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Autore: Pleasebemywill    15/04/2015    11 recensioni
Quella che mi ritrovai di fronte non era come la mia vecchia casa. Non era costruita sopra uno spiazzo di sabbia, non sentivo l’odore salino del mare che con una leggera brezza entrava fin dentro casa, non vedevo i surfisti cavalcare le prime alte onde del mattino, messi i piedi a terra non ebbi la scomodità di ritrovarmi le infradito piene di finissima sabbia. Proprio perché forse non avevo nemmeno le infradito, proprio perché forse lì non vedevo nemmeno la sabbia. Lì vedevo solo alti palazzi e case analoghe fra loro: una strada, asfalto, cespugli da decorazione, marciapiedi e quello che poteva sembrare il mare in lontananza in realtà era solo il colore del cielo - solo un po’ più intenso.
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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24


Derek Foster


«D’accordo ragazzi, abbiamo finito per oggi. Subito sotto le docce!» La voce del coach risuonò attraverso il campo. Un sospiro lasciò le mie labbra mentre una mano batteva il cinque e stringeva quella di William. Ero contento che potessi andarmene dopo due ore di duro allenamento e sicuramente doveva esserlo anche lui, nonostante da quarterback e capitano della squadra cercasse in tutti i modi di non darlo a vedere.
 
Ero riuscito a mantenere la testa sul gioco ma comunque diversi pensieri occupavano la mia mente. Ad esempio, gli esami di fine trimestre erano alle porte ed io non mi sentivo abbastanza pronto per poterli affrontare. Come avrei mai potuto riuscire a prepararmi nel giro di poche settimane? Avrei potuto passarli senza studiare o era davvero necessario farlo? E per cena cosa avrei messo dentro il toast? Di cosa avevo davvero voglia, Cheddar o Gouda?
 
«Fermati, devo parlarti un attimo.» La voce di William a pochi metri dietro di me interruppe i miei pensieri quando fui sul punto di aprire la porta per gli spogliatoi. In un primo momento arrestai il passo, aspettando che si avvicinasse per ascoltare ciò che poteva mai avere da dirmi, ma subito dopo quando invece focalizzò il suo sguardo su Brian, che era proprio di fianco a me, capii che avevo frainteso.
 
Durante il riscaldamento avevo notato come il coach e William avevano avuto da discutere un po’ in disparte dal resto della squadra, era cosa comune, William la rappresentava e veniva sempre coinvolto nelle decisioni più importanti come schemi o tattiche di gioco, quindi tutte le responsabilità ricadevano continuamente su di lui e sulle sue scelte, anche quelle dei compagni. Probabilmente, cominciai a pensare, la precedente discussione tra i due poteva aver coinvolto appunto Brian, considerando lo sguardo severo che gli stava indirizzando adesso.
 
«In questi giorni sei completamente assente in campo. Che cazzo ti prende?» Sputò subito William senza giri di parole al suo interlocutore. Ancora respirando con difficoltà mi sedetti in una panca all’interno, cercando di rimanere concentrato sulla loro discussione. In genere mi divertiva ascoltare questo genere di cose, altre volte invece mi sentivo quasi in dovere di assistere, per intervenire nel caso eventuali liti sfociassero in veri e propri scontri fisici – non ero un vero “Paladino della giustizia”, ma mi piaceva credere di esserlo.
 
«Nulla. A cosa ti riferisci?» Brian non parve impiegare molto tempo per formulare la sua risposta – una cosa che, al contrario, era vivamente consigliato fare se chi si aveva davanti era uno come William Henderson.
 
«Oggi hai mancato diversi passaggi e ti ho placcato più volte quasi come se fossi tu stesso a darmene l’opportunità» rispose automatico. Brian interdetto, questa volta, rimase in silenzio e diede a William la possibilità di continuare. «Ascoltami bene. Fai in modo che il coach non proponga un cambio tra te e Duncan per la prossima partita con i Golden Eagles!» minacciò bruscamente «Duncan non è abbastanza in forma per giocare al momento… O forse non lo sei neanche tu?» domandò poi ancora approcciandolo.
 
Brian come un agnellino impaurito  fece un passo indietro. «Non accadrà Will» chinò il capo per evitare il suo sguardo e subito si allontanò. Questo comportamento lo aveva reso solo più ridicolo e sì, era stato tanto divertente quanto mi aspettavo.
 
«Vedi che ce ne è anche per te, non guardarmi in quel modo» mi indicò dopo che la sua preda risparmiata si dileguò, come fosse sul punto di dare una nota di demerito anche a me. Per quel che ricordavo, William non era mai riuscito a godersi quel tipico momento di stanchezza e sollievo che di norma ci assaliva dopo un allenamento, non si riposava sedendosi semplicemente, lui si aggirava per gli spogliatoi buttando merda in faccia a chiunque l’avesse fatto innervosire sul campo da gioco.   
 
«Avanti Will. Non ti sembra di esagerare? Siamo tutti sotto stress per gli esami di fine trimestre, dacci tregua» gli suggerii, mentre il mio respiro lentamente si alleggeriva e fastidiose stille di sudore ricoprivano il mio corpo.
 
Si tolse la maglietta, la gettò sopra la panchina e restando a dorso nudo, madido anche lui di sudore, si strofinò il petto. «Cosa hanno di differente questi esami dai precedenti? Quanto può essere difficile studiare le solite due cazzate?» Chiuse gli occhi e dopo essersi stiracchiato cercò di rilassare i muscoli delle spalle – era veramente distrutto.
 
«Non siamo tutti come te» gli ricordai affliggendomi. A differenza mia, a lui bastava veramente poco per apprendere una qualsiasi cosa con il minimo sforzo.
 
Mi contradisse quasi subito. «Derek vuoi davvero dirmi che se fate proprio schifo ultimamente in campo si tratta di stress per gli esami?» Sapevo che diceva queste cose e usava questo particolare tono per spronarci a dare il meglio di noi, ma spesso scambiava il suo ruolo con quello di coach e la cosa riusciva ad irritarmi parecchio. Ignorandolo mi avvicinai al mio borsone alla ricerca di un asciugamano pulito per avviarmi alle docce.
 
William non restò lì a fissarmi in attesa di una qualche risposta, si avvicinò al suo borsone e ne estrasse dall’interno una bottiglietta d’acqua. Era da sempre stato molto orgoglioso, non faceva assolutamente trasparire le sue emozioni – eccetto quando si trattava di dover pestare di botte o far una ramanzina a qualcuno, in quel caso era una pala eolica durante un forte giorno di vento. Nonostante ciò, potevo dire con fermezza che lui fosse davvero mio amico e che mi conoscesse veramente bene dall’unico fatto che ormai dopo diversi anni aveva imparato egregiamente che fare il sostenuto con me non l’avrebbe portato affatto da nessuna parte. «Che ci faceva con te Rossella al festino di Haynes, ad ogni modo?»
 
Sapevo me l’avrebbe chiesto, ma una parte di me sperava non se ne fosse neanche accorto. «E’ carina, credo» risposi un po’ indugiando.
 
«Quindi?»
 
«Ci sto provando, suppongo.»
 
William simulò un risolino. «Oh, sai ero convinto del contrario. Non lo sta facendo lei da già… Uhm vediamo, sempre
 
«Beh adesso è differente, okay? Non credo comunque di avere tempo per queste cose al momento, perciò non fa nulla.» Ed era vero. La scuola e gli allenamenti ultimamente occupavano la maggior parte del mio tempo, arrivavo sempre a casa di sera stremato e a fatica riuscivo anche solo a dialogare con la mia famiglia per la troppa stanchezza. Lanciarmi in un qualche tipo di relazione non era nei miei piani, ma l’esser venuto al corrente di una possibile infatuazione di Rossella nei miei confronti aveva suscitato in me quell’interesse nel volerla accompagnare al festino di Haynes. In fin dei conti era davvero una bella ragazza.
 
«Okay amico, rilassati. Dove sta il problema? Sfondala. Ma sbarazzatene subito dopo» ghignò William.
 
«Non credo di voler fare questo» risposi dubbioso.
 
William si stupì e si voltò per guardarmi. «E cosa allora?»
 
A dirla tutta non è che fossi proprio completamente contrario, ma Rossella non sembrava quel tipo di ragazza con cui potessi fare ciò e poi, essendo un’amica di Emily da parecchi anni, era come se l’avessi un po’ vista crescere e mi sarei sentito in colpa a fare qualcosa che avrei potuto invece fare con qualsiasi altra ragazza senza vincoli di nessun genere. Forse dovevo ancora capire cosa fosse giusto e cosa invece volessi fare.
 
All’improvviso un fastidiosissimo rumore metallico alle nostre spalle interruppe la discussione. Entrambe ci girammo di colpo turbati, ma non ci volle molto tempo a realizzare che era stato veramente stupido farsela addosso per lo spavento, tra risolini e mormorii vedemmo uscire dalla porta del ripostiglio delle attrezzature Lucas e la sua bella.
 
«Non trovavo il mio borsone» farfugliò Madison con le guance arrossate e il respiro affannoso, sentendosi quasi costretta a darci una qualche spiegazione quando per prima si accorse della nostra presenza.  
 
Lucas nel frattempo si stava alzando i pantaloni della divisa sportiva, il che non aveva molto senso dato che non si era neanche presentato agli allenamenti e non aveva quindi avuto modo di usarla. «Uhm sì esatto. La stavo aiutando.»
 
«Credevo che voi della squadra di nuoto femminile aveste un vostro spogliatoio. Sai, se fosse stato il contrario me ne sarei accorto» alluse William, mentre potetti capire ci stesse mettendo tutta la sua forza di volontà per trattenere una risata.
 
«Ed è così. Non è come sembra!»
 
«E’ tutto apposto, tranquilla.» La interruppi, cercando di metterla a proprio agio, cosa che al contrario non si stava preoccupando di fare William squadrandola come fosse una sgualdrina.
 
In breve tempo, con imbarazzo misto ad adrenalina, sgombrarono lo spogliatoio, uscendo dalla porta del retro. In pochi attimi sia io che William eravamo a terra dalle risate. Lì intorno non c’era nessun altro oltre noi, pensai fosse andata veramente bene ai due amanti che lo spogliatoio fosse stranamente isolato. Scene e incidenti del genere fanno sì che la gente abbia sempre qualcosa di cui parlare. Non che Madison e Lucas fossero carne fresca, ma la loro indecifrabile e soprattutto incompresa relazione veniva vissuta dal resto del corpo studentesco come una partita di biliardo, ma con un’infinità di palle da metter dentro le buche. E loro erano dentro questa partita da parecchi mesi ormai.
 
«Non come loro due capisci? Lucas ne è praticamente rimasto incastrato, come in una grande rete per pesci, lui è un piccolo Salmerino Alpino senza speranze. Vuoi davvero essere un Salmerino Alpino, Derek?» Disse William, riprendendo la discussione che era stata interrotta, cominciando a boccheggiare un po’ muovendo le braccia come fossero delle pinne, un po’ spalancando gli occhi, facendomi letteralmente morire. Biasimavo Lucas, un po’ meno Madison che mi dispiaceva davvero per lei che avesse passato e stesse passando ancora del tempo con lui.
 
«Oh giusto, quindi dovrei comportarmi come te e Alexia?»
 
Si accigliò. «E’ successo solo quattro volte.»
 
«Smettila William.»
 
«Forse cinque. Se non prendiamo in considerazione la scopata dietro-»
 
«-vedi che sono serio. Dacci un taglio.»
 
«Lo sai che mi fotto anche le sue amiche, e se volessi giuro che potrei farmi persino sua madre.» Contestò.
 
«Puoi scoparti chi vuoi, ma Alexia-»
 
«Sei un figlio di puttana!» Delle urla mi interruppero. Io e William ci guardammo confusi e quando altri insulti provocatori arrivarono alle nostre orecchie, ci affrettammo a raggiungere le docce.
 
«Ho solo chiesto alla piccola Henderson se potesse darmi il numero della sua amica Charlotte, lo sai che ho un debole per le vergini.»
 
«Che cazzo hai detto? Pezzo di merda vieni qui.» Brian si scagliò contro Kevin, e subito gli altri ragazzi che si trovavano intorno si tuffarono per separarli. Le voci si sovrapponevano una sull’altra ed era difficile capire chiaramente.
 
«Che cazzo sta succedendo?» Urlò William rabbioso.
 
Kevin cominciò a ridere di gusto, mentre Brian agitato continuava a delirare. «Tu non ti devi neanche avvicinare a lei!»
 
Era incredibile come Brian si stesse battendo per Charlotte, eravamo tutti scioccati e nessuno aveva idea che si sentisse con la bionda.
 
Dato l’accaduto alla festa di Haynes, distolsi il mio sguardo verso William, il vero interessato, e ad un tratto il suo viso non mi parve aver proprio una bella cera. Erano giorni che provavo a parlare con lui della cazzata che aveva combinato, ma con scarsi risultati. Non aveva da dire nulla in proposito, e l’argomento era diventato un taboo.
 
«Siete un branco di coglioni!» Sclerò il quarterback improvvisamente, alla vista di tutto quel putiferio. «In campo fate i piè e le giravolte, poi dentro gli spogliatoi tutti spocchiosi! Certo, sacchi di merda!» Kevin smise di ridere, e Brian si ammutolì. «Vorrei prendevi a pugni in faccia, con una forza tale da rompervi i denti e farveli sputare uno ad uno da quelle putride bocche!»
 
Calò il silenzio, a rimbombare adesso erano solo le urla di William. L’atmosfera divenne un gelo totale, passò più di qualche secondo prima che William ricominciasse. «E tu sciacquati la bocca prima di parlare di mia sorella o di qualsiasi cosa la riguardi, idiota.»



Charlotte Wilson


Era abbastanza tardi per i miei standard. Avevo appena finito di studiare, ero molto stanca e non vedevo l'ora di mettermi sotto le coperte ad ascoltare un po' di musica, dato che beh, era praticamente l’unica cosa che mi era concesso fare. Da quando nonna Wilma aveva spifferato tutto ai miei genitori riguardo la mia fuga segreta (ora non più tanto segreta) dello scorso venerdì sera, la mia vita si era ridotta precisamente a: scuola, casa, studio e pasti principali. In più, oltre a reggere sulle spalle il peso della mia verginità, avevo sulla coscienza il quasi-infarto che avevo procurato alla nonna nel momento in cui alzando il piumone non era me dormiente che aveva trovato ma un ammasso di cuscini.
 
Non era poi così male dopotutto essere in punizione, non avrei dovuto usare nessuna scusa per declinare qualsiasi uscita mi si proponeva di fare… Cioè nessuna, al momento (le richieste dei post-it non contavano). Forse lo pensavo perché ci ero dentro da soli tre giorni, ma ad ogni modo il mio viso non aveva davvero tanta voglia di farsi vedere fuori (non che qualcuno lo conoscesse, oltre i limiti delle quattro mura della mia scuola).
 
Mamma non immaginava neanche avessi a portata di mano il mio vecchio Ipod, perché nonostante lo custodissi con cura e lo tenessi nascosto per non rischiare di farmelo sequestrare, la verità era che non ricordava di avermelo già sottratto qualche anno prima - come dopotutto non poteva nemmeno essere al corrente della sua pessima reputazione nel nascondere gli oggetti. Prima di mettere le cuffie all’orecchie andai a creare una nuova playlist dall’originalissimo nome “Punizione”, che comprendeva quel genere di musica tollerabile durante il  mio attuale stato emotivo. Non avevo preso bene l’umiliazione di cui ero stata vittima né tanto meno la situazione post-it (così la chiamavo), ma ciò che mi amareggiava più di tutto era l’aver perso la fiducia dei miei genitori e di Wilma (per me era, orribile da dire, una comune parente, dal momento in cui da quando ero nata l’avevo vista sì e no una decina di volte). Quindi di ripartire per l’Australia per un tempo che si protraeva tra il sempre e il sempre non se ne parlava proprio, anche se intanto i maggiori, la sera, erano sempre a spasso da qualche parte a godersi la vita come se si dimenticassero non solo del fatto che non erano proprio più una coppia di neo sposini ma anche di avere una figlia a casa da sola a crogiolarsi per la sua patetica vita. Okay, in realtà questo non capitava sempre, ma la loro presenza non mi avrebbe confortato comunque.
 
Inoltre di conforto quella sera non lo era stato neanche quell’improvviso “driin” del campanello alla porta. Qualcuno (chissà, magari un serial killer, uno stupratore cinquantenne o un orso- che sapeva suonare i campanelli)  aveva appena driindirellato, ed io avrei solo voluto non aver udito quel driindirellìo. Driindirellare alle dieci della sera non era davvero legale, credo - a meno che non fosse la notte di Halloween.
 
Raggiunsi la porta, avevo il fiatone. Non per la corsa nelle scale, ma per la paura di chi ci fosse là dietro a cercare chissà chi a quell'orario così scomodo. Con discrezione sollevai lo spioncino e strizzai l'occhio per focalizzare il corpo e il viso dietro la porta. Mi girai di scatto in modo pateticamente teatrale, sapendo già a chi avrei dovuto aprire. Sembrava tanto uno di quei classici cliché da film, con una sostanziale differenza: purtroppo la mia vita non era un film. Non sapevo cosa fare, oltre alla rabbia si aggiungeva dell'imbarazzo e una sensazione di sollievo. Rincontrare William in quella situazione era a dir poco strano, e surreale soprattutto.
 
Appena aprii l’anta, la luce che proveniva da dentro casa colpì il suo viso illuminandolo nel buio della sera, mentre invece a me qualcosa aveva colpito il petto, forse una freccia, forse quella di cupido.
 
«Ciao» esordì lui dopo circa qualche attimo di silenzio. Non mi scomodai di fingermi sorpresa né di accoglierlo con un sorriso di cortesia, anzi rimasi imperturbabile ai suoi occhi, nonostante stessi letteralmente morendo dentro. Mi odiavo per permettermi di provare quel tipo di emozioni nei suoi confronti, a complicare tutto era il suo look da Danny Zuko di Grease, solo senza ciuffo. O forse avevo solo un debole per le giacche di pelle. «E' tardi?»
 
«Sono le dieci.» Che era un sinonimo di “puoi anche andartene”.
 
«Okay, sapevo fossero le dieci e che era abbastanza tardi ma… Potresti allontanarti da casa due minuti?» disse facendolo quasi sembrare un comando. Ma era ovvio che non ci era riuscito.
 
«Sono in pigiama» usai lo stesso tono, solo più convincente. Bastava ripetere a me stessa quanto in realtà l’odiassi.
 
Annuì guardandosi intorno. «Giusto. C’è qualcuno in-»
 
«-forse» lo tacciai subito. Perché non potevo semplicemente sbattergli la porta in faccia? Fissò il suo sguardo su di me, ed io non mi permisi di demordere. Non importava quanto azzurre potessero essere le sue iridi se le sue labbra avevano sputato fuori cose tanto orribili sul mio conto. Senza distogliere lo sguardo, uscì le mani dalle tasche dei suoi jeans e cominciò a torturare il campanello. «Smettila di suonare!» Urlai rabbiosamente.
 
«Non c’è nessuno» intuì mentre le sue labbra si curvarono in un sorriso sghembo. «Mi fai entrare?»
 
Automaticamente presi per chiudere la porta alla sua richiesta inopportuna, ma la sua mano riuscì a bloccarla. «Okay, okay. Rimango qui fuori.» Lasciai che riaprisse l’anta completamente  senza darmene un motivo logico del perché glielo avessi permesso.
 
«Non sono bravo in queste cose, evito sempre di farlo e quando devo proprio mi rendo le cose abbastanza difficili praticamente da solo. Perciò ascoltami, ti dirò quello che devo dirti e me ne andrò, tu non fiaterai e mi ascolterai. Okay?» Cominciò a giocare con le sue mani e nonostante mi stessi stupendo di come se le stesse torturando, lo guardai ancora più severamente. «Okay. Credo di dovermi scusare con te. Non è molto carino quello che ho detto alla festa. In realtà è davvero terribile, considerando tutta la gente che c'era ad ascoltare.» Prese un attimo di pausa e distolse lo sguardo, sforzandosi di continuare. «E mi sembra sia corretto dirti che… Non ero ubriaco mentre straboccavano cazzate dalla mia bocca, mentirei se ti dicessi di esserlo.»
 
I miei occhi si spalancarono e un nodo alla pancia andava sempre più ad ingarbugliarsi. «Non eri neanche ubriaco-»
 
«-Ero semplicemente incazzato, furioso a dire il vero» mi riprese subito.
 
«Perché mai? Cosa ho fatto per meritarmi le cose che hai detto?» Domandai con una voce che andava rompendosi. «Oh giusto, hai pensato fosse divertente! Perciò perché no?»
 
«Non mi andava l'idea di vederti bere o comunque qualsiasi cosa stessi facendo lì in quel bancone con quello come se fossi senza speranza, credo.»
 
«Matthew, Matthew Campbell. Quello da cui prendi l’erba»
 
William si bloccò, sicuramente realizzando che non ero poi così ingenua come al contrario credeva. «Sì, probabilmente lui.» D’altronde non mi era stato difficile da capire, quando Matthew stesso aveva usato con Emily le parole “sorella del mio miglior cliente”.
 
Irritato, prese un respiro profondo e continuò. «Avevo detto di... Fammi finire ti prego, senno sarò costretto a ricominciare tutto da capo.» Il mio sguardo non si scompose. «Stavo dicendo... Okay devo ricominciare tutto da capo-»
 
«-no, sono proprio senza speranza, hai ragione» intervenni ripetendo ciò che mi aveva detto.
 
«Non sei senza speranza Charlie. Sei... Una bella ragazza, effettivamente bellissima, adoro il tuo pigiama, non farti offrire da bere e non farti abbordare dal primo ragazzo che ti capita davanti.» le sue parole corsero veloci, ma avevano avuto modo di lacerarmi il cuore. «Credevo di averti messo in guardia abbastanza da Lucas. Ho decisamente esagerato, non volevo dirti…  In realtà non volevo affatto farlo sapere in giro, sono abituato a stare attorno a ragazze che hanno perso la verginità da un pezzo, quindi cerca di capirmi. Quando ne vedo una diversa vado di matto.» Parse sincero, la freccia che prima mi aveva colpito il petto, adesso vi era praticamente rimasta incastrata. Non ne ero totalmente sicura, ma i suoi occhi mi parsero languidi, e questo lo rendeva così diverso, al punto da ammutolirmi.
 
Alcune immagini di quel venerdì sera occuparono la mia mente, una musica che suonava a martello e il parlottare della gente che si muoveva nella stanza in modo confuso. Il pavimento appiccicaticcio, alcol misto a vomito e bicchieri rossi sparsi sopra i mobili. Poi il vuoto. Il terribile rumore dell’umiliazione e di un pianto soffocato.
 
«Gli ha davvero sferrato uno schiaffo sulla faccia. Deve essere stato così imbarazzante!»
 
Durante la mia fuga dalla villa di Haynes, le voci di un gruppetto di ragazzi, a pochi metri fuori, colpì la mia attenzione. Tutto quella sera correva più veloce di me.
 
«Si chiama Charlotte Wilson, secondo anno. Credo sia australiana.»
 
«Credete che in Australia non si faccia sesso per timore che la sabbia fina finisca dentro le mutande o che so dentro gli slip del costume?»
 
«Tu per non fare sesso invece che scusa hai Anson?»
 
«Questo è il momento in cui potresti parlare o rispondere con una qualsiasi cosa.» La freccia si era spezzata, ma una parte di essa era rimasta dentro il mio corpo.
 
Come ad un tratto il mio viso si inondò di lacrime, William allo stesso modo scioccò. Non riuscì a dire niente ma il suo corpo parlò per lui, avvicinandosi e afferrandomi istintivamente il viso con una mano, per poi però vederla scivolare via da un mio rifiuto. Scossi la testa, le mie labbra si curvarono in un sorriso privo di speranza mentre le lacrime correvano lungo la pelle delle mie guance. «E’ qualcosa che non posso perdonare William.»
 
«T-ti sto chiedendo scusa.»
 
«Tu credi davvero che delle scuse possano rimediare il bruttissimo gesto che hai fatto? Mi hai messo così in imbarazzo, hai sbandierato una mia cosa personale a praticamente tutta la scuola e altra gente che nemmeno conosco. Mi hai preso così in giro, volevo morire per la vergogna, nessuno aveva fatto qualcosa di così tanto cattivo prima.» Presi una pausa dalle parole e mi voltai indietro per evitare che mi vedesse piangere malamente, anche se ormai era del tutto inutile. «Beh no William, non accetterò mai le tue scuse, non farò in modo che la tua coscienza si ripulisca.»
 
«Tu credi sia venuto fin qui solo per questo? Per togliermi dei sensi di colpa?»
 
«Non mi importa davvero cosa ti aspettavi venendo qui. Non sei mio amico, neanche ti conosco, fin dal primo giorno che ho messo piede in quella dannata scuola non hai fatto altro che confondermi le idee e allontanarmi da cose e persone su cui non ho chiesto neanche nessun parere e nessun consiglio.»
 
«Charlie-»
 
«-io non volevo neanche trasferirmi qui, okay? Non ho scelto la scuola da frequentare, non ho scelto la città in cui abitare, non ho scelto neanche di lasciare la mia vita in Australia e tanto meno non ho potuto neanche pianificare se incontrarti o meno, ma giuro, che se avessi avuto l’occasione di farlo non avrei mai scelto e permesso ad una persona come te di incrociare il mio cammino.» Le mie urla avrebbero potuto svegliare l’intero vicinato, ma non me ne poteva fregare di meno al momento. Uscissero pure dalle loro case a lamentarsi.
 
William mi lanciò un’occhiataccia e aprì la bocca per dire qualcosa, ma velocemente la richiuse prima che potesse gettarmi addosso un insulto. «Okay, va bene.»
 
«Va bene.» Concordai immediatamente. Le mie tempie stavano per scoppiare.
 
Si voltò indietro affrettandosi fuori dal portico. Mentre mi rifiutavo di guardarlo andare via, cacciai via le lacrime dal mio viso, ma presi a singhiozzare e a tossire. Non avevo mai alzato la voce in tale maniera.
 
«Sai cosa c’è?» grugnì ad alta voce prima di lasciare la proprietà. «La metà della gente non ricorda nemmeno cosa sia successo a quella festa, e tu stai rendendo tutta questa situazione più grossa di quanto in realtà non lo sia.» Si riavvicinò alla porta, decimando i pochi metri che ci separavano. «Mi dispiace a questo punto che tu abbia incontrato un tipo come me, mi dispiace che tu sia arrivata qui praticamente costretta, e di aver perso magari tutti i tuoi vecchi amici. Ma adesso tu sei qui, ed io anche. Ti sto porgendo delle scuse. Dovresti accettarle, o accettare solo il gesto che so, dato che non lo faccio tanto spesso, diciamo con praticamente nessuno.» Scandì le ultime parole con prepotenza, inalberando il mio animo fino all’estremo.
 
«Tu dici che la metà della gente non ricorda cosa sia successo a quella festa?» Feci qualche passo indietro e andai ad aprire il cassetto di un mobile all’entrata, frugandoci dentro e trovando proprio cosa stavo cercando. «Beh, sono davvero amareggiata di non aver ricevuto l’altra metà delle richieste di cui avrei potuto usufruire!» Cominciai a scrivere contro lo stipite della porta sopra un blocco di post-it. «Che ne dici di un appuntamento al porto William? Oppure preferisci andarci piano? Una cena a lume di candela in un locale scadente ad un’ora dalla città, per poi fottermi in una stanza d’albergo lì vicino?» Ad una velocità disumana ciò che dicevo, scrivevo. E staccandoli con aggressività dal blocco, allo stesso modo li attaccavo sul petto del quarterback. «Beh se non hai soldi per portarmi fuori, va bene anche il retro del pick up di tua madre, tranquillo faremo in modo che non scopra nulla!»
 
Lo shock di William era chiaramente visibile nei suoi occhi. Lasciai uscire un sospiro, frustrata dal mio stesso comportamento, ma non smisi di scrivere sopra quei post-it fin quando non fu lui a impedirmi di continuare. Prese il blocco che avevo in mano e lo buttò da qualche parte nel giardino intorno a noi, così fece con la penna. Strinse le sue mani intorno ai miei polsi, mi bloccò letteralmente e provò a calmarmi, sussurrandomi di finirla, che mi stavo comportando come una pazza e che l’intera situazione stava degenerando. Ma riuscii a liberarmi e con tutta la forza che avevo in corpo lo strattonai lontano da me.
 
«Non voglio più vederti William, non rivolgermi nemmeno più la parola e soprattutto smettila di immischiarti in affari che non ti riguardano, sono capace di scegliermi da sola i ragazzi con cui uscire o con cui avere a che fare!» Senza aspettare una sua risposta, rientrai dentro e sbattei la porta alle mie spalle, lasciandomi cadere a terra, contro di essa. Mi accovacciai e disperatamente ricominciai a piangere. Non avevo idea del perché mi stessi comportando così, sapevo che dopotutto se lo meritava, ma avrei voluto provare un minimo di soddisfazione, che in realtà non stavo provando. Non avevo idea se William fosse rimasto lì in piedi dietro la porta o se se ne fosse già andato via, ma un successivo suono del campanello mi fece dubitare.
 
Mi alzai subito senza preoccuparmi di come sarei potuta apparire ai suoi occhi, forse era il caso di perdonarlo, forse potevo dargli un’altra possibilità, se era davvero ciò che volevo, se aveva davvero aspettato tutto questo tempo qui fuori.
 
Ma quando aprii la porta non era una versione piacevole di Danny Zuko che mi ritrovai di fronte, ma due grosse valigie rosse e accanto ai miei genitori un terzo incomodo.
 
«Abbey.»









   
 
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