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Autore: Il Conclave    25/03/2015    2 recensioni
Un Imperatore, un Sacerdote, una Principessa, un Generale e una Dea.
Come possono cinque vite separate intrecciarsi e tessere una storia?
Un trono da reclamare, una maledizione oscura da sconfiggere e un tradimento in agguato.
In un mondo in cui amici e nemici si confondono, di chi ti puoi fidare?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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~ Capitolo 2 ~
~ Galerian ~

 
Galerian Linnaeus, primo del suo nome, supremo imperatore della potente Entharian e sacro officiante di Azaerien si stava beando di delizie oniriche di rara qualità e intensità, quando la luce del sole commise l’imperdonabile insolenza di raggiungere il suo volto, sostenuta, nello sfrontato oltraggio di scuoterlo dal suo piacevole torpore, da una flebile e fresca brezza.
«Vostra Maestà, temo sia giunta l’ora per la vostra sacra persona di interrompere il suo sonno e gloriarci tutti con la sua graziosa presenza» si levò una voce melliflua e affettata, frustrando ogni suo residuo tentativo di prolungare il bel sogno in cui era avvinto.
Il giovane imperatore aprì gli occhi, sbattendoli per abituarli all’aurea luce che penetrava dalla vetrata esposta sul ballatoio. Gettò uno sguardo irritato all’omino del tutto glabro e minuto, ridicolmente ammantato di abiti lussuosi troppo grandi per la sua scarsa presenza, dietro il quale un intero esercito di sguatteri si celava, inquietato – in particolar modo, la graziosa ragazza rea di aver spalancato i pesanti tendaggi. Quest’ultima era abbastanza avvenente da meritare una seconda occhiata: proveniva da Chéylan a giudicare dai suoi tratti somatici e non gli sarebbe dispiaciuto farne una conoscenza più approfondita – in effetti era nel suo diritto, e lo avrebbe di certo esercitato –, il Gran Ciambellano aveva effettuato una scelta oculata nel mandare lei ad aprire le tende: uno sguattero avrebbe passato un brutto quarto d’ora.

«Glabrius, a che ora del giorno siamo, per la sacra Dea?!» sbottò con voce impastata, tentando di ignorare le residue fitte di dolore al capo, conseguenza del carico di vino pregiato giunto in dono da un governatore provinciale in occasione della sua incoronazione, il quale era ormai già intaccato in buona misura.
Il sole si sta levando nel cielo in questo momento, Vostra Maestà: è l’alba,
» proferì cauto l’omuncolo.
Galerian balzò a sedere sul letto, urtando le due ragazze seminude avvolte nelle sue stesse coperte e distese accanto a lui, provocandone così il definitivo risveglio.

«La Vostra sacra persona ha lasciato disposizione affinché fosse destata a quest’ora, giusto ieri» si affrettò ad aggiungere il Ciambellano, arrestando immediatamente i suoi propositi di vendetta.
Galerian sbuffò rumorosamente e si alzò in piedi, lasciando che le coperte scivolassero a terra. Si erse nudo innanzi alla porta finestra spalancata, permettendo che il gradevole venticello di fine primavera lo destasse completamente, e compiacendosi degli sguardi ammirati che le ancelle gli indirizzarono.
Poi osservò divertito Glabrius schiarirsi la voce e riportare all’ordine i domestici; premurarsi di coprire con un mantello intarsiato d’oro le sue spalle scoperte e iniziare ad impartire istruzioni alla servitù, che prese a rassettare la piccola stanza quasi esclusivamente occupata dall’enorme letto a baldacchino.

«Voi due alzatevi in piedi e andatevi a rivestire! C’è molto lavoro da fare» ingiunse aspro alle due attraenti fanciulle distese ancora nel letto, battendo le mani con veemenza.
Le ragazze lanciarono all’imperatore un ultimo sguardo licenzioso poi si allontanarono di corsa ridendo, coperte solo dai lenzuoli. Vedere scuotere la testa al ciambellano con evidente disapprovazione fu alquanto divertente.
Galerian si passò la mano sul tatuaggio d’argento che gli ricopriva il braccio destro, prima di porgerla a Glabrius in persona, il quale, a capo chino,  gli infilò al dito l’anello d’oro del sigillo imperiale; poi altre due ragazze si avvicinarono imbracciando  le vesti ornamentali, proprie della carica di sovrano enthariano.
Prima che potessero accostarsi a lui, due figure ammantate di nero apparvero emergendo dalle ombre e frapponendosi minacciose fra loro e l’imperatore. Il silenzio calò immediatamente nella stanza, tutti i rumori provocati dal rassettamento si interruppero di colpo.
Galerian si volse e fissò i propri occhi sulla coppia di ombre nere, sogghignando.
«Stanno solo porgendomi le vesti, non attentando alla mia vita: lasciateci e tornate quando mi sarò compiaciuto di essere pronto» disse, invitandoli ad andarsene con un gesto annoiato.
Le due figure incappucciate, celate nei mantelli neri che nascondevano completamente il loro aspetto, chinarono il capo e scomparvero in un istante, così come erano venute. Galerian rivolse un caldo sorriso alle due servette, invitandole ad avvicinarsi ancora:
«Perdonate l’eccessivo zelo dei miei demoni, non amano molto gli estranei.»
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo poi si avvicinarono per assolvere al loro compito, seguite immediatamente da tutti gli altri servi.
A differenza del consueto, Galerian non indugiò molto nella vestizione divertendosi a spese delle ancelle imbarazzate, ma si abbigliò in breve tempo; per poi uscire sul ballatoio, lasciando a Glabrius l’incombenza di congedare la servitù.
Il ragazzo si appoggiò alla balaustra di pietra e socchiuse gli occhi, permettendo che la luce del sole nascente gli bagnasse il volto per intero, stavolta. Quando era stato incoronato, poche decine di giorni prima, si era traferito in quella stanza, meno lussuosa e grande dei suoi precedenti appartamenti, ma al culmine della torre più alta nel palazzo. Quando si degnava – o se ne rammentava – di levarsi all’alba, amava osservare la capitale mentre l’aurora la raggiungeva.
A differenza di altre città costruite da Entharian, le quali avevano beneficiato dall’enorme splendore e prosperità raggiunte dall’impero, Aideran non era molto vasta. Impressione rafforzata dal fatto che il palazzo imperiale, ricavato nella rocciosa sommità di una maestosa montagna, la dominava totalmente in altezza.
Eppure, malgrado le dimensioni relativamente contenute, Aideran era bella. Eccetto che per il quartiere dedicato agli emissari stranieri, costituito da una moltitudine di splendidi palazzi nei più disparati stili dei popoli a cui erano intitolati, era stata edificata con un particolare tipo di pietra molto chiaro, il quale si accendeva d’oro se colpito dal sole durante l’aurora e il crepuscolo.  
L’imperatore lasciò scorrere lo sguardo sui torrioni, sulle torreggianti statue, sulle abitazioni, sui teatri e le sedi dei mercati, sino a raggiungere le leggiadre ed eleganti mura scintillanti, piccole e insufficienti per resistere ad un assedio; ma Entharian controllava quel mondo, e innumerevoli altri, da così tanti secoli che nessun nemico avrebbe potuto sperare di raggiungere la capitale in tempo per la fine di ogni era. Guardandole con occhio critico, Galerian decise che avrebbe abbattuto alcuni borghi fioriti a ridosso della cinta e ne avrebbe fatte costruire di più grandi e alte prima o poi, consegnando ai posteri un altro motivo per cui sarebbe valsa la pena di osannarlo e incensarlo nei millenni successivi – prima aveva in programma di conseguire un altro paio di obbiettivi per i quali avrebbe ricevuto gloria imperitura.
Come ultimo traguardo della sua contemplazione, ormai divenuta immutabile come un rituale, puntò gli occhi sulle campagne fuori le mura, abbracciandone le verdi e dolci forme: fertili e gravide pianure punteggiate da innumerevoli villaggi e cittadine circondate dalle coltivazioni si riflessero nelle sue iridi, Galerian sapeva che si estendevano per quasi mille leghe in ogni direzione, susseguendosi in uno schema identico senza variazioni, finendo col esaurirsi nel piccolo braccio di mare che divideva il continente centrale da quello meridionale. Solo il settentrione costituiva un’eccezione, anche senza l’ausilio di alcun strumento di osservazione la sagoma della grande catena montuosa che attraversava Aenther da parte a parte era ben visibile.
In effetti, da quando era stato incoronato il mese precedente, il sovrano aveva notato che la sua vista si era in qualche modo affinata. Per questo osservare notando i dettagli non costituiva un problema, nemmeno a quella distanza.
Eppure, quel giorno aveva un motivo in più per contemplare i suoi domini. Abbassò lo sguardo, cercando e trovando poco fuori la cinta muraria l’enorme e artistica struttura del portale, costruito ad uso esclusivo della capitale: la pulsante luce violacea che ne scaturiva dimostrava chiaramente la natura della costruzione, come se di propria iniziativa intendesse affermare che, malgrado ogni legge naturale prevedesse il contrario, lì la realtà si piegava e solo per il volere di Suo Splendore Azaerien, la Guardiana.
Ma non era la lieve e diafana colonna di luce che si innalzava dalla parte superiore del portale ad attirarlo, piuttosto l’accampamento militare che era sorto nelle immediate vicinanze: un’immensa distesa di tende e provvisorie costruzioni in legno, stalle per gli animali da guerra e soma, oltre che alle grandi scuderie mobili riservate ai draghi, che, in quel momento, stavano salutando il sole nascente librandosi in volo a decine e decine, compiendo ampi circoli sopra gli acquartieramenti della propria armata di appartenenza.
Anche da quell’altezza, e già a così presto, il brulicare di animali, carri e persone era ben visibile; il portale e la strada lastricata che conducevano all’interno della città erano già piuttosto congestionate di proprio conto anche in tempi normali, fra le intense transazioni commerciali e i dignitari in visita con seguito e scorta appresso; con tutti quei soldati in circolazione, la situazione rischiava di sprofondare nel caos più completo. Fortunatamente Entharian era da sempre stata caratterizzata da una certa efficienza, prerogativa con cui si era assicurata un grande impero.
D’altronde quel portale non era stato concepito per gestire un simile traffico, di norma per dare inizio alle campagne militari si adoperavano le porte di altre città – o si incaricavano le truppe stanziate nelle province degli altri mondi, preferibilmente quelli periferici. Ma Galerian era stato incoronato da poche settimane, e ogni singolo nobile d’alto rango o funzionario anche solo vagamente importante aveva preso la molesta abitudine di pronunciare e tentare di imporre la propria opinione, bramando di oscurare il suo potere sfruttando l’influenza acquisita: ben pochi vedevano di buon occhio le riforme amministrative, agrarie e fiscali che intendeva adottare negli anni futuri; mostrare la sua forza a quegli insignificanti essere inferiori dell’aristocrazia e, cosa non da poco, agli emissari stranieri era il motivo per cui aveva radunato l’armata lì, in previsione dell’imminente campagna militare. Quale miglior prova se non le lance dei tanto temuti fanti e le zanne degli altrettanto temuti draghi di Entharian? 
Galerian si stiracchiò con indolenza, dando le spalle alla magnifica vista e adocchiando il tetto della torre, dove Khais e Khair, i suoi due draghi personali, erano ancora accoccolati in attesa del suo permesso per prendere volo e salutare l’arrivo del giorno. Galerian amava farli dormire lì, dove l’intero mondo poteva vederne le scaglie d’oro brillare e rendersi conto del potere di cui poteva disporre. Lui adorava circondarsi solo di cose belle e squisite, e i draghi di Entharian erano di gran lunga le creature più magnifiche che avessero mai solcato i cieli di tutti i mondi: i degni eredi del Dio Kaish.
Si limitò a pensare di concedere loro il permesso, e i due draghi – fratelli nati dalla stessa madre – interpretarono correttamente i suoi pensieri: si lanciarono in volo e ruggirono entusiasti, protendendosi verso l’unico fuoco più grande di quello racchiuso nel loro ventre, il sole.
Per un istante ancora si beò, osservando i doni che la Dea Azaerien aveva concesso all’impero: i dorati draghi di Entharian, affusolati e minuti confrontati con le altre razze draconiche; e ciò nonostante i più intelligenti, i più forti, i più veloci e i detentori del fuoco più rovente; solo i draghi ibridati con le creature demoniache in uso dalle Orde Oscure potevano sperare di tenervi testa e solamente se in sovrannumero.
Tutto grazie alla Dea. Azaerien, la sacra e somma patrona di Entharian, la quale, sotto la Sua benevole protezione, aveva prosperato. L’imperatore recitò una rapida preghiera verso l’unico essere degno delle proprie attenzioni.

«Glabrius» chiamò.
«Sì, Vostra Maestà?» rispose immediatamente il ciambellano, rimasto in disparte in attesa del richiamo del suo signore. 
«Quanti soldati ho fatto radunare laggiù?» domandò appagato, adducendo all’accampamento con un movimento appena accennato del capo. Il motivo principale per cui aveva deposto il precedente e borioso ciambellano nonché la casta eretta all’interno del palazzo – la quale ora si godeva un comodo pensionamento anticipato in qualche segreta di cui non ricordava il nome –, oltre all’imbarazzante e manifesta corruzione, era l’eccessiva cerimoniosità e il disinteresse per tutto ciò che non concerneva direttamente la loro mansione. Glabrius era stato un diligente funzionario minore di uno dei ministeri prima di essere elevato alla carica di Gran Ciambellano: era una persona meticolosa, efficiente e meno rigida dei suoi predecessori sul protocollo di palazzo. Erano altri i protocolli che gli premevano, inoltre era degno di fiducia.
«Cinquecentomila soldati e duemilacinquecento draghi, mio signore» affermò senza tentennamenti l’uomo.
«Quando marceranno faranno tremare la terra e oscureranno il cielo» asserì con crescente compiacimento. «Orbene, Glabrius,» riprese con vivacità, «rammentami la ragione per la quale ti ho impartito l’increscioso ordine di interrompere il mio sonno così di buon ora, questa mattina.»
«Mio signore, il Concilio dei Nobili richiede la vostra presenza, così come il Consiglio di Governo e  l’assemblea dei generali; inoltre molti dignitari stranieri e inviati dei governatori provinciali attendono di porvi omaggio da alcuni giorni. Voi avete disposto che…»
Galerian storse il volto e lo bloccò con un gesto di insofferenza. «Non ascolterò ancora uno dei noiosi monologhi di quel petulante parassita di Radek Mengskallian sul fatto che togliere altri privilegi all’aristocrazia sia anticostituzionale e contrario ai principi di base della ragione: ho detto che dovranno rinunciarvi, il feudalesimo è un’arretrata reliquia del passato che deve scomparire del tutto; i suoi brandelli si trascinano anche da troppi secoli danneggiando l’economia in molte province extramondo. E per quanto concerne il Consiglio di Governo,» proseguì fissandolo in tralice, «di’ loro che non mi tange la protesta del popolo, non ritornerò sulle mie decisioni: l’imposta di guerra sarà istituita, non intendo intaccare le casse statali per questa campagna. Il popolo è nato per servire, che serva! Quando, fra qualche anno, le riforme saranno in vigore a pieno regime, le tasse saranno molto più lievi e i servizi pubblici migliori. Tutti saranno più felici» zittì le sue proteste e stroncò i suoi argomenti.
«Piuttosto, informa l’assemblea dei generali che intendo incontrami con loro ora. Massima celerità, non sono ammessi ritardi» proclamò, esibendo la scarsa pazienza che provava quel mattino da subito.
Il ciambellano si inchinò e provvide a chiamare dei servi, sempre pronti a comparire fuori da ogni buio anfratto della reggia, perché portassero i messaggi dell’imperatore a chi di dovere.

«Molto bene Glabrius, accompagnami. Non desidero dover parlare direttamente con la servitù, se ne dovessi avere bisogno» disse, atteggiando i tratti in una posa altera.
Si voltò e varcò la soglia della porta finestra, rientrando nella stanza; quando ne uscì, venne affiancato immediatamente dai suoi due demoni: gli unici Demoni Superiori ad essersi mai convertiti alla vera fede per Suo Splendore Azaerien.
Discese le rampe di scale sino a raggiungere la base della torre e transitò per gli stupendi corridoi del palazzo, ignorando alacremente la gran quantità di servi, guardie e aristocratici di ogni specie e mondo che ne popolavano i celestiali interni.
Un gruppo di funzionari, alzando ridicolmente le lunghe vesti per effettuare una corsetta in modo più agevole, tentarono di raggiungerlo.
Circondato dalle sue guardie che gli ricavarono uno spazio nell’assembramento di nobili, l’imperatore entrò nel sollevatore riservato agli ospiti del palazzo: un’enorme piattaforma sostenuta da un complicato sistema di carrucole che, servendosi di un pozzo scavato nella dura roccia del monte Kherya, consentiva di raggiungere i vari livelli della reggia senza inerpicarsi sulle infinite scalinate.
Ignorando gli sguardi e i rumorosi lamenti degli aristocratici, già indignati per essere stati scostati dai tenebrosi custodi del loro signore, il ministro delle finanze e alcuni suoi collaboratori si infilarono entro l’arnese a cui ci si riferiva sempre più di frequente con il bizzarro nome di “ascensore”.

«Mio signore, di grazia, chiedo un istante del vostro prezioso tempo» sputò il grasso ministro, fra un respiro affannoso e l’altro.
Galerian lo osservò storcendo la bocca mentre l’ascensore iniziava il suo percorso verso il cuore del palazzo.
«Hai detto bene Venalus: prezioso. Vedi di non metterci troppo» commentò in tono sferzante; nel frattempo si domandò come quell’uomo, talmente grasso da aver assunto la forma di un pallone, potesse riuscire a respirare con tutti quei doppi, tripli e quadrupli menti – ne aveva perso il conto, ormai.
«Qui, mio signore?!» disapprovò Venalus, strabuzzando gli occhi. «Ci sono molte orecchie indiscrete.»
Galerian si guardò attorno con un movimento indolente, notando per la prima volta la folla di nobili assiepata contro le pareti del montacarichi, che si stropicciava le ricche vesti perché lui potesse stare comodamente al centro della piattaforma.
Tornando ad osservare il ministro, agitò la mano destra al vento, assicurando:
«Qui non c’è nessuno che conti. Procedi o vattene: decidi in fretta, poiché inizi a irritarmi.»
Spalancando la bocca ed osservando gli uomini e le donne che affollavano l’ascensore quasi in gesto di scusa, Venalus riprese a parlare: «Ho giusto qui un documento ufficiale a cui avete imposto il vostro sigillo ieri…» disse, afferrando con le sue mani madide di sudore la pergamena che gli veniva offerta da uno dei suoi collaboratori e porgendola all’imperatore.
Galerian lo raggelò con lo sguardo, rifiutandosi di toccare quel pezzo di carta umidiccio. Con un gesto intimò al ministro di tenerlo nelle sue mani e di avvicinarsi perché potesse leggere; poco ci mancò che ordinasse a uno dei suoi demoni di spezzargli il braccio, per buona misura.

«Ecco, vedete, qui avete approvato la nuova imposta di guerra – oh, niente da dire su questo meraviglioso ed elegante decreto, Vostra Maestà! – ma qui avete bocciata la mia nuova proposta in relazione ad un’imposta da applicare alla vendita delle granaglie» ansimò, soffiandogli addosso l’alito che sapeva in modo eccessivo di spezie; delle province nei mondi esotici, a giudicare da quanto percepiva: probabilmente avrebbe potuto indovinare cosa l’uomo avesse ingerito per colazione, talmente era intenso il lezzo che emanava.
Galerian storse le labbra e trasse da una tasca un fazzoletto profumato, premendoselo sul volto e aspirando con soddisfazione.
«Non alitarmi addosso, imbecille» bofonchiò al sicuro dietro quello scudo di seta.
Aspettò che il ministro si profondesse in un inchino di scuse – assai difficoltoso vista la sua mole – e che arretrasse, prima di replicare.
«Ministro Venalus, non approverò una tassa potenzialmente in grado di mandare in rovina un non precisato numero – che non mi disturberò nemmeno ad appurare – di contadini sparsi in tutti i mondi agricoli, il quale sicuramente si quantifica in miliardi» ribatté, con voce che virò verso un tono annoiato sin da subito. «Questione chiusa.»
«Ma, Vostra Maestà!» protestò con vitalità, altamente rischiosa per la sua testa, intesa sia come carica che in senso letterale, si divertì a pensare Galerian per un istante. «Avete preteso che il Ministero dello sviluppo progettasse aratri migliori da vendere ad un prezzo agevolato; in più avete stabilito la costruzione di nuovi e più capillari canali irrigui in ogni mondo agricolo, per non parlare delle bonifiche in programma! Come faremo a coprire queste spese?!» concluse in tono petulante.
Galerian levò gli occhi al cielo con teatralità, costatando che alla sua destinazione non mancava poi molto, fortunatamente.
«Queste misure servono ad arricchire Entharian e il suo popolo, non a favorire un suo tracollo. I grandi latifondisti non hanno ancora versato alcuna imposta, che lo facciano. Mi sembrava di aver chiarito che oramai non fossero più esentati.»
«Mio signore…» tentò ancora Venalus.
«Taci! Taci, stupido grassone incapace!» sbottò. Quindi chiuse gli occhi e aspirando le essenze profumate dal fazzoletto, si calmò, ritrovando il suo contegno. «Non manderò in rovina miliardi di piccoli e medi proprietari terrieri per mantenere i privilegi dei nobili, e perché tu e la tua stupida casta possiate intascare parte del denaro riposto nella casse – non credere che io non lo sappia. Il tempo della corruzione e dei soprusi è giunto al termine, sono i contadini il vero pilastro su cui si regge la nostra prosperità agricola, non i nobili; il vostro metodo impoverirebbe Entharian e getterebbe un’ombra oscura sul mio nome che la posterità rammenterebbe per millenni: non mi importa di quei villici trogloditi, ma non permetterò che voi lediate al mio onore,» proseguì, poi lo additò stando ben attendo a non sfiorare la sua pelle umidiccia, «mettitelo bene in quella testa bacata!»
Kaustakos e Khantark, i due demoni, si fecero avanti emettendo un sibilo orribilmente acuto e minaccioso: Vanalus e tutti i suoi dipendenti impallidirono.
L’imperatore atteggiò il volto in un’espressione seccata,
«Voi due, interrompete questa lagna assolutamente infernale. E quanto a te, Venalus,» proseguì, indirizzandogli ancora contro il dito sul quale portava l’anello imperiale, «ho siglato e apposto il sigillo a tutti i documenti di cui necessiti per far rispettare la sacra Legge dell’imperatore. Fai il tuo lavoro e non tediarmi più con le tue rimostranze incredibilmente moleste, o ti sostituirò. E la pensione non si consumerà in una tranquilla località provinciale, non dubitarne» concluse nell’esatto istante in cui il livello che gli interessava veniva raggiunto.
Seguito da Kaustakos, Khantark e Glabrius uscì nella corsia affollata con un’espressione tempestosa impressa sul volto. Non una sola persona osò scendere a quel piano.
Ignorando la servitù che si prostrava sino a terra e gli eleganti inchini appena accennati di altri maledetti e fastidiosi nobili, procedette a passo svelto verso la sala in cui l’assemblea dei generali usava riunirsi; vi entrò senza farsi annunciare, passando in mezzo al plotone di pretoriani posti lì allo scopo di mantenere il riserbo su quanto veniva detto e stabilito all’interno del consiglio di guerra.
Percorse la buia sala rotonda fra il brusio degli occupanti, notando che i posti dei generali erano già tutti occupati, sino a raggiungere il trono dorato posto al suo centro esatto, ai margini del complicato e arcano disegno inciso sul marmoreo e lucido pavimento.

«Vostra Maestà» gli diedero il benvenuto in coro gli alti ufficiali, esibendosi in una riverenza appena accennata.
Galerian si sedette sul trono che lui stesso aveva fatto riporre al posto dell’anonimo scranno che il predecessore suo padre soleva utilizzare. Quell’uomo aveva perso molto del suo vigore verso l’ultimo secolo di regno ed era caduto in qualche principio idiota riassunto in “primo tra pari”, o qualcosa del genere. In poche parole, si era sminuito.
Congiunse le mani ed osservò i generali racchiusi nelle proprie armature cesellate d’oro e d’argento: il consiglio di guerra non era costituito solo da umani di Aenther o degli altri mondi, bensì anche dagli statuari Wakram dalla folta pelliccia bruna; muscolosi Noctis dalla pelle grigio verdastra e dalle lunghe orecchie; zannuti demoni minori convertiti; i tarchiati Varek e Vnorsk, sempre inseparabili. E altre razze ancora.

«Molto bene, soldati: ho visionato l’elenco di obbiettivi che mi avete proposto di attaccare per la mia guerra dimostrativa» esordì, afferrando da Glabrius, il quale aveva affiancato il trono, il documento su cui era stata redatta la lista di mondi da prendere in considerazione per l’invasione, «e la ritengo insoddisfacente» li graziò con sole quattro parole. «Ho già messo in chiaro la rosa di obbiettivi che intendo prendere in considerazione. E quelli rimarranno. Obiezioni?»
«Mio signore, vi invito a riconsiderare le vostre decisioni» obbiettò Valentinianus, un canuto ed abile generale umano, sfortunatamente relegato nel passato con la mente. «Non solo nell’armata radunata vi sono più di centomila demoni minori – mio signore, non metto in dubbio la loro lealtà, tuttavia sono troppo imprevedibili! –, ma prendere come obbiettivo i mondi Oscuri è… folle! Quanto agli Aersteri non disponiamo di sufficienti elementi sul loro apparato difensivo per lanciare un attacco ben organizzato, lanceremmo un’operazione ad occhi pressoché bendati. Tutto ciò che sappiamo da loro deriva dalle analisi preliminari degli esploratori e dai sacerdoti itineranti, informazioni assolutamente inadeguate.»
Diversi suoi colleghi sostennero le sue parole assentendo.
Galerian annuì, portando un minimo di rispetto per quell’uomo valoroso:
«Attualmente, in totale, vi sono più di… quanti Glabrius?» si volse vero il ciambellano, «Tre milioni e mezzo, Vostra Maestà» riferì quest’ultimo, da buon archivio vivente qual era.
«Ecco, tre milioni e mezzo di demoni minori nelle fila del nostro esercito, ovvero circa un terzo delle nostro apparato bellico, di certo non per un caso: hanno sempre dato un’eccellente prova di sé. Non ne ridurrò il numero» replicò, incassando il grugnito compiaciuto e riconoscente dei tre generali di razza demoniaca all’interno della sala.
«Quanto agli obbiettivi: ho preso in considerazione gli Aersteri poiché, malgrado la scarsa conoscenza di cui disponiamo in merito alla loro società, sono alquanto ricchi; e questo è una dato certo oltre ogni dubbio. In questo momento sono un preda appetibile per rimpinguare le casse… quanto ai mondi oscuri, d’altro canto, dispongono di un fascino davvero unico: nessuno è mai riuscito a vincere una battaglia in quelle lande.»
«Mio signore, a buon ragione: quegli inferni sono popolati da un infinito numero di creature demoniache ancora dedite al Dio Oscuro. Nemmeno vostro padre, il grande vincitore della guerra civile, ha mai preso in considerazione l’idea di attaccare quei ricoveri di demoni maligni e mostruosi ibridi» disse il generale Daerius, un Wakram. Discernere le singole parole nella sua lingua composta da grugniti richiese uno sforzo che tediò Galerian.
«Mio padre era un debole» asserì l’imperatore, causando un istantaneo blocco dei brusii nella sala.
«Vostro padre è stato un grande uomo e un altrettanto grande sovra…» prese a dire Valentinianus indignato, difendendo colui che per decenni era stato il suo signore.
Galerian lo arrestò alzando la mano.
«Indubbiamente, mio padre è stato un buon generale e un grande conquistatore: ha saputo vincere la guerra civile scatenatasi dopo la caduta della dinastia Seoraan. Eppure ha lasciato riprendere piede all’aristocrazia e ha permesso una grossa diffusione della corruzione, cose a cui sto ponendo rimedio giusto in questo periodo. Mio padre era stanco, ha riunificato Entharian, ma la morte lo ha raggiunto prima che potesse sedare tutti i conflitti interni e portare a termine il suo compito: restaurare l’autorità dell’imperatore.»
I generali si scambiarono uno sguardo incredulo e assentirono di malavoglia, riconoscendo la validità delle sue argomentazioni. Forse non lo avevano ritenuto capace di un’analisi così profonda.
«Ebbene, una vittoria contro nemici di quel calibro gioverebbe alla mia posizione, inoltre avrebbe il pregio di riconsolidare la nostra reputazione fra i regni alleati e quelli ostili; non dimentichiamo, poi, di chi stiamo parlando: le Orde Oscure sono in grado di manipolare la magia per lacerare il Vuoto e schiudere ed azionare i nostri portali a loro piacimento, anche meglio di quanto facciamo noi. Quante volte attaccano e razziano i nostri mondi? Quanti nostri soldati periscono nelle aspre battaglie scatenate nei tempi e nei luoghi che più si confanno a quelle mostruosità?» pronunciò con enfasi, conscio di averli convinti – non che gli servisse davvero la loro approvazione.
«Troppi, Vostra Maestà» replicarono all’unisono tutti quanti, quasi si fossero coordinati prima dell’assemblea.
«Quindi, possiamo annunciare gli obbiettivi prefissati, mio signore?» sollecitò Tantalus, un anziano generale di razza Noctis.
«Assolutamente no» sbottò Galerian, guardando l’ufficiale come se fosse un pazzo.
«Mio signore, questa situazione è ascrivibile ad un limbo: ci sono dozzine di regni che temono di essere invasi da quell’armata là fuori» questionò Daerius, indicando le pareti decorate alle sue spalle, più o meno in direzione dell’accampamento. «Ciò sta generando un clima di terrore e…»
«E incertezza, è questa la parola che andate cercando, generale,» lo interruppe, «l’incertezza è un’arma potente, la sovrana delle armi.»
«Citare l’Arte della Guerra di Tzaerian non giustifica questa vostra decisione» interloquì per la prima volta Kraterius, un altro ufficiale Wakram.
«Temo, amico mio, che Sua Maestà abbia invece ragione» intervenne Tantalus, subito imitato da Valentinianus.
Quelle parole generarono un violento scambio di opinioni che durò per alcuni minuti.
Sorridendo compiaciuto, quando l’imperatore ritenne fosse ora di porre fine al dibattito, si volse verso Glabrius, invitandolo con un gesto a parlare.

«Trentasei e quarantotto» disse il ciambellano.
«Volete spiegare questi numeri, Gran Ciambellano?» fece perplesso uno degli ufficiali, trattenendo la replica non esattamente gentile che stava per scaricare addosso ad un commilitone.
«Trentasei regni in quattro mondi diversi, i quali non pagavano nulla da anni, si sono affrettati a versare i tributi che ci dovevano – arretrati compresi; mentre quarantotto sono i popoli che hanno rinnovato la loro alleanza con noi» elencò distrattamente Galerian, guardandosi le unghie.
«Molto bene!» esclamò, poi, levandosi in piedi. «Ho affari di Stato che richiedono la mia presenza altrove.»
«Aspettate, mio signore! Non avete riferito il piano d’azione che intendete suggerirci, né nominato il comandante della spedizione» gli rammentarono all’unisono quattro generali diversi, con parole molto simili le une alle altre.
«Oh, ma certo. Non lo avevo detto?» sorrise con aria innocente. «Sarà Blaise di Chéylan a guidare l’attacco e a lui riferirò la strategia da me elaborata» disse, accennando all’unico scranno rimasto vuoto, «ora devo solo decidere quale bersaglio attaccare.»
«Quel selvaggio botolo ringhioso?!» sbottò Kraterius, «Vostra Maestà, è assurdo!»
«Proprio lui» confermò l’imperatore, lasciando la stanza e trattenendo a stento il riso, pensando al vespaio che le sue parole avrebbero suscitato in quella sala. Quei tronfi uomini di guerra probabilmente avrebbero seguitato ad altercare per le due clessidre successive, anche se all’atto pratico non avevano alcun potere decisionale. Solo lui deteneva il potere.
«Glabrius, tutto questo discorrere mi ha causato dolore alle testa, ricordami cosa dovrei fare ora, io non intendo sforzarmi per farlo» lo interpellò massaggiandosi le tempie, una volta uscito dalla sala.
«Mio signore,» annunciò quasi con impaccio, «Sarebbe il caso di concedere qualche udienza.»
«Per la Dea! Devo proprio?» proruppe con timbro infelice.
Il ciambellano si schiarì la voce, cercando di usare un tono il più mite possibile:
«SSarebbe opportuno, qualcuno aspetta da molti giorni. Naturalmente, se Vostra Maestà non desidera…»
«D’accordo, mi degnerò di farlo, dopotutto» disse, agitando le braccia al vento per zittire qualsiasi replica.  «Su, muoviamoci. Per mezzogiorno desidero finire, nel pomeriggio intendo passare in rassegna le truppe.»
Quando ebbero attraversato altri corridoi, costellati dalla stanze occupate da quella parte di nobiltà che aveva preso dimora fissa nel palazzo, e furono discesi ancora una volta tramite l’ascensore, giunsero finalmente nell’ariosa sala del trono; costruita sul fianco ad un altezza medio bassa e non nel ventre della montagna, a differenza di quasi tutto il resto della reggia, perché fosse sempre raggiunta dal sole e perché fosse enorme. Scavare nella dura roccia del Kherya era un lavoro lungo e impegnativo, bastava solo pensare che c’erano voluti quasi milleduecento anni per ultimare definitivamente la costruzione di ogni ala del palazzo, il quale comprendeva praticamente l’intera montagna, dalla cima ai piedi.
Galerian puntò dritto al Trono di Entharian – che si diceva fosse stato ricavato da una delle fulgide squame del Dio Kaish –, ignorando l’inchino generale con cui la folla che gremiva la sala lo riverì non appena fu annunciato; si sedette accavallando le gambe e afferrando la coppa ingioiellata posta accanto alla sedia. Con enorme disappunto notò che era vuota e lanciò un’occhiata assassina al servitore accanto al trono, allungando il braccio verso di lui con un gesto brusco.

«Riempimi la coppa, imbecille» lo esortò innanzi alla sua staticità, scuotendo la testa e parlandogli come se fosse un infante appena uscito dal grembo materno.
«N-no-non posso, Vostra Maestà: il vino è finito» replicò terrorizzato, esibendo la caraffa arida in modo assolutamente fastidioso.
«Allora vai a prenderne dell’altro, idiota» ingiunse con voce sofferente di fronte a cotanta stupidità, demandando con un gesto il compito al ciambellano, il quale avrebbe certamente strigliato l’incapace sguattero.
Galerian puntò lo sguardo davanti a sé, in fondo alla sala si apriva un’enorme balconata dalla quale si poteva ammirare una veduta simile a quella di cui godeva egli nella torre ove riposava, sebbene ad una quota molto più bassa; avvicinandosi, si trovavano, intervallate dalle ampie vetrate dipinte, le colonne magnificamente scolpite che percorrevano tutta la sala ai due lati. Infine, il tetto dell’edificio era composto da un’unica, enorme vetrata trasparente; cosa che garantiva un’illuminazione e uno spettacolo senza pari.
Anche se, il giovane imperatore fu costretto ad ammettere che gli abiti delle personalità che occupavano la sala al centro erano anch’essi delle vere e proprie opere d’arte di qualità all’altezza dell’ambiente in cui si trovavano. Arricciando il naso, dimenticò quella concessione.
Ignorò gli sguardi ammiccanti delle varie nobildonne, tutte in possesso di una beltà disarmante, sicuramente lievemente accentuata da una briciola di magia – sempre utile per cancellare qualche piccola imperfezione – e dai migliori cosmetici sul mercato. Gli costò uno sforzo farlo, non gli sarebbe affatto dispiaciuto fare una conoscenza approfondita di alcune, tuttavia non avrebbe potuto sapere quali fra esse erano animate da propositi perniciosi, sicuramente ben diversi dal semplice desiderio. Presto la sua posizione sarebbe stata abbastanza forte e avrebbe acconsentito ad alcune delle richieste di incontri privati che gli pervenivano, ma non ancora: prima doveva lanciare la sua guerra e vincerla, ricavandone così immenso prestigio; cedere alle lusinghe di amanti in cerca di favori in quel momento sarebbe stato quasi un suicidio. Nessuno ancora lo conosceva e potevano pensare di aggirare un sovrano debole, facilmente influenzabile dalle moine di qualche fanciulla graziosa: il volgo non lo aveva ancora inquadrato e scambiava i suoi modi di fare per un’ennesima vessazione, mentre la nobiltà, d’altro canto, lo aveva capito perfettamente. E proprio per questo lo controllava ancor più di prima.
Sfortunatamente, quei quattro accattoni vestiti di stracci preziosi quale era l’aristocrazia e la massa infinita di ignoranti trogloditi che era invece il popolo contavano qualcosa dopotutto.

«Pane e circo» sussurrò sospirando, poi schiuse le labbra in un ampio sorriso, rivolgendolo ai dignitari più vicini al trono. Sapeva di far effetto, aveva sempre posseduto un bel viso e intendeva sfruttare ogni arma del suo arsenale.
Il primo ambasciatore, di razza Alfayr, si avvicinò scortato da una piccola guardia d’onore del suo mondo e da due servitori che reggevano uno scrigno dall’aria alquanto pesante.

«R’Ktrak» gli bisbigliò senza farsi notare Glabrius.
«Che razza di nome assurdo sarebbe…?» mormorò Galerian perplesso, guardando il suo ciambellano, poi allargò ancor di più il sorriso e, rivolgendosi all’Alfayr, disse: «Ambasciatore R’Ktrak, benvenuto, quali nuove da Alfayran?»
La creatura si fermò ai piedi della pedana sulla quale trovava posto il trono e si inchinò. Galerian trovò bizzarra la sua riverenza, seguire i quattro arti superiori del diplomatico impegnati in un gesto di elegante deferenza, spiazzava. I quattro occhi dell’essere, in aggiunta, non aiutavano a rendere più discernibile il suo linguaggio corporeo.
«Il mio re desidera omaggiarvi con questo dono, potente imperatore del Gran Drago, e complimentarsi per la vostra incoronazione. Egli auspica un radioso futuro di mutua e pacifica amicizia, nonché una proficua collaborazione» enunciò R’Ktrak, sforzandosi di esibire la sua profonda conoscenza della lingua comune enthariana. Ad un suo gesto lo scrigno recato in dono dal suo popolo fu aperto, rivelando un contenuto di gemme preziose di rara qualità.
Galerian lo ringraziò, accettò il dono e dopo alcune parole di rito lo congedò con un’affabilità che sorprese lui stesso. Si ripromise di dare repliche più sferzanti da quel momento in poi, almeno avrebbe reso le cose più interessanti.

«Prima di procedere al postulante successivo, congeda immediatamente  i rappresentanti dei coltivatori diretti del fondo e delle corporazioni commerciali» bisbigliò chinandosi leggermente verso il Gran Ciambellano, quando lo Alfayr se ne fu andato soddisfatto. «Assicuragli che non imporrò altre imposte oltre a quella da guerra e che le leggi di cui necessitano per prosperare sono già in via di approvazione… vediamo di sfoltire un po’ la mandria» bofonchiò, lanciando uno sguardo falsamente benevolo alla folla antistante. Quindi, dopo che Glabrius si fu allontanato per disporre come aveva detto il suo signore, Galerian fece cenno di procedere.
Prima che il nuovo ambasciatore potesse proferire verbo, i banditori annunciarono un nuovo dignitario in visita – cosa singolare, considerando che tutti si premuravano di arrivare nella sala sin dall’alba per evitare le interminabili code… e che giungere in tarda mattinata dopo l’imperatore era valutato come indelicato.  

«Asheryl, somma sovrana degli Aersteri!» urlò attraverso il megafono il nunzio, incapace di nascondere la propria sorpresa, perfettamente discernibile anche attraverso la barriera costituita dall’oggetto amplificatore. Gli Aersteri erano noti per la loro pigrizia e xenofobia, se l’incontro con altri popoli si dimostrava davvero necessario, amavano far muovere il culo agli altri, visto che a loro pesava”, come aveva asserito il primo ambasciatore umano ad averli incontrati. Letteralmente, colui che aveva detto quella frase non aveva adoperato la parola terga… aveva prediletto termini più incisivi. Tanto per chiarire subito cosa ci ssi sarebbe dovuti aspettare dagli Aersteri.
Galerian si ammutolì per un istante, rimanendo con il dito a mezz’aria; Kaustakos e Khantark, avvertendo qualcosa di straordinario nei pensieri del loro signore, fecero capolino dalle colonne dietro il trono, avvicinandosi a lui pronti a difenderlo.
Il ragazzo dissimulò immediatamente la sua sorpresa e puntò lo sguardo verso la figura che dopo aver varcato l’istoriato portone d’accesso si stava facendo largo nella folla: emanava un’aura di autorità e autorevolezza incredibilmente potente, chiunque faceva ala e abbassava gli occhi per primo, anche i tronfi e vanagloriosi nobili determinati a mantenere la posizione guadagnata nella fila quella mattina. Ed era tanto bella da mozzare il fiato, persino più delle magnifiche aristocratiche di Entharian o delle giovani e stupende ragazze cui era solito servirsi per soddisfare i propri desideri.
La regina degli Aersteri si fermò ai piedi del trono, dopo aver attraversato in pochi istanti una sala che di solito richiedeva ore per essere valicata senza che nessuno osasse ostacolarla, e si osservò attorno con espressione altera; rimanendo impassibile e muta, appoggiò il piede destro sui gradini della piattaforma e prese a salirla, fra lo stupore generale: l’ultimo a farlo perché non aveva accettato di stare più in basso dell’imperatore, ed era cosa risaputa in ogni dove, aveva visto diventare il proprio mondo un provincia enthariana in capo ad un anno… oltre trovarsi la sua testa separata dal resto del corpo.  
Galerian ghignò divertito, afferrando la coppa di vino finalmente giunta nelle sue mani, quindi si adagiò sul trono in una posizione indolente, sorseggiando il liquido dorato con gusto.

«E voi sareste…?» fece, accompagnando la beffarda domanda con movimenti circolari del polso; intanto, nell’attesa della risposta, la osservò minuziosamente: era abbigliata con un vestito rosso chiaro, il quale la fasciava perfettamente lasciando intendere lo splendore inumano del suo fisico. Era alta, dalle gambe e braccia affusolate, ventre piatto e pelle d’avorio incredibile, assolutamente priva di qualsivoglia imperfezione. Aveva una chioma rossa come i soli nel cielo di Reylaghar, alternata da capelli neri che generavano un amalgama adorabile, il quale si ripercorreva a spirale nei morbidi boccoli che le giungevano quasi sino alla vita.
Il viso aveva tratti perfetti, labbra piene e rosse come se avesse bevuto il sangue di qualcuno, sembravano il frutto della fantasia di un pittore dalle dote invidiabili; parimenti, il naso pareva intagliato dal più talentuoso degli scalpellini. E gli occhi! Quei pozzi verdi dai riflessi ramati avrebbero potuto magnetizzare chiunque con una facilità disarmante; o intimorirlo, era possibile percepire una certa oscurità trasparire da quelle finestre dell’anima, quasi fosse un monito atto ad avvertire che le tenebre infernali avevano trovato una comoda dimora in quelle lucenti e divine spoglie carnali.
Per la prima volta in tutta la sua breve vita, Galerian si sentì in soggezione per la bellezza di qualcuno, lui che aveva sempre sortito il medesimo effetto agli altri. Si domandava se anche la donna subiva un minimo l’influsso del suo fascino… giunse quasi a sperarlo. Lui! Che non domandava né implorava mai e invece ordinava sempre.
Con un sfacciataggine voluta concentrò il suo esame sul seno pieno e ben formato della donna, ignorando gli occhi… malgrado fosse, probabilmente, l’unico nella sala in grado di reggere il confronto con il suo sguardo.

«Lo avete sentito poco fa, o le orecchie non vi funzionano più molto bene?» esordì lei, permettendo che la sua voce limpida e musicale si levasse, accarezzando le orecchie di quanti erano abbastanza fortunati da essere sufficientemente vicini per udirla. «Noi eravamo convinte che il legame fra la squama di Kaish che voi piccoli umani usate come volgare seggiola affinasse i vostri sensi, non che li ottenebrasse.»
Galerian sorrise, provando una sensazione di calore al petto: quella donna non immaginava il rischio appena corso, chiunque altro sarebbe finito folgorato o arso dai suoi Demoni Superiori per un insulto simile.
Doveva stare attento, lei lo stava stregando e ne era assolutamente consapevole.
Allungando la mano con la coppa, indicò lo spazio vuoto occupato da semplice aria alle spalle dell’Aersteri:
«Dovete essere una stolta, oppure confidate eccessivamente nelle vostre facoltà se pensate di poter venire a comandare nelle mia casa senza portarvi dietro nemmeno un singolo soldato di scorta.»
«Dite?» domandò, riuscendo a sembrare innocente nonostante l’austerità della sua espressione. «E da quali pericoli dovrebbero tutelarci questi soldati? Poiché qui non ne vediamo» disse, guardandosi attorno con movimenti esageratamente accentuati, eppure in qualche modo sensuali.
«In ogni caso, cosa vi porta qui ad Aideran?» tagliò corto il giovane sovrano, ignorando la provocazione.
«Oh, stavamo passeggiando per le campagne del nostro regno quando un uccellino si è appoggiato sulla nostra spalla» rispose, mimando il gesto. «Questi asseriva che un grande drago annoiato, dal pessimo carattere e in vena di lanciare la propria potenza verso un obbiettivo casuale era in procinto di mettere a ferro e fuoco il nostro mondo.» 
«V’ingannate, mia signora» disse, raggelando. Riuscì a rimanere impassibile, sorridendole ancora.
«Oh, ma noi abbiamo parlato di draghi, non della potente Entharian. Ti senti forse preso in causa?» affondò, regalando un sorriso – la prima dimostrazione di mobilità dei suoi tratti – splendido.
«Vi ribadisco che v’ingannate» confermò, dandosi dell’idiota. Quante volte anche lui aveva lanciato esche simili vincendo discussioni in un modo rapido ed elegante? Possibile non riuscisse più a riconoscere un trucchetto tanto elementare?
«Dici? Eppure abbiamo veduto un grosso assembramento di bambini che si preparavano per quella scaramuccia giocosa che voi vi ostinate a considerare guerra, appena fuori dal tuo portale.»
«Oh, non angustiatevi, non siete certo voi né il vostro regno il bersaglio preso in considerazione» rassicurò, esaminando mentalmente la lista di persone che erano informate delle sue intenzioni – quando lo desiderava era in grado di sfoderare una memoria da far invidia a Glabrius. E la cosa era davvero preoccupante, perché solo un ristrettissimo gruppo di soldati e funzionari, tutti assolutamente fidati, erano a conoscenza dei piani. Chi? Chi aveva osato?! Non appena lo avesse trovato, lo avrebbe fatto cuocere a fuoco lento dai draghi.
«Oh, ma noi non siamo angustiata… piuttosto, sembri sinceramente preoccupato, piccolo cucciolo d’uomo. Hai forse veduto un fantasma?» disse, avvicinandosi a lui e arrivando a sfiorargli la guancia con una lieve carezza del dorso della mano, permettendo al suo magnifico odore di giungere alla sue narici.
Galerian riuscì a trattenersi dallo spalancare la bocca solo mordendosi la lingua, incredulo. Era sempre stato bravo a mantenersi impassibile quando necessario! Come aveva fatto quella donna a indovinare le sue emozioni?

«Oh, i tuoi demoni parlano per te: fremono come non mai» asserì, indicando Kaustakos e Khantark con un gesto elegante.
«Ma forse vorrai spiegarmi le tue scuse… o, a seconda del punto di vista, le tue ‘motivazioni’ in un colloquio privato, giusto?» terminò, riuscendo a far sentire le virgolette che racchiudevano la parola.
Per un istante l’imperatore ponderò l’ipotesi, valutando concretamente l’idea di rifiutare: quella donna gli entrava nella testa come nessuno era in grado di fare.
«Credo sarebbe opportuno» acconsentì a malincuore.
Si domandò immediatamente in che guaio si fosse appena cacciato. 


Buongiorno popolo di EFP. Io sono Aurelianus, imbrattacarte a tempo perso u.u
Spero il capitolo sia di vostro gradimento... o almeno non via abbia fatto del tutto pena: è la prima volta che scrivo fantasy, perciò massacratemi. Voglio apprendere dai miei sbagli.  
Ma, non disperate, gli autori che scrivono queste storia con me sono migliori del sottoscritto, pertanto troverete di meglio proseguendo. Non fermatevi a questo capitolo! ;) 
Aurelianus

 
   
 
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