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Autore: ___Ace    27/03/2015    1 recensioni
Nella Francia del XVIII secolo, più precisamente durante il corso del 1789, ogni tipo di potere immaginabile era riposto unicamente nelle mani della monarchia assoluta, a detta dei nobili e del sovrano, per diritto divino. I cittadini avevano sopportato tanto per molto tempo, senza mai lamentarsi e continuando a seppellire vittime di quelle ingiustizie. L'avversione dei sudditi francesi non aveva fatto altro che crescere e inasprirsi di giorno in giorno.
C'era, però, qualcuno pronto a combattere: un gruppo di persone che agivano nell'ombra e che lottavano per i loro ideali di giustizia ed uguaglianza. C'erano i Rivoluzionari, desiderosi di cambiare le cose e di liberare la Francia una volta per tutte.
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Ace/Marco, Ciurma di Barbabianca, Rivoluzionari, Sabo/Koala, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law, Rufy/Nami, Sanji/Zoro
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Liberté, Égalité, Fraternité.
Dix.

 

L’ultima convocazione degli Stati Generali era avvenuta nel lontano 1614 e da allora la società francese era considerevolmente cambiata. Il Primo e il Secondo Stato, ovvero Clero, Nobiltà di alto ceto e borghesia, rappresentavano solo una minuscola parte della popolazione, di conseguenza il Terzo Stato, il quale racchiudeva in sé ogni cittadino francese non nobile e non ecclesiastico, dalla borghesia ai braccianti feudali, era in netta maggioranza.
Quell’assemblea prevedeva la riunione di tutti e tre gli ordini in camere separate nelle quali si sarebbero trovati a discutere e ad emettere una votazione. Riguardo a ciò, il voto della Nobiltà e del Clero, molto spesso, coincideva, perciò il Terzo Stato poteva essere messo in minoranza con facilità. Ad ogni modo, i cittadini accolsero l’imminente riunione degli Stati Generali come un’opportunità per dare una svolta alla loro critica situazione e condizione sociale: i contadini pregavano per l’abbandono dei diritti feudali, mentre una parte della borghesia che assecondava i principi della Rivoluzione, credeva nella possibile instaurazione di una monarchia parlamentare e non assoluta, ispirata a quella inglese.
Anche se la prospettiva dava l’idea di essere ad un punto di svolta, i Rivoluzionari avevano imparato a loro spese che non ci si poteva mai fidare molto di quelli che vantavano il diritto di comando, per quel motivo, la notte del 4 maggio, il giorno prima della data stabilita per l’assemblea, si erano ritrovati tutti, dal primo all’ultimo, alla Corte dei Miracoli, sotto al tetro cimitero incolto e poco curato.
L’enorme tavolo era al completo come la sala e molti si erano adattati a stare in piedi a braccia conserte, stretti lungo le pareti del sottosuolo non più freddo e buio, ma illuminato da torce e candelabri che avevano reso l’ambiente un forno. Alcuni, addirittura, si erano arrampicati sulle travi che sorreggevano il soffitto e osservavano la scena dall’alto, dondolando le gambe all’aria e lasciando gocciolare dalle bottiglie, di tanto in tanto, qualche goccia di poiré o di vino bianco dell’Alsazia.
Davanti a loro, al centro dell’attenzione, si stava svolgendo un intricato e serio dibattito sulle richieste da presentare a favore del popolo, pensando e ragionando sui pro e i contro di ogni proposta.
A capotavola, su una sedia in legno di buona fattura e con la testa appoggiata ad una mano, mentre con l’altra era intento a grattarsi la barba ispida, troppo lunga per i suoi gusti, stava seduto Shanks il Rosso, il quale stava arrivando al limite della sopportazione perché, alla sua destra, Kaido stava complicando un po’ troppo le cose con le sue domande e i suoi sospetti verso il nuovo membro degli Imperatori.
Alla sua sinistra, il diretto interessato pareva divertirsi un mondo e ascoltava le frecciatine del borghese con aria sfacciata e allegra, come se non gli importasse di non essere creduto e di non avere la completa fiducia dei parigini.
Infatti, Barbabianca era tranquillissimo. Con sé aveva i suoi uomini migliori e, esattamente alle sue spalle, sentiva la fissa presenza dei suoi figli, Marco e Thatch, entrambi attenti e concentrati sulla riunione, armati fino ai denti e con pistole e pugnali in ogni tasca degli abiti. Osservavano la scena, sondando con gli occhi ogni movimento e prevedendo ogni minaccia, quasi come degli avvoltoi, seguendo nello stesso momento il filo del discorso. Per la mente non avevano altri pensieri oltre la riunione, nemmeno Thatch, il quale, di problemi con cui intrattenersi, ne aveva fin troppi, ma li aveva comunque accantonati per bene. Alcuni uomini vicino a loro gli gettavano qualche occhiata diffidente, non intenzionati però ad attaccar briga, date le espressioni truci e di ghiaccio che sfoggiavano.
Accanto a Kaido, Big Mom ascoltava e, di tanto in tanto, annuiva convinta o negava con il capo, dando qualche dritta alle varie proposte e correggendole dove sembravano ambigue o incomplete. Comunque, era certamente la più calma e la meno impicciona.
Shanks, invece, continuava ad avere l’aria stanca e stressata, ma, fortunatamente, aveva con sé Benn, Yasop e altri suoi compagni pronti a sostenerlo e a passargli bicchieri di alcool ogni volta che ne aveva bisogno.
Allo spettacolo, oltre che ad un alto numero di volontari, erano presenti anche Ace e Sabo, i quali erano a capo di un gruppetto di giovanotti pronti ad entrare in azione in ogni momento. I due erano sempre stati bravi ad incitare e animare la folla, sapevano dare un motivo valido a chiunque per spronare la gente a credere nei propri diritti, per quello, quando avevano ricevuto l’incarico da Shanks nell’arruolare nei ranghi gente con degli obbiettivi da portare a termine, nessuno aveva avuto nulla da ridire.
Sabo seguiva la discussione con concentrazione. Era sempre stato un tipo molto carismatico e propenso al dialogo e, se fosse nato nobile, probabilmente non avrebbe faticato a diventare un politico o un ministro. Grazie al Cielo, come diceva sempre lui, ciò non era accaduto e poteva vivere tranquillo e in pace con se stesso.
Teneva gli occhi fissi sul pezzo di carta che riassumeva ogni punto importante della riunione e nel frattempo formulava varie ipotesi o possibili richieste da esporre. Le labbra serrate, i capelli scostati dalla fronte e le maniche della camicia arrotolate sui gomiti per il troppo caldo. Niente lo interessava più di quella causa.
Ace, al contrario, aveva seguito il chiacchiericcio fino ad un certo punto, poi si era inevitabilmente perso per strada. Aveva sempre preferito i fatti alle parole e, sebbene capisse che tutto ciò fosse necessario, si stava annoiando a morte, oltre che ad avere un forte prurito alle mani.
Si, perché, da quando avevano discusso, tra lui e Marco le cose erano crollate e, se prima, antipatia a parte, c’era stato una lieve capacità di sopportarsi, dopo il casino successo nel locale di Dadan, i rapporti si erano spezzati definitivamente. Quando aveva rimesso piede all’accampamento, dopo che Sabo gli aveva riferito che Thatch non gli faceva nessuna colpa e lo riteneva un amico, il biondo si era comportato come se lui non esistesse. Gli aveva fatto intendere con un’occhiata micidiale che la sua presenza era indifferente e da allora non si erano più parlati, nemmeno per maledirsi o minacciarsi.
A lui andava benissimo, almeno non doveva sprecare fiato con un idiota, però la questione gli faceva fremere ogni fibra del corpo, non sopportava l’idea di non aver avuto l’ultima parola in capitolo perché Marco doveva sempre essere superiore a lui. Odiava vederlo così calmo e padrone di se stesso e sapere che a lui non interessava proprio niente di quello che aveva da dirgli lo mandava in bestia. Gli aveva praticamente sbattuto la porta in faccia dopo averlo minacciato e si comportava come se nulla fosse accaduto. Non aveva neanche più ricevuto uno sguardo torvo, un insulto, niente. Era diventato invisibile. Nemmeno quella sera, quando erano arrivati, non aveva fatto nessun cenno verso di lui. Thatch e gli altri lo avevano salutato come al solito, trattandolo come un loro pari, come uno di famiglia praticamente, anche se si sentiva strano a pensarci, invece Marco era rimasto apatico e impassibile. Si era solo scomodato a salutare Sabo e forse Shanks, perché, sotto, sotto, lo rispettava e si fidava un po’ di lui, poi nient’altro.
Lo odiava e detestava il fatto di perdere tempo pensando a quel bastardo che, oltretutto, non si sprecava nemmeno a fingere che la causa francese gli interessasse. Ne era certo, per lui potevano morire tutti.
Sbuffando infastidito, anche per il discorso che Sabo pareva essersi dimenticato di lui, si alzò dalla sedia e prese a camminare, seppur lentamente perché era pieno di gente, li attorno, decidendo infine, quando il caldo era diventato insopportabile, di uscire all’aperto, magari per dare il cambio a qualcuno che stava di guardia. Tanto era certo che si sarebbero arrangiati anche senza di lui. Alla fine, quello che gli premeva, era avere un piano d’azione da seguire e da mettere in pratica perché, di starsene senza niente da fare era veramente stanco.
Sabo, infatti, non si rese neanche conto dell’assenza del fratello, e continuò ad ascoltare con attenzione il dibattito tra gli Imperatori.
-Dovremo essere molto più convincenti di così.- stava affermando Shanks, spossato. Di quel passo non sarebbero arrivati da nessuna parte.
-Con il voto per testa non avremo nessun problema.- decretò Kaido con un cipiglio serio e impenetrabile.
Shanks sorrise beffardo e per niente sollevato. -Ti ricordo che il Re ha acconsentito a raddoppiare i deputati del Terzo Stato, ma riguardo il voto non si è espresso.-
Kaido rimase in silenzio per qualche secondo prima di ribattere, un po’ meno convinto delle sue stesse parole. -Non potrà negarcelo, si metterebbe nei guai da solo.-
Eppure, Shanks non era così sicuro che tutto sarebbe stato facile. Da anni stavano lottando per dei cambiamenti e non avevano mai risolto granché. Sperava solo che tutti quegli sforzi, un giorno, sarebbero seguiti a qualcosa.
-In ogni caso, domani vedremo come si evolverà la situazione e decideremo il da farsi. Speriamo solo che si parli di questioni inerenti ai problemi sociali e non solo finanziari.- disse Big Mom, chiudendo la questione e ricordando a tutti che, ormai, era notte inoltrata e l’ora dei conti si avvicinava sempre più.
-D’accordo.- sospirò il Rosso, passandosi una mano tra i capelli per ravvivarli e togliersi di dosso il torpore che sentiva su tutto il corpo. Quella riunione era stata asfissiante. -Dobbiamo solo decidere chi si presenterà domani a Versailles.-
Nella sala corse un brusio concitato, ma nessuno osò esprimersi in merito.
-Ovviamente noi non possiamo esporci troppo, altrimenti addio copertura e informazioni sui movimenti della Corona.- chiarì Kaido, rendendo subito noto che lui non avrebbe rischiato, compresa la donna accanto a lui.
Shanks se l’era aspettato, ma non aveva niente da ridire, dopotutto le informazioni che i due nobili gli passavano erano molto specifiche e troppo preziose per gettarle al vento, chiedendo ai due amici di mettersi in prima fila per sostenere la causa. Sarebbe andato lui, ma girava già voce che lo stessero cercando e meno si faceva vedere in giro, meglio era. Doveva quindi affidare l’incarico a qualcun altro, purtroppo.
-Manda me.- fece ad un tratto una voce decisa alle sue spalle che lo fece sorridere orgoglioso. Quel ragazzo era davvero imprevedibile, a volte, ma andava fiero del suo comportamento sempre disponibile a tutto, pronto a prendersi sulle spalle ogni responsabilità, nonostante l’età giovanissima.
-Sabo,- disse in modo paterno, voltandosi verso di lui e leggendo nei suoi occhi la determinazione e la voglia di mettersi in gioco. -Ne abbiamo già parlato.-
-Ma posso farcela, lo sai!- si animò il biondo, facendosi largo fino al tavolo sotto lo sguardo di tutti, -Conosco la legge, i vari mandati, tutto. Sicuramente sarei utile per…-
-Sabo.- ripeté Shanks con più vigore, facendosi serio e alzando una mano per mettere fine a quella richiesta troppo avventata. -Apprezzo il gesto, ma basta così.-
Lo vide sospirare per poi allontanarsi senza dire altro, deluso per non essere riuscito a fare di meglio. Capiva che era giovane e che era presto per essere preso in considerazione, ma se mai cominciava, mai avrebbe imparato, accidenti.
Stringendo i pugni a recuperando la sua giacca, raggiunse l’uscita, lasciando che decidessero da soli il da farsi, visto che la sua presenza non era più richiesta.
All’aperto, una folata di vento fresco notturno gli servì per schiarirsi le idee e per risollevarsi d’animo, decidendo che, molto presto, avrebbe dimostrato a tutti quanto valeva e quanto era bravo. Sapeva di esserne in grado, doveva solo pazientare.
-Sentiamo, hai finito di fare il sapientone?- lo schernì una voce ironica che riconobbe all’istante e che gli accese una scintilla all’interno. Ace era sempre stato capace di risvegliare la sua vena sarcastica e ogni scusa era buona per punzecchiarsi a vicenda, sebbene con affetto.
-Almeno io ci capisco qualcosa in fatto di politica.- lo derise, voltandosi a sinistra e trovando il fratello appollaiato su un mausoleo che aveva visto giorni migliori. -A proposito, lo sai che stai profanando una tomba?- gli chiese poi, riferendosi al fatto che Ace fosse stravaccato comodamente sul marmo.
Il moro fece spallucce, sollevando il busto e appoggiandosi sui gomiti. -Morto per morto.- disse, inclinando il capo e guardandolo con un sopracciglio inarcato e un sorrisetto sfacciato. Quello era lo sguardo enigmatico di Ace che Sabo non riusciva mai a decifrare. Sapeva solo che, quando appariva su quel viso lentigginoso, era sinonimo di guai in arrivo.
-Quindi? Cosa hanno deciso di fare?- gli domandò invece, cogliendolo impreparato e lasciando da parte le sciocchezze che aveva avuto intenzione di dire.
Sabo allora sospirò con aria sconfortata, raggiungendolo e sedendosi ai piedi della lapide, prendendosi la testa fra le mani e iniziando a borbottare una risposta. -Non mi lasceranno fare le veci di Shanks.- confessò abbattuto. -Sono troppo giovane per loro. E inesperto. Seriamente, Ace, ti sembro un citrullo, per caso?- chiese, animandosi alla battuta finale e sollevando il capo verso l’alto per incontrare gli occhi neri del fratello fissi su di lui. -Sono preparato, ho studiato tutto ciò che riguarda la situazione economica e politica della Francia, conosco a memoria ogni sfaccettatura dei doveri che riguardano Clero, Nobiltà e Popolo e so quali sono i punti ambigui su cui possiamo fare leva.- affermò con furore, scattando in piedi e prendendo a camminare nervosamente li attorno, gesticolando con le mani. -Perché ancora non basta? Io sono in grado di farlo, dannazione!- sbottò, fermandosi e battendo un piede a terra.
-Secondo me, Shanks non vuole farti bruciare le tappe.- ipotizzò a quel punto Ace, rilassandosi contro la pietra fredda della tomba, prendendo a giocherellare con un rametto secco di una composizione floreale appassita. -E forse non ha tutti i torti.-
-Si può sapere da che parte stai?- gli chiese acidamente Sabo, assottigliando lo sguardo e osservandolo mentre sospirava prima di saltare giù con agilità per avvicinarsi fino ad essere faccia a faccia con lui. Poi gli sorrise allegramente, posandogli una mano sulla spalla e stringendola impercettibilmente per fargli capire che non era da solo in quella storia.
-Dalla tua, è ovvio.- gli spiegò, -E sono certo che molto presto avrai la tua occasione per dimostrare a tutti quanto vali. Io lo so, fratello.-
Il petto di Sabo parve contorcersi al suono di quelle parole. Se doveva essere sincero, l’unico ad avere un animo valoroso era Ace. Lui era sempre così coraggioso e privo di paure. Se una cosa si faceva complicata non si fermava a chiedersi come e perché, ma andava avanti con i suoi propositi, anche a costo di sbattere la testa mille volte prima di raggiungere i suoi obbiettivi. A molti poteva sembrare impulsivo e troppo incauto, ma Sabo, che lo conosceva da sempre, sapeva che il ragazzo altro non era che un eroe. Il suo, quello di Rufy e di molti altri giovanotti adolescenti che lo prendevano come esempio, desiderosi di diventare come lui, un giorno. Ace era quello e molto di più. Era parte della sua vita e della sua famiglia, era suo fratello per scelta e, anche se non avevano alcun legame di sangue, gli voleva un bene infinito. Poteva contare su di lui, sempre, perché Ace lo sosteneva in ogni momento e lo trattava come se fosse stato lui il migliore. Ma a Sabo non interessava essere superiore a nessuno. Tra lui e i suoi fratelli non c’era nessun tipo di invidia o contrasto, erano alla pari. E lui li amava entrambi in un modo difficile da spiegare. Sapeva solo che erano importanti e che per niente al mondo avrebbe voluto perderli.
-Ti ringrazio.- fece, già più tranquillo e sollevato, coprendo con la sua mano quella di Ace e sorridendogli di rimando.
-Forza, torniamocene a casa adesso. Ho proprio sonno.-
-Si, domani sarà una lunga giornata.- concordò il biondo, avviandosi verso l’uscita del cimitero con Ace al suo fianco, allegro e spensierato come sempre.
-Ehi, cosa ne dici se chiedessi a Law di aiutarmi a fare degli spaventapasseri dissotterrando i nostri amici sotto le tombe?- domandò ad un tratto il moro, guardandosi attorno con curiosità, riflettendo se la cosa potesse essere fattibile o meno.
-Insomma, Ace! Un po’ di rispetto per i morti!- lo riprese Sabo, dandogli uno scappellotto sulla nuca e facendolo ridacchiare. -Di questo passo, quando entrerai in chiesa l’acqua santa inizierà a bollire, poco ma sicuro!-
 
*
 
Guardò la ragazza prendere un respiro profondo, mentre cercava dentro di sé la concentrazione e la calma necessaria per compiere quel passo difficile e che richiedeva un enorme capacità di equilibrio, oltre che a una vasta esperienza alle spalle. Lui non ne era sprovvisto, affatto, ma, anche se lei aveva iniziato ad allenarsi seriamente da più di un mese, aveva comunque fatto grossi progressi.
Rimase al limitare della stanza, rasente la parete per lasciarle più spazio, osservando se le braccia erano abbastanza rilassate e se le spalle erano dritte e non gobbe; cercava con lo sguardo il minimo difetto per riprenderla e per spronarla a migliorarsi. Non erano ammessi errori, doveva essere perfetta quando combatteva. Quella della spada era un’arte che non aveva nulla da invidiare alla pittura, alla danza, al canto e a tutte quelle doti che spesso le persone si vantavano di avere. Era un qualcosa che pochi erano in grado di fare con eleganza, per quello si era rivelato un insegnante pignolo e poco propenso ad elargire complimenti e incitazioni.
Il cuore non aumentò il suo ritmo quando Perona mosse il primo passo di quella danza, avanzando leggera, con la mente sgombera da ogni cosa, concentrata solo nel compiere al meglio i movimenti. Non trattenne il fiato, Mihawk, quando il primo fendente, caricato da una precedente piroetta, tagliò l’aria, portando l’eco del fruscio con sé e non sgranò gli occhi quando, dopo altre due giravolte, la principessa abbatté il suo colpo su di un manichino, tranciandolo da una spalla fino al petto. L’unica cosa che fece, fu rimanere immobile e in silenzio, sempre con il suo cipiglio serio e per niente toccato. Dentro di sé, però, una piccola fiammella di orgoglio si accese, rendendolo quasi fiero dell’ottimo lavoro svolto dalla ragazza. Non poteva negare che non ci avesse messo l’anima in quei giorni passati a tirare di scherma, cadendo mille volte a terra e rialzandosi sempre, incassando i suoi colpi e uscendone spesso con lividi che poi doveva nascondere sotto le gonne e i merletti per non destare sospetti. Era stata brava, quello poteva concederglielo.
Perona, ancora incredula per essere riuscita a compiere quel movimento che tante volte aveva sognato di fare, lasciò cadere a terra la spada dopo aver osservato il suo operato e i brandelli del manichino ai suoi piedi, voltandosi verso lo spadaccino con l’ombra di un sorriso sul volto che pareva diventare sempre più ampio ogni secondo che passava. Non fece caso all’espressione immutata dell’uomo che la guardava come se fosse impazzita, non si preoccupò nemmeno di contenersi ed esplose in un urlo di gioia, saltellando sul posto e stringendo i pugni al petto, sentendosi fiera di sé. Ci era riuscita, aveva imparato un sacco di attacchi e quello che più le premeva in pochissimo tempo. Aveva sputato sangue per farcela, ma alla fine ne era valsa la pena.
Con la coda dell’occhio intravide Mihawk scuotere il capo, silenzioso. Lui stava pensando che esaltarsi fosse inutile, dopotutto aveva imparato un affondo di secondo livello, non chissà che cosa, ma per la ragazzina quello era un traguardo importante. Finalmente aveva fatto qualcosa unicamente per lei, deciso da lei e voluto solo da lei, senza costrizioni o obblighi. E la cosa la faceva sentire incredibilmente bene, tanto che si sentiva allegra come non lo era da tempo.
E, conscia che parte di quel benessere lo doveva solo a lui, mise da parte le regole che decretavano il comportamento di una principessa di alto lignaggio e lo raggiunse, fermandosi a pochi passi e regalandogli un sorriso solare ed entusiasta che, per un mero istante, lo spiazzò.
Perona non aveva mai sorriso in quel modo, anzi, forse non aveva proprio mai sorriso veramente, come una persona felice e tranquilla. Era sempre stata distaccata, circospetta e anche un po’ altezzosa, all’inizio, ma da quando aveva preso ad allenarla, si era aperta sempre di più, mostrandogli senza rendersene conto la sua vera personalità, quella di una ragazza determinata, forte, un po’ cocciuta e desiderosa di vivere pienamente la vita, senza sbarre che la tenessero imprigionata in una stanza, a guardare lo scorrere del tempo da una finestra.
-Vi ringrazio immensamente.- disse Perona, distogliendolo dai suoi pensieri e porgendogli educatamente la mano. -Avete fatto così tanto per me.-
Mihawk, non preparato a tutti quei ringraziamenti, si prese un momento per riflettere, portandosi nel frattempo alle labbra le nocche della ragazza per depositarvi un leggero bacio, come dettavano le usanze dell’epoca. Un gesto di rispetto e per nulla esagerato, qualcosa che aveva fatto mille volte, ma che mai gli aveva lasciato dentro la voglia di continuare, così come a Perona mai aveva fatto venire i brividi sulla schiena.
Ruppe subito il contatto, schiarendosi la voce. -Non ringraziatemi, Principessa.-
-Ma non eravate costretto.- affermò lei, torturandosi le dita e sfiorandosi inconsapevolmente il dorso della mano che le pareva rovente. -Come posso sdebitarmi con voi?-
Mihawk non rispose. Non sapeva cosa dire e, sinceramente, non capiva nemmeno cosa dovesse fare in particolare in una circostanza come quella. Insomma, una principessa, e non una qualsiasi, ma la Principessa della Francia, gli stava dicendo che era in debito con lui, un mercenario, un uomo che della legge se ne curava poco e che pensava solo al benessere suo e di quello della gente che stava alle sue dipendenze a casa, nella sua terra, dove sperava che la guerra non arrivasse mai. Poteva chiederle di tutto, dal denaro alla fama, ma non gli importava nulla di ciò. Non gli serviva niente. Aveva ricchezze, terreni, un buon nome e una vita tranquilla, perciò cosa poteva mai offrirgli che lui già non possedesse?
-Ditemi, posso darvi qualsiasi cosa.- riprovò lei, schiudendo le labbra e incurvandole per dare forma ad un altro piccolo sorriso, sperando di convincerlo, e lo fece in un modo così innocente e carico di aspettative che Mihawk per un attimo si sentì vacillare. Forse fu per la sincerità della richiesta, forse fu l’attimo in cui i suoi occhi vacillarono sulla bocca della ragazza, in ogni caso si ritrovò a rispondere a quella domanda senza nemmeno rendersene conto.
-Datemi del tu.- disse pacato, nascondendo alla perfezione il momento di sbandamento che lo aveva colto, -Ormai penso che non sia un problema dopo tutti gli allenamenti passati.-
Perona sbatté le palpebre con stupore, fissandolo incredula. -Sul serio? Solamente questo?- domandò nuovamente. Le sembrava così assurdo che non le chiedesse oro, gioielli, informazioni sulle finanze e sullo stato, insomma, qualcosa di materiale.
-E cos’altro dovrei volere?- fece allora Mihawk, inclinando il capo e avvicinandosi di un passo, coprendo le distanze che li separavano.
-Non saprei.- esclamò lei, sentendosi vagamente in imbarazzo. Credeva di essersi abituata alla sua vicinanza, dato che durante gli scontri si ritrovava spesso in un angolo con lui addosso e una lama affilata puntata alla gola, ma, evidentemente, si era sbagliata.
Sospirò, cercando di indietreggiare, ma non ci riuscì perché sentì la mano di Mihawk afferrarle gentilmente un polso senza alcuna pretesa. Le venne la pelle d’oca e incrociò il suo sguardo, sentendosi quasi con le spalle al muro. Gli occhi di lui la guardavano con una luce strana che non aveva mai notato e non le parevano più tanto minacciosi come la prima volta che li aveva visti. A dire la verità, le piacevano.
-In ogni caso, non potreste darmi quello che desidero, Principessa.- lo sentì mormorare.
Perona smise di respirare, ghiacciata sul posto. Lui continuava a guardarla intensamente e si era fatto ancora più vicino, troppo forse, ma non riusciva a provare disagio. Non si sentiva male come quando presenziava alle feste che venivano organizzate a Corte, dove tutte le persone la circondavano e le toglievano l’aria. Non si sentiva stretta.
-E che cosa vuoi?- gli domandò in un sussurro, dandogli inconsciamente del tu, come le aveva chiesto.
Si sentiva strana, con le gambe molli e il cuore che batteva più velocemente del normale. Forse era l’effetto dell’allenamento, o la felicità per essere riuscita dove spesso aveva fallito, ma smise di pensarci perché non le importava trovare una definizione a quel suo stato d’animo. Nulla era importante con Mihawk così dannatamente vicino.
Lo spadaccino indugiò un secondo sulle sue labbra, ma alla fine sospirò, solleticandole la pelle del viso e lasciando andare la presa, allontanandosi lui stesso e lasciando che i polmoni della principessa si riempissero nuovamente di ossigeno.
-Che la rivolta finisca presto così da poter tornare a casa, ma so che è impossibile.- rispose, lasciando Perona allibita e senza parole.
Lei, allora, lasciò uscire l’aria che aveva trattenuto, ricomponendosi e cercando di darsi un contegno, facendo sparire il rossore che sicuramente le era salito alle guance, sistemandosi con imbarazzo una ciocca di capelli rosa. Non le sfuggì, però, il sorrisetto beffardo di Mihawk, il quale si allontanò con finta indifferenza, diretto a recuperare il suo mantello che, come sempre, aveva messo da parte durante il combattimento.
C’era stato un momento in cui aveva quasi ceduto all’istinto, ma si era trattato solo di un istante fortunatamente controllato e passato. Non poteva permettersi tali confidenze e, soprattutto, non avrebbe mai potuto chiedere alla principessa, una mocciosa per giunta, quello che gli era passato per la testa come un fulmine. Non era contemplato a quei tempi e non era certo che il Re lo avesse tenuto ancora nelle sue simpatie se avesse saputo che aveva iniziato a corteggiare sua figlia.
Sorrise, abbottonandosi i polsini della camicia che aveva arrotolato sui gomiti. Sinceramente, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere la faccia del Sovrano davanti ad una notizia simile.
-Domani ci vediamo?- si sentì domandare inaspettatamente, voltando di qualche centimetro la testa e trovando Perona in piedi accanto a lui, con le braccia incrociate sotto al seno e l’espressione decisa e vagamente altezzosa. Quella non era sparita del tutto, a quanto pareva.
-Dovremo?-
La vide accigliarsi prima di riprendere la parola. -Perché no?-
-Avete imparato quello che volevate, non vedo il motivo di continuare.- dichiarò Mihawk, afferrando il suo cappello e dirigendosi verso l’uscita, gettandole un’occhiata e un sorriso obliquo mentre la sorpassava. Era stato tentato a provocarla con una spallata e lo avrebbe fatto se non avesse temuto di farla finire a terra. Doveva andarci paino e ricordarsi che era pur sempre una mocciosa.
-Voglio imparare di più.- affermò lei. -Voglio allenarmi ancora.- ripeté più decisa, quando lo vide fermarsi a metà strada. Non poteva permettersi di fermarsi proprio sul più bello. Da un po’ le cose stavano migliorando, si svegliava più contenta e col sorriso, le giornate non erano più tanto grigie e tristi e tutto le sembrava più bello e meno pesante da sopportare. Persino i suoi fratellastri le risultavano sopportabili. E poi, anche se non lo avrebbe ammesso mai, nemmeno a se stessa, non voleva rinunciare a quel paio d’ore che passava in sua compagnia ogni giorno. Erano diventate una routine, un qualcosa di normale e che sentiva come suo.
-Per favore.- riprovò, mettendo da parte l’orgoglio e abbassandosi ad essere umile per una volta. Stava imparando così tante cose e sentiva che ciò era utile anche alla sua personalità. Si sentiva meno bambina e meno antipatica verso i servitori e la gente che la circondava. Inoltre, cosa da non dimenticare e che la faceva sospirare sempre più spesso, era il fatto che, con Mihawk, si sentiva più donna.
Lui sospirò, chiudendo gli occhi e riprendendo a camminare, raggiungendo l’uscita. Solo allora si voltò a guardarla, trovandola impaziente e speranzosa di non ricevere un no come risposta. E chi era lui per negare un desiderio ad una reale?
-A domani allora, Vostra Grazia.- disse, trattenendo a stento un sorriso. A tutto c’era un limite e lui aveva anche una reputazione da mantenere.
-Perona.-
-Come, prego?-
-Possiamo darci del tu.- fece lei. -Dopo tutti gli allenamenti, penso che non sia un problema.- lo citò, ammiccando con fare civettuolo. Quello, doveva ammetterlo, le riusciva alla perfezione e l’imbarazzo che lasciò Mihawk in silenzio per troppi secondi prima che se ne andasse lasciandola da sola ne fu la prova.
Sorrise trionfante. Avere l’ultima parola la divertiva da matti.
 
*
 
Quella sera, nel locale di Montmartre, i rumori prodotti dai musicisti, misti a quelli di bicchieri rotti, vetri infranti, chiacchiericcio e grasse risate si riversava fino in strada, impedendo ai proprietari delle catapecchie vicine di riposare in pace.
In mezzo al via vai di ubriaconi, gente con loschi affari tra le mani, signore in abiti succinti e varie risse in corso, al centro del palco si stava esibendo una bellissima donna dai lunghi capelli neri e dalle movenze attraenti, leggiadra e delicata come un fiore appena sbocciato, che ammaliava più di metà sala, attirando su di sé sguardi meravigliati, sospiri di cuori infranti e desideri impossibili da esaudire.
Tutti guardavano con la consapevolezza di non poter toccare, con il rischio di incappare nelle ire della proprietaria che, in quel momento, si trovava al bancone di servizio con Nami, intenta a contare gli spiccioli e le banconote ricavate dall’apertura fino a quel momento. Una regola da lei imposta e che non poteva venire infranta riguardava il volere e le decisioni delle sue protette, ovvero coloro che si risparmiavano di compiacere gli uomini non dovevano venire importunate o altro. Di donne disinibite e ben disposte ne erano piene le stanze, perciò per Dadan era inammissibile che qualche povero idiota e balordo pretendesse di avere anche ciò che era proibito.
Per quello Nico Robin si sentiva libera di potersi esibire senza correre dei rischi, volteggiando e muovendo sensuale i fianchi, permettendosi un piccolo sorriso nel vedere che in molti la apprezzavano. Non lo faceva con malizia, a lei piaceva davvero ballare e Dadan le dava la possibilità di poter esprimere se stessa e la sua passione, pagandola oltretutto, dato che faceva anche da balia ai marmocchi, figli di nessuno, che gironzolavano sotto ai tavoli con l’intento di svuotare le tasche a chi era troppo ubriaco. Un gioco che aveva insegnato loro Nami, esperta in materia.
La melodia arrivò al termine e lei concluse il suo spettacolo sotto un coro di fischi di apprezzamento, applausi e richieste di vario genere che ignorò bellamente, dando le spalle al pubblico dopo aver fatto un modesto inchino e recandosi dietro le quinte, stanca e desiderosa di fare una pausa. Stava ballando da ore ormai, visto e considerato che tutte le altre sue colleghe erano sparite al piano superiore a guadagnarsi la paga facendo il loro lavoro, ma nessuno avrebbe obbiettato se per una mezz’oretta se ne sarebbe stata tranquilla.
Indossò una camicia blu più coprente di quella che aveva addosso e una gonna lunga che le celava interamente le gambe snelle, uscendo poi nel salone con l’intenzione di nascondersi in cucina per mettere qualcosa sotto ai denti e vedere come se la stava cavando Bonney con le ordinazioni.
Camminò rasente la parete con la speranza di passare inosservata ma, giusto quando era a pochi passi dal raggiungere il bancone, una figura vestita di nero le si parò di fronte, sbarrandole la strada e obbligandola a fermarsi, sollevando il capo per capire di chi si trattasse.
Era un uomo alto e ben vestito, con dei capelli raccolti in una coda bassa e il viso ben curato, sicuramente un nobile o un borghese dati gli abiti eleganti. Osservandolo meglio, si rese conto di averlo già intravvisto da quelle parti, spesso seduto in un angolo a guardare i vari spettacoli e a scolarsi una bottiglia di buon vino d’annata. Non aveva mai passato la notte da loro e mai lo aveva visto conversare con qualcuna delle ragazze. Ad essere sincera, la cosa la inquietava un poco perché spesso aveva notato il suo sguardo verso di lei, quando ballava, ma non gli aveva dato peso in precedenza, credendolo uno di quelli a cui piaceva stare a guardare senza agire.
Prese in considerazione l’opportunità di essersi sbagliata quando lui le fece un baciamano, presentandosi con il nome di Rob Lucci, un Duca a quanto pareva.
-E’ da molto che vi osservo, Mademoiselle.- le disse con un sorriso sbilenco sulle labbra sottili, -E mi domandavo se mi concedereste l’onore di passare del tempo in vostra compagnia.-
Robin rimase impassibile, abituata a certe avances e ben in grado di declinare l’offerta senza rischiare di ferire l’animo fin troppo orgoglioso che avevano certi uomini.
-Scusatemi, Monsieur, ma non sono disponibile.- disse, sorridendogli affabile, un gesto del tutto calcolato, -Posso comunque presentarvi una persona che…-
Rob Lucci rise sommessamente, interrompendola e non lasciandole finire la frase. Sapeva bene che lei non era lì per fare la prostituta, ma a lui non importava nulla di quello che fosse disposta a fare o no e, sinceramente, se ne infischiava anche delle regole stabilite da quella donnaccia che dirigeva la baracca. Lui aveva deciso che voleva avere quella donna per sé, punto. E, con le buone o con le cattive, se la sarebbe presa.
Le afferrò il polso che prima aveva sfiorato con delicatezza, attirandola verso di sé con uno strattone e facendole male volontariamente, abbassandosi sul suo viso per sussurrarle quello che aveva intenzione di fare.
-Ora tu verrai con me e mi obbedirai, chiaro?- fece sibilando, mentre Robin cercava di allontanarsi, picchiando un pugno sul petto dell’uomo che pareva non risentire dei suoi colpi.
Non aveva nessuna intenzione di seguirlo e di sottostare a lui, lei era una donna forte e indipendente e, quando aveva detto che non era disponibile, intendeva sia per il lavoro, sia sentimentalmente.
Usando il tacco delle sue scarpette, gli pestò un piede, riuscendo a liberarsi dalla sua presa e dandogli le spalle per correre via, ma non si allontanò abbastanza perché l’uomo riuscì a riacciuffarla, facendola cozzare contro il suo petto e portando una mano a stringerle la base della gola.
-Tu, lurida sgualdrina.- disse con rabbia, alzando una mano per tirarle un sonoro schiaffo.
-Non lo farei se fossi in te.- gli intimò qualcuno alle sue spalle e, nonostante la musica alta e il casino lì attorno, riconobbe facilmente il rumore di un grilletto che caricava un colpo in canna di una pistola. Solo allora si decise a mollare la presa su Robin, lasciando che si appoggiasse alla parete tossendo e riprendendo fiato. Sentì una punta di fastidio e di gelosia quando poi la vide sollevare il capo e guardare con quei grandi occhi azzurri la persona alle sue spalle. In quello sguardo vi legge benissimo la gratitudine e l’affetto che la legavano a quell’uomo.
Rob Lucci sollevò le mani in segno di resa, voltandosi lentamente per vedere chi fosse così fortunato da avere tra le mani una donna così magnifica e il suo orgoglio venne ferito non appena adocchiò gli abiti stracciati e di seconda mano, la barba e incolta e i capelli spettinati, gli stivali bucati e delle lenti spesse e scure sugli occhi. Com’era possibile che un poveraccio avesse avuto più successo di lui? Avrebbe potuto offrirle una casa accogliente, denaro, prestigio, invece quella sciocca pareva essere innamorata di quello scarto.
-Non lo sa che è maleducazione interrompere due persone durante una conversazione?- fece sfrontato, deciso a non andarsene senza prima essersi preso una rivincita su quella feccia.
-Se non te ne fossi accorto, io non sono affatto un gentiluomo.- rispose a tono Franky, rinfoderando la pistola, ma non smettendo di fulminare con ogni fibra del suo corpo quel damerino che aveva osato trattare Robin in quel modo. Come si era permesso di alzare le mani su di lei?
-Calmati, amico, penso che ce ne sia abbastanza per tutti e due.-
Il Duca non aveva proprio capito che non era il caso di scherzare in quella situazione e battute sulla virtù di Robin avrebbe dovuto risparmiarsele, ma non fu abbastanza furbo e il pugno che ricevette da Franky in quell’esatto istante lo fece finire a terra dolorante e con il setto nasale rotto. Sicuramente, ci avrebbe ripensato mille volte prima di rimettere piede nei bassifondi di Montmartre.
Il carpentiere gli si accovacciò accanto, togliendosi gli occhiali per guardarlo dritto negli occhi. -Prova a toccare ancora la mia donna e giuro che ti uccido a suo di pugni.- lo minacciò, tirandolo poi in piedi con malo modo e spingendolo lontano, più precisamente verso l’uscita con la speranza di non rivederlo mai più.
-Franky.- si sentì chiamare, girandosi verso la ragazza e sorridendole contento, ignorando la sua espressione seria. -Lo sai che non dovresti inimicarti i nobili. Quello potrebbe denunciarti.- lo riprese, sentendosi in dovere di metterlo in guardia costantemente.
Lui non ci badò e si avvicinò fino a poterle accarezzare dolcemente una guancia, sollevando il pollice con l’altra mano per tranquillizzarla e farle capire che andava tutto bene. -So badare a me stesso.- le ricordò ammiccando.
Robin sospirò, scuotendo il capo, ma decidendo che era meglio lasciare perdere e pregare che tutto andasse bene. Così sorrise a Franky, lasciando che la baciasse senza scostarsi, dimentica che a Dadan la cosa non andava a genio perché, a detta della donna, lui non era abbastanza ricco. A lei, però, non importava. Lui la faceva ridere e la trattava con rispetto, senza forzarla o chiederle mai niente e, la prima volta che si erano incontrati, era rimasta colpita dal suo comportamento galante. Non l’aveva fissata come gli altri uomini, i quali parevano spogliarla con gli occhi, al contrario era rimasto affascinato dal suo talento, come le aveva rivelato successivamente, conquistandola. Stranezze a parte, era un uomo buono che le voleva bene davvero e a lei bastava, era tutto ciò che potesse desiderare.
Intanto, in cucina, Bonney stava totalmente dando di matto. Pareva che quella sera tutti i francesi avessero deciso di andare a svagarsi da quelle parti, costringendola a cucinare quantità incredibili di cibo e pietanze varie, privandola anche delle sue colleghe, tutte felici di andarsene a letto con degli sconosciuti.
Sbuffò esasperata, abbattendo in un moto di stizza un coltellaccio affilato sul tavolo, piantando la punta nel legno, e poggiando i palmi sul bordo, abbassando il capo con stanchezza. Stava raggiungendo il limite della sopportazione e, prima di commettere qualche disastro, decise di ricorrere al suo piano di scorta, prendendo dalla credenza un cartello e fissandolo poi alla porta della cucina, uscendo e chiudendo a chiave. Quello sarebbe servito ad avvisare tutti, Dadan compresa, che la cucina era chiusa per esaurimento scorte e tanti saluti. Non sarebbe morto nessuno di fame, in più era notte inoltrata, perciò la maggior parte del lavoro lo aveva svolto, ma pretendeva gli interessi per avere sgobbato da sola tutto il tempo.
-Bonney, che ci fai qui? Non dovresti essere in cucina?- le chiese Nami, quando se la ritrovò seduta al bancone come un cliente qualsiasi, con le dita che tamburellavano nervosamente sul ripiano e l’aria assassina. Intuì che doveva essere parecchio agitata, così, senza aspettare una risposta che sarebbe arrivata con una serie di bestemmie verso ignoti, le preparò un bicchiere di vino e lasciò che se lo scolasse di schiena, sospirando sollevata quando la vide calmarsi un poco.
Bonney le passò di nuovo il bicchiere. -Dammene un altro.-
-Ne sei sicura?-
Un’occhiata torva bastò alla rossa come affermazione e le lasciò la bottiglia direttamente, allontanandosi per servire un paio di uomini che erano appena arrivati.
La cuoca, rimasta sola con il suo liquore, si rigirò il vetro scheggiato tra le mani, mordicchiandosi le labbra pensierosa. Come aveva potuto finire in quel modo stancante la serata? Pareva quasi che il mondo si fosse messo d’accordo per farla sentire di cattivo umore.
Si prese la testa fra le mani e tentò di isolarsi dal frastuono che sentiva attorno a sé, cercando di controllare il nervosismo e la stanchezza, ripetendosi che andava tutto bene, che aveva lavorato in maniera impeccabile e che presto sarebbe andata a dormire. Stava funzionando quella tecnica, le palpebre le sembravano già meno pesanti e lo stress si era alleggerito, quando lo sgabello accanto al suo strisciò sul pavimento producendo un suono assordante che la fece irrigidire di nuovo.
Si voltò per lanciare fulmini e saette con lo sguardo, desiderosa di sgozzare come un animale l’idiota che aveva fatto quel casino, quando tutte le sue intenzioni crollarono alla vista del tizio che si era seduto vicino a lei.
-Una signorina come voi non dovrebbe bere certe bevande.- le fece notare l’uomo appena arrivato, vestito con abiti normali, all’apparenza stracci, con dei capelli rossi e spettinati in varie direzioni, come se qualcuno li avesse arruffati di proposito, e una benda con due fessure sugli occhi che celava parte del suo viso.
Bonney aggrottò la fronte infastidita da quel commento, pronta a rispondere a tono. -E un ufficiale come voi non dovrebbe frequentare certi posti.- ribatté con sarcasmo, sogghignando soddisfatta quando vide il nuovo arrivato stringere impercettibilmente i pugni adagiati sul bancone, nell’attesa di ordinare da bere. Cosa credeva, che non l’avrebbe riconosciuto?
Lui accennò un sorriso apatico. -Touché.-
-Non dimentico mai una faccia.- gli spiegò allora, alzandosi e saltando agilmente dall’altra parte del piano bar per prendere un bicchiere e servirlo al soldato, ritornando poi al suo posto con la stessa agilità e stappando la bottiglia.
Ignorò l’espressione sorpresa presente sul viso dell’uomo e gli versò da bere in silenzio, lasciandolo poi alle sue riflessioni mentre sorseggiava il suo liquore senza più aprire bocca, anzi, buttando giù tutto d’un fiato, guardando altrove.
Non si era aspettata di rivederlo, anche se ci aveva inconsciamente sperato. A dirla tutta, da quando l’aveva visto per la prima volta, non aveva fatto altro che affacciarsi alla finestrella della cucina tutte le sere per controllare se lui ci fosse o meno, ma ora che era lì non sapeva come interagire con lui. Cosa avrebbe potuto dirgli? Non era brava con i discorsi, soprattutto non sapeva come iniziare a parlare con gli uomini, cosa molto scomoda in quel momento. Con le ragazze era più facile, ma con loro non sapeva mai se fossero dei vili bastardi o se ci si potesse fidare. Poteva fare finta che davanti a lei ci fosse Ace, o Sabo, oppure Zoro, ancora meglio, con lui si faceva lunghe bevute, ma non ci riusciva perché, se solo provava a spiare di sottecchi quell’individuo, si sentiva andare a fuoco le guance, ma forse si trattava solo del vino.
Fu quell’ultima constatazione che le diede un’idea.
-Brindiamo?- propose, voltandosi sullo sgabello verso di lui e sollevando il bicchiere mezzo vuoto, attendendo una risposta.
Lo vide accigliarsi, ma non rifiutò. -E a cosa brindiamo?-
Lei si strinse nelle spalle, pensandoci su per un istante. -Ai travestimenti falliti miseramente.- lo prese in giro, senza sapere da dove le fosse uscita quella trovata ironica, abbozzando un sorrisetto divertito.
L’ufficiale non poté fare a meno di ridere sommessamente, nonostante il suo umore fosse pessimo.
Da un mese a quella parte il suo lavoro era diventato maledettamente pesante a causa delle continue riunioni degli Stati Generali che non riuscivano a trovare un accordo comune, come aveva predetto lui stesso fin dall’inizio. Il 5 di maggio, da quello che aveva capito, il Terzo Stato aveva appreso la notizia che la votazione si sarebbe svolta per ordine come in passato e non per testa, perciò il loro voto collettivo avrebbe pesato esattamente come quello di uno degli altri due stati. Nobiltà e Clero, ad ogni modo, non ne erano rimasti dispiaciuti, consapevoli che con l'utilizzo del voto per testa avrebbero perso più potere nei confronti del popolo. Ad ogni modo, anche se a lui i crucci dei cittadini interessavano poco, era certo che a Corte, il Re e i suoi ministri, stessero sottovalutando la situazione. Cercare di evitare le questioni riguardanti le rappresentanze politiche e focalizzandosi unicamente sui problemi finanziari, tra entrate e uscite di denaro pubblico, era stata, a detta sua, una pessima strategia che non aveva fruttato nulla di buono, se non ulteriori malcontenti. A sostenere la sua tesi, quando il Sovrano aveva ceduto alle richieste del Terzo Stato riferite al sistema di votazione, l’azione era stata vista e percepita da tutti come una concessione forzata, estorta alla monarchia, piuttosto che una decisione magnanima che avrebbe, ad onor del vero, convinto il popolo delle buone intenzioni e del cambiamento morale del Re.
Il 9 maggio, infatti, invece di affrontare la questione finanziaria come era stato richiesto, i tre Stati avevano iniziato a discutere sull'organizzazione della legislatura. I rappresentanti dei cittadini erano stati completamente unanimi nella decisione del voto per testa e si erano autoproclamati rappresentanti della Nazione. Drake lo aveva capito bene, anche prima dei suoi colleghi, che quello altro non era stato che un atto rivoluzionario. Finalmente, dopo uno stallo di un mese, le danze erano state riaperte con un'assemblea comune per verificare e stabilizzare i vari poteri. Infatti, il 17 di giugno, il Terzo Stato era diventato l'unico ordine con i poteri legalizzati e si era autodefinito Assemblea Nazionale con l'intento di identificare una riunione di tutto il popolo. La conclusione di quel mese di trattative e di vigilanza prestata nel luogo dell’incontro per prevenire intoppi di vario tipo era avvenuta quello stesso giorno, il 19 giugno, quando il Clero, grazie alla presenza di parroci sensibili ai problemi dei contadini, aveva votato a favore dell'unione all'Assemblea Nazionale, creando non poco stupore e scompiglio a Corte. Restava solo da attendere e vedere quale sarebbe stata la prossima mossa fatta dalla monarchia a quel punto della situazione e, se il suo sesto senso non si stava sbagliando, era certo che i nobili non avrebbero tardato a farsi avanti a spada tratta per difendere i loro diritti e le loro comodità.
Già lo immaginava il casino che avrebbe trovato l’indomani quando si sarebbe recato a lavoro e, se voleva essere schietto con se stesso, qualche risata non gli avrebbe fatto male, giovando invece alla sua salute.
-E sia.- acconsentì allora, dopo le sue riflessioni, facendo cozzare i calici e mandando giù l’alcool tutto d’un fiato senza staccare gli occhi da quelli della ragazza che, seduta di fronte a lui, lo imitò senza battere ciglio.
Certo che era davvero strano il suo comportamento, pareva quasi di avere a che fare con un giovanotto, tanto era sfacciata, ma si sentiva parecchio meglio e, per qualche attimo, merito del bruciore alla gola dovuto al liquore, aveva dimenticato i suoi problemi.
Al diavolo, pensò, per una sera posso prendermi una pausa dal lavoro.
-E ora?- le chiese all’improvviso, afferrando la bottiglia e aprendola per riempire nuovamente i bicchieri di entrambi. -A cosa brindiamo adesso?-
Bonney lo fissò per un istante presa alla sprovvista, ma alla fine sorrise, decidendo di cogliere la palla al balzo e approfittare dell’occasione per parlare con lui, una fortuna nella quale non aveva nemmeno osato sperare, timorosa di rimanerne delusa. Per una volta, una sola e unica volta, però, avrebbe potuto lasciarsi andare e godersi il momento, stando ovviamente attenta a non esagerare.
-All’allegria?- propose ingenuamente, ma a lui non sembrò dispiacere quella trovata.
-Mi sembra giusto.- concordò, -E ‘fanculo i brutti pensieri.-
Bonney rise di cuore, brindando nuovamente. -‘Fanculo tutto.-
 
*
 
Era passato più di un mese dall’inizio della Riunione degli Stati Generali e la tensione era palpabile nell’aria. Il clima di guerra si respirava in ogni angolo di Parigi e dintorni, persino nelle paludi e nelle terre vicine.
Erano stati bravi ad evitare scontri nelle strade o rivolte impreviste in quel lasso di tempo e, grazie al Cielo, la loro presenza e il loro aiuto non era stato richiesto più di tanto. Avevano, invece, solo dovuto tenersi pronti a qualsiasi evenienza, ma fino a che dovevano stare in allerta andava bene, almeno nessuno si sarebbe fatto troppo male.
Marco sospirò stanco, passandosi una mano sul viso assonnato e portandosi alle labbra la tazza piena di latte caldo che aveva retto tra le mani fino ad allora per scaldarle, prendendone una generosa sorsata per poi ritornare alla posizione precedente, ovvero lo sguardo assorto nel piccolo focolare che scoppiettava davanti a lui, le labbra dischiuse, le spalle rilassate e un po’ ricurve in avanti, le gambe piegate e leggermente divaricate di fronte a sé.
Stava ragionando sul da farsi, preparandosi a dover affrontare una battaglia che si faceva sempre più vicina mano a mano che i giorni passavano. Era vero, avevano avuto una fortuna sfacciata quei Rivoluzionari casinisti, ed erano stati anche bravi a mantenere la calma necessaria per arrivare fino a quel punto, ottenendo almeno il favore del Clero, ma era certo che non sarebbe durata a lungo. Prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti con il fatto che la sua famiglia avrebbe combattuto in strada contro gente che non aveva mai visto, rischiando la vita.
Da quando aveva dato il suo consenso non aveva mai smesso di pensarci, cercando inutili soluzioni o pianificando di legare Barbabianca e levare le tende da quel luogo, dirigendosi più a nord, o a sud, insomma, ovunque, fuori che nei pressi di Parigi. Volendo avrebbe potuto farlo, sapeva che la sua gente lo rispettava e lo considerava tanto quanto suo padre, ma come avrebbe potuto guardarlo ancora in faccia poi? Un ammutinamento, così lo avrebbe visto Newgate e, per quanto Marco desiderasse solo il meglio per la sua famiglia, sapeva che non avrebbe sopportato leggere negli occhi del vecchio la delusione per il suo gesto estremo.
Doveva accettare la situazione e fare il possibile per ridurre al minimo i risvolti negativi, nonostante il malumore che si era impossessato di lui da quando quella faccenda era iniziata e la tensione che l’attesa gli provocava. Era più forte di lui, proprio non riusciva a vederci niente di buono in tutto quello che stava accadendo.
-Posso disturbarti?-
Marco alzò gli occhi, scosso da quell’interruzione, e li fissò sulla ragazza che, avvolta in una coperta scura, stava in piedi accanto a lui chiedendogli con una muta richiesta il permesso di sedersi vicino al fuoco.
-E’ presto per il cambio turno.- la informò, facendole comunque posto.
-Non riuscivo a dormire.- confessò lei, sorridendogli sincera e stringendosi nella lana. –Ho pensato che avresti potuto prenderti una pausa più lunga. Ultimamente sei molto teso, non ti farebbe male un po’ di riposo.-
-Sei gentile, Koala,- la ringraziò il biondo, -Ma non preoccuparti, sto bene.-
Per qualche ragione, la sua espressione non del tutto convinta tradì il suo vero stato d’animo e la giovane lo guardò con disapprovazione, anche se la dolcezza e la gentilezza nei suoi occhi non scomparvero. -Certo, come no.- lo prese in giro.
Marco si grattò la nuca imbarazzato. -Sono solo preoccupato.- ammise infine, conscio che alla donna che gli stava accanto difficilmente si poteva nascondere qualcosa. Era una persona molto socievole e attenta al benessere degli altri. Spesso, infatti, pensava più al prossimo che a se stessa, per quello era particolarmente incline a comprendere al volo le emozioni altrui. Oltre a quelle belle qualità, una cosa che poteva tornare utile, ma che spesso per loro era scomoda, stava nel fatto che intuisse al volo quando qualcuno mentiva.
-Lo siamo tutti.- lo rincuorò, poggiandogli una mano sul braccio, -Ma quella gente ha bisogno di aiuto. Non possiamo negarglielo.-
Il più grande si trattenne dal roteare gli occhi con stizza. Ormai glielo avevano ripetuto mille volte che era giusto fare quella opera di carità, ma a lui, sinceramente, di andare in paradiso morendo martire per una buona causa proprio non interessava.
-Pensa se la situazione fosse capovolta.- lo esortò Koala, continuando imperterrita con il suo punto di vista.
-Noi avremo saputo arrangiarci.- la bloccò Marco prima ancora che si buttasse a capofitto in una discussione alla quale non aveva nessuna voglia di partecipare.
La sentì sospirare e la scorse scuotere il capo, ma quel sorriso sulle labbra non voleva sapere di andarsene nonostante lui le avesse risposto un po’ bruscamente. C’era poco da fare, Koala era davvero troppo buona. Sperava che la cosa non le si ritorcesse contro, in futuro.
-Forse dovrei davvero riposare.- disse il biondo sovrappensiero.
-Si, direi di si. Vai, qui ci penso io.-
-Ne sei certa?- chiese, giusto per precauzione, anche se si stava già alzando, desideroso solo di andare a dormire.
Lei annuì convinta. -Si! E poi…- disse, frugando in una tasca interna della giacca che portava sotto alla coperta, -Ho questo.- affermò, mostrandogli un libricino dalla copertina di cuoio. Allora sorrise di rimando, ricordandosi che a lei piaceva tanto leggere e ogni momento le pareva buono per sfogliare pagine e pagine ingiallite dal tempo.
-Bene, allora buonanotte.-
-Notte Marco.- lo salutò, già con il naso immerso nei fogli.
Le diede le spalle, avviandosi verso la tenda che condivideva con quello squilibrato di suo fratello Thatch, consapevole che quella notte non l’avrebbe trovato nel suo letto.
Dopo che aveva scoperto la sua capatina in città con Izou, Namiur e Rakuyo, ci aveva litigato pesantemente, arrabbiato soprattutto per il rischio che aveva corso e per la sua incoscienza, più che per il gesto in sé. Insomma, Thatch era adulto e sapeva badare a se stesso, quello non lo metteva in dubbio, ma a volte si lasciava prendere troppo dall’entusiasmo e dimenticava di avere delle responsabilità. Diventava immaturo quando perdeva la testa e si comportava in maniera sconsiderata, proprio come Ace. Quei due erano troppo simili e assieme erano un vero disastro. Entrambi erano istigati l’uno dall’altro a dare il peggio di sé, tanto erano sciocchi e incauti.
Avevano discusso pesantemente come non capitava da una vita, arrivando a non parlarsi per giorni. Alla fine, come sempre del resto, si erano venuti incontro, chiarendosi un poco sulle loro motivazioni. Marco voleva solo che suo fratello avesse fatto più attenzione e Thatch gli aveva spiegato che sarebbe stato sincero e non avrebbe più tentato di nascondergli qualcosa. Dopotutto, si volevano bene e fare pace era stato inevitabile, anche perché Barbabianca aveva anche troppi inghippi per la testa e non aveva tempo di prestare attenzione ai loro bisticci. Marco, da bravo figliolo, preferiva dargli meno dispiaceri e pensieri possibile.
Quella notte Thatch era fuori. Glielo aveva annunciato quel pomeriggio, come faceva almeno una volta a settimana. Almeno in quel modo sapeva dove trovarlo, anche se continuava ad essere preoccupato di conoscere la sua destinazione. Quel locale a Montmartre doveva averlo proprio preso se continuava a recarsi lì tanto spesso.
Sospirò, entrando nella tenda e slacciandosi la cintura con affisse le armi. Quello scemo poteva andare dove voleva, purché mantenesse un profilo basso e non attirasse troppo l’attenzione. Capiva che si era stancato di nascondersi e di vivere solo in mezzo ai boschi, ma fino a che le navi non fossero arrivate sulle coste della Francia, loro tutti avrebbero dovuto continuare a pazientare e a mantenere la calma.
Si tolse la giacca e cominciò ad aprire i bottoni della camicia, avvicinandosi al letto. In pochi secondi si tolse anche quella e poi seguirono anche i pantaloni. Dei vecchi stracci fungevano da pigiama così, dopo averli indossati, si coricò finalmente sotto le coperte. Era così stanco che sentì immediatamente le palpebre pesanti e sperò di prendere sonno e dormire bene almeno quella notte. Era stufo di fare sogni, svegliandosi agitato senza riuscire a ricordare nulla, sentendosi solo spossato e più esausto di prima. Sapeva che ciò era dovuto all’agitazione, ma doveva mantenere la sua solita calma, almeno davanti agli altri. Non doveva mostrarsi preoccupato, altrimenti tutti si sarebbero scoraggiati e qualcuno che mantenesse le redini della situazione, oltre al vecchio, doveva pur esserci. Fortunatamente, aveva acquisito dei fratelli con parecchia spina dorsale e con un carattere forte, almeno non era da solo in quell’impresa che gli pareva, a volte, impossibile. Chiedeva solo che finisse presto.
Lasciò una lanterna accesa, in caso Thatch avesse deciso di rincasare prima dell’alba. Era quello l’accordo: Marco gli permetteva di andare a sfogare lo stress che accumulava e l’altro, in cambio, non beveva e tornava all’accampamento sobrio e vigile. Fino ad allora doveva ammettere che aveva funzionato e che il fratello, oltre che apparire più tranquillo, rispettava i patti.
Non era riuscito a negargli quella piccola libertà quando Thatch gli aveva raccontato, dopo che avevano fatto pace, la scomoda situazione in cui si era trovato.
Per qualche assurda ragione, Haruta non gli aveva più rivolto la parola, togliendogli persino il saluto. Un’idea sul perché, Marco se l’era fatta solo che, dopo aver chiesto chiarimenti alla diretta interessata, aveva deciso di tenere la bocca chiusa e lasciare che se la sbrigassero da soli senza intervenire. Gli dispiaceva per suo fratello, ma era d’accordo con la ragazza. Se ne erano accorti tutti del loro legame particolare e c’era persino chi aveva scommesso sulle tempistiche del loro fidanzamento, ma Thatch pareva non rendersene conto. Secondo Marco, o lo faceva di proposito per evitare di dare all’amica un dispiacere, o era semplicemente troppo stupido per arrivarci. Ad ogni modo, aveva capito che per lui non era un bel periodo e gli aveva concesso di tornare in quel locale dove, stando ai racconti del castano, c’erano un sacco di donne. E, dall’espressione beata con cui rincasava quel dongiovanni, Marco era sicuro che ce ne fosse una in particolare con cui gli piaceva intrattenersi. Era un po’ sadico da parte sua, ma sperava che Haruta lo venisse a sapere e che decidesse di prenderlo a ceffoni per riportarlo sulla retta via.
Si massaggiò gli occhi, sbadigliando. Se non la smetteva di pensare alle pene amorose di suo fratello non avrebbe preso sonno e aveva un bisogno disperato di dormire, lui. Così si mise comodo, lasciandosi avvolgere dalle coperte e dal calore che lo circondava, imponendosi di non pensare a nulla.
Dopo poco, già dormiva.
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Ciao a tutti! Sorpresa, il capitolo un giorno in anticipo!
Solo perché avevo tempo e perché domani, probabilmente, sarà un inferno, evvai!
Beh, che dire, le cose iniziano a farsi pesanti, soprattutto perché stiamo entrando in quello che sarà il turbine della Rivoluzione, anche se per chi sta aspettando la Presa della Bastiglia dovrà aspettare altri tre capitoli come minimo, lol. Come consolazione posso dire che mi sto mettendo d’impegno e che ci saranno, letteralmente, fuoco e fiamme.
Intanto stasera ci becchiamo la riunione d’affari alla Corte dei Miracoli, assistendo al testa a testa tra i Quattro Imperatori, (Marco e Thatch sono fighissimi!), allo scoppio di energia di Sabo e a quella sottospecie di Ace/Sabo che penso mi abbia fatto venire il diabete mentre la scrivevo, ecco.
 
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Poi c’è festone a Montmartre. E scusatemi, ma shippo anche Frobin, quindi mi sembrava d’obbligo metterci in mezzo anche loro visto che, ormai, questa long sta diventando un minestrone di gente che spunta come le margherite.
 
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E mi sto anche drogando con Bonney e Drake adesso ;________________; insomma, lei sembra così schizzata e lui sempre così posato ma, per una volta, entrambi provano a fare come vogliono, a viversi il momento. E CHE MOMENTO, MLMLML. If you know what I mean.
Ovviamente, lei non dimentica mai una faccia, soprattutto se ha passato le notti a pensare all’ufficiale che le ha prese da Ace, epic lol.
 
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Detto ciò, vorrei solo chiarire che il capitolo inizia con una scena che si svolge all’inizio di maggio con la riunione al cimitero e ci si ritrova a Montmartre un mese dopo, a più di metà giugno, lasciando che sia Drake a ripensare a come si sono svolte le cose fino ad allora, senza starci troppo dietro, altrimenti sarebbe stato pesante per tutti.
Per qualsiasi problema, mi trovate qua ^^
Non penso ci sia molto da dire su Marco che, stanco morto, se ne va a dormire. Come farò io ora, lol. E’ solo preoccupato per i suoi cari e presto, a quella lista, si aggiungerà anche un ragazzo in particolare ** rotolo OMG how much love.
Ok, basta.
Grazie come sempre a tutti e un abbraccione grande!
 
See ya,
Ace.
  
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