnato quella mattina e che rappresentava il motivo per cui era costretto a passare il sabato sera in commissariato, piuttosto che tornare a casa dalla sua Angela.
Erano mesi, infatti, che stavano cercando di porre fine ad un commercio illegale di armi dalla Spagna, senza tuttavia avere una pista cui appigliarsi, quando, inaspettatamente, due giorni prima era venuto il questore a comunicargli che c’era stata una soffiata da un testimone molto attendibile che, però, aveva preferito rimanere anonimo.
In quei fogli compariva svariate volte anche Conrado de Navarra, già noto per varie attività illegali e accompagnato da vari complici, sia spagnoli che italiani, sicuramente implicati nel mantenimento della rete di contrabbando.
Molinari si passò una mano tra i corti capelli brizzolati e sistemò la sua lampada da tavolo, inclinandola leggermente, così che la luce non riflettesse sulla carta bianca rendendogli più difficoltosa la lettura; poi, prese una matita ben appuntita dal portapenne davanti a sé e aprì la cartellina azzurra, deciso a mettere un punto alla questione nel minor tempo possibile. Tuttavia, convenne che, prima di mettersi all’opera, aveva proprio bisogno di un bel caffè forte.
Alzò perciò la cornetta del telefono per chiamare il bar dell’angolo, aperto ventiquattro ore su ventiquattro - una vera salvezza per chi doveva sostenere il turno di notte, quando due vigorosi colpi alla porta lo interruppero.
«Avanti» disse l’uomo, contrariato: se i suoi agenti più giovani, anche questa volta, lo stavano disturbando per il solito ubriacone molestatore del sabato sera, li avrebbe sbattuti in cella a fargli compagnia!
Nella stanza, però, entrarono un ragazzo sui venticinque anni e tre poliziotti, due dei quali lo stavano letteralmente trascinando, giacché non sembrava avere la forza per camminare, ma solo quella per emettere una serie di fastidiosissimi lamenti a voce bassa. Il quartetto era poi capitanato dall’agente Tonelli, da poco trasferitosi a Roma, un giovanotto molto capace, ma, a volte, un po’ troppo ostinato nelle sue convinzioni ed eccessivamente pedante nell’analizzare tutti i cavilli della procedura d’ufficio. A volte pensava che, mancando così tanto di senso pratico, forse avrebbe fatto meglio a diventare avvocato o magistrato.
«Commissario, quest’uomo si è presentato qui, dicendo che sua sorella non è rientrata a casa, questa sera» esordì, indicando il ragazzo, il quale aveva l’aria di non sentirsi troppo bene. Molinari sbuffò: ci mancava solo che svenisse nel suo ufficio, come se non avesse già abbastanza cose di cui occuparsi!
«Ebbene? Saverio, puoi occuparti da solo delle denunce di scomparsa. In questo momento sono molto occupato e desidero essere disturbato solo per questioni importanti!» tuonò il commissario, agitando pericolosamente i fogli che stava leggendo.
Tonelli deglutì, ma non si lasciò intimorire più di tanto, perché proseguì: «Commissario, quest’uomo sostiene che la ragazza sia stata sequestrata e che lui stesso ne è coinvolto. Inoltre, non sta collaborando molto...»
L’uomo, nell’udire queste informazioni, abbassò cautamente il plico che stava sbatacchiando sulla scrivania e spostò repentinamente lo sguardo sul ragazzo, all’apparenza più morto che vivo. Che razza di persona era quella che collaborava nel rapimento di un membro della propria famiglia? Sicuramente, un delinquente della peggior specie, senza Dio e senza morale!
Nonostante sapesse che il suo ruolo non ammetteva i pregiudizi, l’integerrimo Molinari non poté fare a meno di biasimare chi aveva di fronte, al punto di abbaiare, imperativo: «Lei! Come si chiama?»
Poiché l’interrogato non rispondeva, sempre in preda ai suoi lamenti, intervenne uno dei due agenti che lo stava sostenendo: «Commissario, ha detto di chiamarsi Guido Tolomei».
«E come si chiama sua sorella?»
«Beatrice. Beatrice Tolomei, di anni diciotto» rispose, questa volta, l’altro agente.
Il commissario chiuse la cartellina e la gettò con malagrazia sulla scrivania, alzandosi in piedi e avvicinandosi a quel Guido. Gli era già antipatico a pelle: che razza di uomo si sarebbe ridotto in quelle condizioni pietose, invece di mostrarsi agguerrito nel cercare di ottenere aiuto ed informazioni per salvare la sorella?
«E chi sarebbe l’artefice del sequestro? Ma, soprattutto, perché sostiene di esserne coinvolto direttamente?» gli sibilò, a pochissima distanza dal viso.
Tolomei sollevò appena le palpebre e, dopo qualche secondo, si mise a piagnucolare: «E non volevo che le facesse del male... Si credeva2 che lui l’avrebbe solo sposata e che sarebbe finito tutto così!»
Molinari si tirò indietro, scrutando il ragazzo con disgusto. Solo sposata? Secondo i giovani ora il matrimonio adesso era forse diventata una formalità o, peggio, una moda? 
Ritornò sui suoi passi e si appoggiò al ripiano della scrivania, poi, sovrappensiero, domandò all’agente alla sinistra di Guido: «Pontori, cosa diavolo sta blaterando? Chi è questo lui
Tuttavia, fu Tonelli a rispondere, con grande diligenza: «Non siamo riusciti a capirlo».
Il commissario si prese il mento con una mano e, dopo aver fatto le sue considerazioni, ordinò ai due poliziotti: «Fatelo sedere qui e sorvegliatelo a vista, non voglio che si sposti di un millimetro! Se necessario, legatelo, inchiodatelo, ammanettatelo o quel che volete, ma voglio trovarlo qui al mio ritorno, chiaro? Ora io ho assolutamente bisogno di un caffè!»
Gli agenti, compreso Saverio, annuirono decisi, ma Molinari non aveva fatto nemmeno in tempo ad abbassare la maniglia della porta, che Guido parve risvegliarsi dal suo torpore e cominciò a strillare come in preda ad un delirio: «No, non m’arrestate, vi prego! E son innocente! Non volevo far del male alla Beatrice... Navarra minacciava di ucciderci tutti!»
L’uomo, nel sentir pronunciare quel nome, rimase come paralizzato: si era sbagliato, o quel fifone aveva appena detto Navarra, come il principale sospettato del resoconto inviatogli quella mattina da Saltarini? 
«Tolomei, lei conosce questo Navarra?»
«Sì, sì, lo conosco! Da quando ho avuto la sventura di perder tutto al poker, Conrado de Navarra mi perseguita!»
«In che rapporti è con lo spagnolo?»
«Non buoni, mi sta prosciugando di ogni lira, m’ha costretto perfino ad obbligare la mi’ sorella a sposarlo!»
Molinari soppesò molto ponderatamente quanto stava apprendendo, certo di aver individuato con buona precisione il bersaglio e più che sicuro che la mossa successiva più opportuna fosse avvisare il questore delle novità. Si voltò verso Tonelli e lo indicò con l’indice, ordinando perentorio: «Tu! Mettimi immediatamente in contatto con il dottor Saltarini. Non c’è un minuto da perdere: se solleva obiezioni visto che è sabato sera, digli che mi prendo io tutta la responsabilità, ma devo parlargli subito».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, osservando il suo superiore come se gli avesse chiesto di arrivare in America a nuoto.
«Commissario, è sicuro? Perché vuole scomodare il questore di sabato sera? Si tratta solo del rapimento di una ragazzina».
«Perché c’è molto di più, sotto» rispose l’uomo, asciutto, ritenendo che non fosse quello il momento di rivelare particolari, dato che, se le sue supposizioni erano esatte, sarebbe stata avviata un’operazione entro l’alba. «Hai ancora molta strada da fare, Saverio. Nel nostro lavoro, non è contemplato il pressappochismo».
Tonelli annuì, non troppo convinto, ma alla fine fece comunque quello che gli era stato ordinato, congedandosi e dirigendosi nell’ufficio adiacente.
Dopo aver lanciato una rapida occhiata oltre le veneziane che dividevano le vetrate dei vari uffici ed essersi assicurato che il poliziotto stesse rintracciando davvero il questore, Molinari tornò a riversare tutta la sua concentrazione sul lamentoso Guido.
«Mi dica, Tolomei, per caso, sa se il Navarra è ancora qui a Roma?»
Il giovane scosse nervosamente la testa: «Non lo so... E speravo che voi m’aiutaste a trovare la Beatrice. So solo che era in partenza e che aveva una base provvisoria in una cascina abbandonata, in zona Roma Est».
«Commissario, abbiamo avuto una segnalazione dalle parti di Torpignattara, qualche giorno fa: una signora ha detto di aver visto movimenti sospetti in una villetta abbandonata da anni» riferì l’altro agente, quello che, fino a quel momento, era rimasto più in silenzio.
Molinari si voltò verso il suo sottoposto con uno scatto, come se fosse stato morso, e dovette trattenersi per non mettergli le mani al collo: perché era circondato da incapaci?
«Ed ora me lo dici, solo ora, Sabatini?! Cosa aspettavi, che questi delinquenti espatriassero e ci mandassero una cartolina dalle Canarie con i loro saluti?»
Quello sbiancò e prese a balbettare: «M-Ma, co-commissario, n-non sapevamo se prenderla per un’informazione veritiera, è stata una signora anziana a contattarci!»
«Sapete perfettamente che siamo sulle tracce di questi criminali da mesi! E avete anche il coraggio di lamentarvi che i cittadini non collaborano con noi: se non li prendete sul serio, è il minimo!» berciò il commissario, davvero alterato, rivolgendosi ad entrambi gli agenti. «Con i vostri atteggiamenti menefreghisti mettete in cattiva luce e in ridicolo tutto il corpo di Polizia! Adesso pretendo che rintracciate la signora e che vi facciate dare altri dettagli, il tutto pretendo che sia fatto prima che arrivi il dottor Saltarini!»
I due poliziotti, davanti a tali rimproveri, sembrarono rimpicciolire per la vergogna, quindi si affrettarono ad uscire di corsa dall’ufficio per portare a termine i loro incarichi.
«E portatemi subito il mio caffè!»
***

Il cinguettio degli uccellini avvertì Marcello che stava albeggiando.
Spostò la testa di poco, quanto bastava per verificarlo, osservando la pallida luce che filtrava attraverso le tende del balcone della sua camera da letto, quindi ritornò supino, le mani intrecciate sullo stomaco e gli occhi intenti a fissare il soffitto, come aveva fatto per tutta la notte, non essendo riuscito a chiudere occhio nemmeno per un misero istante, non sapendo ancora assolutamente niente di Beatrice.
In quel momento, un improvviso fruscio di coperte gli ricordò che non era solo: sollevò appena il capo e vide che Gerardo e Vittoria, abbracciati, stavano ancora dormendo nel divano letto accostato alla parete, poiché non avevano voluto lasciarlo solo, costringendo Ottavia a preparare in fretta e furia un posto per farli dormire.
La Matrona, però, con i suoi modi arcigni, non aveva permesso che venissero preparate le stanze per gli ospiti, ma i due ragazzi non si erano persi d’animo e avevano replicato che dormire tutti nella stessa stanza, come quando erano bambini, sarebbe stato meglio anche per Marcello, in quanto avrebbe percepito meno la solitudine; anche loro, poi, erano in attesa di una buona notizia che, però, non era ancora arrivata.
Il giovane, alla fine, decise di alzarsi dal letto, trascinandosi in bagno per lavarsi la faccia con l’acqua fredda e schiarirsi i pensieri, intorpiditi da quella che era stata una nottata di angosce e sospiri.
Una volta rientrato in camera, osservò Gerardo e Vittoria e provò una piccolissima fitta di irrazionale invidia nei loro confronti: non solo erano insieme, ma sia i genitori dell’uno che quelli dell’altra, avevano fatto letteralmente i salti di gioia, quando avevano detto loro di essersi finalmente fidanzati, tanto che la signora Irene aveva già cominciato a pensare a quando organizzare il matrimonio.
Sua madre, invece, non faceva altro che ricordargli che quella ragazza non era la donna giusta per lui e, in quel frangente di costante incertezza riguardo le condizioni della ragazza, quelle considerazioni, ovviamente, lo facevano solo stare peggio.
Lui stesso, infatti, per primo aveva delle riserve a causa della buona differenza di età che c’era fra di loro, tuttavia era certo che, se era vero che esisteva una sola anima gemella per ciascuno di noi, la sua non sarebbe potuta essere diversa da Beatrice: brillante, spigliata e allegra. Era tutto il suo opposto e, proprio per questo motivo, lo faceva sentire completo.
Poi, dopo l’ennesimo sospiro in quelle ultime ore, decise di andare in cucina, anche se non aveva la benché minima intenzione di fare colazione, perché aveva lo stomaco chiuso da quando gli avevano riferito del rapimento, tuttavia aveva bisogno di un buon tè per recuperare almeno un po’ di lucidità ed energia.
 
Dopo aver inserito il filtro di un tè ceylon in una tazza traboccante di acqua bollente, il giovane aprì la porta-finestra della cucina che, per sua fortuna, aveva trovato miracolosamente vuota, segno che sua madre ancora non si era svegliata e non aveva ordinato la colazione. Quindi, si sedette al tavolino con le gambe in ferro ed il ripiano in mosaico che dava sulla parte più nascosta del giardino, quella prospiciente alla pineta.
Il buon odore della bevanda calda agì come un balsamo temporaneo sulla tensione che Marcello aveva accumulato in corpo, al punto che riuscì perfino a distendere i muscoli e ad abbandonarsi contro lo schienale della sedia, reclinando la testa all’indietro e fissando il cielo che cominciava a farsi azzurro, per poi svuotare la mente da ogni pensiero.
Aveva letto da qualche parte che, in India, avevano l’abitudine di inspirare con il naso, senza l’ausilio della bocca, quando erano alla ricerca di un buon metodo per rilassarsi e ritrovare la concentrazione perduta; quale migliore occasione di tutta quella baraonda che si era animata, quindi, per sperimentare se era vero?
Poggiò perciò il tè sul tavolino e chiuse gli occhi, preparandosi a fare un bel respiro.
«Buongiorno, Marcello» fece una voce assonnata.
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice, perciò cercò subito di rimediare, mitigando il tono: «Vuoi anche tu un po’ di tè?»
«No, grazie, magari tra una mezz’oretta, quando mi sarò svegliata per bene» fece lei, poggiando i gomiti sul tavolo e il viso tra i palmi aperti delle mani. «Come ti senti?»
«Uno straccio consumato e strizzato, accanto a me, farebbe un figurone, ma non credo potrebbe essere diversamente» considerò semplicemente il giovane, prendendo la tazza e facendo oscillare la bevanda all’interno, prima di iniziarla a bere a piccoli sorsi.
Vittoria gli rivolse un’espressione dolce e addolorata allo stesso tempo, annuendo. Per qualche istante, l’unico rumore che si udì fu il canto melodioso di qualche uccellino che doveva essersi appollaiato sugli alberi nelle vicinanze, poi, come se avesse preso coraggio, si sporse verso di lui e gli posò una mano sul braccio.
«Andrà tutto bene» lo rassicurò, sorridendo malinconica. «Sono convinta che quest’incubo finirà presto e tu potrai riabbracciare Beatrice».
«In questo momento, vedo solo buio intorno a me» replicò però lui, lapidario. Si sentiva come sospeso a metri da terra, senza sapere se ci fosse o meno una rete di sicurezza sotto ad attutire un’eventuale caduta. «Come ti comporteresti tu, se sapessi che Gerardo potrebbe essere in pericolo?»
La ragazza espirò con forza e chiuse gli occhi, per poi riaprirli con la risposta già impressa nel suo sguardo: «Esattamente come te».
«Già cincischiate di prima mattina?» li interruppe una voce.
Entrambi si voltarono e videro proprio il ragazzo dirigersi verso di loro, i vestiti un po’ stropicciati e l’espressione stanca.
«Sei geloso?» rise lei, punzecchiandolo.
Sospirando, il giovane prese posto accanto alla sua fidanzata.
«Buongiorno, eh?»
«Su, non fare l’offeso, stavo solo cercando di tenere alto il morale di Marcello! Deprimersi non è mai una buona soluzione, anzi, crea solo più problemi».
Subito, il ragazzo lanciò a Vittoria un’occhiata tra lo scettico e lo sconvolto, quindi sembrò decidere di riservare la sua attenzione solo all’amico.
«Ancora niente, vero?» domandò, apprensivo.
In risposta, Marcello negò con un breve cenno del capo, prendendo un altro sorso del suo tè. Poi, aggiunse: «No. Sinceramente, credevo che la polizia potesse esserci di aiuto, ma, evidentemente, mi sbagliavo».
A quel punto, la giovane appoggiò la testa sulla spalla di Gerardo e lui mise una mano su quella di lei, mentre il biondo, dopo aver poggiato la tazza vuota sul tavolino, incrociò le braccia sul ripiano: tutti e tre sembravano in attesa di qualcosa.
E, in effetti, qualcosa accadde davvero: all’improvviso sbucò dalla porta finestra anche la governante, che sembrava particolarmente affannata.
Immediatamente, i ragazzi scattarono in piedi all’unisono, come se avessero intuito che si trattava delle informazioni che avevano a lungo atteso.
«Ottavia!» esclamò Marcello, colpito da quell’inattesa comparsa. «Cosa ti succede?»
«Devi venire subito al telefono! Tuo padre non c’è e mi sembra molto importante...» rispose la donna, evidentemente agitata.
Lo stupore del giovane aumentò ancor di più quando apprese quest’ulteriore notizia.
«Papà non c’è? E dove è andato?»
L’altra scosse ripetutamente la testa, incapace di calmarsi.
«Non saprei, è uscito molto presto... Comunque, vieni subito, è urgente!»
«Ma... Si può sapere chi è che sta chiamando?» domandò lui, stizzito: già si stava capendo poco, almeno che gli fossero rese note le scarse notizie che si avevano!
«Marcello, non ci crederai mai: è la Questura!»
***

Beatrice, seduta su una vecchia panca di legno ammuffito ed incapace a camminare a causa dei legacci alle caviglie, stava osservando Pablo e Felipe che sistemavano delle grosse casse di legno all’interno di un camioncino bianco, domandandosi cosa mai potessero contenere, mentre Navarra urlava ordini senza sosta, insistendo affinché le casse non subissero urti considerevoli e fossero maneggiate con estrema cautela.
La ragazza corrugò la fronte pensando che, allora, dovessero contenere materiale molto delicato e si augurò di cuore che non fossero miscele esplosive o qualcosa simile. Ci mancava solo che quel depravato la facesse saltare in aria!
«Non abbiamo tutto il giorno, forza, muovetevi!»
I due scagnozzi sbuffarono, ma continuarono a lavorare, finché non riempirono tutto il retro del veicolo, poi chiusero il portellone.
«Muy bien!» approvò Conrado, con la sua solita voce cavernosa, mentre si guardava intorno, molto soddisfatto. «Entro sera saremo miglia lontani da qui!»
La fanciulla smise di contemplare i fili d’erba bagnati di rugiada del prato davanti a sé e sollevò lo sguardo su quel colosso, avvertendo una spiacevolissima sensazione: la sera prima era riuscita solo a temporeggiare, ma fare la sostenuta non l’avrebbe salvata in eterno e, per di più, il solo pensiero di non rivedere più il suo Marcello le metteva addosso una smania incontrollabile. Perché le doveva essere negata l’opportunità di vivere una vita felice con l’uomo che amava?
Il sole nascente, nella luce nuova del mattino, le stava facendo vedere le cose con molta più lucidità di quanta gliene avesse concessa la stanchezza di qualche ora prima, perché i suoi caldi raggi del sole stavano sostituendo con una forte rabbia la negatività portata qualche ora prima dall’oscurità. Nel corso dei suoi quasi diciannove anni di esistenza, non aveva ancora avuto modo di assaporare la vita vera; infatti, nonostante fosse stata costretta dalle avversità a maturare prima del tempo, ancora non era diventata propriamente una donna e non voleva che quest’opportunità le fosse negata.
In quel momento, a quel pensiero, il senso di frustrazione la portò molto vicina al piangere, perché non voleva che quel mostro la toccasse e la costringesse a rinunciare alla sua vita, ancora tutta da assaporare. Aveva appena conosciuto Marcello e aveva dovuto aspettare così tanto per trovare un ragazzo così... Se mai fosse riuscita ad uscire da quella situazione orripilante, suo fratello gliel’avrebbe pagata molto cara!
«Sei silenziosa, questa mattina, niña, o sbaglio?»
L’intervento divertito e stuzzicante di Navarra la infastidì non poco: ora non era neanche libera di struggersi in pace per la sua sorte? Per quanto ancora avrebbe dovuto essere costretta a sentire quella voce odiosa?
«Queste corde mi stan facendo venire le piaghe. Liberami immediatamente!» esclamò lei in risposta, freddandolo con un’occhiata gelida.
Lui le lanciò un sorriso sardonico e si sedette sulla panca.
«Te l’ho già spiegato, dulzura: quando saremo all’aeroporto, ti libererò da queste corde, per legarti a me definitivamente con il sacro vincolo del matrimonio» disse, scimmiottando un sacerdote e piazzandole una mano sulla coscia.
La ragazza si staccò bruscamente e, non potendo alzarsi, scivolò più in là lungo il sedile, allontanandosi il più possibile da quel depravato.
«Non mi toccare!» lo redarguì, furibonda. La gioia che avrebbe provato nel vederlo penzolare da una forca sarebbe stata difficilmente quantificabile.
Navarra si alzò e le si avvicinò, agguantandole il viso e stringendole con forza il mento: «Fai la preziosa quanto vuoi, niña. Ma tanto, che tu lo voglia o no, da stasera scalderai il mio letto».
Beatrice si svincolò di nuovo, questa volta volgendo lo sguardo altrove e non girò la testa finché non ebbe sentito i passi di lui allontanarsi. Che essere disgustoso era!
Ogni risata gutturale che le arrivava alle orecchie aumentava sempre di più la sua rabbia nei confronti sia del fratello, che del suo seviziatore, causandole delle fitte alla pancia non indifferenti, tanto era il nervosismo che stava accumulando.
Questa volta, però, le lacrime cominciarono a scendere da sole, finendo sulla gonna dell’abito liso e sporco, non come segno di resa, bensì come simbolo della sua grande disperazione di fronte ad una tremenda situazione, dalla quale non sapeva proprio come uscire.
E fu in quell’istante di grande sconforto e di massima esasperazione che un nuovo rumore spense la risata sguaiata di Navarra: una sirena sempre più forte che sembrava dirigersi proprio verso di loro.

«La policia!» gridò Felipe, proprio nel momento in cui le sirene si spegnevano.
Nel giro di una frazione di secondo si scatenò il caos e, per qualche istante, la ragazza perse la cognizione del tempo e dello spazio.
Avvertì Navarra che urlava qualcosa in spagnolo ai suoi due complici e, subito dopo, degli spari
che rimbombavano nell’aria. Frastornata, si piegò istintivamente su se stessa, temendo di essere colpita da una pallottola vagante: come aveva fatto la polizia a scoprire dove si trovavano quei delinquenti? Erano forse tenuti sotto controllo da tempo?
«Alzati!» le intimò improvvisamente Conrado, artigliandole con violenza un braccio, per poi abbassarsi e tranciare di netto i robusti legacci che le tenevano ferme le caviglie.
«Muoviti!» le ordinò, trascinandosela dietro e obbligandola a correre per i campi, cosa che le risultò molto difficile, giacché, essendo stata ferma ed imbrigliata per molto tempo, aveva le gambe completamente intorpidite.
«Lasciami andare!» esclamò lei, cercando di liberarsi da quella presa d’acciaio, mentre si voltava indietro per assicurarsi che qualcuno li avesse visti e li stesse inseguendo.
Scorse due grandi macchie scure, ma indistinte, proprio dietro di loro e tale consapevolezza la portò a sperare che quel brutto incubo fosse ad un passo dal concludersi.
Felipe, che correva affianco a loro, sparò un paio di pallottole, ma dovette aver sbagliato la mira, poiché nessuno degli inseguitori si accasciò a terra; al contrario, fu proprio il delinquente a soccombere con un gemito: evidentemente, gli agenti dovevano essere tiratori più capaci.
«Maledizioneeee!» ululò Navarra, senza smettere di correre.
«Arrenditi!» gli gridò uno dei due poliziotti. «Ormai sei in trappola!»
«Mai!» fece lui, di rimando. Poi, senza preavviso, si fermò e si voltò verso di loro, sparando un colpo verso ciascuno e mancandoli clamorosamente entrambi. La ragazza stava quasi per approfittare di quel momento di distrazione, in cui lo spagnolo aveva allentato la presa, per tentare di svincolarsi definitivamente, ma, purtroppo, quello capì in tempo ciò che voleva fare e rinsaldò la presa su di lei.
«Non ci provare! » le ringhiò contro, rivolgendole uno sguardo iniettato di sangue; poi, Beatrice si sentì scuotere e strattonare violentemente, per ritrovarsi schiacciata contro l’uomo, il suo braccio stretto intorno al collo e la pistola puntata contro la tempia.
«Allontanatevi o la uccido!»
La ragazza si sentì soffocare e si portò istintivamente le mani alla gola, cercando di allentare la morsa omicida di Navarra, senza tuttavia riuscire a smuoverlo di un millimetro. Le voci le arrivavano ovattate e distanti, come se quella baraonda non la riguardasse.
Il suo campo visivo si era ormai riempito di macchie e le forze cominciavano a venirle meno, ma dalle labbra non le uscì nemmeno un rantolo. Era dunque così che sarebbe finita, senza nemmeno un ultimo addio al suo amato Marcello?
All’improvviso, un boato le esplose nella testa e subito sentì di non essere più tenuta prigioniera, anche se un terribile dolore le s’irradiò presto per tutto il corpo, togliendole definitivamente il fiato.
«Il suo complice è arrivato con un furgone! Stanno scappando!» gridò qualcuno.
«Accidenti, l’ho colpito solo alla gamba!» si aggiunse un’altra voce.
Si udì un motore che rombava, altre grida, poi più nulla.
«Commissario, sta fuggendo!»
«Avvertite tutte le pattuglie in zona, non lasciatevelo scappare!»
Man mano che l’aria tornava a riempirle i polmoni, la ragazza cominciò a recuperare la lucidità, il mondo smise di girarle intorno e si ritrovò a guardare un soleggiato cielo azzurro, incurante di tutto il tramestio che si agitava intorno a lei, come se non la riguardasse.
«Commissario, forse la ragazza è ferita!»
«E cosa stai aspettando ad accertartene, Saverio? Chiama un’ambulanza3, se necessario!»
Qualcuno le si avvicinò e, dopo averla afferrata delicatamente per le spalle, l’aiutò a mettersi seduta.
«Stai bene?»
Beatrice riconobbe una delle voci che avevano gridato contro Navarra e perciò spostò lo sguardo sul giovane poliziotto che le si era accovacciato accanto; sbatté le palpebre più di una volta e aprì la bocca per diverse, prima di riuscire a rispondergli.
A quanto sembrava, il dolore al fianco sinistro non era dovuto a nessuna pallottola, ma solo alla brutta caduta che le aveva fatto fare quello schifoso, sbattendola a terra nella frenesia della fuga.
«Sì, ora sì».
Saverio le sorrise gentilmente e, quando notò le corde ai polsi, tirò fuori dalle tasche un coltellino a serramanico, per poi adoperarsi a recidere il nodo.
«L’esperienza da scout può sempre tornare utile» commentò, buttando i legacci in mezzo al prato e tornando a guardarla. «Va meglio, ora, vero?»
Beatrice annuì stancamente, stringendo le spalle non perché avesse freddo, ma perché desiderava solo ripristinare i propri spazi personali, così barbaramente violati nelle ultime ore.
Strinse le palpebre, respirando più lentamente: quasi stentava a credere che Navarra, finalmente, fosse allontanato da lei e si augurò di non rivederlo mai più. Quando riaprì gli occhi, notò che il giovane era rimasto a fissarla qualche secondo in più del dovuto e si sentì a disagio. Sapeva di non avere un bell’aspetto, ma non era una giustificazione sufficiente ad autorizzarlo a guardarla così insistentemente.
«Ti chiami Beatrice, vero?» le domandò, passandosi una mano sulla visiera del cappello dell’uniforme.
«Sì».
«Saverio, quanto ci metti ad accertarti che la ragazza stia bene? Smettila di fare il cascamorto e vieni qui!» abbaiò quello che doveva essere il commissario, richiamando il suo agente all’ordine.
«Con permesso» si congedò allora il giovane, accompagnando le parole con un cenno del capo.
La fanciulla lo vide allontanarsi e dirigersi verso gli altri poliziotti che tenevano d’occhio un ferito e lamentoso Felipe: buffo come non le desse alcuna soddisfazione vederlo ridotto in quello stato. D’altra parte, la stanchezza stava sopraffacendo l’ansia e l’angoscia provate fino a poco prima e non poté non essere contenta del fatto che, per quel momento, gli agenti la stavano ignorando, lasciandola un po’ in pace. Guardò le piaghe che la corda le aveva lasciato sui polsi, poi rialzò lo sguardo verso il cielo terso di primavera, lasciando che una lieve brezza le scompigliasse i capelli con gentilezza, mentre il suo cuore si riempiva di pace e commozione per essere arrivata sana e salva alla fine del suo supplizio.







***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per esserci sempre.
***


1. commissariato Celio I: è il commissariato più vicino all’abitazione di Guido. A dire il vero, nelle vicinanze, è anche presente la Questura di Roma, ma penso che un personaggio del genere non si sarebbe esposto oltre il dovuto, preferendo un commissariato più piccolo;
2. si credeva: qui sta per credevo. Forma impersonale, tipica del dialetto toscano;
3. chiama un’ambulanza: nei primi Anni ’80, la rete GSM (rete cellulare), nonostante cominciasse a muovere i suoi primi passi, non era ancora all’apice della sua diffusione. Dovete pertanto considerare che la Polizia, in questa storia, si avvale del proprio sistema di trasmissione radio (con frequenza assegnata). 
***

Salve!
Capitolo abbastanza denso, che ne dite? Il prossimo sarà relativamente più tranquillo (direi che i protagonisti ne hanno bisogno) e riserverà qualche momento più dolcioso (?), ma non crediate che le difficoltà siano finite, perché ho ancora molte cose da raccontare.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e, naturalmente, grazie anche a chi legge in silenzio, chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi mi lascerà un suo commento in seguito.
Ogni segno del vostro apprezzamento verso questo racconto mi fa sempre molto piacere.
In ultimo, vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina facebook, dove troverete spoiler, novità e altre cose.
Alla prossima, per chiunque vorrà esserci!
Halley S. C.

  
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