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Autore: vali_    13/05/2015    7 recensioni
Dean non si sente a suo agio negli ultimi tempi: beve senza trarne i benefici sperati, dorme poco e sta sempre da solo e questo non è un bene per uno come lui, che mal sopporta la solitudine, convinto che riesca solo a portare a galla i lati peggiori del suo carattere.
Il caso vuole che un vecchio amico di suo padre, tale James Davis, chieda aiuto al suo vecchio per una “questione delicata”, portando un po’ di scompiglio nelle loro abituali vite da cacciatori. E forse Dean potrà dire di aver trovato un po’ di compagnia, da quel giorno in poi.
(…) gli occhi gli cadono sui due letti rifatti con cura, entrambi vuoti. Solo due.
Sam è ormai lontano, non ha bisogno di un letto per sé. Dean non lo vede da un po’ ma soprattutto non gli parla da un po’ e il suono della sua voce, che era solito coprire tanti buchi nella sua misera esistenza, di tanto in tanto riecheggia lontano nella sua mente. A volte pensa di non ricordarsela neanche più, la sua voce. Chissà se è cambiata in questi mesi (…)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bobby, Dean Winchester, John Winchester, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Prima dell'inizio
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- Questa storia fa parte della serie 'Some things are meant to be'
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Storia scritta senza scopo di lucro. Tutti i diritti di Supernatural e dei suoi personaggi descritti in questo racconto sono di proprietà di CW e Warner Bros. L'immagine utilizzata come banner è una modifica di una fotografia trovata in internet, perciò appartiene ai rispettivi proprietari. 

 
Wash away

 
Capitolo 1: The sound of silence
 
Beneath the halo of a street lamp
I turned my collar to the cold and damp
When my eyes were stabbed
By the flash of a neon light
That split the night
And touched the sound of silence
 
(The sound of silence – Simon and Garfunkel)

 
La linea bianca che divide la carreggiata gli sembra pressoché infinita, lunga e diritta di fronte a sé. Le uniche luci in quella strada buia, priva di qualsiasi lampione, sono i fari della sua piccola a cui dà gas, giusto per sentire un rumore diverso dal silenzio che lo circonda. Lei immediatamente risponde facendogli le fusa e Dean sorride sentendo quel suono familiare, quello che di più fra tutti lo rincuora da qualche mese a questa parte.
 
Abbassa appena la radio per poter ascoltare meglio quel rombo gioioso, il saluto della sua fedele compagna di viaggio e accelera un po’, per farla correre nel silenzio della notte che li avvolge.
 
Annusa l’aria intorno a sé: l’odore di terra e umidità che ha addosso invade l’intero abitacolo e, sebbene abbia bisogno di una doccia, Dean finisce per prendersela comoda, rallentando il passo. E’ stanco ed è tardi, l’ennesimo motel malconcio in cui alloggia non è molto lontano e sebbene suo padre dovrebbe starlo ad aspettare proprio lì, stanotte preferisce la compagnia della sua instancabile macchina, che nonostante sia un insieme di pezzi d’acciaio e un motore, è molto meglio di quella nuvola di totale solitudine in cui sembra essere sprofondato ultimamente.
 
Finisce per rientrare con qualche minuto di ritardo rispetto al tempo previsto, ma è comunque troppo presto per i suoi gusti. Si ferma al distributore di bevande fuori dalla sua stanza e inserisce un paio di monete. Ha bisogno di bere, qualcosa che abbia meno alcol possibile tra le sue componenti.
 
Ultimamente ci sta andando giù troppo pesante e, per quanto non è qualcosa che di solito lo preoccupa, stanotte deve restare vigile. E poi, in tutta franchezza, neanche quello riesce ad aiutarlo negli ultimi tempi, perciò tanto vale rimanere sobri. 
                                                        
Da un po’ di tempo ormai, quando è da solo – troppo spesso – e la giornata è andata particolarmente di merda, parcheggia davanti al primo bar che incrocia sulla strada e si ferma a bere. Lo fa finché non sente la gola bruciare, fino a quando sta per sentirsi male e al solo alzarsi in piedi gli gira la testa. E uno come lui, abituato ad ogni tipo di alcolico, per sentirsi così deve bere parecchio. Un mese fa ci ha speso tutti i soldi che era riuscito a vincere in una partita di biliardo con uno sfigato in un bar del Nord Carolina e quando è tornato nella sua stanza – Dio solo sa come ha fatto -, ha vomitato anche l’anima, finendo col sentirsi anche peggio.
 
E’ per questo che ultimamente neanche l’alcol sembra avere l’effetto sperato su di lui, neanche quello sembra riuscire a coprire il silenzio che lo circonda, così opprimente, così ancorato nelle sue ossa. Quando torna in sé, il silenzio piomba di nuovo ed è tutto anche peggiore di prima.
 
Il tonfo della bottiglietta d’acqua caduta dall’apposita spirale che l’avvolgeva in precedenza lo desta da quel pensiero. Si abbassa per afferrarla dall’apertura in basso, svita il tappo e la porta alla bocca bevendone un lungo sorso. La richiude e prende le chiavi, per poi entrare all’interno della sua stanza.
 
Ne osserva i dettagli con attenzione, quasi vi entrasse all’interno per la prima volta: la carta da parati dalla fantasia quasi psichedelica, la muffa sul soffitto, la porta del bagno cigolante, la finestra – rotta e malandata, da cui ogni notte riesce ad entrare uno spiffero di vento freddo che gli arriva fin sotto le coperte, destandolo dal sonno leggero e lasciandolo con gli occhi spalancati per ore -, l’odore di chiuso che sembra intriso nelle pareti di quella stanza malridotta e gli occhi gli cadono sui due letti rifatti con cura, entrambi vuoti. Solo due.
 
Sam è ormai lontano, non ha bisogno di un letto per sé. Dean non lo vede da un po’ ma soprattutto non gli parla da un po’ e il suono della sua voce, che era solito coprire tanti buchi nella sua misera esistenza, di tanto in tanto riecheggia lontano nella sua mente. A volte pensa di non ricordarsela neanche più, la sua voce. Chissà se è cambiata in questi mesi.
 
Si avvicina a quello che per qualche giorno ancora forse sarà il suo letto e osserva quello vuoto accanto al suo.
 
Avrebbe dovuto incontrarsi proprio qui con suo padre, ma sono quasi le quattro di mattina e di lui neanche l’ombra. Afferra il telefono dalla tasca della giacca e compone il numero velocemente, avvicinando poi l’orecchio all’apparecchio.
 
Risponde la segreteria telefonica di John Winchester. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.
 
Dean preme il tasto rosso e butta il telefono sul letto, sospirando sconfitto. Non ha senso lasciare un messaggio in segreteria a qualcuno che non lo ascolterà mai, perché da un po’ è proprio questo che sta facendo suo padre. Non che sia mai stato attento a certe cose, ma ora sta esagerando: sembra voler uscire con ogni scusa, anche le più improbabili e ogni volta che Dean lo chiama, per un motivo o per l’altro, John non risponde e quando lo vede – magari dopo giorni e giorni di assenza – lo liquida con un semplice e definitivo avevo da fare, senza aggiungere altro.
 
Si toglie la giacca e appoggia anche quella sul letto, sospirando nuovamente; abbassa lo sguardo verso la camicia verde militare che indossa e può notare una costellazione di macchie di sangue che si allargano in tutto il tessuto. Alza la testa piegandola leggermente all’indietro e impreca mentalmente contro quel maledetto bastardo che gliel’ha rovinata così tanto; se la toglie borbottando qualcosa di poco gentile nei suoi riguardi, buttandola poi nel cestino. C’è troppo sangue per poterla considerare quantomeno recuperabile.
 
Da quando Sammy ha deciso di prendersi una vacanza, suo padre spesso e volentieri se ne va da solo lasciando Dean a fare ricerche, il compito che fino a qualche mese fa era di Sam, ma non stavolta. Dean aveva un caso serio, dopo tanto tempo, e nonostante quel figlio di puttana gli abbia rubato notti di sonno e distrutto una camicia, è finito all’Inferno insieme a tanti altri vermi come lui ed è questo che conta.
 
Si dirige in bagno passandosi una mano sulla fronte; avrebbe tanta voglia di andare a dormire, ma non lo farà finché suo padre non sarà rientrato. Questa storia dura da troppo tempo ed è ora di smetterla di comportarsi così, come se fosse solo lui quello ferito dal comportamento di Sam.
 
Da quando lui non c’è, il silenzio regna sovrano tra Dean e suo padre, così come la consapevolezza di entrambi che non tornerà indietro. Ha fatto la sua scelta e dovranno accettarla, volenti o nolenti, ma è dura, per John ma soprattutto per Dean che ha sempre considerato quell’unico fratello come la parte più importante della sua vita, e ora si sente quasi gettato via, come se Sammy si fosse liberato di lui ed è un pensiero che gli fa male, che gli crea più dolore di quanto voglia ammettere.
 
Si fa una doccia veloce – gli occhi chiusi sotto il getto dell’acqua, cercando di portare la mente il più lontano possibile dai quei pensieri – e si mette addosso qualcosa di pulito: una maglietta nera, una camicia a quadri verde e celeste, un paio di jeans slavati.
 
Passa davanti allo specchio ed osserva la sua immagine riflessa. Il suo aspetto è leggermente meno curato del solito: due occhiaie visibili anche a chi non lo conosce, gli occhi arrossati per la stanchezza e la barba lunga di due giorni. Nonostante abbia avuto un caso, non ha sentito il desiderio di radersi. Più che altro non ne ha avuto voglia e quel filo di barba in più lo fa sembrare appena più grande. Nonostante non sia uno che porta male l’età che ha… anzi. A ventiquattro anni – quasi venticinque – è ancora sulla piazza e riesce a mietere parecchie vittime.
 
Il cigolio della porta che si apre lo fa scattare fuori dal bagno. E’ ancora fuori per metà, suo padre, e quando si richiude la porta alle spalle lo osserva attentamente, i suoi occhi sempre più stanchi e più spenti. «Ciao figliolo».
 
Dean lo guarda con attenzione. «Dove sei stato?»
«A fare un giro». John gli dà le spalle e si avvicina al letto, appoggiandovi il borsone. Dean lo osserva, la schiena piegata in avanti e sebbene avrebbe una gran voglia di urlargli di rimettersi in sesto e smetterla di fare il ragazzino offeso – con lui poi, che non ha assolutamente niente a che vedere con le scelte del fratello –, questa gli passa immediatamente.
 
E’ così ogni volta. Quando lo vede tornare, l’unica cosa che può fare è ringraziare il cielo e, sebbene lo veda stanco e distrutto, senza nessuna voglia di parlare né consolare nessuno, non gli viene neanche il pensiero di “rimproverarlo” per qualcosa. Dovrebbe farlo, dovrebbe essere egoista e pretendere da lui un po’ di comprensione, perché non è il solo ad essere stato abbandonato da Sam. Anzi, lui avrebbe fatto di tutto pur di farlo restare. E in fin dei conti suo padre non ha mai consolato Dean, in nessun modo. E’ sempre stato lui, fin da quando era piccolo, a mettergli la mano sulla spalla quando era in difficoltà, quando vedeva cose che nessun essere umano dovrebbe mai vedere, mentre quello che doveva fare era solo essere un bambino. Uno come gli altri.
 
Dean non è mai stato egoista nei confronti della sua famiglia. Non come fanno in molti, non come forse dovrebbe essere. Non come ha fatto Sam.
 
John si volta verso di lui. «Dobbiamo andare».
 
Dean annuisce. In questo momento ha solo voglia di dormire, ma ehi, evidentemente non è la sua giornata. «Abbiamo un caso?»
«No. Mi ha chiamato Jim».
 
Dean sgrana gli occhi. James Davis, per gli amici Jim, un cacciatore dell’età di suo padre - anno più, anno meno -, è una delle persone più strane che Dean abbia mai conosciuto in vita sua. Non ha mai provato una grande simpatia nei suoi confronti.
 
«Jim? Non lo senti da secoli, è ancora vivo?» si siede sul letto e infila le scarpe allacciandone poi le stringhe. 
 
«Sì, a quanto pare. Sono tre anni che non si fa vivo, ma mi ha chiesto una mano per una faccenda piuttosto delicata».
Dean aggrotta le sopracciglia, cercando di dare un senso a quella frase. «Definisci piuttosto delicata».
«A dire il vero, non ne so molto. Ha detto che vuole raccontarmi di persona perché è sparito per così tanto tempo, dice che sarà una cosa… evidente».
 
Dean annuisce, piegando gli angoli della bocca verso il basso in una smorfia. Sistema le poche cose che ha, raccogliendole velocemente, prende il suo borsone e via, altro giro altra corsa.
 
Si avvia alla macchina – una Chevrolet Impala del sessantasette, lucida e splendente, l’oggetto più caro che Dean possiede e che ha ereditato proprio da suo padre – e si appresta a seguire il suo vecchio che da qualche mese viaggia su un pick-up nero, un modello abbastanza recente.
 
Dean ha sognato che quella macchina fosse sua per anni. E’ la sua casa, è la cosa che più gli ricorda la sua famiglia, chissà per quale strambo motivo. Forse perché non ha mai avuto un vero tetto sulla testa – non dopo Lawrence – e quel veicolo, i sedili di pelle e la carrozzeria lucida, il posto dove ha passato forse la maggior parte delle notti della sua intera esistenza, ha l’aspetto di una casa molto più di quanto lo abbiano quattro mura e tante tegole ammassate una sull’altra. Quando ha compiuto sedici anni e suo padre gli ha insegnato a guidarla, gli è sembrato un sogno. Per non parlare di quando, pochi mesi prima, John si è deciso a concedergliela, dicendogli che era grande e non poteva sempre stare appresso a lui, che lui e Sam si sarebbero trovati meglio con una macchina tutta per loro e quando gli ha lanciato le chiavi dicendogli semplicemente «Tieni, è tua» a Dean si è bloccato il respiro per l’emozione.
 
Peccato che adesso la guidi da solo, senza nessuno che possa rimproverarlo perché va troppo veloce o perché ascolta la musica ad un volume troppo alto per quelle fragili orecchie da ragazzina.
 
Non c’è più nessun battibecco dentro l’Impala. Né tra Sam e suo padre, né tra lui e Sammy. Solo tanto assordante silenzio, coperto a malapena con il rombo del motore e il volume della musica, così alto per cercare di sovrastare quello dei pensieri, ma non sempre Dean ci riesce.
 
Entrambi guidano a lungo, uno dietro l’altro, e quando arrivano a Westcliffe, Colorado, nel luogo indicato da Jim, è già tarda sera. John parcheggia il pick-up davanti ad un enorme edificio, chiaramente abbandonato, che ha le sembianze di una vecchia casa di ricconi o un albergo. Dean fa altrettanto e osserva quel luogo soprapensiero, prima di scendere sbattendo lo sportello e riconoscere la macchina del vecchio Jim parcheggiata poco più in là.
 
John bussa alla porta e, dopo un paio di minuti che aspettano, Jim gli apre. Ha il viso stanco, due grosse occhiaie, i capelli castani scompigliati, ma ricci proprio come Dean se li ricordava. Sorride e allunga la mano prima a John e poi a Dean e li fa entrare.
 
E’ chiaro che quella specie di enorme casa non è altro che un posto “preso in prestito” per pochi giorni, un luogo dove nessuno gli avrebbe dato fastidio.
 
Rimangono sulla soglia per qualche istante e John lo guarda sorridendogli appena. A Dean basta osservarli per un po’ per capire che entrambi hanno le stesse ferite nel cuore, più o meno profonde. Dean, però, ha sempre capito quelle del padre, molto meno quelle di Jim. Non sa neanche perché abbia cominciato a cacciare. Non se l’è neanche mai chiesto, in realtà. E’ abbastanza sicuro però del fatto che anche lui, un po’ come tanti altri, non abbia avuto altra scelta.
 
«Dove diavolo sei stato per tutto questo tempo?» Jim abbassa un attimo lo sguardo e alza le spalle, rivolgendogli poi un sorriso stanco. «E’ una lunga storia, venite» li invita in cucina dove c’è alcol in abbondanza per poter parlare tranquillamente.
 
Si siedono e Jim prende una bottiglia di whiskey per poi versarne un’abbondante quantità in tre bicchieri diversi. Brindano a qualcosa, forse al fatto che sono ancora vivi nonostante il tempo, le cacce e le ferite sia nel corpo che nell’anima che aumentano giorno dopo giorno e, prima che Jim possa versare il secondo bicchiere a ognuno, una figura compare sulla soglia.
 
E’ una ragazza magra, alta forse un metro e settanta o giù di lì, i capelli castani chiari raccolti in una treccia, due occhi blu, forse i più blu che Dean abbia mai visto e alcune piccole lentiggini a imperlarle le guance. Indossa un paio di jeans scoloriti e un maglioncino non troppo accollato di lana, blu e stropicciato, e sembra uscita da un film delle gemelle Olsen. A Dean sembra proprio la versione sfigata e cresciuta di una delle due. Forse se si curasse di più sarebbe più carina, ma la cosa che più lo incuriosisce in questo momento è sicuramente il motivo per cui si trova lì.
 
Jim sembra accorgersi della sua presenza dopo qualche secondo e la guarda quasi con aria di rimprovero, poi le fa segno di avvicinarsi e lei obbedisce silenziosamente. Anche John, che essendo girato di spalle non poteva vederla, ora la guarda con curiosità.
 
«Beh… lei è… è Elisabeth. Mia figlia». I due Winchester si voltano nella sua direzione quasi contemporaneamente e lo guardano con gli occhi sgranati senza neanche accorgersene. Jim emette una specie di sospiro e Dean capisce il perché aveva definito il motivo della sua sparizione piuttosto evidente.
 
«Loro sono gli amici che ti avevo detto mi sarebbero venuti a trovare». Elisabeth annuisce e sorride appena guardando entrambi. Si avvicina ad una dispensa, prende una bottiglia di plastica piena d’acqua e la porta con sé, sparendo di nuovo nello stesso modo in cui è arrivata, in silenzio.
 
Prima di parlare ancora, Jim emette un grosso sospiro, fissando il bicchiere e rigirandolo tra le dita nervosamente. «E’ lei il motivo per cui sono sparito. Sua madre è… era una donna che ho salvato da un Wendigo più di vent’anni fa. Mi ha chiamato dicendomi che aveva un problema; pensavo fosse qualcosa legato ai demoni, che qualcos’altro l’avesse attaccata, invece mi ha detto di essere malata gravemente e che avrei dovuto fare qualcosa per lei dopo la sua morte. Eravamo stati insieme quella notte, sapete no… il cacciatore salva la ragazza… » Dean sorride appena scuotendo la testa. A lui è successo spesso in tutta la sua onorata carriera che la ragazza poi fosse riconoscente. «Insomma mi ha detto che in più di diciassette anni non mi aveva mai rotto le scatole, ma era arrivato il momento di prendermi cura di mia figlia. Ed è quello che ho fatto negli ultimi tre anni: cercare di andare d’accordo con una ragazzina».
 
Non è difficile capire che non è proprio il compito più gradito al mondo per lui. Da come Dean lo conosce, non è mai stato un fan delle famiglie felici e del crescere bambini.
 
«Ho cercato di tenerla all’oscuro da tutto, almeno all’inizio. Non volevo spaventarla, non volevo che avesse paura di me. Sua madre mi aveva detto che era una ragazza intelligente ma timida e volevo che accettasse il padre prima di farle scoprire il cacciatore. Ci ho messo un po' prima di dirle la verità, ma quando le ho confessato tutto mi ha detto che già lo sapeva, che non dovevo privarmi della mia vita per lei e che mi avrebbe aiutato volentieri. Non lo so, quando ho scoperto di essere padre pensavo fosse solo una grossa seccatura, ma mi sono ricreduto. Non credevo fosse tanto facile convivere con lei… ma è a posto. Si prende cura di me come non aveva mai fatto nessuno e sono contento così. Non nego di averci messo parecchio prima di affezionarmi e abituarmi all’idea, ma ultimamente le cose vanno bene. Ora però vuole fare esperienza sul campo, ma è ancora inesperta e non voglio che rischi la sua vita. Perciò, John, avrei bisogno del tuo aiuto. Vorrei che, almeno per i casi più grossi, tu mi dia una mano. E’ troppo da chiedere?»
 
John non ha neanche da pensarci e annuisce dandogli una sonora pacca sulla spalla. Chiede a Dean di andare di sopra per poter parlare con calma con il suo vecchio amico e lui semplicemente annuisce, sempre ligio al dovere e agli ordini del padre; finisce il suo bicchiere e prende il suo borsone per poi dirigersi al piano superiore.
 
Quando appoggia i piedi sull’ultimo gradino della lunga rampa di scale, si guarda intorno: di fronte a sé, c’è un lungo corridoio dove si susseguono un numero imprecisato di porte. Solo in una c’è un piccolo spiraglio di luce che emerge dallo spioncino ed immagina che lì ci sia quella ragazza.
Si chiede se ha una stanza dove poter dormire in pace o semplicemente appoggiare le sue cose, visto che ha avuto un paio di giornate davvero toste e si sente stanco, la testa pesante, ma fa prima a domandare a lei piuttosto che girarle tutte, perché sono troppe e non ne ha voglia.
 
Oltretutto, da quello che ha capito, dovrà sopportarla per molto; tanto vale cominciare a fare amicizia. Se ci fosse Sam, per lui sarebbe più facile, è sempre stato bravo a intraprendere conversazioni con ragazze non proprio attraenti o comunque poco estroverse nel senso più ampio del termine, ma Dean se la caverà ugualmente.
 
Si avvicina a quella stanza e bussa un paio di volte e, dopo una manciata di secondi, lei esce. Ha un paio di occhiali con la montatura nera appoggiati sul naso e se li toglie subito tenendoli in mano e guardandolo curiosa. E’ chiaro che proprio non si aspettava la sua piccola intrusione in quello che deve essere il suo mondo.
 
«Scusa, non volevo disturbarti, volevo solo sapere se c’è un posto dove posso dormire».
 
La bocca di Elisabeth si chiude in una piccola “o” e poi annuisce, esibendo un timido sorriso. «Giusto, ti faccio vedere dov’è».
 
Appoggia gli occhiali sul letto per poi uscire dalla stanza e Dean la segue. Quella che gli mostra è a un paio di porte dalla sua, è spaziosa e sembra che ci sia passata una cameriera di un hotel di lusso. Ha tutta l’aria di essere stata una bella casa, ai suoi tempi: le pareti bianche sono decorate qua e là con delle fantasie di fiori sbiadite nel tempo, arricchite da un paio di vecchi quadri appoggiati al muro; un paio di tende arancioni coprono la finestra dando un tocco quasi familiare all’ambiente; i due letti singoli al suo interno sono rifatti con cura e c'è un grosso tappeto al centro, sempre sulla tonalità dell’arancio.
 
«Mio padre mi aveva detto che eravate in tre, così ho rifatto entrambi i letti qui, ma… »
 
Dean non ascolta neanche la fine della frase e decide di interromperla. Non vuole parlare di Sam o del fatto che siano arrivati in due, preferisce cambiare argomento e stroncare questo sul nascere. «Che cos’era questo posto prima di essere abbandonato?»
«Un albergo, è per questo che ci sono tante stanze».
 
Dean annuisce, come a registrare l’informazione nella sua testa, e finalmente appoggia il borsone accanto ad uno dei due letti. Poi si volta a guardarla. «Non ci hanno presentato, sono Dean».
 
Le porge la mano e lei sorride gentile stringendola. «Elisabeth, ma se preferisci chiamami Ellie». Dean annuisce e sorride appena. Poi lei spalanca gli occhi, come se si fosse dimenticata di fare qualcosa di estremamente importante. «Aspettami un secondo, torno subito».
 
Dean la guarda uscire e si siede sul letto passandosi le dita sugli occhi. Dopo pochi istanti, sente uno scalpiccio e, quando alza lo sguardo, la vede rientrare ed avvicinarsi. Gli porge una barretta di cioccolata al latte e Dean la afferra guardandola perplesso.
 
«Prima di venire qui ne ho comprate un paio, una per te e una per tuo fratello. Quando faccio viaggi molto lunghi arrivo stanca e la cioccolata mi tira su. Ho pensato che per voi fosse lo stesso».
 
Dean sorride e finge di non sentire un nodo allo stomaco quando il suono di quella parola che è la causa di tutto il suo dolore gli arriva alle orecchie. Cerca di scacciare quell’orrenda e fastidiosissima sensazione e scopre la cioccolata dalla carta per poi mangiarne un morso.
 
«Non ho quest’abitudine, ma grazie». Elisabeth sorride e Dean le fa cenno che se vuole può sedersi accanto a lui. Lei lo asseconda, sedendosi in fondo e incrociando le gambe. Con quella treccia di lato e la posizione in cui si è seduta, a Dean sembra tanto un’indiana, una versione castana chiara della bambina che ci provava con Peter Pan nel classico Disney. «Siete qui da molto?»
«No, qualche giorno».

Dean annuisce e nota che lei lo guarda con un certo entusiasmo. Non è il solito modo in cui una donna lo scruta, c’è solo una strana curiosità nei suoi occhi. Genuina, ma strana.
 
«Anche tu sei un cacciatore?» Dean fa cenno di sì con la testa. «Lo fai da tanto?»
«Da quando avevo sedici anni».
 
Elisabeth sorride. «Io sono una specie di… sì, tipo una cacciatrice da teoria. So tutto su tutto: vampiri, licantropi, tutte le bestiacce possibili non hanno segreti per me. Ma nella pratica sono più scarsa, devo imparare tante cose e non so se mio padre ha tanta pazienza per insegnarmi». Fa un’espressione buffa e Dean non può fare a meno di sorridere. «Ci penserai tu a farlo?» e a quel punto Dean non riesce a trattenersi e fa una faccia quasi schifata ed Elisabeth, vedendolo, scoppia a ridere di gusto. Anche Dean sorride poi, quasi lei fosse riuscita a contagiarlo in qualche modo, ma se dovesse chiederglielo ancora dovrà dirle che fare il babysitter non è proprio la cosa che lo attira di più. «Tranquillo, non ti chiederò tanto se non vuoi. Pensavo che mio padre vi avesse chiamato apposta, ma se non è così non fa niente» lo guarda tranquilla e Dean si chiede se Jim si sia bevuto il cervello o cosa per farle solo pensare una cosa del genere. «E’ che io non sono mai andata a caccia da sola. So sparare e tirare calci ai cattivoni, più o meno… ma a caccia non ci sono mai stata, neanche con mio padre».
 
«Ci sarà una prima volta anche per te».
 
Dean sorride appena ed Elisabeth fa lo stesso, poi guarda l’orologio e scatta in piedi in un nanosecondo. Dean la osserva perplesso, ha uno strano… modo di fare, decisamente. «Ti lascio dormire, ti vedo stanco. Ci vediamo domattina».
 
Dean annuisce e la saluta, guardandola chiudersi la porta alle spalle. Si sveste e si infila sotto le coperte, decisamente più calde e corpose di quelle delle notti precedenti. Nessuno spiffero alle finestre, questo posto sembra quasi normale. O perlomeno vivibile.
 
Si mette di lato, cullandosi nella piacevole sensazione di calore che gli trasmette quella trapunta e non ha neanche il tempo di pensare a quello che è appena successo, a quanto tempo dovrà condividere con quella strana tipa e suo padre – che è tutto fuorché una persona tranquilla – che chiude gli occhi e il sonno lo travolge quasi subito, facendolo crollare dopo pochi minuti.









Note: Arrivo qui dopo tanti e infiniti ripensamenti, in punta di piedi e con tutta l’umiltà che possiedo, trovando – non so come – il coraggio di pubblicare questa storia.
Cercherò di essere il più breve possibile, anche se non è semplice perché ho tantissime cose da dire.
Questa storia è composta da 28 capitoli. Salvo imprevisti – che in caso saranno comunicati al momento –, ne pubblicherò uno a settimana, ogni mercoledì.
Il titolo di ogni capitolo è estratto da una canzone o una citazione, la stessa che poi apre ognuno. Non era mia intenzione impazzirmi in questo, ma quando sei in pullman con le cuffiette alle orecchie e ne senti una che ti sembra potrebbe rappresentare alla perfezione l’umore di un personaggio in un particolare momento della storia, è difficile fermarsi e non cercarne altre poi. A me è successo questo. Anzi, molto spesso sono state le canzoni a “cercare me”, in un certo senso.
So che non è l’idea più originale del mondo, ma francamente non è lo scopo di questa storia esserlo. Non ho idea se sia qualcosa di già visto – o in questo caso già letto –, ma ho fatto del mio meglio, cercando di metterci tutta me stessa. La condivido qui (con un’ansia indicibile, una cosa che non ho mai provato per nessuna delle fanfiction che ho pubblicato finora) e se qualcuno che passa a dare un’occhiata ha voglia di fermarsi un minuto per lasciare un commentino, è senz’altro bene accetto. Positivo o negativo che sia, sono qui per migliorare e senza dubbio preferisco un “che schifo” sincero argomentato che un “bravissima” tanto per dire.
Ah, ho cercato di rimanere il più possibile nello stile delle canzoni dello show perché a) Supernatural ci ha viziati con troppa buona musica e b) è, appunto, anche il genere che piace a me. Anche se a volte uscirò un po’ dal seminario, visto che non sono monotematica come Dean *coff coff* e mi piace spaziare in altri generi. E a volte ci stavano troppo bene, è inutile girarci intorno xD
Vi avviso che i capitoli sono un po’ lunghini… un po’ tanto. La mia “beta” dice che “più sono lunghi, più c’è da leggere, più lei è felice”, perciò spero che sia lo stesso anche per altri xD   
Prometto che le prossime note non saranno così lunghe e un’ultima cosa: anche il titolo della fan fiction è una canzone. Si tratta di “Wash away” di Joe Purdy (a chi ha visto Lost dovrebbe ricordare qualcosa… ) :)
A presto!
 
  
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