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Autore: Caelien    27/04/2015    3 recensioni
"È un foglio bianco. Potrei scriverci pagine e pagine di bugie, ricordi, impressioni fittizie, solo per farlo diventare ancora peggio di come è, un burattino.
Ma non posso. Ho troppo rispetto per la vita umana.
Strano, detto da una psichiatra addestrata ad uccidere con le parole."
дело 17: caso 17.
Sage Trope è un ex agente S.H.I.E.L.D. Più precisamente, una psichiatra, maledettamente analitica e certosina. Le è stato assegnato il recupero del caso numero 17.
In questa storia, raccontata dal suo punto di vista, il suo percorso volto alla riscoperta della memoria. Non la sua. Ma quella di James Buchanan Barnes.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nick Fury, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Anni di torture psicologiche. Congelato e scongelato come un cibo noioso, dal gusto sempre uguale, di cui però non riesci a stancarti.
Anni di torture inflitte. Vite spezzate per il volere di chissà chi.
Chi eri, negli anni Quaranta? Chi eri, a Forth Lehigh? Sembravo un'aliena, ai suoi occhi, quando glielo domandavo.
L'alieno vero era lui. Terrestre, ma non umano. Vivente, ma non partecipativo.

Quanto valeva quel silenzio?




Il gusto ferruginoso del sangue. Quello amaro del cianuro. Uno non riuscivo ad identificarlo.
Tossì spaventosamente, quando mi sentì viva. Inaspettatamente viva. Spalancai gli occhi, in preda ad un attacco di iperventilazione ed ansia.
Ero ancora dove lui mi aveva lasciata, vicino alla pozza di sangue: ero accerchiata una decina di sagome. La vista era appannata, l'udito ovattato.
Mi sentivo come un animale, sventato per un soffio al mattatoio, ma ancora in preda all'effetto degli anestetici.
L'odore della fabbrica era ancora intenso, l'ossigeno ancora rarefatto nei miei polmoni.
Sentivo il terrore di quella situazione farsi strada dal mio stomaco alla mia bocca. Non facendo caso a dove, ma rigettai.

"..Ina? ... st... ne? Ci... nte?"

La vista tornò chiara. Era l'alba.
Medici e poliziotti accerchiarono la zona. Il cadavere era sparito, al suo posto le targhette e la sua sagoma fatta con lo scotch, da prassi.
Gli abitanti del campo erano raggruppati dietro a due giri di nastro dell'FBI, intenti a fissarmi come se fossi stata un animale allo zoo.

"Signorina? Tutto bene? Ci sente?"
L'udito tornò.

"Ho una spalla rotta, credo una rotula lussata. Dovrei fare una lavanda gastrica."
Dissi, tutto d'un fiato. Quel poco che avevo ritrovato.
Il paramedico annuì, facendo cenno a un poliziotto di avvicinarsi. Quandò arrivò, gli sussurrò qualcosa all'orecchio, forse il fatto che ero lucida. Non riuscì a leggere bene il labiale in quel momento.
"Un nostro collega la seguirà in ospedale."
Mi disse, non posando mai lo sguardo sul mio viso e scrivendo, su un blocco, il probabile verbale.

"Non ce ne sarà bisogno. Sono dell'NSA. Farò rapporto io stessa sull'accaduto."
Mostrai la mia targhetta di riconoscimento, tenuta al collo da una catenella.

A ciò che accadde dopo, non prestai attenzione.
Nel tragitto verso l'ospedale, riuscì solo a pensare a come fosse stato possibile che io non fossi morta. Il cianuro non era un amico sleale. Manteneva la sua promessa mortale, sempre.
Nella marea di domande, una bottiglia con dentro un messaggio fece capolino.
Insperato, inaspettato: ferruginoso, amaro. Cos'altro ingerì? O meglio, cosa non ingerì volontariamente?
Una risposta lampeggiava con la luce di un faro, ma la sua assurdità mi portò a non prestarvi attenzione.
Quell'aspetto dell'avvenuto fu eclissato, non appena scorsi un piccolo rivo vicino ad un parco, avendo mossi gli occhi in direzione del finestrino.
Prepotentemente, il ricordo dello sguardo di James mi travolse. E ancora mi trascinò da un'altra parte. In un altro tempo.

Non riesco a smettere di tamburellare le dita sulla scrivania di vetro e di far tremare la gamba destra. È la prova del nove, oggi non posso fallire.
L'appuntamento era stato fissato per le dodici: sono le sedici e trenta, e nello studio ci sono ancora solo io.
Ad ogni passo che sento, mi metto dritta sulla sedia, porto i capelli dietro le orecchie ed aggiusto la maglia sotto al camice.
Il sudore freddo mi bagna la schiena; grazie al cielo non credo dovrò alzarmi.
In questo maledetto sotterraneo mi manca l'aria, non respiro. Non c'è nemmeno una finestra, per distogliere il pensiero dai fascicoli dei casi e distrarmi un po'.
La mia preoccupazione era aumentata quando, qualche giorno fa, ho parlato a Fury di questa visita. Era sorpreso, e non piacevolmente.
Cosa può aspettarmi di così sorprendente?
Sono una psichiatra, un'analista.
Non posso assistere a nulla peggio di quel terrorista georgiano con una sindrome di Tourette post traumatica. Al solo pensiero mi aumenta ancora il battito cardiaco.
L'essere persa in questa foresta di pensieri, mi fa scattare in piedi, quando la porta si spalanca con non troppa grazia. Sono sorpresa, ma lo nascondo bene.
Non riesco a fare altrettanto, però, con lo sgomento dovuto alla vista di chi ho davanti.
"Agente Trope, ha a disposizione un'ora. Noi saremo di guardia qui fuori. Se avesse bisogno del nostro intervento, conosce la prassi."
In questo momento, in realtà, non riesco a ricordare nemmeno la prassi del mio lavoro. Quel viso ha incatenato la mia attenzione.
I medici scortano il soggetto davanti alla mia scrivania; ha metà del viso coperto da una mascherina nera.
Ironicamente, penso ad Hannibal Lecter. Un terrorista cannibale? Originale. Molto utile per il curriculum.
L'ironia svanisce, se lo guardo negli occhi. Mai viste due iridi così deserte.
La visita al manicomio criminale di Baltimora mi ha lasciato decisamente meno impressionata.
Gli agenti tolgono la mascherina dal suo viso, scoprendolo totalmente. Uno dei due mi fa un cenno di saluto, poi insieme escono dalla stanza.
'Sia professionale, agente Trope. Non lasci sfuggire un solo sentimento. Il trattamento del soggetto richiede freddezza estrema. Eviti ogni tipo di tecnica non indicata.' Mi hanno raccomandato, quelli dei piani alti.
Ci devo riuscire, per me stessa e per la mia reputazione. Ma, davanti a quest'uomo, sento come se tutto ciò che conosco non possa essere d'aiuto. Non mi succedeva da quando ero alle prime armi, all'NSA.
"Molto bene. Iniziamo." Ho la voce atona. Come previsto.
"Sta perdendo tempo." Non vi è ombra di supposizione, nelle sue parole. Per lui è un'ovvietà. Ma non mi scalfirà col suo tono di sfida.
"Credo proprio di no. Sono l'agente Sage Trope. Oggi inizieremo uno di una serie di incontri per inserirla nel nostro programma."
"Non voglio essere inserito da nessuna parte."
Cerco di rimanere impassibile, ma non riesco a capire come mai io mi senta così improvvisamente inabile. Meglio dare un calcio alle insicurezze e procedere.
"Ricorda il suo nome?"
"Perché, ne ho uno?"
I suoi occhi sono fissi su di me. Ghiacciai.
"Ricorda da dove viene?"
"Dove sono adesso?"
La sua voce è monotona. Inespressiva.
"Sa perché si trova qui?"
"Me ne voglio andare, adesso."
Mi risponde, ma non certo ciò che speravo. Ho sentito chiaramente una minaccia, in quelle cinque parole, ma faccio finta di nulla.
Intanto, sul mio quaderno scrivo: soldato-fantoccio. Mente obliata. Memoria a breve termine. Stato maniacale. Sguardo vauco. Voce monotona. Minaccioso. Privo di personalità propria. Non da segni di ricordare il passato. Sembra spaesato, ma lo nasconde con l'arroganza.
"Il suo ricordo più datato? Scavi nella memoria. Fin dove riesce ad arrivare?"
Il suo sguardo, finalmente, cambia direzione. Mi era diventato insostenibile.Ma lo avrei preferito, al fatto che ora è scattato in avanti, e ha saltato la scrivania. Io scatto all'indietro; sapevo che mi sarei scordata del pulsante per le emergenze.
I suoi occhi non vedono in me un essere umano, ma un obbiettivo, una preda. Vedo, dalla sua divisa, spuntare una mano metallica. Riesco solo a pensare a come fronteggiarlo. Non è armato.
Mi sporgo in avanti per dargli una gomitata dello sterno, ma è incredibilmente agile, e mi blocca il braccio. Lo gira dietro alla mia schiena. Quando sento l'osso rompersi, urlo di dolore.
Cerco di divincolarmi, tirando un calcio all'indietro, ma sono completamente bloccata contro al muro e lui mi sta letteralmente col fiato sul collo.
"Sono un'arma, un giocattolo, sono un burattino, i cui fili sono strattonati e tirati in ogni direzione." La sua voce ora è un'unica e rapida iniezione di veleno.
"Sono qualcosa che non ha libertà di scegliere." Conclude quella che sembrava una recita e mi strappa via la manica sinistra del camice insieme a quella della maglia. Vede la mia cicatrice, e con la sua mano artificiale la apre. Sento scariche elettriche, pungenti come aghi ardenti, immobilizzarmi e quasi uccidermi di dolore.
Ora sono io un giocattolo, un burattino ed è lui strattonare i miei fili.
Sento ora la mano allontanarsi bruscamente. Libera, cado a terra; non riesco a non spalancare gli occhi, tanto ho i muscoli del viso tesi.
In me esplodono orrore e sorpresa; il primo per non essere mai stata addestrata per una lotta così tanto impari. La seconda per vedere lui, adesso, premere il bottone sul bracciolo della sedia, quello per le emergenze, e far entrare gli agenti.
Mi guarda, ma non vedo pazzia. È lucido, perfettamente. Comprende ciò che fa.
Mi ha risparmiata volontariamente.
Mentre vengo soccorsa, lui viene portato via; ho tempo di vederlo venire sbattuto sul sedile della macchina dell'elettroshock, prima che il sedativo mi annebbi i sensi.


Decisi di andare incontro alla luce del faro. Quel tanto da poter sostare sulla terra ferma, e poi, in caso fosse stata quella sbagliata, ripartire verso il mare aperto.

*

In ospedale dovettero sedarmi, per riuscire a tenermi in osservazione. Mi divincolai come un animale, come quello che avevano osservato con tanta insistenza al campo all'alba, per potermene tornare a 'casa'.
Quando mi svegliai, era di nuovo buio. La stanza era piccola e angusta.
Voltai il viso a destra; una finestra, un piccolo armadietto dei medicinali e la porta verso un terrazzino. Le veneziane mi impedivano lo sguardo all'esterno. Non capii in che lato della città fosse distuato l'ospedale.
Cercai con lo sguardo un orologio o una sveglia; trovai il primo, illuminato da un neon traballante. Erano le ventidue e diciotto. Guardai le mie braccia; erano un punta-spilli. Staccai tutte le flebo con rapidi gesti.
Nelle tasche degli abiti indossati la notte precedente, avevo degli antidoti dello Shield. Resurrezione in bottiglia, li chiamava a volte Natasha. Per adesso avrei lasciato l'organismo libero dai medicinali convenzionali.
Aspettai di riprendere la sensibilità del mio corpo, prima di muovermi.
La gola doleva, così come la spalla, fasciata e sorretta da un supporto rigido. Mi sedetti e mi allungai verso il bordo del letto, per poter prendere la mia cartella clinica. Accesi la piccola luce sul comodino:
'Avvelenamento da cianuro. Presenza di idrossicobalamina nel sangue . Temperatura corporea: 40,7°. Lussazione della rotula e della scapola sinistra.'
La mia attenzione si fermò ad 'idrossicobalamina'.
Per poco non imprecai ad alta voce.
Lui ricordava. Ricordava qualcosa. La dottoressa Trope prese a riparlare, dopo ore, giorni di silenzio.
Si ricordava qualcosa: qualcosa che rappresentava tutto per lui.
Aveva un'immagine da tenere con sé, con cui potersi sentire meno solo.
E la tratteneva disperatamente, impaurito che un nuovo furto di memoria potesse strappargliela via, sostituita da altro, nuovo, vuoto, e da un'attitudine forzata ad eseguire ordini.
Mi portai una mano alla bocca.
Fissai la finestra. Mi ci avvicinai silenziosamente e lentamente. Constatati di essere al secondo piano.
Fare un salto da 3 metri e mezzo era fuori discussione. Ma fortuna volle che le scale di emergenza fossero di fianco al mio terrazzino.
Tolsi il camice dell'ospedale, recuperai i miei pochi effetti personali e indossai immediatamente i miei abiti; inviai un breve messaggio a Las, informandolo che ero viva: avrei continuato la missione. Mandai mentalmente al diavolo l'FBI e il loro verbale, i medici e le loro medicine.
Anche dopo due aggressioni, o meglio, due tentati omicidi, non riuscivo ad arrendermi.

*

Quando fui abbastanza lontana da poter smettere di correre, nonostante gamba e spalla dolessero in modo impressionante, mi fermai a riprendere fiato vicino ad un albero.
Quel quartiere era avvolto dal silenzio; molte case popolari e nessuno in giro. Pensai che Denver fosse la città più noiosa del creato.
Camminando furtivamente, perlustrai la zona per qualche minuto, quel tanto da poter recuperare il senso dell'orientamento. Il cielo era coperto, non potei affidarmi a lui, per trovare la via verso 'casa'.
Continuando a camminare, trovai un parco e una pineta, alla mia destra: feci una sosta, sedendomi ad un tavolo con delle panche. Respirai a fondo, cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Poi il mio dispositivo al polso lampeggiò; era Las.
'Il Soldato risulta ancora in città. Fa' attenzione.'
Respirai ancora più profondamente.

"Ferma."

Una leggerissima pressione sulla nuca, mi fece spostare lievemente in avanti.
Una voce che avevo riconosciuto qualche decina di ore prima, mi gelò qualsiasi liquido avessi in corpo. Altrettanto fece un dito metallico, posato alla base del mio collo, pronto a scaricare altra elettricità.
Un pesante silenzio durò per molti istanti. Fu rotto solo dallo scrosciare improvviso della pioggia.

"Non mi hai uccisa ieri."
Tenere a freno la lingua non fu mai un mio pregio.
Di nuovo quella morsa sulla spalla. Ma stavolta non rimasi immobile. Però non spostai il suo braccio. Feci in modo di poterlo osservare dritto negli occhi, ora spalancati all'inverosimile.
La luce di qualche solitario lampione, mi permise di notare che le sue pupille si dilatarono in modo smisurato, quando incrociammo gli sguardi.

"Chi sei."
Disse, come per un ordine perentorio.

"Lascia la presa e, hai la mia parola, te lo dirò."
Non mi lasciò, ma allentò notevolmente la pressione sulla spalla.

"Tu ricordi."
Gli dissi, col suo stesso tono di voce.
"Perché mi avresti dato l'antidoto per il cianuro, altrimenti?"
Il mio tono non suonò arrogante. Ma identico a quello che usai quando cominciò a fidarsi di me, tempo prima. Fu un tono comprensivo.
Il suo petto era un mare in tempesta. Non fermò quell'affanno, non ce la fece.

"Dimmi chi sei."
Le sue parole tremavano di speranza e rabbia.

"Sage. Ti prego. Ti ho detto la verità."

Quando vidi le sue palpebre muoversi impercettibilmente, il suo petto bloccarsi per un secondo, e quando la mia spalla fu di nuovo nella sua letale morsa, seppi di aver premuto sul tasto giusto.
Mi lasciò andare, quando gridai per il dolore.

"Sage."
Sussurrò.
"Sage."
Le sue labbra tremarono allo stesso ritmo della pioggia, pronunciando il mio nome.
Tese la mano di carne ed ossa verso il mio viso, torcendolo e avvicinandolo al suo; osservò i miei occhi, bagnati di lacrime, fortunatamente inconfondibili tra le gocce di pioggia.
Mi lasciò andare all'improvviso; distinsi chiaramente un rapido cambio di personalità. Il Soldato lasciò spazio anche a James.
Con un rapido gesto, alzò il cappuccio della giacca sui lunghi capelli bagnati, si voltò, e sparì tra i pini.
Ferita e spaesata, di nuovo, mi risparmiò.





 
Ciao a tutti!
Scusate il ritardo, ma ho avuto un esame abbastanza stressante e sono stata occupata per molto tempo. Spero che il terzo capitolo vi trovi bene e che vi piaccia!
La questione comincia ad infittirsi, James è tornato e Sage dovrà assicurarsi la spalla hahahah. Spero che tutto sia sempre all'altezza delle vostre aspettative e che possa piacervi! Per ogni suggerimento o critica sentitevi libere di scrivermi :)
Un grande grazie a Giovanna e a Lucy
Che dire, grazie di essere passati e un grande abbraccio!
Crys*

 
   
 
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