«Quindi
cosa pensi di fare al riguardo?».
Gerard
mandò giù un sorso della sua coca senza
rispondere, scrollò le
spalle guardando il pavimento e respirò in silenzio. La sua
camera-seminterrato era inondata dalla luce del sole, timidamente
filtrata da un paio di tende mai tirate, ma il freddo di febbraio
continuava ad avere la meglio sulle copertine colorate dei fumetti e
sugli schizzi e tazze abbandonati un po' ovunque, facendo sembrare il
locale molto meno confortante di quanto fosse in realtà.
Gerard
scrollò nuovamente le spalle, lo sguardo fisso nel vuoto, e
deglutì.
«Niente. Non posso fare niente» rispose
semplicemente. Bevve
nuovamente e intuì che il fratellino si aspettava una
spiegazione;
posò la lattina sul gradino su cui era seduto e si prese una
mano
nell'altra, rassegnato alla sua situazione ma senza sembrare
afflitto.
«Vedi
Mikey, ci sono cose al mondo che si possono e non si possono fare; e
sebbene a me importi ben poco delle regole di una realtà che
non
rispetto, se vi andassi contro in questo caso ci perderei e
basta»
s'inumidì le labbra «e purtroppo per una persona
nella mia
situazione basta un passo falso per passare dalla padella alla brace;
o se vuoi, dalle bastardate in bagno e corridoio alle botte e a
un'ancora più pubblica umiliazione».
Mikey
distolse lo sguardo e giocherellò con le dita, senza poter
dar torto
al fratello e spaventato di fronte al fardello che il maggiore
cercava in tutti i modi di far rimanere solo suo.
«Credimi,
mi piacerebbe più che da morire andare in giro e cercarlo,
chiedere
di lui comprare un suo disco o cose del genere, ma semplicemente non
posso» si spostò una ciocca dietro l'orecchio,
osservando la base
della parete per non fronteggiare il più piccolo,
«per me e per
lui».
Mikey
sembrò sul punto di dire qualcosa ma poi si morse la lingua
e
tacque, esitante. «E se lo facessi io?»
sputò all'improvviso,
quasi non fosse riuscito a tenere a freno la sua preoccupazione.
«Se
fossi io a chiedere di lui e cercare informazioni? Posso dire che un
mio amico sta organizzando un party e che va pazzo per una nuova band
che gira nella scena post-punk, se per caso qualcuno li conosce di
persona» continuò, l'entusiasmo che gli tingeva la
voce.
Gerard
strinse le labbra e deglutì, a disagio, mentre suo fratello
continuava a tessere scenari e scrivere copioni che non avrebbero mai
visto la luce come avrebbe voluto; si morse il labbro inferiore e
prese un respiro profondo prima d'interrompere l'altro, arrivato a
chissà quale fermata col suo ragionamento fuori rotaie.
«Mikey, sai
bene quanto me che nulla di tutto questo potrebbe mai
succedere»
disse, soppesando le parole. Sapeva che il fratello capiva ma
sperò
che capisse anche quanto sperasse che tutto potesse andare per il
meglio punto, senza piani, sotterfugi e messinscene.
Mikey
si fermò a metà frase, sospirò e diede
ragione al moro con un
movimento abbattuto delle spalle. Se si fosse messo in moto lui se la
sarebbero solo presa di più con Gerard per non avere il
fegato da
cercare da solo il ragazzo – Ragazzo?
Ragazzo, Way? Ma per caso c'è qualcosa che non sappiamo? Ma
che mica
ti piace il cazzo? Eh Way? Passi mica le giornate a smanettare e
succhiar cazzi, Way? È
per
questo che stai sempre col tuo fratellino? O è lui che
organizza i
tuoi incontri? Fai anche film, Way? Dio ragazzi l'avete sentita
l'ultima? Way è frocio e dieci a uno fa pure filmini e pompe
gratis!
Me lo dai il culo Way? Prezzo da amico, ve'? – e
l'ultima
cosa che sarebbe dovuta succedere era quella. Quella, e che il
chitarrista si spaventasse e bruciasse tutti i ponti tra di loro.
Rabbrividì e guardò il fratello, pensieroso e
imperscrutabile.
Strinse le labbra e respirò. Chissà che aveva di
sbagliato
dopotutto.
Frank tirò la palla sopra la testa, la prese con la mano sinistra e ricominciò, nascosto dalla penombra della sua camera. Tende tirate, luci spente e porta socchiusa, era sdraiato sul suo letto in silenzio, avvolto dai suoi pensieri e una morsa allo stomaco che non sembrava volersene andare, come la sensazione di essere a un punto saliente della sua mappa, anche se per quanto il suo rituale stesse proseguendo senza intoppi nessuna risposta sembrava emergere dal suo tutto. Bloccò la sfera e la strinse con entrambe le mani, chiuse le palpebre e cercò di respirare a fondo, tuffarsi nel suo caos e riemergerne senza morsi e ferite per una volta. Cristo, c'era qualcosa in quel ragazzo, ma cosa? E poi che avrebbe potuto farci, una volta scoperta; darsi e dargli una pacca sulla spalla, bravo, bella giocata? Si morse il labbro, voltando il viso e abbassando lo sguardo. Dio Frank, che disastro.
Gerard
chiuse lo sportello del suo armadietto con un gesto deciso, come
aveva fatto mille e mille altre volte, raccolse lo zaino da terra e
se lo sistemò su una spalla, senza fare il gesto d'infilarvi
dentro
i libri. Respirò a fondo e si avviò verso la sua
classe di scienze,
schivando i gruppi di ragazzi che affollavano i corridoi e non si
facevano problemi a sbattergli contro senza chiedergli scusa o anche
solo voltarsi a guardarlo, e fece attenzione a non alzare troppo lo
sguardo per non incrociare nessuno. Solo che a volte le precauzioni
non erano abbastanza.
«Guarda
dove vai, femminuccia» esclamò un ragazzo biondo e
alto,
continuando a camminare col dorso e il medio rivolto al moro. Nella
risata generale della cricca al suo fianco, Bryson sparì tra
la
folla, lasciandosi alle spalle decine di occhi incollati su Gerard,
in ginocchio a radunare i suoi libri.
In
silenzio, le guance che bruciavano e un gusto amaro tra i denti, si
rimise in piedi e riprese a camminare. Bussò ma non
ricevendo
risposta provò a ruotare la maniglia, scivolò
nell'aula e si
sedette al suo posto, coperto da uno dei grandi tavoli da
laboratorio. Pian piano la sala si riempì di studenti e un
brusio
strascicato e attivo allo stesso tempo riempì il vuoto,
cessando
solo all'entrata del professore, un uomo dall'età
indefinibile dalla
corporatura vagamente corpulenta ma paternamente rassicurante.
«Tutti
pronti per i nostri gatti?» esclamò cingendo le
mani, con
l'entusiasmo di chi ama davvero il proprio lavoro e cerca di
comunicarlo a chiunque sia disposto ad ascoltare; indicò il
retro
della sala con un gesto ampio finché tutti gli studenti non
si
furono alzati e diretti verso il loro tavolo e si sfregò le
mani.
«D'accordo,
sul bancone principale troverete delle fotocopie con delle
informazioni generali sul catus domesticus e sulla sua anatomia. Una
volta terminato di leggere, alla vostra destra ho sistemato un altro
plico contenente una breve descrizione del processo dissettivo,
seguito da istruzioni passo passo per la rimozione del tessuto
epiteliale» spiegò, accennando ai fogli.
«Scegliete
un partner e un esemplare e cominciate pure»
esclamò quindi,
avviandosi verso due scatoloni da cui sollevò un coperchio
col suo
nome scritto a caratteri cubitali. Il brusio riemerse e Gerard
osservò con angoscia crescente tutti i suoi compagni trovare
un
partner e avviarsi verso il professore, sorridente e rilassato, e
cominciò a scandagliare la stanza alla ricerca di qualcuno,
deglutendo a fatica nel realizzare che no, era rimasto solo un'altra
volta.
Serrò
le labbra e respirò a fondo, cercando di farsi forza; si
alzò e
raggiunse l'insegnante, stringendosi il polso per farsi coraggio.
«Oh, Gerard!» esclamò mister Vaden,
salutandolo e tornando a
scavare nello scatolone. «Sfortunatamente non mi sono rimasti
molti
esemplari, qualcuno ha mescolato i gatti della tua classe con quelli
di un'altra e trovare quello giusto si sta rivelando più
difficile
del previsto ora che la maggior parte dei tuoi compagni è
sistemata».
Tirò
fuori il capo dal suo catalogo 3D
e osservò il moro corrucciando le sopracciglia,
interrompendo il suo
discorso. «E il tuo partner?» domandò
stupito, dando un'occhiata
veloce alla classe, ormai alle prese con le forbici per aprire le
buste. Gerard abbozzò un sorriso impacciato, il cuore in
gola e un
tremore lungo il busto, e si massaggiò il collo con una
mano,
imbarazzato.
«Be',
sarà un po' più difficile ma immagino non sia poi
un così gran
problema, vuol dire che farai più conoscenza col tuo
felino» disse
semplicemente il più alto, tornando a frugare e estraendo un
esemplare a metà tra il giallo e il bianco sporco.
«Ecco qui, un
altro solitario come te» sorrise, passandogli l'animale.
Gerard
si sforzò di sorridere e ringraziò il professore,
che annuì e si
pulì le mani con un gesto deciso prima di ricordarsi di
qualcosa e
avanzare verso il centro della stanza.
«Ah,
ragazzi, prima che apriate le buste, per favore fate attenzione a
tagliare il più vicino possibile alla linea tratteggiata
visto che
continueremo a usarle per le prossime due o tre settimane»
ricordò,
guardandosi attorno per assicurarsi di avere l'attenzione di tutti.
«E un'altra cosa ragazzi: prima di cominciare a tagliuzzare a
caso,
leggete, leggete, leggete i plichi. Troverete anche una descrizione
più dettagliata degli utensili con cui avrete che fare
quindi vi
prego di non considerarlo materiale superfluo. Vi ricordo che ognuno
di questi animali è stato a sua volta vivo e
chissà, magari anche
madre o pare, quindi vi chiedo di riservargli il massimo rispetto e
la massima serietà possibili».
Un
ragazzo di colore, meglio conosciuto per il suo posto nel coro della
scuola e il suo quinto premio al talent show di qualche mese prima,
fece una battuta sciocca e rise assieme al professore, che scosse a
testa divertito. «Vedi di non troncarti la mano con lo
scalpello
Marcus, al resto penseremo tappa per tappa».
Gerard
sorrise e posò il suo gatto sottovuoto sul tavolo da
laboratorio
davanti a lui, accanto a Gabby e Joseph, si diresse verso il bancone
e prese in mano i due pacchi di fogli. Scandagliando le istruzioni
afferrò la busta, la aprì e cominciò a
riempire la busta al suo
interno con dell'acqua corrente.
Quando
pensò di averla riempita abbastanza la chiuse con le dita e
la
scosse, lavando l'animale dal liquido conservante di cui era
ricoperto. Estrasse l'esemplare, lo distese sul vassoio chirurgico
–
diavolo, qual era il termine? Eppure l'aveva appena letto, che cavolo
di memoria – e lo toccò, esitando e voltandosi a
osservare la
gente attorno a lui. Joe sembrava più un fantasma che
l'amante degli
sport leggeri e dei colori acrilici che aveva varcato la soglia del
laboratorio quindici minuti prima ma le cheerleader ridevano e
squittivano allegramente come se la cosa scivolasse loro addosso
senza neanche sfiorarle.
Posò
i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani, espirò
velocemente e prese in mano lo scalpello, fermandosi a guardarne la
lama – cristo, era una di quelle che tagliano strati di
lattine
come se fossero petali, che avrebbe potuto distruggere libri se solo
avesse provato. Strizzò gli occhi e si strinse le tempie,
cercando
di mantenere la calma, ma ogni volta che schiudeva le palpebre non
riusciva a non immaginare quanto a fondo sarebbe potuto andare,
quanto dolcemente l'avrebbe aperto in due, che enorme differenza
avrebbe fatto comparata alle sue.
Scosse
la testa e si obbligò a deglutire e pensare ad altro,
tornando a
guardare il suo esemplare. Ne accarezzò il pelo, digrignando
la
mascella nello scontrarsi con la durezza del rigor mortis, lo
voltò
in modo che il ventre potesse vedere la luce e premette le dita sulla
cassa toracica, scendendo a individuare l'intestino e i reni. Strinse
le dita attorno alla coda e alle zampe, faticando a ricollegarle a un
qualcosa di animato e reale, e individuò il punto d'entrata
della
siringa, a circa metà gamba posteriore, dove il tessuto
adiposo era
pressappoco inesistente. L'iniezione di siero rosso aiutava a
riconoscere le arterie mentre quella di liquido blu esaltava le vene,
identiche all'apparenza e nella struttura differenziabili solo in
base al movimento del flusso sanguigno rispetto al cuore.
Risalì
fino al collo e passò lentamente le dita sui punti di sutura
che
tenevano unita la gola, rimediando a quella che Gerard riteneva una
sgozzatura, anche se il taglio era verticale invece che orizzontale.
Si
guardò nuovamente attorno e notò che a differenza
di Cole
indossavano tutti un paio di quanti, così si
sciacquò velocemente
le mani e ne agguantò un paio, infilandoseli senza troppa
attenzione. Deglutì e prese in mano il taglierino.
Com'era
possibile che a sé stesso avrebbe fatto di peggio ma a un
animale
morto, senza la minima possibilità di provare una goccia di
dolore,
non riusciva neanche a torcere un pelo? Respirò a fondo,
chiuse la
presa più decisamente e affondò la lama nella
gola del gatto,
trattenendo il respiro. Dio dio dio quanto voleva essere quel gatto.
Posò lo scalpello accanto al torace, si cinse la testa fra i
gomiti
e perse la concezione del tempo.
«Si
può sapere che ti è preso?» Shaun diede
una pacca sulla spalla al
moro, cercando di buttarlo fuori dallo stato catatonico in cui si era
chiuso a doppia mandata una ventina di minuti prima, e quello
sussultò, voltandosi a guardarlo con un
«uh?».
«Dico
davvero, tutto okay? Sono un paio di giorni che sei più
strano del
solito, c'è qualcosa che non va per caso? Chessò,
tua madre è più
stretta del solito, tuo papà si è fatto vivo
all'improvviso–».
«Non
nominare mio padre» l'interruppe il più piccolo;
realizzò di
essere stato brusco e aggiunse: «per favore. Non
c'è niente che non
va; sono solo stanco, tutto qui».
L'amico
lo guardò in silenzio e non disse nulla, corrugando le
sopracciglia
in un'espressione preoccupata senza voler invadere lo spazio
dell'altro. «Se serve siamo tutti qui però,
okay?» gli ricordò,
dandogli un pugnetto sulla spalla.
Frank
abbozzò un sorriso di circostanza, annuì e
cambiò argomento,
indicando la porta del garage col capo. «Tuo padre si
è rotto delle
scrostature?» domandò, realizzando che in qualche
modo ci si era
stranamente affezionato.
Shaun
si strinse nelle spalle, appoggiandosi distrattamente al muro.
«Nah.
Penso solo che il vecchio bastardo si sia stancato di vederci
allargare il problema volta dopo volta» commentò
senza troppo
interesse, «non sono ben sicuro del perché ma
questo rosso fa solo
sembrare il resto molto più decrepito».
Frank
annuì. Di certo togliere di mezzo un po' di ragnatele
sarebbe stata
una mossa più azzeccata. «A che ora hai detto che
torna?» domandò,
lanciando uno sguardo a John, appoggiato a una scala arrugginita e
nel bel mezzo di finire di rollare uno spinello.
«Una
– due ore» rispose passivamente l'altro,
«ma non preoccuparti,
tempo di fumare e siamo tutti a chilometri da qui».
Frank
annuì nuovamente, stringendo le braccia lungo al tronco, le
mani
magre irrigidite nelle tasche dei jeans stracciati. John accese la
sua meraviglia e diede il primo tiro, esalando una tempesta di
foschia bianca mentre la passava a Neil. Neil eseguì la
stessa
procedura, trattenendo il fumo giusto pochi secondi più
dell'altro
prima di buttarlo fuori e passare la canna a Tim.
Uno
dopo l'altro finirono di fumare e Tim cominciò a ridacchiare
scuotendo la testa, mentre Neil apriva la finestra e John la porta
del garage, sventolando la mano verso l'uscita con un
«coraggio,
tutti fuori». Frank rimase alla coda del gruppo, a disagio, e
osservò i suoi amici correre lungo i marciapiedi verso casa
del
batterista, pronti a sfondarsi di patatine e videogiochi.
Attraversarono
un vicinato con cui non era familiare e si guardò attorno
infilandosi le mani ancora più a fondo nelle tasche, il nodo
alla
gola che cresceva sempre di più, bloccandogli la
circolazione e
soffocandogli i pensieri. Si voltò verso una casa bianca a
due
piani, ammorbidita da dell'edera rampicante, e gli parse di scorgere
una sagoma passare davanti a una finestra. Strinse gli occhi ma non
percepì nessun altro movimento, senza riuscire a scacciare
la strana
sensazione che si era impossessata del suo petto.
«Frank
andiamo, muoviti!» urlò una voce di sottofondo; il
moro scosse il
capo per riprendersi e si rese conto che gli altri erano già
quasi
alla fine della strada. Lanciò un ultimo sguardo alla casa,
insolitamente avvolta nel silenzio, e lesse velocemente il nome sulla
cassetta delle lettere, sentendo la foschia farsi più e
più
opprimente nella sua testa e una strana fiamma accenderglisi dietro
le clavicole. Un altro grido lo svegliò parzialmente dalla
sua
realtà a specchio e cominciò a camminare verso i
suoi amici,
voltandosi di tanto in tanto per osservare l'edificio finché
non fu
troppo lontano per percepirne dettagli e accelerò il passo,
scoprendosi a correre prima di averlo davvero deciso.
Mikey
scivolò da dietro la tenda e rimase in silenzio ad osservare
il moro
allontanarsi sempre di più. Un groppo alla gola gli
rubò il respiro
e tirò le tende di scatto, dando le spalle alla strada.
Gerard non
sarebbe mai entrato in un giro del genere.
Gerard
mosse il cibo da una parte all'altra del piatto, sorreggendosi la
guancia con la mano, lo sguardo assorbito da pensieri di cui lui
stesso non era pienamente cosciente. Era stato assente per la maggior
parte della giornata e Mikey si chiese se stesse osservando il solito
Gerard, intrappolato nell'inferno delle sue emozioni e dei suoi mezzi
illeciti di fuga dalla realtà o se quel fantasma, quasi un
manichino
nelle mani di qualcosa che non riusciva a individuare, fosse il
risultato di esplosioni e realizzazioni sottocutanee, ricordi di
altri amori finiti in catastrofi e incidenti aerei noti prima della
partenza stessa. Strinse le labbra.
«Non
hai fame Gee?» domandò accennando col capo alla
pasta sfiorata a
malapena, sistemata a formare un mucchio con un circolo di pomodori
al centro. Gerard sembrò cadere dalle nuvole e rendersi
conto solo
allora di trovarsi nel bel mezzo di una cena coi suoi genitori e suo
fratello minore, ma dopo la frazione di secondo in cui lo stupore era
prevalso il suo viso tornò imperscrutabile, né
contratto né
rilassato.
«C'è
forse qualcosa che ti preoccupa?» suggerì il
padre, in un tentativo
di estrargli parole di bocca che non si aspettava realmente uscissero
davvero allo scoperto.
Come
previsto, il figlio maggiore scosse la testa, portandosi una
forchettata alla bocca senza particolare decisione. «Stavo
pensando
a come continuare la nuova serie su cui sto lavorando»
buttò lì,
una mezza bugia per ricordarsi che doveva veramente cominciare a
mettere a fuoco qualche nuovo personaggio.
Il
padre annuì, senza ulteriori attenzioni o dubbi, e la cena
continuò
pacatamente, scivolando serena mentre gli eco soffusi della
televisione rimediavano al consueto e rilassato silenzio che
caratterizzata buona parte dei pasti dei Way.
Appena
i genitori si furono alzati da tavolo e il moro ebbe cominciato a
sparecchiare e prendersi cura degli avanzi rimasti, il biondo
scivolò
al suo fianco, si guardò attorno e lanciò
un'occhiata al fratello.
«Si può sapere che ti prende?».
Gerard
arcuò le sopracciglia, ricambiando lo sguardo del minore, e
riprese
a lavorare, inimpressionato. «Non mi prende niente, non so di
cosa
stai parlando» tagliò corto, dirigendosi verso la
cucina.
Mikey
non demorse e lo seguì, inquieto e deciso a far luce
sull'abisso che
la mente di suo fratello era per lui. «Dico davvero, smettila
di
fare il finto tonto».
«Che
vuoi che ti dica Mikey?» scattò il più
grande, voltandosi di
scatto. «Seriamente, che risposta cerchi? Mi sembra di essere
già
abbastanza ovvio così, non c'è poi
così tanto da dire su quello
che non succede tra me e un ragazzo che ho visto una volta sola in
tutta la mia vita e che probabilmente non mi rivolgerà mai
più la
parola neanche se dovessimo rincontrarci». Serrò
le labbra,
amareggiato.
Mikey
tacque, abbassando gli occhi, e annuì. Forse era stato
troppo
invadente, dopotutto il fratello non sarebbe mai riuscito a trovarlo
di nuovo. «Hai ragione, scusa» disse, annuendo
piano un paio di
volte, «credo di aver esagerato».
Gerard
riprese a lavorare, intrappolato nuovamente nel suo universo
parallelo, e il biondo contemplò se dirgli una bugia fosse
meglio
d'indirizzarlo su una strada non voleva seguisse. Da una parte odiava
mentirgli, dall'altra era convinto fosse a fin di bene e che quella
del fratello fosse solo una cotta passeggera, una sbandata fugace per
cui non valeva la pena fargli imboccare vicoli destinati ad altra
gente.
Respirò.
«Penso di averlo visto qualche ora fa».
Gerard
si voltò di scatto, rischiando di far cadere a terra il
piatto che
stava per infilare nella lavastoviglie; «che?!».
Mikey
osservò i suoi occhi sgranati e la profondità
interminabile delle
sue pupille, e prima di aprire nuovamente bocca esitò,
leggendogli
sul viso una speranza che non vedeva da tempo. «Non eravamo
spalla a
spalla ma sono piuttosto sicuro fosse lui» affermò.
Un
sorriso si fece strada sulle labbra del moro, che posato il piatto si
spinse in avanti e gli strinse le spalle. «Davvero? E come
sta?»
domandò, una vitalità crescente nella sua voce di
cristallo.
Mikey
si scrollò di dosso il senso di colpa ricordandosi che lo
stava
facendo per lui e trattenne il sorriso che gli stava nascendo in
petto, optando per un tono più grave. «Ecco, non
sono sicuro ma...»
esitò e Gerard pendette dalle sue labbra, «aveva
l'aria
scombussolata, ha voltato l'angolo verso la fabbrica abbandonata
quasi di corsa».
Il
sorriso di Gerard sparì.
«Non
volevo dirtelo perché sì, insomma, non volevo lo
sapessi, ma penso
sia meglio che scoprirlo di prima mano» aggiunse mordendosi
il
labbro inferiore. Gerard sembrò essere rimasto al buio nel
bel mezzo
del suo momento di gloria, circondato da macerie che sarebbero dovute
essere i suoi sogni. Deglutì in silenzio per un paio di
secondi, gli
occhi incollati al pavimento, poi riacquisì
l'abilità di emettere
suoni.
«Non
hai vere prove però» mormorò.
Mikey
esitò, angosciato nel vedere il fratello reagire come aveva
temuto
sin dall'inizio. «Gerard» cercò di fare
appello al suo buonsenso,
guardandolo espressivamente negli occhi, «certe volte non hai
bisogno di vedere una persona con un ago in endovena per capire che
si buca, sniffa o si fa in qualche modo». Tacque, una mano
sulla
spalla dell'altro, e sperò per il meglio.
«Ma
non hai prove concrete» ripeté invece il maggiore,
sembrando più e
più risoluto a ogni respiro. Mikey provò ad
aprire nuovamente bocca
ma il fratello scattò in piedi, spostandosi la mano di
dosso, e
abbozzò un sorriso crescente in quella che il biondo
riconobbe come
una terribile idea. Si alzò per fermarlo e proseguire la
conversazione ma non fu abbastanza veloce e si ritrovò solo
accanto
al lavello, conscio di aver solo peggiorato la situazione. Si prese
la testa fra le mani e imprecò silenziosamente.
«Drogato?
Seriamente? Ma non potevi semplicemente dirgli che l'hai visto
baciarsi con una?» si sgridò, a metà
sibilando e a metà
immaginandoselo. Scosse nuovamente il capo e finì di
prendersi cura
delle stoviglie, cercando di farsi venire in mente un nuovo piano.
Tossicodipendenza?
Gerard non riusciva a crederci. O forse sì, dopotutto non
sapeva
nulla di lui, se non che aveva degli occhi d'ambra antica
più della
galassia, un sorriso più dolce di ogni cantilena che gli
fosse mai
stata sussurrata per scacciare i mostri che lo perseguitavano fin
dentro ai sogni e un modo di suonare che sembrava snodargli le vene,
riempirlo di bollicine e farlo sentire bollente quanto una stella. Si
morse un'unghia, preoccupato, e s'inumidì le labbra.
Sì,
ma lui che poteva farci?
Si
alzò dal pavimento del seminterrato, afferrò una
felpa che aveva
lasciato sul corrimano e corse al piano superiore, fiondandosi fuori
dalla porta di casa. Le troppe sigarette e notti insonni si fecero
sentire ancor prima che uscisse dal vicinato e fu costretto a
fermarsi, piegandosi in avanti, le mani sulle ginocchia, combattendo
il fiatone con quanta forza aveva in corpo. Riprese a camminare a
passo svelto ma a metà strada la mente smise di vorticargli
e si
fermò, improvvisamente lucido. Cosa stava andando a fare?
Si
batté il palmo sulla fronte, insultandosi. Era stato un
tossico
anche lui dopotutto, come aveva potuto pensare che sarebbe stato
plausibile trovarlo di nuovo lì se Mikey era rientrato da
poco più
di due ore?
Abbassò
lo sguardo e sentì il cuore stringerglisi mentre girava i
tacchi e
si dirigeva nuovamente veso casa. Che idea idiota, Gerard.
«Dico
davvero, lo conosci o no?» sbottò Frank, stufo fin
sopra ai capelli
dei giochetti dell'altro; «non ho tutta la vita da buttarti
appresso, posso chiedere ad altra gente».
Dayton
ridacchiò sotto i baffi, divertito dall'avere il coltello
dalla
parte del manico e dall'espressione irritata e vulnerabile del moro;
prese una lunga boccata dalla sua sigaretta e si sistemò i
lunghi
riccioli castani dietro l'orecchio, prendendosela comoda. Frank
sbuffò di nuovo, accendendosi una Marlboro e fumandola
velocemente,
cercando di alleviare la tensione che lo stava facendo impazzire da
quando aveva menzionato Gerard a quello stupido imbecille. Cristo
quanto detestava chiedergli qualcosa.
Dayton
sorrise affilatamente, guardando il moro con cattiveria; «e
se te lo
dico che ci guadagno?».
«Se
non la smetti un cazzo di pugno in faccia» sibilò
l'altro.
Dayton
rise, consapevole del bluff dell'altro, e alzò le mani in
segno di
resa. «Calma fratello, non è mica una faccenda di
stato» lo
sminuì, tenendo la sigaretta in bilico tra le labbra fine,
«da
quanto ne so è una nullità proprio come
te».
Frank
ignorò l'insulto, continuando ad aspirare e espirare
intensamente.
«Se vuoi saperla tutta ha debuttato nella mia scuola
elementare come
un Peter Pan palla di lardo, fregando la parte a uno degli attuali
lavacessi giù da Toot's» sorrise di nuovo,
divertito «non che lui
fosse poi così bravo a cantare, comunque».
Frank
arcuò le sopracciglia, improvvisamente in controllo dei suoi
sensi.
Quindi era un cantante. Ora sì che stava cominciando ad
arrivare da
qualche parte, magari qualche locale sulla scena avrebbe saputo
dirgli qualcosa di più.
«Ad
ogni modo, perché lo cerchi? Non pensavo fossi abbastanza
uomo da
voler fare a botte» lo sfotté nuovamente il
riccio, senza sforzarsi
per nascondere un ghigno mentre spostava la testa all'indietro e
espirava verso l'alto. «È forse un rito
d'iniziazione per smettere
di essere una ragazzina?».
«Ho
un favore da ricambiare» ribatté Frank, senza
abboccare all'amo.
«Tutto
questo casino per un atto di beneficenza? Non me la bevo»
ribatté
il castano.
«Non
tutti al mondo sono come te» replicò Frank,
spegnendo la sigaretta
e andandosene. Dayton rimase con la schiena contro la parete
scrostata, le braccia incrociate e un disegno cattivo a formarglisi
in testa.
Un
favore, sì, certo. Sta a vedere che c'è qualcosa
di grosso che
bolle in pentola. Sputò la sigaretta a terra e
mandò un messaggio
alla sua cricca, voltandosi a osservare il vicolo imboccato dal moro.
Qualcosa di molto grosso.
«Non
capisci Gerard, se uno sconosciuto è gentile con te e ti
dice “alla
prossima” non significa che ti sta chiedendo di cercarlo e
accollarti i suoi problemi; ti prego ragiona» insistette
Mikey,
cercando di far leva sulla parte realista del fratello; «per
quanto
ne sai potrebbe essere un ragazzo padre che ha messo incinta una
delle sue groupie ed è stato buttato fuori di casa dai suoi
genitori
per lo stesso motivo, e che ora si fa per non dover convivere con
l'incredibile pressione che gli è caduta sulle
spalle».
«Un
motivo in più per essergli amico»
ribatté pronto il più grande,
deciso; «se è arrivato a drogarsi vuol dire che da
solo non è
riuscito a ricucirsi tutte le ferite che gli altri gli hanno lasciato
addosso e che tutto lo sta schiacciando, è mia
responsabilità fare
qualcosa».
«No
Gerard, non lo è» insistette l'altro, esausto
dalle continue
conversazioni a vicolo cieco col fratello; «non è
neanche detto che
sia per la sua vita che si droga, magari ha solo voglia di
divertirsi».
«In
ogni caso» tagliò corto Gerard, senza mai perdere
la sua calma
quasi irreale «devo trovarlo e fare in modo che qualcosa
succeda».
Prese un sorso dal suo smoothie alla frutta e Mikey sospirò,
passandosi la mano sul volto, esasperato dalla testardaggine del
moro.
«Giuri
almeno che ti terrai alla larga da quella parte della
città?»
supplicò quasi.
«Andrò
dove ce ne sarà bisogno» rispose semplicemente il
fratello,
guardando mitemente l'orizzonte. «E poi non si sa mai, magari
potrei
incontrarlo al negozio di dischi qui attorno».
«Gerard,
quel negozio è a miglia di distanza» gli fece
notare il biondo.
«Per
me, ma per lui?» obiettò il moro.
Osservò l'espressione del più
piccolo e posò il bicchiere sul tavolo, alzando i palmi per
rassicurarlo: «guarda Mikey, capisco preoccupazioni e tutto
ma non
mi succederà niente. Sono un perdente, non in
pericolo».
Prese
a ridere, tranquillo, ma Mikey impallidì e
esclamò: «Gerard
attento!» pochi secondi prima che una presa decisa lo
afferrasse per
il colletto della maglietta e lo sollevasse di peso dalla sedia.
Mikey
scattò in piedi di riflesso e Gerard si voltò
terrorizzato,
annaspando nei meandri della sua memoria per portare alla luce il
viso semi-familiare che gli stava sorridendo cattivamente in faccia,
per niente toccato dall'essere in pieno pubblico. Dopotutto erano in
New Jersey, risse e percosse erano l'ordine del giorno.
Prima
che potesse mettere assieme i tasselli del puzzle, Gerard si
ritrovò
a stringersi la mascella con entrambe le mani, gli occhi strizzati
per contrastare il dolore e una risata divertita echeggiante
nell'aria attorno a lui.
«Gerard!»
esclamò il fratello facendosi avanti, superato lo shock
iniziale. Un
ragazzo di qualche anno più grande di lui, un braccialetto
di pelle
al polso sinistro e un anello di un colore metallico al medio, lo
strinse da dietro e lo tenne fermo mentre il riccio assestava un
altro pugno nello stomaco del moro.
«Ehilà
sfigato, ti ricordi di me?» gli soffiò in faccia,
a pochi
centimetri dalla pelle. Gerard rantolò e il ragazzo
sentì un'altra
scarica di adrenalina attraversargli il corpo. «Siamo
cresciuti
insieme, te lo ricordi?».
Altro
pugno, altro mugolio, altro dolore lancinante. Certo che se lo
ricordava, come si scordava uno come Dayton?
«Io
non me lo ricordavo mica, ma l'altro giorno un uccellino è
venuto da
me e mi ha rinfrescato la memoria» cinguettò,
maligno «e una delle
cose che questo uccellino mi ha detto è una gran puttanata.
Ma una
cosa che l'uccellino non sa è che io le stronzate le
riconosco a
chilometri di distanza, e che nessuno muove così tanto le
acque per
una nullità come te».
Lo
guardò quasi con disgusto, senza però decretarlo
degno di un
sentimento tanto radicale. «Cosa stai combinando sotto il mio
naso,
insetto del cazzo? In che cazzo di giro ti sei ficcato per essere
improvvisamente qualcosa di più della gomma sotto le scarpe
dell'intera comunità?».
Lasciò
la presa e Gerard cadde a terra, tossendo. «Questo
è il mio
territorio, siamo intesi? La prossima volta che sento il tuo nome non
sarò così clemente» ringhiò
il più grosso, sputandogli a pochi
centimetri dalla spalla prima di fare un cenno ai suoi amici e
scomparire da dove erano venuti.
Mikey
corse verso Gerard e si piegò su di lui, mettendogli una
mano dietro
la nuca per sorreggerlo. Gerard alzò la mano per dirgli che
era
tutto okay e per una frazione di secondo gli parve di riconoscere un
volto nella folla che aveva cominciato a ricomporsi. Quando fu sul
punto di metterlo davvero a fuoco tutto si fece nero e si perse in un
paio d'occhi d'acero tra le urla d'aiuto del fratello.