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Autore: Alex e Finger    13/04/2015    1 recensioni
— Non mi sono mai sentito così poco Mentore come vicino a lui. —
— Diceva che sei così disposto ad imparare. Diceva che gli ricordavi Ishak, in qualcosa, anche se siete profondamente diversi. —
Lo sguardo di Ezio scivolò verso il tumulo e si velò per un attimo, mentre percepiva gli occhi di lei fissi sul suo viso.
— Perché mi cercavi? —
Ràhel si prese un attimo prima di rispondere, come se stesse raccogliendo le forze.
— Perché lo amavo. E perché sento che in questo breve tempo, anche tu lo hai amato. Vorrei parlarti di lui. —
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio, Sofia Sartor, Yusuf Tazim
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Il colombo viaggiatore che sorvolò le rocce e le spiagge di quella che un tempo era la Provincia Romana di Cappadocia incontrò tempo brutto e correnti contrarie. Evitò il quadrello di balestra partito da una nave solo grazie all’imperizia del tiratore, ma non la picchiata letale di un falco pellegrino, di gran lunga più abile, che segnò la sua fine.

Il messaggio che portava non raggiunse mai il Covo degli Assassini Ottomani.

 

Manuele Paleologo è morto e il Principe Ahmet è la testa dell’Ordine Templare a Costantinopoli.

Sa di Sofia.

Aspettatevi un attacco in forze.

 

 

Istanbul

8 Safar 918

(25 aprile 1512)

 

 

 

 

 

 

 

 

 











ofia accese dell’incenso e lo posò in un varco tra i libri dello scaffale più alto. — Non smetterò mai di amare questo profumo!— dichiarò la donna, inspirando profondamente.

Yusuf le tese una mano e la sorresse mentre scendeva dallo sgabello col quale era arrivata fin lassù. — Grani allo Storace nero. — disse. — Ottima scelta. —

— Se vendessi le vostre essenze ne sarei talmente gelosa da non darne via, finendo col fallire dopo pochi giorni! E temo di avere lo stesso problema coi miei amati libri. — borbottò lei lisciandosi la gonna e spazzando via un po’ di polvere dal suntuoso velluto verde. Poi, e studiandolo a lungo con gli occhi curiosi di un passerotto, la donna chiese: — Come hai detto di conoscere Ezio? —

— Siamo amici di vecchia data. — rispose l’Assassino rimanendo comunque sul vago, riguardo al proprio ruolo. — La sua è più vecchia. — ironizzò.

Le guance della donna si colorarono. — Dalle mie parti si dice che è proprio l’annata che fa il vino! — ridacchiò andando verso la scrivania, dalla quale prese una pila di volumi che si adoperò a sistemare alfabeticamente tra gli scaffali.

Yusuf la osservava in silenzio, pensando con affetto allo stagionato Mentore come a un compagno davvero insolito per l’intrepida libraia di quartiere. Era venuto da solo quella mattina, congedando Serdar che aveva messo a sorvegliare la bottega, e aveva bussato alla sua porta come un cliente qualunque. Appena lei gli aveva aperto, si era subito chiesto se fosse stata l’abbondante scollatura di lei ad attardare l’Auditore nella bottega, ma i modi gentili di Sofia sfociavano con naturalezza in una calorosa accoglienza e perciò Yusuf non trovò nulla da rimproverare al vecchio italiano.

Nel tempo che il turco spese a guardarla, poté leggerla come un libro: era una donna di grande cultura, tenera e sofisticata, che affogava audacemente nella propria passione per la letteratura, la geografia e la storia. Aveva fatto della libreria ereditata dal padre un piccolo angolo di Babele, dove culture e tradizioni diverse si incontravano, affiancandosi nell’eterna lotta all’usura del tempo e alla polvere, nemici comuni.

D'un tratto un oggetto rotondo imprigionato in tre travi di legno scuro e lucido attirò la sua attenzione. Yusuf si avvicinò al mappamondo e lo fece girare lentamente, sfiorandolo appena con le dita. Lo fermò sul grande Continente dell’Asia, e precisamente sul golfo più occidentale di quello che riconobbe subito come il Kara Deniz. Dopo essere rimasto a lungo ad ammirare quella zona del Mondo, sforzandosi di leggere i dorati caratteri occidentali che chiamavano il nome della sua grande casa e madre, Istanbul, sollevò con un gesto spontaneo la mano che aveva coperto la regione della Valacchia fino ad allora. Pensare a Ràhel gli fu così naturale…

— E’ bellissimo, n’è vero? — domandò Sofia all’improvviso.

Yusuf si voltò di colpo e la sorprese a fissarlo dal pianerottolo, con le mani giunte in grembo e il sorriso emozionato.

— Sì, meravigliosa fattura, leydim. E di straordinaria precisione. —

Sofia scese con una risata i gradini foderati di tappeti. — Non la mappa, che altro non è se una copia approssimativa e imperfetta, — disse affiancandoglisi, — ma il Mondo stesso, nella molteplicità delle sue razze e nella leggendarietà della sua genesi: l’uomo è ancora lungi dal celebrarlo con la devozione che merita e molte parti di esso gli sono ancora ignote — concluse, facendolo girare per mostrare a Yusuf le lontane e inesplorate Americhe.

— Parole di una filosofa. Sei anche questo? — le domandò lui con ammirazione.

— No, buon Dio, no! — esplose lei, sommandovi gli acuti di una risata limpida. — I filosofi cercano una spiegazione ma ignorano che la vita abbia già tutte le risposte. Siamo noi che non le comprendiamo, ed è questo alone di mistero a dare valore a tutto il resto. — 

Yusuf annuì a se stesso. — Il tuo nome significa saggezza, leydim, e sei la prima filozof che non sa di esserlo. —

— No, ti prego, basta! — Sofia gli sfiorò un braccio affettuosamente, ridendo. — La filosofia è come una donna capricciosa e passionale. Ho molti volumi che la celebrano, ma nessuno che sia riuscita a soddisfare e tutti molto impolverati. — Fece una pausa pesando il sorriso sul viso del suo ospite. — Il motivo della tua visita, Yusuf, mi è ancora ignoto. — disse pensosa arricciando le labbra.

— Ezio parla molto bene di te e del tuo… — si trattenne dall’abbassare troppo lo sguardo,

— …assortimento, leydim. —

Sofia si sfregò le mani, felice. — Come ti ho detto posseggo volumi di filosofia, classici e moderni; tutte le vostre raccolte di letteratura e saggistica, ma anche… — s’interruppe quando vide il suo ospite scuotere la testa col sorriso sulle labbra e una strana luce negli occhi.

Yusuf non era entrato per sfogliare vecchi libri, e Sofia lo capì.

— Un caffè? — chiese lei.

Şekerli.(con molto zucchero)

 

Sofia mise sul fuoco un pentolino che in poco tempo cominciò a bollire. Nel frattempo imbandì il tavolo e vi aggiunse un assortimento di biscotti glassati, che ricordarono a Yusuf i baklava con cui Imran lo viziava dopo i pasti.

— Se non sono i libri che t’interessano, cosa posso offrirti per ingannare il tempo? — gli chiese Sofia sedendo sulla poltrona, e soffiando per raffreddare la tazza che stringeva con entrambe le mani piantò gli occhietti da passerotto su di lui.

Sofia lo aveva detto con leggerezza, ma una parte di Yusuf ne fu appesantita inevitabilmente e per un lungo minuto il turco meditò in silenzio.

— Nulla più della tua compagnia, leydim. — disse. — E se hai delle incombenze da sbrigare, fa' come se non ci fossi. —

Si scambiarono un sorriso, dopodiché Sofia azzardò un sorso del suo caffè e inveì subito dopo nella propria lingua natia per essersi scottata la lingua. Yusuf trattenne a stento una risata.

A poco a poco capì cosa lo aveva spinto a bussare di persona alla sua porta. Scoprì il paradosso di se stesso che quella mattina lo aveva fatto sgattaiolare via molto, troppo presto dalle lenzuola calde che condivideva ormai notoriamente a tutti con Ràhel, e che lo aveva condotto da Sofia alla ricerca di una risposta, ma senza aver mai avuto bisogno di comporre la domanda.

Distrattamente si buttò in gola il caffè bollente tutto d’un sorso, pentendosene subito dopo, ma ricacciando indietro le lacrime si sforzò lo stesso di ingoiarlo.

Si sentiva felice.

Libero e felice.

Sofia aveva preso un piccolo volumetto quadrato dalla mensola del camino, se l’era poggiato in grembo e aveva cominciato a sfogliarlo. Beveva a piccoli sorsi, assorta nella lettura. Yusuf non volle disturbarla, così posò la tazza vuota sul tavolino e andò alla finestra che dava sulla piazzetta.

Osservò il trafficare cittadino dalle mura riposanti della bottega, il cui silenzio era rotto solo dallo scoppiettare del fuoco e la pace, la stessa pace dalla quale il suo passato lo aveva tenuto lontano così a lungo, lo pervase di calore al pari del caffè. Se ne sentì prima scottato, poi si disse che avrebbe potuto aprire le braccia e gettarvisi come in un Salto della Fede, abbandonandosi a correnti calde a avvolgenti. Ma si corresse, scuotendo la testa e lasciando cadere le spalle con un sospiro, perché Ràhel non era niente di tutto questo, per lui, niente di caldo e avvolgente.

Ràhel era la neve, che soffice e travolgente si era posata sulla sua pelle, cauterizzando le sue ferite, amalgamandosi a lui. Il cielo si era coperto e lei era stata la burrasca piena di vita che aveva invaso il deserto, insinuandosi tra ogni singolo granello di sabbia, accumulandosi fino ad abbondare con la sua presenza. Era sempre stata al suo fianco e lo sarebbe stata per sempre. Era questo che voleva.

Fu nel bel mezzo di quei pensieri che un uomo, fermo accanto alla bancarella di tappeti nella piazzetta, attirò la sua attenzione. L’aquila rampante a due teste guardava nella sua direzione, verso quella finestra. Yusuf si scostò dal vetro con un balzo improvviso e il gesto attirò l’attenzione di Sofia, che sobbalzò sulla poltrona, voltandosi.

— Tutto bene? — chiese.

Un solo uomo. Non sarà un problema.

Yusuf lanciò un’altra occhiata in strada. — Rimani comoda, leydim, devo… — s’interruppe.

Due archibugieri erano comparsi in alto sui tetti, proprio dove quella mattina aveva trovato Serdar a sorvegliare la Bottega. Da lì si aveva una visuale perfetta di tutto il quartiere.

Yusuf rifece rapidamente i conti: erano una dozzina, tredici con l’uomo accanto al banco di tappeti. Sparpagliati nella piazza, armati.

Troppi per uno scontro diretto.

E lui era da solo.

Dovevano fuggire.

— Sofia, devi alzarti. —

Lei ubbidì, ma non perché glielo avesse ordinato. — Cosa succede? — domandò provando ad affacciarsi. — Cosa hai visto? —

— No! — il turco la bloccò prima che potesse avvicinarsi alla finestra e anzi tirò le tende. — Dobbiamo andare via, non prendere nulla. — La fece voltare e la indirizzò sulle scale. In quel momento udirono bussare.

Si fissarono, ma nessuno si mosse.

Bussarono più forte.

— Forse è un cliente… — mormorò la donna, tutt'altro che convinta delle sue parole.

Bok! — digrignò il turco, mise Sofia dietro di sé e sguainò il kijil. — In veranda! Ora!—

Si precipitarono là, Yusuf era già pronto a sfondare la grata fiorita, ma un bizantino sorvegliava il perimetro esterno e l’Assassino se ne accorse troppo tardi. L’uomo li vide entrambi e gridò qualcosa nella sua lingua. Sentirono dei passi venire dal tetto: erano gli archibugieri che si spostavano per non lasciar loro via di fuga.

Hanno circondato l’edificio: non possiamo uscire o ci spareranno a vista. Siamo in trappola come topi.

Strinse più forte il kijil e allentò la presa sulla mano di Sofia.

Rimane una sola cosa da fare…

— Resta qui! — le gridò.

Ho una promessa da mantenere, concluse nella sua mente.

— Yusuf, che sta succedendo?! Yusuf! YUSUF! — urlò Sofia, terrorizzata, quando lo vide lanciarsi di nuovo in bottega.

Era meglio non aspettare lo scontro nella veranda, troppo ampia, dove i bizantini avrebbero potuto accerchiarlo e sopraffarlo. Nello spazio più ristretto del salotto, sulle scale e tra i mobili, invece, la maestria di un singolo uomo avrebbe compensato qualsiasi superiorità numerica.

Si trattava solo di resistere.

Resistere più a lungo possibile.

E pregare.

 

 

— DEVO PARLARE CON LATIF! — gridò il ragazzino facendo irruzione nel cortile interno della sede della Gilda dei Ladri. La sentinella che gli aveva aperto il portone lo afferrò per il colletto della casacca, quasi sollevandolo da terra. — Calmati, köpek yavrusu! Latif è occupato. Una trattativa importante, sai. Ha detto di non essere disturbato. —

Il ragazzino si dimenò, cercando di liberarsi e continuando a strillare.

— Devo parlargli! Assolutamente! SI TRATTA DEL SUO MIGLIORE AMICO!! —

La sentinella si accigliò, lasciandolo andare e quello attraversò il cortile di corsa, diretto verso la porta della sede che proprio in quel momento si aprì. Latif fece la sua comparsa con un’espressione torva sul viso, mentre alle sue spalle, alcune voci contrariate si lamentavano dell’interruzione.

— Cosa succede, Izer? Cosa ha combinato Yusuf? — chiese allontanandosi dalla porta per non farsi sentire dagli uomini che si trovavano all’interno.

— E’ entrato alla bottega di Sofia Sartor. — rispose il ragazzino senza fiato e Latif sorrise.

— Non penso che... — iniziò, ma l’altro lo interruppe: — Ho visto almeno dodici Bizantini avvicinarsi alla bottega! —

Latif trasalì. — Kahretsin... — mormorò tra i denti. — Hai visto altri Assassini presidiare i tetti?—

— No, nessuno. —

Bok! È solo quindi... — Con la preoccupazione che gli attraversava il viso si rivolse alla sentinella: — Spedisci due squadre alla bottega Sartor, di corsa! E che siano ben armate. — Poi rientrò nella sede a passo di marcia e Izer lo sentì dire: — Purtroppo è sorto un contrattempo di cui devo occuparmi personalmente. Mi vedo costretto a interrompere questa riunione. Potete uscire dalla porta sul retro. — La sua voce era gelida e non ammetteva repliche, ma non riuscì a impedire qualche rimostranza.

— Siete stati voi a chiedere questo incontro e il minimo che potete fare è accettare le mie condizioni. —

La porta posteriore si aprì cigolando e un rumore di passi unito ad un borbottio di imprecazioni accompagnò l’uscita di scena dei misteriosi visitatori.

— Grazie, Izer. — disse Latif ritornando nel cortile. Un attimo dopo volava fuori dal cancello che la sentinella aveva aperto per lui.

 

Serdar congedò la staffetta e sospirò. La nave di Piri Reis con a bordo il Mentore Auditore stava per attraccare alle banchine dell’Imperiale Nord.

Qualcosa era cambiato in città dal giorno precedente: i banditori offrivano una spropositata quantità di denaro a chi avesse fornito informazioni che portassero alla cattura dell’Auditore, e per quanto Serdar ne stimasse il carisma e le indubbie qualità, non poteva certo poter dire di apprezzare il suo tempismo. Di sicuro non si poteva mandare qualcuno a riceverlo al porto, una scorta discreta dai tetti sarebbe  dovuta bastare, e quella era già predisposta, malgrado dopo la missiva che annunciava la morte dello Shakulu, nessuna notizia fosse più giunta dalla Cappadocia.

L’ultima cosa che restava da fare era avvertire il Maestro alla bottega di Sofia Sartor. Serdar si concesse un mezzo sorriso, domandandosi di cosa quei due potessero star discorrendo, mentre fermava un Apprendista nel salone centrale con lo scopo di affidargli quel compito. Proprio in quel momento il suono di passi di corsa sulla passerella lo fece voltare di scatto.

— Serdar! — gridò Latif raggiungendolo e senza neanche riprendere fiato; la preoccupazione sul suo volto era evidente. — Bizantini, alla bottega Sartor, almeno una dozzina. —

— Cosa?!? — Il secondo in comando della Confraternita Ottomana impallidì visibilmente.

Yusuf aveva ordinato di tenere un occhio su Sofia da quando il Mentore era partito per la Cappadocia, e non era mai accaduto nulla che potesse far pensare all’esistenza di un pericolo reale. Adesso, in meno di una giornata, i banditori sbraitavano di taglie, la nave di Ezio era in arrivo e dodici Bizantini si aggiravano nei pressi della bottega: qualcosa non tornava, e di certo non si poteva indugiare.

— Ho inviato due squadre dei miei sul posto. — stava dicendo Latif.

— Bene. — rispose Serdar affacciandosi cortile degli allenamenti dove gli Assassini di guardia attendevano ordini. Nella sua mente andava formandosi il quadro peggiore e affiorava la sensazione di essere in estremo ritardo. L’ansia non poté far altro che crescere mentre prelevavano Dogan e un’altra squadra dal covo di Galata e si lanciavano a rotta di collo verso il Corno d’Oro.

Latif, malgrado fosse reduce da una corsa forsennata dalla sede dei Ladri al distretto di Galata, non sembrava sentire la stanchezza. La tensione induriva i suoi bei lineamenti, rispecchiando le parole che Serdar continuava a ripetersi nella mente: E’ tardi, è già tardi...

Quando raggiunsero la piazzetta che ospitava la bottega, la gente si assiepava davanti alla porta sfondata, senza avere il coraggio di entrare. Latif si fece largo rudemente in mezzo alla folla, raggiungendo i Ladri che aveva individuato accanto all’ingresso e Serdar lo seguì, ordinando ad alcuni Assassini di allontanare le persone e di mettersi a guardia della piazzetta. Mentre notava le tracce di sangue evidenti sulla soglia udì la voce del Ladro che interrogava i suoi: — Allora? —

— Quando siamo arrivati era già tutto finito. La gente era in preda al panico... —

Serdar sentì il proprio cuore sprofondare e incontrando lo sguardo di Latif riconobbe l’identico terrore che gli rimbombava nel cervello. Aveva già fatto un passo per varcare la soglia quando una presa salda sulla spalla glielo impedì. Si voltò con la furia negli occhi, facendo scattare la lama celata, domandandosi chi stesse osando fermarlo e si trovò davanti Ezio Auditore.

Con il viso del tutto simile a una maschera di pietra e senza dire una parola, il Mentore lo spinse da parte e fece il suo ingresso nella bottega.

 

La gente si muoveva a disagio sotto gli sguardi inflessibili degli Assassini che presidiavano la piazzetta. Ràhel vi giunse correndo, ma la tensione che si addensava tra gli edifici, spessa come melassa, la fece rallentare fino a fermarsi.

Era rientrata con una squadra da un giro di pattuglia poco dopo che Serdar aveva lasciato il Covo e la sentinella alla porta l’aveva informata della situazione. L’Assassina aveva percorso l’intero tragitto sforzandosi di scacciare i pensieri, uno più orribile dell’altro, che le si affollavano nella mente, con addosso la stessa sensazione che si prova negli incubi, quando si deve correre e le gambe sembrano rifiutare di muoversi.

Ordinando ai suoi piedi di spostarsi sul lastricato Ràhel raggiunse la porta spalancata della bottega e quando la varcò, la frescura all’interno le parve del tutto simile a una stretta di gelido terrore. Nulla si trovava più al suo posto: libri sparsi sul pavimento, oggetti infranti e mobili rovesciati testimoniavano una lotta cruenta e senza quartiere, e lo stesso facevano i cadaveri che giacevano scomposti, avvolti nelle loro insegne bizantine lacerate e intrise di sangue. Seguendo quel sentiero di devastazione proseguì attraverso le stanze fino a che vide un gruppo di Assassini  che le davano le spalle, immobili come statue, avvolti in un silenzio così assoluto e irreale da farle dubitare che fossero davvero lì. Si avvicinò, infilandosi tra loro, percependo la solidità dei loro corpi che si faceva da parte per lasciarla passare, mentre una voce profonda e impastata di dolore invadeva la penombra.

— Ti sei meritato il riposo, fratello. —

Quella voce aveva la tenerezza dell’esperienza di chi ha dato molti estremi saluti, senza smettere mai di comprenderne il significato profondo...

Requiescat in pace. —

... senza mai assuefarsi ad essi, senza ridurli solo a vuote parole.

— Fratelli, sorelle. L’intera città si solleva contro di noi, mentre l’omicida di Yusuf aspetta e vigila dall’Arsenale, ridendo. —

Ora quella voce vibrava di rabbia accorata.

— Combattete con me, e mostrategli che cosa significa provocare gli Assassini! —

 

 

Tutti si avviarono verso l’uscita della bottega seguendo un uomo massiccio che Ràhel, malgrado non l’avesse mai incontrato, non poté che riconoscere come Ezio Auditore.

Sentì mani che la sfioravano e parole sussurrate, gli sguardi che le furono rivolti erano pieni di dolore o del desiderio di vendetta acceso dalle parole del Mentore. E poi fu sola, nel silenzio e nella penombra saturi dell’odore del sangue. Si ritrovò in ginocchio accanto a Yusuf e gli scostò i capelli dalla fronte, percependo ancora un minimo calore sulla sua pelle.

Il cuore di Ràhel rallentò la sua corsa, e poi rallentò ancora, e ancora, fino a diventare un cupo fragore che le rimbombava nella mente, fino a riempire ogni spazio, ogni pensiero, ogni respiro. Una gelida, terribile calma si impadronì di lei e la avvolse una sorta di vuoto al cui centro ruggiva una voce furiosa che chiamava sangue. Essa si espanse, lasciando nient’altro che terra bruciata attorno a sé, riducendo solo a ceneri e macerie ogni altro sentimento. Sul suo viso niente, oltre alla fredda determinazione a uccidere, nei suoi occhi solo l’oscurità che porta al totale annientamento, il pensiero un cristallo affilato teso in un’unica direzione. Nella desolazione della sua anima un richiamo di disperata umanità cercava a fatica di farsi strada, ma lei lo schiacciò, lo soffocò, finché non fu costretto a tacere: non c’era spazio per la pietà, nemmeno per sé stessa, in quel suo ultimo giorno. Un unico respiro, l’ultimo per molti, per tutti quelli che avessero attraversato la sua strada. Era il dardo letale che attraversa l’aria, il sibilo che annuncia la fine, l’eco dei pianti che risuona nei cimiteri. Polvere, solo polvere, nient’altro sarebbe rimasto.

Caricò la balestra e uscì dalla bottega scavalcando con indifferenza i cadaveri. Per strada, gli sguardi che si posavano su di lei si affrettavano ad allontanarsi, mentre il silenzio di una tomba l’accompagnava e niente avrebbe potuto toccarla: la morte camminava al suo passo.

 

Quando Eleni raggiunse il tetto, Bayar era già in posizione. Un ginocchio a terra, la balestra carica, sembrava un predatore pronto a scattare. Incoccato a sua volta un dardo, la ragazza gli si accostò. Tre braccia più sotto, il Mentore, in piedi sulle tegole, era rivolto verso l’ingresso dell’Arsenale e i suoi occhi, due pezzi di brace nell’ombra del cappuccio, parevano poter attraversare tutto lo spazio che lo separava dal suo bersaglio, per incenerirlo dove si trovava.

Malgrado le voci che circolavano sui sensi eccezionalmente acuti di Ezio Auditore, nessuno pensava che fosse fornito di quella capacità. La strada per raggiungere l’obiettivo sarebbe stata lunga e sanguinosa.

— Questa non è una missione come le altre. — disse Bayar senza distogliere lo sguardo dalla figura massiccia del Mentore, la sua voce profonda e musicale era quasi un sussurro. — Sarà una battaglia. Niente che tu o io abbiamo mai visto. Sei pronta? —

— Lo sono. — rispose Eleni tentando di ingoiare la tensione che le seccava la bocca.

Un rumore di passi sulle tegole li fece voltare di scatto. Ràhel imbracciava la balestra e il suo viso era una maschera senza espressione. Eleni è Bayar si scambiarono un’occhiata ansiosa, domandandosi entrambi per un attimo se quella presenza sarebbe stata un vantaggio o un’ulteriore fonte di preoccupazione, senza riuscire a darsi risposta

Il tempo pareva scorrere con una lentezza esasperante, ma quando la mano del Mentore si alzò e la prima ronda cadde trafitta da una pioggia di dardi tutto accelerò di colpo. Ezio si lanciò dal tetto seguito da una nutrita squadra di Assassini sguainando un kijil che tutti riconobbero come quello del Maestro Tazim e travolse la prima linea di sentinelle. I balestrieri si calarono dai tetti, infilando rapidi la porta e guadagnando le postazioni elevate che avrebbero permesso di aprire la strada ai combattenti a terra. Con un occhio teso a individuare le minacce alla sua posizione e l’altro attento ai segnali del Mentore, Eleni correva sulle tegole instabili e saltava sulle passerelle sospese, con il fiato corto, ma senza sentire la fatica. L’aria si era riempita di urla e cozzare di metallo, imprecazioni e lamenti, chi era estraneo alla battaglia fuggiva in preda al terrore, qualcuno chiedeva pietà e una scia di sangue segnava il passaggio dello scontro. Non era facile mirare in mezzo a quella confusione e parecchie volte Eleni si trovò ad esitare per la paura di colpire un compagno. Ràhel stava due passi avanti a lei e i suoi gesti erano misurati e precisi come se si stesse esercitando nel cortile del Covo. Una mano misteriosa sembrava guidare i suoi quadrelli a segno, evitando i compagni di un soffio, colpendo i nemici un attimo prima che vibrassero un colpo mortale. Non esitò mai, non ebbe mai un cedimento, non sbagliò un tiro.

Bayar, che copriva le spalle del gruppo, aveva sempre pensato che la lucidità e la freddezza fossero le caratteristiche più importanti di un balestriere, la distanza dallo scontro fisico permetteva di valutare con precisione le possibilità e le alternative, ma in quell’inferno tutte le prospettive cambiavano e prestare attenzione ai segnali mentre amici e nemici si affollavano sulla linea di tiro, avrebbe fatto sudare freddo anche il veterano più esperto. Non scorse mai incertezza sul volto di Ràhel, né qualsiasi altra emozione, capì che era tutt’uno col dardo e il bersaglio e non poté impedirsi di rabbrividire quando fu sfiorato dal pensiero che ogni nemico ucciso si portasse via con sé un po’ della sua vita.

Quando Ezio irruppe nel cortile scaraventando il Principe Ahmet in mezzo alla polvere, tutto si fermò. Le due fazioni assistevano al confronto, le armi strette in pugno, sanguinando sul lastricato e scambiandosi sguardi feroci. Ahmet perorò la causa della pace, della stabilità e della lotta all’ignoranza, che entrambi gli Ordini perseguivano con metodi opposti. Ezio ribattè che la libertà poteva essere confusa, ma era impagabile. Al centro della questione, però, rimasero le Chiavi di Masyaf, quelle che avrebbero aperto la Biblioteca di Altair, dando accesso a una conoscenza che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo.

— Porta i Sigilli alla Torre di Galata quando sei pronto. — concluse il Principe. — Fallo, e Sofia sarà risparmiata. —

Dopo che Ahmet si fu allontanato accompagnato dal suo seguito, il Principe Solimano si mostrò nel cortile, e tutti gli Assassini trattennero il fiato. Rimasero all’erta  durante il breve colloquio con l’Auditore, durante il quale il giovane giudicò le fantasie templari dello zio pericolose e indegne di un sovrano saggio e si rilassarono soltanto quando il Principe trattenne un Giannizzero dichiarando che il Mentore non era loro nemico.

Eleni e Bayar abbassarono le balestre. Lo scontro non si era concluso come avrebbero voluto, ma entrambi sapevano che il Mentore non si sarebbe risparmiato dall’infilare la lama tra le costole di quel bastardo di Ahmet se ne avesse avuto la possibilità. Invece aveva dovuto sottostare a un odioso ricatto, una schifosa ignominia che gettava discredito su entrambe le parti.

Bayar sputò sulle tegole del tetto su cui era appostato. Aveva la nausea, il cuore gli martellava ancora nel petto e il sudore gli inzuppava la casacca. Gettò uno sguardo intorno e poi si rivolse alla sua compagna, il cui viso mostrava le sue stesse emozioni.

— Dov’è Ràhel? — chiese.

— L’ho vista scendere sul tetto più in basso. —

Eleni si avvicinò all’orlo e guardò giù.

— BAYAR! — urlò saltando di sotto. L’Assassino la raggiunse di corsa.

Ràhel era sdraiata sulle tegole, con la balestra ancora stretta in mano ed Eleni la scuoteva, senza risultato.

— Ràhel! Ràhel! Rispondimi! —

— E’ stata colpita? — domandò Bayar in ansia.

— No, non ha ferite. Θεός! E’ fredda come il ghiaccio! —

Bayar si inginocchiò e posò le dita sul collo di Ràhel percependo un debole, lentissimo battito, poi estrasse il pugnale, accostandolo alle sue labbra: la lama si appannò appena.

— E’ viva, Eleni. Dobbiamo portarla al Covo più vicino. Fai un segnale agli altri, che ci aprano la strada. —

La ragazza si alzò, emise un fischio modulato e gesticolò in direzione degli altri edifici che circondavano il cortile, ricevendo cenni di risposta dagli Assassini ancora in posizione. Intanto Bayar si era caricato Ràhel in spalla e procedeva verso una scala traballante che conduceva a terra. Eleni si calò rapida lungo una grondaia. Quattro compagni li precedevano e altri quattro coprivano loro le spalle mentre si muovevano all’erta attraverso l’Arsenale disseminato di cadaveri e avvolto da un silenzio irreale. Nessun’anima viva osava mostrare il suo volto sotto il sole spietato. Fuori dalla cinta muraria la gente indietreggiava spaventata davanti alle lame sguainate, ai dardi incoccati e agli sguardi implacabili, i banditori tacevano e dalle botteghe non si levava una voce. Arrivarono a destinazione senza incappare in alcuna presenza ostile.

Leyla, Maestro del Covo di Bayezid Sud li accolse col volto pallido e tirato, i vestiti macchiati di sangue e il braccio sinistro al collo. L’ingresso era stato trasformato in un’infermeria e ovunque si sentivano lamenti e imprecazioni.

— Cosa è successo? — chiese il Sami pulendosi le mani dal sangue.

— Non lo sappiamo. Era con noi a coprire il Mentore dai tetti fino a quel maledetto cortile. —

rispose Bayar. — Non ha sbagliato un tiro, e poi l’abbiamo trovata così. Non è ferita, respira, il cuore batte, ma non risponde. —

Sami tastò la fronte gelida di Ràhel e si rivolse a due novizi dall’aria esausta.

— Prendete delle coperte! — ordinò. — Scaldate dell’acqua e riempite la tinozza che sta di sopra! Sembra che sia stata appena tirata fuori da un mucchio di neve. — Mentre quelli scattavano, afferrò una pezza, vi versò sopra una generosa dose d’aceto e la piazzò sotto il naso della ragazza; non ottenendo alcuna reazione, imprecò tra i denti.

— Bayar, portala su. —

...

 

Cosa sono queste voci? Fatele tacere! Sono stanca, chi è che grida? Voglio solo  dormire, non mi toccate! Sono solo stanca, stanca, stanca, sono così stanca…

...

 

Eleni si era addormentata sul pavimento quando un urlo da far gelare il sangue la fece saltare in piedi sguainando il pugnale. Sospirando per il sollievo di non trovarsi nel pieno di un attacco e col cuore che ancora correva all’impazzata, la ragazza si avvicinò al pagliericcio dove avevano disteso Ràhel. Forse era stata lei a gridare, forse si era svegliata.

— Ràhel. — sussurrò posandole una mano sulla guancia. Bruciava di febbre, tremava e dalle sue labbra usciva solo un mugolio basso e indistinto, che sembrava provenire da un luogo lontano. Era poco, quasi nulla, ma era qualcosa. Eleni si aggrappò a quel filo di speranza e iniziò a cantare a bassa voce una nenia di cui aveva dimenticato le parole, un ricordo di sua madre.

 

 

Dove sono? Che posto è questo? Cos’è questa nebbia? Chi è che canta? Si sta bene qui, è così tranquillo, si può riposare.

…il mio amore è andato via…

Sta dormendo, anch’io sto dormendo.

…il mio amore se n’è andato, e non tornerà più…

Quando mi sveglierò lo saluterò con un bacio.

…c’era sangue sul pavimento e lui era già quasi freddo. Era morto…

Quando si sveglierà mi sorriderà e mi prenderà in giro per quanto ho dormito.

…non si sveglierà…

…non lo bacerò…

…non mi sorriderà…

…non sarà più accanto a me …

Non voglio svegliarmi.

 

 

— C’è stato qualche cambiamento? — domandò Bayar.

— Ora sembra che stia dormendo, ma non riesco a svegliarla. — rispose Eleni. — Forse sogna. Ogni tanto grida, oppure si lamenta. Ma se la chiamo non mi risponde. A volte si agita e se canto si calma. —

— Anche tu dovresti riposarti. —

— Lo so. —

— Allora fallo. —

Si voltò per allontanarsi, ma lei gli afferrò la mano.

— Bayar. —

— Sì? —

— Non posso dormire. —

— Perché no? —

— Ho paura. —

— Di cosa? —

Eleni si morse il labbro inferiore.

— Ho paura che lei stia decidendo se vuole tornare. —

— Se non vuole, non sarai tu a trattenerla. —

— Lo so.

 

 

 

Cos’è questo sussurro?

…sei qui…

Oh, questa voce… sei tu?

…non dovresti essere qui…

Perché no? E’  qui che voglio stare, dove sei tu.

…non è il tuo posto…

Il mio posto è accanto a te.

…tu sei viva…

Non mi importa di essere viva. Non voglio esserlo. Voglio stare qui.

…sciocchezze, devi andartene…

Tu non mi vuoi qui?

…non è questo il punto…

E qual è allora? Non voglio tornare dove tu non ci sei.

…devi andare…

No.

…devi andare…

Perché?

…non puoi arrenderti…

Non mi sto arrendendo.

…sì, invece…

Faccio una scelta.

…è quella sbagliata…

Non lo credo.

…vivere è la scelta giusta…

Senza di te? Non ho più niente! Niente per cui valga la pena vivere!

…ti sbagli…

Cosa mi resta?

…torna indietro…

Cosa mi è rimasto? Dimmelo!

…torna indietro, Ràhel. Ti ho lasciato qualcosa…

 

 

La porta del Covo di Bayezid Sud si aprì e si richiuse e la voce di Leyla raggiunse il soppalco.

— Gli accordi tengono, grazie al Principe Solimano. —

Eleni aprì gli occhi e fu presa dal panico. Si era addormentata! Il cuscino odorava di sudore e di olio per le armi e qualcosa le sfiorava i capelli… si alzò a sedere di scatto e tutti i suoi muscoli protestarono. Gli occhi stanchi di Bayar sembravano chiederle scusa, e non c’era alcun cuscino, erano le sue gambe su cui aveva appoggiato la testa quando aveva ceduto al sonno.

— Non ho avuto il coraggio di svegliarti. — disse il giovane. — Ma io non ho dormito. E ho anche cantato per lei. — aggiunse con un sorriso imbarazzato.

— Hai cantato? —

— Sì. —

Ràhel appariva tranquilla, e il suo viso pallido era in pace.

— E’ successo qualcosa mentre dormivo? —

— Non si è più agitata. Forse canto meglio di te. —

 

 

 

La prima sensazione fu di calore.

La seconda voci lontane.

Sete.

Aria secca nei polmoni.

Dolore sordo, come avesse tutte le ossa rotte.

Una luce.

Linee, vaghe e confuse.

— Ràhel. —

La forma pallida e ovale davanti ai suoi occhi lentamente divenne un volto: occhi cerchiati, un debole sorriso.

Ràhel aprì la bocca, ma ne uscì solo un rantolo. La gola le bruciava come il fuoco. Cercò di sollevare la testa, ma non ci riuscì, aveva appena la forza per battere le palpebre. Un braccio la sostenne.

— Non sforzarti. —

Un liquido caldo e dolce in maniera nauseante le scottò la lingua, facendola tossire. Si sforzò di inghiottirlo senza soffocare solo per accorgersi un attimo dopo di volerne ancora.

— E…leni…— A stento riconobbe la propria voce.

Il viso della ragazza davanti a lei parve rianimarsi.

— Bayar! — disse. — Mi riconosce! —

C’erano lacrime nei suoi occhi?

— Chiama Leyla, e il Maestro Serdar. —

Gli occhi di Ràhel si spalancarono e un peso le schiacciò il petto impedendole di respirare. Il mondo si rovesciò, mentre tentava di incamerare l’aria che sembrava voler solo uscire da lei sotto forma di un grido disperato. Da qualche parte trovò l’energia per afferrare la veste di Eleni, sul cui viso era ora dipinto il panico.

— Calmati, stai tranquilla, sono qui, non aver paura…—

Una fitta le attraversò il ventre, come una coltellata, troncandole la voce. L’aria era finita. Era tutto finito. Yusuf era morto. Lottando per trattenere il cuore che pareva voler fuggire e accarezzando per un solo attimo l’idea di lasciarlo andare, Ràhel provò riempire il minuscolo spazio che quel peso infernale sembrava  concederle. Un piccolissimo respiro si fece strada in lei, seguito da un altro, affannato, faticoso e bruciante. Eleni la cullava in un abbraccio forte e gentile, continuando a sussurrare nella sua lingua sempre le stesse parole.

— Μείνετε εδώ… μείνετε εδώ… μείνετε εδώ…—

Resta qui.

Quelle parole si insinuarono nella sua mente e l’avvolsero, trascinandola come un naufrago verso la riva, decise, caparbie, senza cedimenti, finché il peso si sollevò dal suo petto, aprendo la diga delle lacrime e lasciandola più esausta di prima.

 

 

Eleni dormiva tra le braccia di Bayar, Serdar fissava il pavimento e gli occhi scuri di Leyla erano due pozzi profondi quando Ràhel chiese:

— Dovè? Posso vederlo? —

— No, Ràhel. Lo abbiamo seppellito. — La voce di Leyla era piena di tristezza.

— Quanto tempo…—

— Tre giorni. —

— Tre giorni…—

Dov’era stata tutto quel tempo? Qualcosa si agitava sotto la superficie della sua mente, come un ricordo che non riuscisse a emergere, e lei non riusciva ad afferrarlo.

— Il Mentore? E Sofia? —

— Stanno bene. —

— Le Chiavi? —

— Al sicuro. — Era stato Serdar a rispondere.

Ràhel lo osservò con occhi affilati come lame.

— Ora sei tu a guidare la Confraternita? —

Lui non distolse lo sguardo.

Evet. Il Mentore mi ha chiesto di impegnarmi e io ho accettato. Sarà solo un onore per me riprendere da dove Yusuf ha lasciato e non esiterei un attimo a scambiare la mia vita con la sua. Spero solo di essere all’altezza del compito. —

Il volto di Serdar era quello di chi non avrebbe voluto trovarsi in quella posizione, non a quel prezzo e Ràhel sentì la verità delle sue parole colpirla in profondità. Fu lei ad abbassare gli occhi.

Leyla voltò le spalle e si avviò per le scale, Bayar sollevò Eleni senza svegliarla e la seguì, mentre Serdar si inginocchiava accanto al pagliericcio.

— Mi dispiace, Ràhel. Ero lì quella mattina. Yusuf mi ha congedato e io ho ubbidito. Vorrei non averlo fatto. —

Lei scosse la testa e non disse nulla. Era inutile pensare a quante cose sarebbero potute andare diversamente, a come una minima azione avrebbe potuto cambiare tutto. Si trovò a riflettere che se Vali non avesse tradito avrebbe ancora avuto un fratello, ma non avrebbe mai trovato l’amore di Yusuf né conosciuto il dolore che provava in quel momento. Ma la causa di quel dolore si trovava da tutt’altra parte.

— Ahmet? — chiese con il gelo nella voce.

— Il Principe Selim... cioè, il Sultano, si è incaricato personalmente della sua esecuzione. — rispose Serdar con una smorfia. — Ammetto che mi sarei sostituito a lui molto volentieri. —

— E’ lo stesso per me. — sospirò Ràhel abbandonandosi tra i cuscini, la spossatezza che le appesantiva il corpo e le annebbiava la mente. Il dolore sarebbe stato ancora lì al suo risveglio, pronto ricordarle di essere ancora viva, malgrado tutto. Non si sarebbe arresa, sarebbe andata avanti, anche se non aveva idea di come fare.

— Riposati. — disse Serdar sistemandole le coperte, ma lei non lo sentì. Il richiamo dell’oblio era forte, ma una voce sconosciuta la chiamava da sentieri nebbiosi, lontana e indistinta, vicina e profonda. Non capiva da dove provenisse, né se sarebbe riuscita a raggiungerla, l’unica cosa di cui fosse certa era che doveva seguirla.

 

 

 

 

  
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