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Autore: Inathia Len    01/05/2015    4 recensioni
Me lo chiedo ancora, se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante. E non lo dico solo per il lavoro… Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più. Se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi, e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei… ma, come diceva lui, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola, della mia storia…
SherlockBBC incontra Novecento di Baricco... ai posteri l'ardua sentenza...
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Scendere

 

 

 

 

 

 

A me ha sempre colpito questa cosa dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla, dico, fran, giù che cadono. Stanno lì, attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile attorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un anima anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora siamo intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, notte. Sette anni dopo, il 13 maggio, alle sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’oceano, Sherlock alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”.

Ci rimasi secco.

 

 

Il vecchio scoppiò in una risata spontanea e John si lasciò sfuggire un sorriso. Ma era vera la cosa del quadro, ci aveva pensato spesso. E sentiva che era il paragone giusto, con Sherlock. Quadri e musicisti, instabili e bellissimi. Opere d’arte fragili e piene di tutto.

-Te lo disse di punto in bianco?-

-Così come te lo sto dicendo ora. E non era un giorno particolare, non era girato o altro… semplicemente voleva scendere.-

-E tu?-

-E io…- annuì mesto John. –E io che ci potevo fare? Sherlock aveva sempre fatto di testa sua. Con lui era così: o ti adeguavi, o passi lunghi e ben distesi, non si sarebbe sentita la tua mancanza. Ma io ci tenevo a lui… nonno, ghigna di nuovo in quel modo e userò questa tromba per… ci tenevo a lui e volevo che fosse felice. Però questa cosa non mi tornava. Insomma, uno non passa trent’anni su una nave e poi decide di scendere così, dall’oggi al domani, praticamente senza dire niente al proprio migliore amico, no?-

-Quindi che facesti?-

 

 

 

A un quadro non si può chiedere. Sembreresti un pazzo a chiedere delle spiegazioni a lui o al chiodo, ma con Sherlock ci potevi parlare. E lui ti rispondeva anche per bene, sensatamente, con garbo, se era in vena.

O se ero io a chiederlo.

Lo trovai sul ponte di terza classe. Le braccia intrecciate e strette addosso, il cappotto nero mosso dal vento e i capelli scuri che si arricciavano ancora di più, impregnandosi di salsedine.

-Perché?- chiesi, mettendomi accanto a lui e calcandomi il cappello sulla testa. Era primavera, ma faceva freddo. Soprattutto se si stava navigando veloci come in quel momento.

-C’è una cosa, laggiù, che devo vedere- rispose, sorridendo appena e voltandosi a guardarmi con quell’aria che voleva dire tutto e niente. Era come se mi prendesse in giro e al tempo stesso mi supplicasse di non lasciarlo mai.

-E sarebbe?-

-Il mare- rispose lui, tutto serio. E forse fu la sua serietà a impedirmi di ridere. Perché, ammettiamolo, era assurda come cosa.

-Il mare?!- replicai scettico.

-Il mare- annuì Sherlock, gli occhi sempre piantati nei miei.

-Sono trentadue anni che lo vedi, il mare.-

E allora lui scosse la testa, un mezzo sorriso che spuntava sulle sue labbra.

-Io lo vedo da qua, John- cominciò a spiegarmi con calma, quasi fosse una nuova teoria scientifica e non la boiata più grande del secolo. –Ma non mi dice nulla. Non mi parla. Se invece io scendessi, se mi mescolassi alla gente laggiù… se mi trovassi un posto dove stare, lontano da tutto questo- continuò, indicando con uno svolazzo della mano la nave e l’Oceano, -se me ne sto un po’ lontano, magari arriverà il giorno in cui arriverò a una costa qualsiasi e il mare mi parlerà.-

Io inarcai un sopracciglio. Intendiamoci, volevo con tutto me stesso che Sherlock scendesse dal Virginian, che diventasse uno “normale”… no, forse quello no, non lo volevo… ma volevo che avesse una vita sua che andasse al di là di questa nave del cavolo. Perché sapevo che un giorno io me ne sarei andato e volevo con tutto me stesso sapere che lui sarebbe stato bene. Quindi, qualunque scusa il suo cervello avesse elaborato, a me stava bene. Bastava che scendesse.

-Mi verrai a trovare, vero?- chiese allora, la voce insolitamente sottile e insicura. Ora non mi guardava, si tormentava le mani pallide.

Dio, mi sembrò di avere un sasso in gola, in quel momento. E pensare che, quella mattina, il mio più grande problema era stato che non trovavo il rasoio per radermi… Mi misi a ridere, allora. E blaterai stronzate sul fatto che certo che lo sarei andato a trovare, che certo che non si sarebbe liberato di me! Che sarei stato ospite suo e di sua moglie tutte le domeniche, che lei avrebbe cucinato e io le avrei fatto i complimenti per l’arrosto… e mentre io ridevo, Sherlock rideva con me. Perché era fatto così: un cervello immenso, un cuore grande che teneva nascosto e un’insicurezza che un giorno lo avrebbe ucciso. Ma se io ridevo, allora la cosa non era grave. Era come se fosse in perenne attesa del mio giudizio. E la risata poteva significare una sola cosa: andava tutto bene.

 

 

 

Fu al terzo gradino che si bloccò. Fermo immobile come un palo.

Era una mattina di marzo, il vento era forte e gli avevo prestato il mio cappello. Okay, glielo avevo dato principalmente perché così avrei avuto una scusa per andarlo a cercare. E lui aveva casualmente dimenticato il suo paio di guanti preferito sopra il mio cuscino.

Che due fessi…

Vabbè, fu come non fu, si bloccò.

Eravamo tutti sui ponti, a guardare la cosa. Era uno spettacolo d’eccezione, la novità dell’anno… persino il capitano Anderson si commosse, quando gli diede la sua prima e ultima paga. Eravamo pronti a dirgli addio, a vedere la sua figura rimpicciolirsi e poi confondersi tra la folla…

Ma lui si bloccò.

Noi a chiederci cosa fosse successo, perché se ne stesse con un piede sospeso tra i secondo e il terzo gradino. Ma Sherlock era di spalle, non avrei potuto leggergli il viso. E ne stette una bella eternità così, nonno, fermo e dritto come un palo. Guardava avanti a sé, sembrava stesse cercando qualcosa. Poi fece una cosa strana: si tolse il capello –il mio vecchio e stupido capello- e lo lasciò cadere oltre la scaletta. Lo osservò volare giù, come un uccello stanco, come una frittata… poi si strinse nelle spalle e prese di nuovo a camminare.

Ma in senso contrario.

Non stava più scendendo, stava risalendo. E aveva sul viso uno dei più bei sorrisi che io gli avessi mai visto. Fece altri due passi e mi si fermò davanti, sempre in attesa della mia approvazione.

-Tu devi essere il nuovo pianista- scherzai, tendendogli la mano. –Mi hanno detto che sei il migliore- risi, quasi sollevato che non se ne fosse andato sul serio. Perché avrei davvero voluto che scendesse… ma allo stesso tempo non volevo. Perché su quella nave, sul Virginian, c’eravamo solo noi due. Se fosse sceso… magari si sarebbe davvero fatto una vita sua. E io non volevo finire nel dimenticatoio. Non quando… non quando mi ero innamorato di lui. Ecco, l’ho detto, vecchio, sei felice?

 

 

 

Frank Andom fece un sorriso sghembo che gli illuminò gli occhi neri.

-L’avevo capito dal momento che sei entrato, John- disse, versandosi dell’altro tè. –Certe cose non sono difficili da vedere- aggiunse, l’aria di una vecchia comare. –A proposito di vedere, ti ha mai detto perché è tornato indietro?-

John si strinse nelle spalle, come svuotato dall’ammissione di poco prima. Era la prima volta che lo diceva ad alta voce, senza zittirsi o senza sentirsi in colpa. Andom non l’avrebbe mai più rivisto e a lui aveva fatto bene cavarselo fuori.

-Non me lo hai mai voluto dire. E io, a essere onesti, non ho mai insistito. Insomma, erano fatti suoi. Solo una cosa mi disse. Era una sera e ce ne stavamo nella nostra cuccetta… disse: “Non dovrai più preoccuparti per me, John. Io non sarò mai più infelice”. Disse così, o una cosa molto simile. E allora seppi che era finita davvero, che non gli sarebbe mai più venuta la mania di scendere…

 

 

 

Il dal Virginian, invece, ci scesi il 21 agosto 1933. A guardare indietro, non ricordo i particolari di quel giorno. Probabilmente li ho rimossi. Probabilmente perché non ne vado fiero.

Non eravamo tipi da addii, Sherlock ed io, quindi non ci dicemmo nulla. Lui non commentò, non fece domande quando glielo dissi, io non provai a convincerlo a venire con me. Avevo capito che quella era una battaglia che non avrei mai vinto.

Tutt’oggi, non so dire perché scesi. Forse perché se sei un marinaio, la tua vita è l’Oceano. Ma se suoni la tromba… ti senti un passeggero a vita. E io non potevo più fare il passeggero. Avevo rintracciato la mia famiglia, avevo sentito che mio padre era morto e che mia sorella aveva seri problemi con l’alcol. Le cose non erano migliorate da quando me n’ero andato, sei anni prima. All’epoca ero stato un ragazzino che aveva inseguito un sogno… e aveva trovato molto di più. Ma non si può vivere nei sogni, per quanto belli e dorati siano. Dovevo scendere e affrontare la realtà come l’uomo che ormai ero. E così andai dal capitano Anderson e diedi le dimissioni. Penso che ci rimase male persino lui… ma prima o poi me ne sarei dovuto andare. Meglio prima, mi dissi.

-Meglio prima- disse Sherlock, guardandomi fisso, senza un accenno di sorriso negli occhi. Forse lo avevo fatto arrabbiare. Forse era triste. Forse non voleva che me ne andassi esattamente come io non volevo farlo senza di lui. Si vedeva che non aveva nessunissima voglia di vedermi scendere quella scaletta.

L’ultima volta che suonammo insieme, fu come la prima: per i ricconi della prima classe, che ci volteggiavamo intorno ignari. E a un certo punto partii per il mio assolo… e sentii il violino venire con me, piano e dolcemente, quasi mi stesse chiedendo il permesso di poterlo fare. E suonammo insieme come non avevamo mai fatto. Senza spartito, senza niente… io che dettavo le regole e Sherlock che mi veniva dietro senza difficoltà. Ci lasciarono andare avanti per un bel po’, quasi tutti sapessero quanto quello fosse speciale per noi. Per me. Per Sherlock. E smisero anche di ballare a un certo punto, perché forse capirono che quella musica, che noi suonavamo a occhi chiusi, non era per loro. Non era per nessuno se non per noi due.

-Guarda quello con la tromba- sentii dire da qualcuno, -guarda com’è buffo! Suona e piange insieme! Sarà ubriaco… oppure è pazzo…-

 

 

Come sono andate le cose dopo che sono sceso di lì è decisamente poco interessante. Ho messo da parte la tromba per qualche anno, sono diventato medico, mi sono sposato… ho fatto quello che Sherlock, storcendo il naso, avrebbe definito “crescere”. Ho fatto anche la guerra, come medico. E sono stato rispedito a casa dopo che mi avevano colpito. Ho divorziato, mi sono sposato una seconda volta… ma nulla mi rendeva davvero felice. Era come se una parte di me –e non tanto piccola- fosse rimasta sul Virginian a suonare la tromba con Sherlock. E infatti ho ripreso a suonarla, ma non era la stessa cosa. Era come se non sapessi più suonare senza l’Oceano sotto le chiappe. E così anche Mary mi ha lasciato…

 

 

-E io sono finito a vendere la tromba per poter vivere- concluse John. –Questa è la mia storia. Nulla di più, nulla di meno.-

Frank sospirò pesantemente, passandosi una mano tra i capelli bianchi. Sembrava essersi dimenticato come si parlasse. E a John quasi venne da ridere, perché lui probabilmente avrebbe provato lo stesso, se gli avessero raccontato una cosa del genere.

Guardò fuori dalla finestra e vide che stava albeggiando. Aveva davvero parlato tutta la notte? Non si sentiva stanco, non gli cadevano le palpebre… era la stessa cosa quando stava alzato a chiacchierare con Sherlock. Non sempre parlavano davvero, a volte non serviva riempire il silenzio di parole… a volte bastava appunto quello, il respiro dell’altro, il sapere di non essere soli in quel mondo galleggiante sperduto in mezzo all’Oceano che era il Virginian.

-E non hai saputo più nulla di lui?- chiese Andom, ora con di nuovo quella strana luce negli occhi. Era un po’ che lo guardava così, si rese conto John, da quando gli aveva detto che Sherlock non era sceso. Mai.

-Abbiamo perso i contatti. Sai, con la guerra in mezzo… e lui viveva in quel mondo dorato lassù, non me la sentivo di trascinarlo nei miei casini, a essere onesti. Però… però sì, ci sono stati dei momenti in cui mi dicevo “Sherlock cosa avrebbe fatto?” o “Sherlock cosa avrebbe detto?”- disse John, ridendo, ma interrompendosi nel vedere gli occhi seri di Frank. –Nonno, che hai?-

-John, ragazzo, io… io non so come dirtelo- disse alla fine lui, alzandosi per mettere via le tazzine. Tra poco era orario di apertura.

-Che succede?-

-Quella registrazione… era in quel pianoforte lì- cominciò, sempre rimanendo di spalle. –Me l’hanno portato ieri mattina. Era nella vecchia nave ospedaliera, quella che vogliono far saltare giù al porto perché è vecchia come il cucco.-

John si alzò di scatto, come se il seggiolino fosse diventato improvvisamente incandescente. Gli era sembrato di riconoscere quel piano, ma si era detto di essersi sbagliato, perché era notte… perché era una notte di ricordi… Ma lui quel pianoforte l’aveva già visto, ci aveva suonato accanto per anni…

-Nonno, qual è il nome della nave che vogliono far saltare?- chiese, cercando di mantenere un tono distaccato e placando l’ansia.

-Virginian, figliolo… ma quel tuo amico, Sherlock… magari alla fine è sceso…- tentò di dire, ma John l’aveva già superato di gran carriera, tromba alla mano.

Si voltò solo quando fu sulla porta, lo sguardo che gli tremava di nuovo.

-No, Sherlock non è mai sceso- disse. -È su quella nave e ora salterà per aria anche lui…-

  
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