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Autore: Halley Silver Comet    15/05/2015    10 recensioni
Sullo sfondo degli eclettici Anni ’80 si intrecciano fiaba e realtà, traffici illeciti e misteri, pregiudizi e desideri di libertà, mettendo alla prova i quattro protagonisti.
Ci sarà ancora tempo per il tanto sospirato lieto fine?
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione.
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice
.”
Genere: Commedia, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Vento dell'Ovest - Capitolo 13



- Capitolo Tredicesimo -
Vento di Quiete




M
olinari fissò il fondo della tazzina ormai vuota, pensando che il caffè fosse finito davvero troppo presto: non sapeva di preciso quanti ne avesse bevuti dalla sera precedente, ma di certo doveva aver superato abbondantemente la decina.
Poggiò con cautela la tazza sul piattino e lo spinse via, cercando di scacciare dalla testa quella vocina (sorprendentemente simile a quella di sua moglie), che lo stava rimproverando per l’abuso di caffeina, mentre si giustificava con la consapevolezza che non avrebbe potuto fare altrimenti, giacché aveva aspettato per mesi di poter mettere un punto fermo alle indagini sul contrabbando di armi nella Capitale.
Nonostante Navarra fosse riuscito a fuggire, infatti, la squadra del commissario era comunque riuscita a catturare uno dei suoi complici e, di conseguenza, avrebbero potuto interrogarlo con la speranza che si decidesse a parlare e rivelasse qualche particolare utile per prendere anche il suo capo e, finalmente, mettere fine a tutta quella storia.
L’uomo sospirò e si alzò dalla sedia, trascinandosi verso la porta
e cercando di ignorare il fatto che non dormisse da più di quarantotto ore, conscio che non fosse più un giovincello e che, quindi, non riuscisse a tollerare come una volta le ore piccole.
«Tonelli!» tuonò, mettendo la testa fuori dal suo ufficio e guardando a destra e a sinistra del corridoio, cercando con lo sguardo l’agente che, nel giro di qualche secondo, gli si materializzò davanti.
«Ha chiamato me, commissario?» domandò quello, con tono apprensivo.
«Conosci un altro Tonelli qui dentro, per caso?» gli fece Molinari, infastidito dalla scarsa prontezza del ragazzo.
«No, ci sono solo io».
«Meno male!»
Saverio aprì la bocca per dire qualcosa a sua discolpa, ma l’altro, deciso a non perdere ulteriore tempo, non gli permise di emettere una sola sillaba, incalzandolo con altre richieste: «Hai chiamato l’ospedale?»
«Certo, commissario, e i medici hanno detto che l’operazione è perfettamente riuscita. Presto potremo interrogare Martínez» snocciolò il giovane, con somma diligenza.
«Molto bene. Hai convocato anche la signora Fiorenzi per la deposizione?»
«Sì, commissario, ha detto che sarebbe venuta subito. Preferisce ascoltarla lei o se ne occupa Pontori? Sa, mi sembra un po’ sclerotica...»
Se per una frazione di secondo Molinari si era rilassato, quel giudizio buttato lì dal suo sottoposto lo fece tornare nuovamente contratto.
«Preferisco ascoltarla io» decretò, spazientito. «E, comunque, Saverio, il tuo non è un atteggiamento degno di un bravo poliziotto: devi fare a meno dei commenti personali. Infatti, è solo grazie alla collaborazione di quella donna, se siamo riusciti ad individuare subito in quale caseggiato si nascondesse Navarra».
L’agente incassò il rimprovero e chinò la testa, in segno di rispetto verso l’insegnamento che gli aveva impartito il superiore, mentre il commissario si voltava per rientrare nel suo ufficio. Tuttavia, un nuovo pensiero lo costrinse a tornare sui suoi passi e a rimettere la testa fuori dalla stanza: «Ah, Saverio, dopo la signora Fiorenzi voglio sentire Guido Tolomei ed infine la ragazza, mi pare che si chiami...»
«Beatrice» completò Tonelli, mostrando di essere preparato sull’argomento.
L’uomo, al quale non era sfuggita tale prontezza, inarcò un sopracciglio.
«Esatto» borbottò. «Se fossi in te, però, non mi ci affezionerei troppo».
Il ragazzo lo fissò per un attimo in tralice, per poi affrettarsi a spiegare: «Io? Ma no, si figuri! Le pare che...»
«Il mio è solo un buon consiglio, ecco tutto» tagliò corto il commissario, affatto propenso a discutere oltre. «Ora vai, ti ho dato dei compiti da assolvere e mi aspetto che tu li porti a termine al più presto».
Poi si voltò, prima che l’altro potesse rispondergli, sbattendo pesantemente la porta e tornando di malumore alla sua scrivania chiedendosi perché mai dovesse essere circondato da incapaci. Non poteva credere che adesso i suoi agenti si mettessero a civettare anche con gli interrogati!
Saverio era proprio un ingenuo se credeva di potersi mettere indisturbato a fare il filo a quella ragazzina, ipotizzando che, se Saltarini in persona si era mosso, doveva essere cara a qualcuno dei suoi importanti amici.
Tuttavia, ora che ci pensava, per Molinari c’era ancora qualcosa in quella vicenda che continuava a non tornare: il Questore si era interessato relativamente a come stesse la ragazza, mentre, invece, era rimasto molto deluso dal fatto che Navarra fosse sfuggito. Questo, ad una prima analisi, sarebbe sembrato anche normale da parte di un capo di Polizia, se non fosse stato per le dinamiche alquanto oscure che avevano animato sin dall’inizio l’intera vicenda.
Saltarini, infatti, era venuto a consegnargli il fascicolo contenente il nome di Navarra due giorni prima che fosse rapita la ragazza, senza contare che il dottore l’aveva avvisato solo poco prima che fosse avviata l’operazione della probabile presenza, come ostaggio, di una giovane legata ad una famiglia che conosceva personalmente: era come se si fossero intrecciati due filoni apparentemente distinti con, in realtà, un unico punto in comune, il quale doveva essere lo stesso spagnolo.
Chi era l’informatore anonimo che aveva fatto il nome di Conrado de Navarra? E, soprattutto, quel delinquente stava scappando proprio da lui? Da quel che aveva capito, la ragazza aveva avuto solo la sfortuna di avere per fratello un emerito cretino e non sembrava strettamente coinvolta con i traffici, ciononostante l’avrebbe ascoltata comunque.
D’improvviso, il commissario si riscosse dai suoi pensieri, prese una penna e, come gli aveva insegnato un capace ed abile poliziotto durante il corso di formazione, scrisse su un foglio alcune parole-chiave con annessi punti interrogativi, cerchiandone una in particolare: regolamento di conti.
***

La saletta nella quale avevano relegato Beatrice, in attesa che qualcuno la chiamasse per ascoltarla, era talmente angusta che, per un attimo, le ricordò la stanza che aveva a casa della zia: stretta e buia, aveva tutta l’aria di essere un’intercapedine riadattata a spazio comune, arredata con due file di sedie, un tavolino e una macchinetta per il caffè, che aveva tutta l’aria di essere inutilizzata da tempo.
La ragazza prese tra le dita una ciocca dei suoi lunghi capelli e cominciò a lisciarsela, ancora abbastanza stordita dagli ultimi eventi, che l’avevano letteralmente travolta, a cominciare dal suo salvataggio e dalla fuga di Navarra e di Pablo, i quali erano riusciti a farla franca solo per mera fortuna, visto che la polizia era stata ad un soffio dall’arrestarli entrambi. Tuttavia, la cosa davvero importante era che avesse riconquistato la propria libertà, anche se la consapevolezza che quel delinquente era ancora a piede libero non la rendeva affatto tranquilla.
E se avesse provato a rapirla di nuovo? Ma no, sarebbe stata una follia, giacché il polverone alzatosi intorno all’uomo era tale da non essere certo possibile che fosse dimenticato tanto presto.
Rincuorata da questo pensiero, la fanciulla sospirò e si abbandonò contro lo schienale della sedia, appoggiando la testa contro il muro e rivolgendo gli occhi al soffitto, rilassandosi forse per la prima volta da quando quella brutta storia era iniziata: erano passati solamente tre giorni da quando i due scagnozzi dello spagnolo l’avevano prelevata a forza in Via Merulana, eppure a lei sembrava che fossero passati anni, tanto le vicende erano state dense di sentimenti forti, primo fra tutti la paura.
Socchiuse appena le palpebre, ripercorrendo rapidamente i momenti della sua prigionia e rivivendo con chiarezza il terrore provato, nonostante non si fosse mai arresa e avesse lottato con le unghie e con i denti pur di uscirne sana e salva, anche quando aveva creduto che ogni speranza fosse persa.
Infatti, proprio nel momento di massimo sconforto, erano arrivati a salvarla...
«Preferisci un tè o un caffè?»
Sobbalzando, si voltò nella direzione dalla quale proveniva la voce e, sulla soglia della stanza, riconobbe l’agente che le aveva tagliato i legacci, il quale, se non ricordava male, aveva detto di chiamarsi Saverio Tonelli.
«Scusami, non volevo spaventarti, ho solo pensato che volessi qualcosa di caldo, dopo tutto quello che hai passato» si giustificò lui, scrollando le spalle.
«Oh, son a posto così, grazie» gli rispose, squadrandolo guardinga: non si era certo dimenticata che quel tipo l’aveva fissata troppo insistentemente, mettendola a disagio. Va bene che era provata per la brutta vicenda che aveva vissuto, ma non era certo scema o smemorata.
Saverio annuì ed entrò, fermandosi dietro al tavolo e poggiando le mani sul ripiano.
«Non vuoi nemmeno un panino o un toast? Devi essere affamata».
L’inconscio di Beatrice le riportò alla mente quella volta che Marcello l’aveva portata a mangiare uno spuntino in quel lussuoso bar del centro, facendole spuntare sulle labbra un dolce sorriso: chissà dove si trovava ora il giovane e chissà cosa avrebbe detto di ciò che le aveva fatto Navarra! L’aveva cercata in quei giorni? Era andato a casa sua? Guido gli aveva confessato cosa era successo? Al solo pensiero che aveva rischiato di non poterlo rivedere più, lo stomaco le si contrasse dolorosamente.
«Beatrice...?» la richiamò flebilmente il poliziotto, interrompendo la raffica di domande che le stava affollando la testa.
«Ehm... No, grazie» gli disse, sperando di indovinare la risposta, visto che non aveva sentito la domanda. «Sto bene così, gradirei solo un po’ d’acqua, per favore».
Il ragazzo le sorrise ed uscì, per tornare subito dopo con un bicchiere di plastica pieno di acqua fresca.
«Ecco qua, purtroppo non abbiamo altro».
La fanciulla fece spallucce: in quel momento, l’ultima cosa che la preoccupava era di che materiale fosse il recipiente dal quale poter bere.
Lui si appoggiò nuovamente al tavolo, questa volta tenendo le mani dietro alla schiena, e la guardò, inclinando la testa di lato e serrando le labbra, come se stesse pensando a qualcosa di molto impegnativo.
«Cosa ne diresti di uscire insieme, una sera di queste?»
A quell’affermazione, le andò di traverso l’acqua e tossì talmente forte che le lacrimarono gli occhi.
«Ho detto qualcosa di sbagliato? Non mi dire che non sei mai stata invitata ad uscire da un ragazzo!» 
Beatrice poggiò il bicchiere a terra e si ricompose prendendo un bel respiro, dopo di che lo fulminò con lo sguardo, inviperita: altroché, quelli che aveva avuto con Marcello erano stati degli appuntamenti di tutto rispetto! E quella conversazione alquanto irritante era solo l’ennesima conferma della iella che continuava a perseguitarla: doveva avere una sorta di tendenza ad attirare idioti, perché altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi il fatto che continuava ad incontrarne, giacché, tra Guido, Navarra e quel deficiente che aveva di fronte, proprio non sapeva chi potesse essere il peggiore.
«E credo che sian affari miei» gli rispose, acida, senza smettere di guardarlo di traverso.
«Non ti va di uscire con me?» incalzò lui, probabilmente nella speranza di riuscirle a strapparle un consenso.
La ragazza avrebbe tanto voluto dirgli che non avrebbe saputo cosa farsene di lui, quando era già impegnata (per giunta con Marcello), ma, poi, pensò che fosse una risposta maleducata ed indelicata, anche se, con la sua insistenza, quel tipo l’avrebbe più che meritata. Alla fine, decise di mantenere la calma e contò mentalmente fino a tre, optando per un commento più neutro: «Mi avete appena liberata da un sequestro, uscire con un ragazzo non l’è certo la mia priorità».
Riafferrò il bicchiere sul pavimento e prese un altro sorso, cercando di mantenere un contegno distaccato, mentre l’altro assunse un’espressione che mostrava tutto il suo disappunto nell’aver ricevuto un due di picche.
«E, comunque, c’è già un altro» sottolineò ulteriormente lei, così da mettere definitivamente in chiaro le cose, affinché l’agente non si facesse venire altre fantasie o tornasse all’attacco.
«Vuol dire che... sei fidanzata?» domandò Tonelli, mentre il suo viso si trasformava da indispettito ad una maschera di delusione. 
«Sono... impegnata» la buttò lì Beatrice, mantenendosi sul vago. D’altra parte, nonostante ciò che c’era stato tra lei e Marcello, non poteva affermare di essere la sua ragazza a tutti gli effetti: farlo non sarebbe stato veritiero.
«Non è la stessa cosa» puntualizzò Saverio, stizzito, incrociando strettamente le braccia contro il petto.
A questo punto, Beatrice era sinceramente risoluta a lasciar perdere la diplomazia e a dire a quell’odioso invadente cosa pensava realmente di lui, quando l’imperativo - e quanto mai provvidenziale - intervento del commissario Molinari fece tremare le pareti: «Saverio, smettila di fare il civettone o ti spedisco a fare il secondino1! Portami subito la ragazza, voglio parlare con lei immediatamente!»
***

L’ennesima volta che Marcello sia alzò dalla sedia, per poi risedersi quasi subito, Vittoria sbuffò: «Non è facendo così che convincerai i poliziotti a dirti qualcosa, sai?»
«Vitto’, lascialo fare, deve pur sfogare il nervosismo in qualche modo!» le disse Gerardo, osservando preoccupato l’amico, che non aveva sentito nemmeno una parola: da quando gli avevano detto che, in quel corridoio buio e stretto, avrebbe aspettato solo qualche minuto, perché l’avrebbero chiamato presto, erano passate almeno tre ore, senza che nessuno si facesse vivo o gli riferisse le effettive condizioni di Beatrice.
La paura che le potesse essere successo qualcosa di brutto si andava rafforzando ogni minuto che passava, giacché gli era sembrato plausibile che tutto si potesse risolvere in breve tempo, se la fanciulla fosse stata effettivamente bene, ma così non era stato.
Stava quasi per arrendersi allo sconforto, quando l’agente che lo aveva accolto all’ingresso del commissariato sbucò da dietro una delle porte che si aprivano sul corridoio.
«Signor Tornatore, venga, abbiamo quasi finito».
Il giovane scattò in piedi come una molla, sentendosi di colpo molto più sollevato: l’espressione di quel poliziotto sembrava serena, pertanto non sembrava che ci fossero cattive notizie all’orizzonte e c’erano buone probabilità che Beatrice stesse bene.
«Noi ti aspettiamo fuori» disse Vittoria, sorridendogli fiduciosa, mentre Gerardo gli dava una pacca d’incoraggiamento sulla spalla. Lui li guardò entrambi ed annuì, avvertendo dentro di sé una leggera apprensione che, però, decise di ignorare, almeno per il momento.
L’agente lo attese e, una volta che ebbe oltrepassato la soglia, richiuse la porta alle loro spalle. Marcello venne condotto in un altro corridoio, più ampio del precedente, ma ugualmente cupo, dove c’erano un altro giovane poliziotto ed un uomo sulla cinquantina, il quale stava cercando di congedare un’arzilla vecchietta che, invece, non sembrava particolarmente interessata a levar le tende.
«Lo sapevo che in quella casa c’era qualcosa che non andava, era disabitata da anni! Chi mai andrebbe a vivere in un rudere come quello? Solo chi ha qualcosa da nascondere, lo dicevo io!» stava riferendo la signora, agitando il bastone che usava per camminare. «Mi sono detta: “Ida, qui devi chiamare la polizia, perché c’è qualcosa che non quadra”. E ho fatto bene!»
«Ha fatto benissimo, signora Fiorini, il suo aiuto ci è stato davvero prezioso» replicò stancamente l’altro. Non indossava l’uniforme quindi, probabilmente, non era un semplice agente, aveva il viso di chi non dormiva da giorni, stanco e sbattuto, e il biondo pensò che quell’indagine doveva essergli costata molte ore di sonno.
Il poliziotto che l’aveva accompagnato, allora, gli fece segno di accomodarsi su una delle sedie in plastica nera e Marcello ubbidì, restando in silenzio.
«È stato un piacere collaborare con le forze dell’ordine.
Lo sa che mi tengo informata anche sulle persone scomparse, commissario? Spero sempre di poter aiutare qualcuno a tornare a casa. Vorrei che il mio povero marito lo sapesse, diceva sempre che era una perdita di tempo da impiccioni...»
«Signora, perché non torna a trovarci qualche altro giorno per finire il racconto? Purtroppo, ora abbiamo tanto da lavorare e non potremmo darle la giusta attenzione».
La vedova aprì la bocca per protestare, ma il commissario fu più rapido e ordinò: «Sabatini, accompagna questa gentile collaboratrice, poi torna subito qui ché mi servi!» quindi, si girò verso la Fiorini, stringendole rapidamente la mano, e concluse: «Arrivederci, signora, faccia buon rientro».
Le proteste della vecchietta si estinsero non appena il giovane poliziotto l’ebbe scortata al di là della porta, facendo ripiombare il corridoio nel silenzio più totale.
«Qualche giorno finirò in una clinica psichiatrica» brontolò l’uomo, esausto. Poi, notò Marcello e chiese, burbero: «Pontori, questo chi è?»
«Commissario, il signor Tornatore è qui su autorizzazione del dottor Saltarini» rispose immediatamente l’agente.
«Ah, sì. Sì, ora ricordo» fece Molinari, stropicciandosi stancamente gli occhi con due dita. «Fallo rimanere qui, a breve rilasceremo la ragazza. Invece, vai a prendermi Tolomei, voglio risentirlo: ci sono molti elementi nel suo racconto che non mi tornano».
Il giovanotto annuì compostamente e sparì subito dopo; contemporaneamente, un telefono squillò e il commissario abbandonò subito la sua posizione per andare a rispondere, come se aspettasse quella chiamata, lasciando il biondo nuovamente solo.
Tuttavia, questa solitudine durò davvero poco, giacché ben presto Pontori fu di ritorno, spingendo un Guido ammanettato e piagnucolante: non aveva affatto una bella cera, ma dopo quello che aveva combinato era davvero il minimo.
«E non ho fatto nulla!» si lamentò, mentre veniva costretto a sedersi su una delle sedie poste di fronte a Marcello.
«Il favoreggiamento di sequestro di persona è punibile dalla legge, non ci siamo inventati niente di nuovo» gli rispose secco il suo carceriere, non lasciandosi affatto commuovere da quella patetica scena. «Ed ora, non ti muovere: vado a chiamare il commissario!»
Non appena quello ebbe voltato l’angolo, Guido sbuffò, mettendo in tensione i polsi e facendo tintinnare la catena che teneva uniti i due bracciali di acciaio e bofonchiando qualcosa di poco comprensibile, quindi alzò la testa e, quando vide chi aveva di fronte, spalancò le iridi grigio scuro, sbiancando all’istante.
«Da quanto tempo, eh, Tolomei?» esordì il biondo, riversando sul suo interlocutore un’occhiata carica di odio: se avesse potuto, l’avrebbe incenerito all’istante.
«Tornatore... O’ che tu ci fa’ qui?» gli chiese, deglutendo.
«Sono in visita d’istruzione, sai, voglio imparare come la polizia arresta gli stronzi che vendono le sorelle» rispose lui inquietantemente calmo, cercando di rimanere seduto e di non alzarsi per dargliene di santa ragione.
«M-Ma e non ho fatto niente...»
«Niente? L’hai data in pasto a quegli schifosi, mentre tu ti davi alla bella vita!»
«De una fia2, il Navarra minacciava anche me! Non si riusciva a pagar i debiti!» rispose l’altro, assumendo un’espressione infantile e capricciosa, mentre saltava in piedi.
«E per questo hai deciso di scendere a patti con quella feccia, barattando tua sorella? Ma che razza di uomo sei?!» insorse il biondo che, non riuscendo a trattenersi, si alzò a sua volta.
«Suvvia, la Beatrice dimenticherà presto quel che l’è successo. E so che tu le garbi molto, sarà sufficiente che te la spupazzi un po’ e...»
Guido non riuscì a finire la frase che finì addosso alle sedie, rovesciandole e cadendoci sopra, il naso ridotto ad una zampillante fontana scarlatta.
«Ripetilo e ti do il resto, coglione!» ringhiò Marcello, guardandolo furibondo. «Lei non è ’na mignotta come quelle che frequenti tu!»
Aveva provato a reprimere la forte tentazione che aveva di massacrarlo di botte, ma non ci era riuscito, perché quell’essere non si era mostrato minimamente pentito per ciò a cui aveva costretto la sorella. Possibile che non avesse nemmeno il più piccolo rimorso per le atrocità che aveva commesso?
«Cosa sta succedendo qui?» 
Marcello si voltò e vide Molinari, un poliziotto che non aveva ancora visto e quello che l’aveva condotto lì che lo fissavano inquisitori. Non si lasciò affatto intimorire e ricambiò lo sguardo, alzando il mento: che lo mettessero pure in gattabuia, pur di provare quella soddisfazione, l’avrebbe rifatto altre mille volte! Infatti, nonostante appoggiasse sul serio i principi di Beccaria, contrari alla pena di morte, rimaneva dell’idea che una bella ripassata ai rifiuti della società, talvolta, fosse più che necessaria.
Il commissario lanciò un veloce sguardo a Guido, che stava gemendo, contorcendosi a terra, e prontamente ordinò: «Saverio, chiama un medico!»
Tuttavia, alla vista del sangue, il giovane divenne pallido come un lenzuolo e andò giù come un birillo.
Molinari sbuffò sonoramente e aggiunse: «Come non detto. Pontori, occupati di Tonelli, e tu, Sabatini, chiama un dottore per questo campione».
Mentre gli agenti eseguivano celermente gli ordini, l’uomo passò oltre la sagoma gemente di Guido e, senza fermarsi, gli sibilò: «Non dovrei dirlo, ma ti sta bene».
Dopo qualche passo, però, fu davanti a Marcello ed il ragazzo si rese conto che il commissario, nonostante fosse più basso di lui, riusciva comunque ad suscitare un notevole rispetto.
«Quanto a te, testa calda, questa volta te la faccio passare liscia» gli disse, guardandolo fermamente negli occhi. «Ma alla prossima occasione che fai a botte qui dentro, ti sbatto in cella a rinfrescarti le idee, chiaro?»
«Sì, commissario» rispose il ragazzo, fissandolo senza battere ciglio.
«Marcello...»
Quella voce, giunta alle sue orecchie senza preavviso, lo fece voltare di scatto e lì, sulla porta dell’ufficio di Molinari, con il viso stanco e gli abiti lisi, vide Beatrice che lo fissava radiosa.
«Sei venuto a prendermi».
In quel momento, fu come se il grosso peso che opprimeva il petto di Marcello si fosse dissolto all’istante: era proprio lei ed era lì, forse un po’ provata, ma viva.
«Sì» le disse, estraniato da tutto quello: si sentiva schiacciato dalla miriade di emozioni che stava provando in quel momento, incapace di distinguere quale tra le tante prevalesse sulle altre, se gioia, sollievo, commozione o profonda gratitudine per aver rivisto di nuovo la sua Beatrice.
Probabilmente, anche lei doveva essere abbastanza sopraffatta dai moti dell’animo perché, dopo aver riservato al fratello un’occhiata compassionevole, si avvicinò a Marcello, senza tuttavia toccarlo, come se avesse paura di rompere la bolla di sapone nella quale erano immersi.
Molinari si schiarì la voce e richiamò l’attenzione di entrambi: «Signorina, la prego di rimanere a disposizione per i prossimi giorni. Può andare, sperando che ora sia in buone mani».
La ragazza si girò verso di lui e, sorridendogli timidamente, sussurrò: «Adesso sì».
***

Nonostante Gerardo e Vittoria stessero parlottando tranquillamente tra di loro, appena Marcello e Beatrice fecero la loro apparizione sulla soglia del commissariato, si interruppero e si avvicinarono velocemente ai due.
«Beatrice, come sono contenta di vedere che sei sana e salva!» esordì la ragazza, prendendo le mani dell’altra tra le proprie. «Siamo stati tutti in pensiero per te».
«Oh, non volevo darvi noie» replicò la fiorentina, arrossendo al solo pensiero che degli estranei avessero avuto a cuore la sua sorte più dei parenti; infatti, non solo tutto quel disastro era partito da Guido, ma, ormai, era anche palese che né zia né cugina si erano prodigate per avere sue notizie.
«Ma che noie, eravamo preoccupati per quello che sarebbe potuto capitarti» la corresse Gerardo, sorridendole affabile. Lei rimase a guardarlo perplessa per qualche istante: sapeva perfettamente chi fosse, giacché sia Marcello che Vittoria le avevano parlato di lui, ma non si azzardò a presentarsi da sola, perché non voleva passare per maleducata.
Per fortuna, Marcello dovette aver percepito la sua difficoltà, perché si affrettò ad intervenire.
«Beatrice, lui è Gerardo» disse, indicando l’amico. 
«Avevo immaginato» commentò la fanciulla, tendendo la mano al giovane per stringerla.
Lui la prese e ricambiò con gentilezza la stretta, aggiungendo timidamente: «Non avevamo ancora avuto modo di presentarci come si deve».
A questo punto, Vittoria prese nuovamente la parola e, come se avesse letto nei pensieri della giovane, le chiese:
«Immagino tu sia stanca, vuoi che ti accompagniamo a casa?»
«Neanche morta!» insorse Beatrice, inorridita alla sola idea. «Piuttosto, preferisco andare a vivere sotto un ponte!»
Dei tre, l’unico che non parve sorpreso da tale reazione fu Marcello, poiché era il solo che sapesse perfettamente che tipo di rapporti ci fossero tra lei e le sue parenti, mentre gli altri due rimasero perplessi, come se non si aspettassero un tale fervore.
La ragazza, lì per lì, arrossì lievemente, imbarazzandosi per la figura che aveva appena fatto; tuttavia, sapeva che non aveva senso nascondere la verità e perciò decise di spiegare subito anche a Gerardo e Vittoria il motivo del suo netto rifiuto: «Con la mia zia e la mia cugina non andiamo molto d’accordo. Credo che non abbian sentito la mia mancanza».
«Oh, capisco» fece la giovane donna. «Comunque, non c’è bisogno di essere così drastici da scegliere i ponti. Piuttosto, che ne dici di venire a stare un po’ a casa mia? Ne sarei contentissima e mi farebbe davvero piacere conoscerti meglio, Marcellino mi ha parlato molto poco di te».
«Immagino che tu non riesca proprio a capire perché, vero?» le rispose il ragazzo, ironico, fulminandola con lo sguardo, ma lei non raccolse le provocazioni e, anzi, continuò a punzecchiarlo:
«So che avresti preferito che venisse da te, ma non credo che in questo momento sia la scelta migliore. La mammina deve essere avvisata per tempo».
Marcello si trattenne palesemente dall’alzare gli occhi al cielo, quindi si rivolse alla fanciulla: «Tu che ne dici, ti piace l’idea di andare a stare con questa sciroccata?»
Tutta quella scenetta, per Beatrice sarebbe stata molto divertente, se non fosse stato per il fatto che sembrava proprio che il biondo e la sua amica si stessero stuzzicando sotto il suo naso. Subito una fastidiosissima sensazione di vuoto allo stomaco la fece irrigidire, causandole un’improvvisa tristezza.
Vittoria, che non pareva aver gradito l’appellativo, stava per protestare, ma Gerardo la tirò per un braccio, facendole segno di tacere, così che alla fanciulla fosse data l’occasione di rispondere; lei, allora, ricacciò indietro tutti i sentimenti negativi e si costrinse ad esibire un sorriso di riconoscenza: «Sì, sarebbe magnifico, almeno finché non trovo una sistemazione definitiva».
L’altra annuì, soddisfatta: «Certamente. Oddio, se il biondino si decidesse a parlarti, potresti trovarl...»
Tuttavia, la donna non poté finire la frase, visto che entrambi i giovani si affrettarono a tapparle la bocca con una mano, lasciando la fanciulla attonita e a domandarsi di cosa avrebbe dovuto parlarle Marcello.
«Come si è fatto tardi, non trovi che sia ora di andare? Beatrice sarà stanca» disse il giovane, guardando il suo amico con insistenza.
«Già!» concordò con veemenza Gerardo. «Io e Vittoria cominciamo ad andare, voi raggiungeteci pure quando volete».
Beatrice, stupita, rimase ad osservare il giovane che trascinava via la ragazza, mentre Marcello sospirava rumorosamente: «Vittoria parla decisamente a vanvera».
«Se lo dici tu» commentò la fiorentina, pensierosa: invidiava terribilmente la confidenza che c’era tra il biondo e Vittoria, sembravano due fidanzatini sempre pronti a rimbeccarsi e questo la faceva stare male3. Ed ora, per giunta, al danno si era aggiunta anche la beffa, visto che avrebbe dovuto esserle grata dell’ospitalità che le aveva offerto.
«Cos’hai?» domandò lui, scrutandola severamente, come se si fosse finalmente reso conto che si era incupita.
«Oh, niente. Devo ancora riprendermi dalla brutta avventura» gli rispose Beatrice, stiracchiando un debole sorriso.
Lui aggrottò le sopracciglia, dubbioso, ma, per fortuna, non insistette.
«Almeno il commissario ti ha lasciata andare relativamente presto».
«M’ha fatto qualche domanda e fatto firmare un verbale, anche se m’ha chiesto di rimanere disponibile».
«Probabilmente vorrà riascoltarti tra qualche giorno».
I due ragazzi si guardarono per un lungo istante e, in quello scambio di sguardi, la fanciulla ritrovò un briciolo di tranquillità, riuscendo ad assaporare il primo momento dopo la prigionia in cui si trovava sola con Marcello.
«Che cosa ti ha fatto Navarra?» le chiese in un sussurro, accarezzandole la guancia.
«Niente. A parte volermi portare in Spagna e costringermi a sposarlo».
«Che animale!» commentò disgustato, scuotendo la testa. «Gerardo ha ragione, sarai stanca. Per parlare avremo i prossimi giorni, sempre che non succeda qualcos’altro...»
Nemmeno a dirlo, fu proprio così: improvvisamente, una sagoma si stagliò alla sinistra di lei, facendola trasalire.
«Beatrice, hai scordato la tua borsa» spiegò Saverio, agitando il sacchetto di tela bianca sotto il suo naso.
«Ah, sì» replicò freddamente lei, afferrandola con malagrazia e scrutandolo ad occhi socchiusi, seccata.
L’agente le sorrise, poi, accorgendosi della presenza di Marcello, fece un passo indietro e cambiò colorito.
«’sera!» gracchiò, alzando maldestramente il cappello in segno di saluto e allontanandosi a gambe levate, lasciando il giovane visibilmente contrariato.
«Come mai quel poliziotto ti ha chiamata per nome?»
«S’è preso un po’ troppa confidenza, nonostante io non gliene abbia data» gli spiegò, rovistando nella borsa e controllando che ci fosse tutto. Quando ebbe finito, alzò la testa verso di lui e aggiunse, sorridendogli divertita: «Non sarà che tu se’ un po’ geloso?»
«Io?» domandò il ragazzo, con voce un po’ troppo alta, come se fosse stato punto sul vivo. La fanciulla gli riservò un’occhiata eloquente, notando che le guance di lui si era appena colorite, tradendo un certo imbarazzo.
«E se anche fosse? Non ci sarebbe niente di male» ribatté il biondo, cercando di sembrare distaccato, ma con risultati non proprio soddisfacenti.
«Infatti» confermò lei, dolcemente. «E poi, penso l’abbia capito che contro di te non ha speranze...»
***

Quando uscì dal bagno, con ancora i capelli fumanti di vapore, Beatrice pensò che, dopo quei due giorni da incubo, stare ammollo nell’acqua calda per un’ora intera fosse il primo passo per ricominciare a vivere in tranquillità.
Aveva indossato i vestiti puliti che le aveva prestato Vittoria - un paio di leggins e una maglia lunga blu elettrico - cominciando a sentirsi decisamente molto meglio: il solo fatto che non fosse più nelle grinfie di Navarra le procurava una gioia tale che le pareva quasi di rinascere.
La giovane donna, poi, le aveva assegnato una camera confortevole e spaziosa che non aveva nulla a che fare con la sua vecchia stanza: aveva una bella vista sul giardino sul retro ed era provvista di ogni comodità, a cominciare da un orologio a pendolo da tavolo, che in quel momento segnava le due e cinque minuti, passando per un bel letto che sembrava molto accogliente e finendo con un grandissimo specchio con la cornice argentea intarsiata con motivi floreali. Beatrice si avvicinò proprio ad esso, con l’intento di verificare se i suoi timori circa il suo aspetto fossero fondati e così fu: aveva un viso molto provato, anche se le tracce della stanchezza e della preoccupazione cominciavano già ad attenuarsi.
Sospirò, conscia che i segni che avrebbe portato più a lungo su di sé non sarebbero stati quelli fisici, bensì quelli morali, poiché l’esperienza che aveva vissuto non era stata solo traumatizzante, ma anche umiliante e destabilizzante: se solo pensava a quanto lo spagnolo fosse stato vicino all’abusare di lei, si sentiva quasi venir meno dal terrore e non poteva far altro che ringraziare di essersela cavata con così poco.
Si sedette sul letto, ma, rendendosi conto di non voler affatto dormire, si alzò quasi subito: era ancora incredibilmente inquieta ed altrettanto certa che il sonno non l’avrebbe colta tanto presto, pertanto decise di uscire fuori sul balcone e di prendere un po’ d’aria fresca, invogliata anche dal fatto che lì davanti pendesse un rigoglioso glicine, messo molto meglio di quello che c’era a Villa dei Salici e molto somigliante a quello che aveva piantato sua madre all’Isola d’Elba.
A dire il vero, le avrebbe fatto piacere rivedere Marcello, ma, considerato l’orario, doveva aver preferito andare a casa. Peccato, lo avrebbe volentieri ringraziato per il trattamento che aveva riservato a Guido: l’avergli fracassato il setto nasale le aveva dato più soddisfazione dell’arresto vero e proprio.
Allora, si chiese se il giovane potesse averle lasciato detto qualcosa, sperando che, in tal caso, Vittoria l’aggiornasse l’indomani. Non c’erano prove evidenti che nutrisse per il giovane sentimenti oltre l’amicizia, ma il tarlo che tra quei due potesse esserci del tenero non le dava pace.
Beatrice si lasciò cadere su una piccola poltroncina, sbuffando forte: lui era venuto a prenderla al commissariato, si era preoccupato, quindi, forse, un po’ ci teneva a lei, no? Però, perché si era portato dietro la sua amica? Che bisogno c’era di farlo?
Era vero che quella ragazza la stava ospitando e avrebbe dovuto mostrarsi riconoscente verso di lei, tuttavia non riusciva proprio a digerire il fatto che stesse sempre vicina al suo Marcello.
«Se qualcosa non dovesse piacerti, puoi dirlo tranquillamente a Vittoria: non è una che se la prende».
Tale affermazione la lasciò di sasso. Non era possibile, non poteva essere...
E, invece, la luce dei lampioni del giardino, anche se fioca, rivelò che era proprio lui.
«Marcello!» esclamò la fanciulla, con il cuore in gola.
Il giovane si limitò a mostrarle un lieve sorriso, spostando una fronda del glicine che lo celava parzialmente alla vista, e si avvicinò a lei.
«Volevo salutarti prima di andar via, ma non mi è parso educato aspettarti in camera» le spiegò. «Al commissariato è stato tutto troppo confusionario, non trovi?»
Beatrice, che lo stava fissando sorpresa, nell’udire la domanda si affrettò a ricomporsi e ad annuire.
«Come stai?» le chiese, avvicinandosi ancora di più e guardandola preoccupato.
«Ora meglio» gli rispose, sorridendogli timidamente e spostando via una ciocca di capelli dagli occhi.
Un’ombra attraversò lo sguardo dell’altro, il quale le afferrò il braccio che aveva appena finito di muovere, stando attento a non farle male, e rivolgendo la parte interna dell’arto verso di lui.
Colta di sorpresa, la ragazza lo lasciò fare, chiedendosi, incuriosita, cosa mai avesse potuto provocargli una simile reazione.
«Che cosa sono questi?» le domandò, indicando delle orribili linee irregolari e rossastre che le percorrevano la pelle.
«Ah, questi... sono i segni delle corde. Sai, mi tenevan legata» gli rispose, quasi con noncuranza, poiché, ormai, vedersi quei marchi addosso non le faceva più alcun effetto. «L’è stato un vero sollievo quando me li han tolti».
Beatrice vide il giovane serrare saldamente la mascella, infuriato per come l’avevano trattata.
«Non ti arrabbiare, per favore, adesso son qui...»
«Quel porco deve solo augurarsi di non incontrarmi mai più!» sibilò Marcello, non riuscendo ad alzare lo sguardo da quello scempio. «Guarda cosa ti ha fatto!»
«La cosa peggiore è stata un’altra» gemette la fanciulla, avvertendo che le lacrime erano quasi sul punto di uscirle. «Ho avuto paura di non rivederti più!»
Marcello sospirò, addolorato.
«Quando ho saputo che ti avevano rapita, l’ho temuto anch’io».
Poi, le accarezzò piano la pelle marchiata e si portò i polsi vicino al volto, per poi baciarle dolcemente le ferite e guardarla dritta negli occhi: «In quel momento, ho fatto una promessa a me stesso».
«Q-Quale?» farfugliò lei, piacevolmente imbarazzata per il gesto improvviso e così significativo.
«Se fossi riuscito a rivederti, ti avrei detto tutta la verità».
«C-C’è... qualcosa che non so?» domandò, smarrita. Forse le stava per dire che l’aveva frequentata solo per compassione, perché, in realtà, gli piaceva Vittoria?
«Ti prego, non mi far agitare...»
Ma lui scosse appena la testa, come a volerla tranquillizzare e sorrise leggermente, prima di accostarsi al suo viso e sussurrarle ad un soffio dalla sue labbra: «Mi sono innamorato di te».
Immediatamente, Beatrice avvertì una sensazione di vuoto allo stomaco, seguita da una un’ondata di calore che la pervase e le annebbiò quasi del tutto la mente.
«Oh, Marcello... io... ti... ti amo anch’io...» balbettò, trovando davvero difficile mettere insieme parole che avessero una certa coerenza. «E tu non sai nemmeno quanto».
Il giovane sembrò colpito per la dichiarazione ricambiata e, per un istante, tentennò incerto. Poi, però, le spostò una ciocca di capelli dietro all’orecchio e si chinò verso di lei per baciarla; tuttavia, al contatto, qualcosa che Beatrice percepì come diverso la fece arretrare.
«Cosa c’è?» le domandò, disorientato.
«Oggi hai la barba» notò la ragazza, 
alzando lentamente una mano e poggiandogli le punte delle dita sulla guancia per verificare anche con il tatto. «Non l’è molta, ma è un po’ ispida».
Marcello sembrò riflettere per qualche secondo sulla sua considerazione, poi, sospirando, disse: «Già, hai ragione. Avrei dovuta farla stamattina, ma non appena mi hanno detto che ti avevano trovata, mi sono precipitato al commissariato» le spiegò. «Così ho dovuto evitare i vezzi, chiamiamoli così».
«In realtà, ti sta bene, sai?» ridacchiò lei, a bassa voce, non riuscendo a celare la sua approvazione, giacché, dopo quello che si erano appena detti, pensò che fosse ormai inutile negare quanto lo trovasse affascinante; inoltre, 
l’averlo così vicino non l’aiutava di certo a reprimere il trasporto crescente che aveva verso di lui. «Come stai bene in jeans e felpa oppure quando prendi a pugni i fratelli molesti: son tutti particolari che enfatizzano la tu’ aria da bel tenebroso».
Il giovane sollevò un sopracciglio, ma non si mosse, mostrando di non voler riprendere da dove si erano interrotti, al che la fanciulla gli domandò, delusa: «Non mi baci più?» 
«Forse sarà meglio rimandare a dopo che mi sarò rasato di nuovo» considerò il giovane, serio, attorcigliandosi una ciocca fulva di lei intorno all’indice, ma Beatrice non fu d’accordo: aveva passato le pene dell’inferno negli ultimi due giorni e non aveva alcuna intenzione di dover aspettare oltre. Voleva essere coccolata un po’ e non le importò di risultare sfacciata, perché, se doveva osare, quello era il momento più propizio, potendo approfittare del clima di intimità che si era creato tra di loro.
Ciò che aveva provato nelle ultime ore, il dolore, la tristezza, la paura di poter morire e di non rivederlo più, almeno per quella sera, le davano il diritto di azzardare richieste che mai avrebbe osato anche solo pensare.
Lo afferrò con entrambe le mani per il colletto della polo e, con un ardire che non credeva di avere, scandì: «Non ci provar nemmeno!»
Marcello la fissò per qualche istante, sorpreso, e lei si costrinse a non abbassare lo sguardo, poiché, se voleva che prendesse sul serio la sua richiesta, non doveva dargli l’idea di essere solo una bambina capricciosa: desiderava davvero con tutta se stessa che il suo uomo la vezzeggiasse, dopo tutto quello che aveva subito da quello schifoso di Navarra.
Il biondo sorrise lievemente, ricambiando l’intensità dell’occhiata.
«Come vuoi. Allora proverò a fare quest’altro» mormorò, cominciando a baciarle le labbra con delicatezza, premura che non abbandonò nemmeno quando i baci cominciarono a farsi più intensi.
Beatrice insinuò le proprie dita tra i suoi capelli e sentì quelle di lui che le percorrevano il fianco, leggere ma sicure, risalire fino alla schiena e suscitarle una sensazione mai provata prima: sapeva essere gentile, ma non per questo poco deciso nella presa, come dimostrò poco dopo, quando la strinse ancora più forte e cominciò a baciarle il collo, solleticandole la pelle con la barba appena ruvida e facendola rabbrividire di piacere.
L’ebbrezza, causatale dal sentire il corpo di lui, così solido e caldo, addosso al proprio, la riempì di un appagante stordimento: avrebbe volentieri continuato a baciarlo e accarezzarlo tutta la notte, se l’orologio da tavolo non le avesse ricordato che esistevano tempo e spazio, rintoccando le tre del mattino.
I due giovani ritornarono alla realtà con difficoltà; tuttavia, non si distaccarono completamente e rimasero fronte contro fronte, le mani di lui sulla schiena di lei e quelle di lei sul petto di lui, nascosti dalla coltre frondosa del glicine.
«È tardi» sussurrò Marcello.
«Ho sentito» replicò mestamente la ragazza, consapevole di ciò che il giovane le avrebbe detto subito dopo. 
«Io... devo andare».
Lei annuì, sapendo che era giunto il momento, per ora, di separarsi: le aveva detto che sarebbe rimasto solo per poco tempo, anche se avrebbero voluto entrambi che quel momento di dolcezza non finisse mai.
Il biondo la prese per mano e, lasciando la protezione dell’albero, la guidò dentro casa, preoccupandosi di chiudere bene le ante del balcone; quindi, si avvicinò al tavolo dove era poggiato l’orologio.
«Questa è una stanza degli ospiti e non è non molto usata, ecco perché l’hanno messo lì sopra» le spiegò, ruotando una rotellina laterale. «Ecco, ora l’ho spento, altrimenti ti avrebbe svegliato ad ogni ora».
«Grazie» gli rispose Beatrice, scrutandolo malinconica: aveva tanto desiderato poter stare con il suo Marcello, invece doveva separarsi da lui ancora una volta.
Il giovane fece un cenno d’assenso con il capo, ma rimase fermo, come se nemmeno lui avesse molta voglia di andarsene, e ciò spinse la ragazza ad avanzare una richiesta che le veniva dal più profondo del cuore
: «Rimani con me almeno finchè non avrò preso sonno, ti prego. Ho paura degli incubi».
Marcello la squadrò attentamente, come se stesse valutando in maniera molto accurata quale fosse la cosa giusta da fare.
«Va bene, Beatrice» acconsentì, infine, dandole un buffetto sulla guancia.
La fanciulla si sciolse in un gran sorriso, credendo a stento che lui le avesse detto di sì. Avvertendo che, finalmente, il sonno stava per raggiungerla, si mise a letto, mentre il biondo, invece, si sdraiò sopra le coperte accanto a lei, sussurrandole: «Vieni qui».
Beatrice non se lo fece ripetere una seconda volta e si accoccolò tra le sue braccia, lasciando che lui la cingesse e le facesse poggiare la testa sul proprio petto, trasmettendole serenità e senso di protezione. Tranquillizzata, chiuse gli occhi quasi subito, sicura che, ormai, non avrebbe avuto più nulla da temere.
***

Il sottile crack che udì e la sensazione appiccicosa che avvertì sulle dita richiamarono la sua attenzione, facendogli capire che la fetta biscottata, sulla quale stava spalmando la marmellata di ciliegie, non aveva sopportato più la tortura inflittale dal coltello e, dopo un’eroica resistenza durata più di mezz’ora, aveva ceduto.
Marcello gettò ciò che era rimasto nel piatto davanti a sé e si pulì come meglio poteva le mani con un tovagliolo di stoffa, apprestandosi a sorseggiare il suo tè.
«Se fossi in te, me ne fare portare un altro, quello si deve essere raffreddato» si intromise suo padre, senza alzare gli occhi dal cruciverba che stava facendo. «Sono quaranta minuti che sei seduto lì a fissare il vuoto, facendo finta di spalmare marmellata. Quando eri piccolo, però, ti inventavi scuse migliori per non essere costretto a mangiare, come nascondere le verdure nei miei vasi dei gerani, per esempio».
Il braccio del giovane rimase sospeso a mezz’aria, reggendo la tazza, palesemente fredda.
«Oh... Sì, hai ragione» mormorò, facendo oscillare il liquido e accorgendosi che non emetteva più vapore. «Sarà meglio chiederne dell’altro».
Annetta, che aveva sentito tutto, anche se era rimasta nel suo angolo, in attesa di ricevere ordini, si precipitò e portò via sia la teiera, sia i resti della fetta biscottata. Poco dopo, fu di ritorno con tutto il necessario per consentire a Marcello di fare colazione.
Il signor Giancarlo la ringraziò con un sorriso, quindi,
mentre versava l’acqua calda nella tazza pulita e gli passava la scatola di legno dove erano sistemate le bustine dei vari tè, rimproverò bonariamente il figlio: «Sei grande ormai per giocare con il cibo!»
«Già» si limitò a rispondere lui, cupo, evitando di guardarlo negli occhi, poiché, se l’avesse fatto, sapeva che non sarebbe riuscito a mentirgli e non poteva certo raccontargli la verità.
Non riusciva a non pensare a quello che era successo la notte precedente con Beatrice, perché, se aveva adempiuto alla sua promessa di dirle cosa provasse realmente per lei, non avrebbe mai potuto prevedere come si sarebbe evoluta la faccenda. Una volta che si era accertato di come stesse, infatti, avrebbe dovuto andarsene, invece di rimanere su quel balcone per baciarla in modo tutt’altro che casto; poi, come se ciò non bastasse, aveva anche assecondato la sua richiesta, tenendola tra la braccia finché non si era addormentata. Solo allora, recuperando un minimo di lucidità, aveva lasciato in tutta fretta la casa di Vittoria, con la sensazione di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato.
Come gli era saltato in mente di restare e di lasciarsi andare fino a tal punto? Non avrebbe mai dovuto, soprattutto perché ancora non era chiaro a che punto fosse la sua relazione con Beatrice: in fondo, non erano fidanzati. Lui si era dichiarato e aveva scoperto di essere ricambiato, certo, ma tra questo ed un fidanzamento ufficiale c’era una bella differenza.
Se la sua migliore amica lo avesse saputo, avrebbe sicuramente commentato dicendo che “l’algido Marcello aveva ceduto alla passione” e non avrebbe affatto sbagliato, giacché lui era perfettamente consapevole d’essersi fatto soggiogare dal miscuglio di emozioni derivanti dal fatto che la ragazza fosse finalmente libera e al sicuro. Per quanto ci girasse intorno, era un dato di fatto che aveva permesso ai suoi istinti di prendere il sopravvento, confinando in un angolo della sua mente la razionalità, cosa che non avveniva poi così raramente, quando c’era di mezzo quella fanciulla.
«Dieci minuti. Perfetto4!» fece l’uomo, compiaciuto, poggiando penna e rivista di enigmistica sul tavolo e controllando l’orologio da polso. «Potrei quasi partecipare alle olimpiadi delle parole crociate, se solo ci fossero. Tu che ne pensi, figliolo?»
«Eh?» domandò il giovane, cadendo palesemente dalle nuvole.
«Oh, non importa. Marcello, hai caldo, forse? Sei diventato tutto rosso. Eppure le finestre sono tutte aperte» notò l’uomo, studiandolo attentamente da sopra gli occhiali da lettura.
«Ah, io... Ecco... Non...»
«Immaginavo che c’entrasse quella cara ragazza, credo che non abbia passato dei momenti felici, in mano a quei balordi. Dovresti impegnarti per tirarle su il morale» disse il signor Giancarlo, versandosi a sua volta altra acqua calda e riprendendo in mano la rivista. «E ti consiglio anche di bere quel tè, prima che si raffreddi di nuovo».
Il giovane rimase a fissare il padre, basito: come faceva a sapere che stava pensando a Beatrice?
Poi, senza staccare gli occhi dal genitore, prese un sorso della bevanda e si dedicò a spalmare la marmellata su una fetta biscottata, questa volta senza ridurla a pangrattato.
Mentre mangiava, valutò attentamente l’ipotesi di parlare con lui delle perplessità che lo assillavano circa una sua eventuale relazione con Beatrice, poiché, avendo più esperienza di vita, avrebbe potuto elargirgli un saggio consiglio che lo avrebbe certamente aiutato.
Tuttavia, quest’intenzione fu barbaramente cancellata dall’ingresso in sala della Matrona.
«Lo sapevo che ti eri fatto scappare l’affare del secolo!» strillò, agitando in aria il quotidiano del giorno.
«Cos’hai da urlare di prima mattina, cara?» le chiese il marito senza smettere di riempire le caselle dei cruciverba. «Non fa bene alle tue corde vocali».
Claudia lo guardò per un fugace secondo, poi decise di ignorarlo e di tornare a concentrarsi sul figlio: «Colonna ha acquistato il trenta percento delle azioni legate a quella maledetta piattaforma!»
Marcello aggrottò la fronte e ingoiò l’ultimo boccone, tendendo la mano verso di lei: «Fammi vedere!»
Una volta che fu entrato in possesso del giornale, già aperto alla pagina che riportava l’articolo su Carter e Colonna, il ragazzo lesse velocemente le righe incriminate:
Ancora una volta, Ascanio Colonna centra il bersaglio, avendo acquistato un terzo delle azioni della Omicron Rho, la nuova piattaforma in costruzione che sta facendo concorrenza alla nota Piper Alpha5, situata a poca distanza. Con questa abile mossa, Colonna è diventato a tutti gli effetti il primo socio del magnate britannico del petrolio Edward Carter. I due imprenditori hanno già fissato un incontro con i giornalisti la prossima settimana, nel corso della quale risponderanno a molte domande...
L’articolo continuava per un’intera pagina, ma il biondo non andò oltre, avendo deciso di aver dedicato fin troppo del suo prezioso tempo a Carter e al suo socio.
«Quei due stanno combinando qualcosa di losco e Gerardo ed io non vogliamo averci niente a che fare» fece, asciutto, liquidando la questione in poche parole.
Ma la Matrona non era dello stesso avviso, infatti continuò: «Lo sapevo che c’entrava quel buono a nulla! Scommetto che è stato lui a metterti in testa queste sciocchezze!»
«Affatto».
«Si sente importante solo perché è tuo socio e perché quella gatta morta della Farnese ha accettato di fidanzarsi con lui. Figurarsi! Due sventurati così avrebbero solo potuto prendersi tra di loro!»
Il giovane rinunciò a prepararsi la seconda fetta biscottata ed alzò il viso verso la madre: «Ti dispiacerà saperlo, ma sono davvero innamorati».
«Questo è quello che vogliono far credere loro! Invece sono due buoni a nulla, esattamente come quella che ti ronza intorno».
Marcello serrò la mascella, assottigliando lo sguardo, avendo perfettamente capito dove volesse andare a parare sua madre: stava per tirare in ballo Beatrice, ma lui non le avrebbe permesso di maltrattarla, perché quella fanciulla certo non meritava di essere infangata per bocca di Claudia Mecarini.
«Ti sei fatto scappare Maria Luisa Foscari da sotto il naso, che ora è andata a dare lustro ai Colonna. E tu? Cosa mi hai portato, invece? Una disgraziata che è stata addirittura venduta dal fratello a dei delinquenti, pur di trovare un po’ di soldi».
«Non ti permetto di parlare così di Beatrice!» insorse il figlio, scaraventando il tovagliolo a terra ed alzandosi in piedi.
Annetta e le altre due cameriere, avendo intuito l’antifona, si affrettarono ad abbandonare la sala, lasciando i tre da soli.
«Claudia, non è un atteggiamento corretto, il tuo» obiettò il signor Giancarlo, chiudendo la biro e fissando gravemente la moglie.
Lei, in risposta, scoppiò in una risata isterica.
«Hai anche il coraggio di parlare, tu? Se fosse stato per te, Tiberio sarebbe ancora uno scapolo! Cosa ne sai di quello che ho dovuto architettare perché una Torlonia sposasse mio figlio?»
«Purtroppo, lo so molto bene, invece».
La donna indurì i tratti del viso, come se fosse stata costretta con la forza ad ingoiare un boccone molto amaro. Si voltò verso il tavolino accanto al divanetto e, afferrato un ventaglio, lo aprì e cominciò a sventolarsi con foga, quindi tornò davanti a marito e figlio, esibendo un’espressione alquanto enigmatica.
«Marcello, credo sia il caso di far venire la tua, come dire, amica a pranzo, domenica prossima. Sai, con Ortensia abbiamo organizzato i festeggiamenti per il compleanno di Claudietta».
Il ragazzo spalancò gli occhi e non riuscì a trattenere il suo orrore: «Che cosa?!»
«Non pensi anche tu che sia arrivato il momento di farci conoscere questa ragazza
«Per niente!»
«Peccato, sarebbe un vero peccato se in giro si spargesse la voce che ti diverti con lei, mentre sei impegnato con la baronessa Cardona» continuò la donna, con tono falsamente preoccupato, senza smettere di farsi aria.
«Non puoi ricattarmi. Io me ne sbatto di quello che vai dicendo su di me: non temo il giudizio degli altri» sibilò il giovane, meno che mai deciso a cedere davanti agli stupidi capricci della madre.
«Da quando hai preso questo modo di parlare così gergale? Non ti si addice» gli rispose lei, senza scomporsi minimamente. «Sì, lo so che tu non temi niente e nessuno, ma la tua amichetta ha già accumulato parecchio di cui vergognarsi, senza che si aggiunga quella di amante clandestina».
Marcello aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono: sapeva che sua madre poteva essere molto pericolosa, ma non avrebbe mai pensato che potesse essere capace di una bassezza del genere nei confronti del proprio figlio, perché, se era vero che a lui non interessava cosa si diceva in giro sul suo conto, era anche vero che non valeva la stessa cosa per Beatrice. Non si sarebbe mai perdonato, né avrebbe mai permesso che venissero messe in giro cattiverie false su di lei.
E sua madre aveva centrato in pieno il suo punto debole.
«Poverina, non penso potrebbe sostenere quest’ennesima umiliazione» fece lei, falsamente rammaricata, coprendosi parte del viso con il ventaglio.
Il signor Giancarlo, probabilmente mosso dalla cattiveria della moglie, decise di continuare a prendere le parti del figlio e della ragazza: «I tuoi trucchetti non funzioneranno con lei, Claudia. È molto intelligente».
Tale affermazione cancellò il sorrisetto di trionfo dal viso della donna.
«Mi stai forse dicendo che tu la conosci già?»
«Esattamente».
Tra i due coniugi scese un improvviso gelo e nessuno dei due sembrava intenzionato a permettere all’altro di prevaricarlo.
«In questo gioco, ancora deve venire il momento di mettere la parola fine» sentenziò la Matrona, chiudendo il ventaglio con un colpo secco e dando le spalle ai due, per poi sparire in un fruscio di stoffa rossa.
Ancora fuori di sé dalla rabbia per quanto successo, ma decisamente più reattivo di prima, Marcello esplose: «È uno sporco ricatto, sa bene che sarò costretto a cedere per forza!»
«Se fossi in te, farei come dice» mormorò il padre, raccattando gomme, matite, penne e riviste di enigmistica dal tavolo.
«Papà, sai bene che è un’occasione del tutto inopportuna!» esclamò il ragazzo, concitato. «Beatrice non può essere invitata per la prima volta ad un pranzo con tutta la famiglia, per giunta una come la nostra».
Alzatosi dalla sua sedia, il signor Giancarlo sospirò e, una volta raggiunto il ragazzo, gli mise entrambe le mani sulle spalle.
«Figlio mio, non penso ci sia altra scelta».





***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per il suo grande aiuto.
***
[N.d.A]
1.
secondino: termine oggi spesso sostituito con guardia carceraria o agente di polizia penitenziaria.
2. De una fia: espressione toscana, popolare/volgare rafforzativa.
3. la faceva stare male: spero di essere stata abbastanza chiara nella narrazione, ma, qualora non fosse, volevo precisare che Beatrice non sa nulla delle vicende di Gerardo e Vittoria, né tanto meno che ora i due stanno insieme, essendo stata rapita prima che qualcuno potesse informarla; quindi, penso sia normale che provi ancora molta gelosia riguardo il rapporto che c’è tra Marcello e Vittoria.
4. «Dieci minuti. Perfetto!»: il fatto che il signor Giancarlo sia appassionato di cruciverba, parole crittografate e si cronometri nella loro risoluzione è un mio omaggio ad Alan Turing e al film “The Imitation Game”.
5. Piper Alpha: piattaforma petrolifera operativa nel Mare del Nord, situata a circa 200 Km dalla Scozia. Il 6 luglio 1988 (circa un anno dopo gli eventi qui narrati) scoppierà un tragico incendio, portando a morte 167 su 300 dei suoi lavoratori. Ad oggi, rimane uno dei più grandi incidenti legati al campo marino-petrolifero.
 
***
 
Ringrazio chi mi ha dedicato un po’ del suo tempo, lasciandomi un parere sullo scorso capitolo, ovvero Aven, Anto, DarkViolet92 e Balder Moon; ringrazio anche chi legge soltanto e chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite: è una forma di fiducia che mi date e che sento di tradire quando non riesco a scrivere. Mi dispiace, ma non lo faccio apposta.
Per qualsiasi cosa, chi volesse, sa dove trovarmi.
Halley S. C.

  
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