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Autore: mairileni    21/05/2015    4 recensioni
«Siediti.»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Buonasera ~


Sì, ebbene sì, LO AMMETTO, ho preparato la scaletta. E se tutto va bene, questa storia dovrebbe avere, udite udite, 19 capitoli – o 18 più un breve epilogo finale, ancora questo non lo so.


Spero che vorrete restare con me fino alla fine e vi lascio al capitolo, ché qui cominciano a succedere cose.


Buona lettura,


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Adagio














Davanti al cancello di casa mia c'è Gerard seduto a terra con le gambe incrociate e gli occhi bassi. Si è stretto nel cappotto per il freddo e sui capelli gli si sono accumulati tanti pallini bianchi di neve — non so se avete presente i pallini bianchi di neve, sono tipo quegli aggregati di fiocchi di neve che quando nevica e tu non hai l'ombrello ti finiscono sui capelli e fanno sembrare che tu abbia la testa a pois o cose simili. Fatto sta che c'è Gerard seduto a terra con le gambe incrociate e lo sguardo basso, e che qui i casi sono tre. Uno, Gerard voleva andare da un suo amico e ha sbagliato indirizzo. Due, questa non è casa mia, ma io a casa mia ci sto spesso, e sono proprio sicuro che sia questa qui con scritto “Iero” sopra alla cassetta della posta. Tre, Gerard in realtà è morto e qualcuno lo ha trasportato qui davanti per incastrarmi — e io potrei anche crederci, visto che sono qui come un cretino da secoli e lui non ha nemmeno alzato la testa per salutarmi. E allora lo guardo meglio e vedo che non si è stretto nel cappotto per il freddo, è solo molto impegnato a disegnarsi qualcosa sul palmo della mano. Da qui non vedo che cosa. Mi dispiace molto interromperlo, tanto più che lo adoro e lo idolatro e tra poco me lo sogno di notte e tutto quanto, ma in questo momento io sto morendo di freddo.

    «Gerard?»

    «Oh, Iero!»

Alza la testa di scatto e comincia a mettersi in piedi. Fa fatica perché deve essere lì seduto da molto, e non so se avete presente che se stai seduto per troppo tempo alla fine le gambe ti si addormentano; allora tu ti rialzi tutto baldanzoso e pieno di voglia di alzarti e invece i polpacci ti mandano a quel paese e tu cadi come un coglione. Fatto sta che Gerard adesso è in piedi, e dato che non sta dicendo nulla io suppongo che stia aspettando qualcuno. Prendo un tiro dalla sigaretta e glielo chiedo.

    «Stai aspettando qualcuno?»

    «Sì, in realtà aspettavo te.»

    «Non sembri molto convinto.»

    Non lo dico per fare lo splendido, è che Gerard non sembra molto convinto per davvero. Si guarda attorno e negli occhi ha ancora quell'aria di preoccupazione e di paura che non se ne va. La stessa che ho notato anche ieri e che spero di non dover notare di nuovo domani o tra cinque minuti. O forse devo solo arrendermi all'evidenza dei sillogismi e mettermi in testa che se le persone hanno dei sentimenti e se Gerard è una persona allora anche Gerard deve avere dei sentimenti. Sarà.

    «Che intendi, scusa?»

    «Boh, guardi a destra e a manca come se avessi paura di essere scoperto.»

    È che un po' mi sono offeso. A guardarlo così, Gerard sembra quasi che si vergogni di stare qua, davanti al cancello di casa mia e alla cassetta della posta con scritto “Iero”. Ad ogni modo, ignora completamente quello che gli ho detto e prende a frugarsi nelle tasche dei pantaloni. Tira fuori qualcosa e me lo porge — sono trenta dollari, a occhio e croce due banconote da dieci e dieci da uno. Non capisco. Lo dico.

    «Non capisco.»

    «I tuoi soldi. Mi hai pagato, lunedì scorso. E poi mi hanno arrestato.»

    C'è Gerard e ci sono io, e siamo in piedi a due metri l'uno dall'altro. Lui sotto la neve con il braccio teso e i soldi in mano, io sotto l'ombrello con lo zaino di scuola e la sigaretta in bocca. Lui fradicio, io perfettamente asciutto. Siamo la copertina di un libro. Scuote i soldi con un gesto seccato, poi alza le sopracciglia.

    «I soldi si stanno bagnando, Iero.»

    Non capisco che cosa voglia questo ragazzo da me; più che altro, non capisco se realmente voglia qualcosa da me. E ciò che mi dà fastidio è che probabilmente Gerard da me non vuole proprio niente, mentre io me ne sto qui ad analizzare ogni suo gesto in cerca significati nascosti che non esistono. Ad ogni modo non ho nessuna intenzione di riavere i miei soldi indietro, e Gerard sembra averlo finalmente capito. Lascia ricadere il braccio lungo il fianco e sospira come una donna, con tanto di ciglia sbattute due volte. Io giuro su Dio che questo ragazzo è uno spettacolo.

    «Senti, Iero, io non so se tu nuoti nei soldi o cose simili, ma che ti piaccia o no questi trenta dollari ti spettano di diritto. E io non voglio avere debiti in giro.»

    «Beh, valgono per la prossima volta che ci vediamo, no?»

    «Non ci vediamo, Iero. Ho chiuso con quella roba. Prendi i soldi e facciamola finita. Magari entro oggi, che ho delle faccende da sbrigare.»

    Quando Gerard mi dice che ha chiuso con quella roba io mi sento ferito come se stessimo assieme e lui avesse appena rotto con me. “Ma scusa tanto”, vorrei dirgli, “ma scusa tanto, come puoi lasciarmi così dopo tutto quello che abbiamo passato assieme?”. Ma la verità è che io e Gerard assieme non abbiamo passato proprio un bel niente o quasi, e che ciò che sta facendo lui ora è porre fine a un business, non a una relazione. Mi prendo i soldi e li arrotolo. Si muore di freddo, io muoio di freddo, e c'è Gerard che sta in piedi a due metri da me — lui fradicio, io perfettamente asciutto, anche se questo l'ho già detto.

    «Bene», sbottona brevemente lui. «Allora ci vediamo.»

    Ficca il pollice sotto alla tracolla della borsa e se ne va. Mi lascia qui come un cretino.

    ...

    ...

    ...Eh, no. Ma proprio no. Ok, ho capito che non gli interesso e ok, forse non l'ho capito, l'ho sempre saputo, ma a me non va giù — che non gli piaccia è un conto, ma che se ne vada così no, non mi va bene. Ha quasi raggiunto l'angolo della strada, senza voltarsi indietro e senza salutare, e io sono sempre qui davanti a casa mia, guardando il punto di marciapiede su cui si era seduto ad aspettarmi e a disegnarsi un paio di scarabocchi sul palmo della mano. Gli sono così indifferente che lo prenderei a botte. Beh, no, d'accordo, magari non lo prenderei a botte, però gli afferrerei le spalle e poi lo scuoterei un paio di volte nello stesso modo in cui lui ha scosso quei trenta dollari per farmeli prendere. E dopo averlo scosso mi farei dire che cazzo devo fare per ottenere un minimo di considerazione. Tutte queste cose le penso nel giro di due secondi e so che può sembrare strano perché sono davvero tantissime cose, ma fatto sta che a questo punto mi giro verso la figurina fradicia di Gerard e la chiamo.

    Mi ha sentito, si gira; all'inizio è un po’ spaesato perché non ha capito chi abbia gridato il suo nome, ma poi vede che qui non c’è un cazzo di nessuno a parte me, e allora capisce e mi guarda da lontano senza avvicinarsi, in attesa.

    «Stasera c’è una festa», improvviso.

    Stasera c’è davvero una festa, ma l’idea di invitarlo mi è venuta esattamente adesso. Che bravo, eh? È un’idea stupida, a dire il vero. Specie perché la festa non è mia e specie perché a questa festa io non sono nemmeno stato invitato. Gerard non risponde ma continua ad ascoltare, immobile, in piedi a venti metri da me. Questo è già un ottimo segno. Se Gerard non è interessato a qualcosa lui non è che se ne stia lì a sentire per educazione, lui se ne va e basta, arrivederci e tante belle cose. Lui non è tipo da moine. Parlo ancora, a voce molto alta perché possa sentirmi bene anche da dov'è.

    «Alle dieci», gli dico. «Dalle dieci. A casa di Craig Russell.»

    Inclina la testa, si lecca il labbro inferiore, continua a non avvicinarsi. Con Gerard devi scegliere bene le parole, perché se ne dici una sbagliata o che per qualche motivo non gli va giù, allora lui perde interesse. E l’ho già detto che quando Gerard perde interesse se ne va e basta. È un po’ come con i gatti, non so se avete presente: tu vedi un gatto per strada e allora sei tutto contento e con aria allegra vai là per accarezzarlo, però il gatto scappa via. E allora tu cominci a pentirti di non aver usato maggiore cautela, ma dopo qualche metro di corsa il gatto si ferma, si gira, si siede e ti fissa. In attesa. Solo a quel punto ti ricordi che i gatti sono diffidenti e che solitamente ai gatti le persone troppo allegre ed entusiaste non vanno giù. E a quel punto siete lì, a venti metri di distanza, tu e il gatto, e tu cerchi di riavvicinarlo facendo ogni gesto a rallentatore, perché sai che un movimento troppo brusco potrebbe spaventarlo e farlo scappare via. Fa’ un passo falso e il gatto scappa via. Fa’ un passo falso e Gerard se ne va e basta.

    La parte difficile dello scegliere le parole da dire a Gerard è che lui non ti interrompe, né cambia mai espressione — come un gatto, scusate se insisto. Gerard ascolta quello che hai da dire senza fiatare o cambiare espressione, dopodiché decide se andarsene o restare a sentire che altro hai da dirgli. Di solito, comunque, se ne va. E tu resti lì come un cretino.

    «Sai dov’è la casa di Craig Russell?»

    Gerard fa cenno di no con la testa.

    «È in fondo a Jauncey Ave. Al 75. In realtà non sono stato invitato, ma…»

    Lascio la frase a metà perché di solito nei film questo è il tipo di frase che il protagonista non riesce a completare perché il suo amato la completa per lui. In ogni caso Gerard non completa proprio un bel niente. Anzi.

    «“Ma”?», incalza.

    «Ma forse potremmo imbucarci assieme. Craig fa diciotto anni, a quella festa ci sarà praticamente tutta la scuola. Non ci noterà nessuno.»

    Continua a nevicare; non credo che Gerard potrebbe essere più zuppo di così, e per un attimo mi immagino un simpatico scenario in cui passo a prenderlo a casa sua per andare assieme alla festa e lo trovo morto di broncopolmonite sul pavimento. Che poi non credo che nel 2014 si possa ancora morire di broncopolmonite. O forse sì, ma che mi frega. Mi conviene sbrigarmi, se non voglio che accada davvero – ma ve lo immaginate, quanto sarebbe ironico?

    «Allora? Che ne pensi?», gli chiedo.

    Trattengo il respiro come se così facendo avessi qualche possibilità in più e aspetto che si decida finalmente a rispondermi. Nevica ancora. Gerard si morde l’interno delle guance, guarda per terra, guarda alla sua sinistra e infine guarda me; e prende un lungo respiro.

    «Non sarà così male.»

    Ha detto di sì. Cioè, non era proprio un “sì” di quelli pieni di brio, però era la perifrasi di un “sì”. Decido che mi va più che bene. Ragazzi, Gerard mi ha detto di sì e io fino a poco fa stavo per lasciarmelo scappare come un gatto, un gatto di quelli che tu sei tutto contento e con aria allegra vai là per accarezzarli eccetera eccetera.

    Mi chiedo in che genere di famiglia abiti Gerard. Se in una di quelle con i quadri di Gesù appesi alle pareti oppure in una di quelle con le armi da fuoco nascoste nei materassi. Sarei più per la seconda ipotesi. Nel senso che se Gerard vivesse nella mia famiglia, in cui siamo tutto sommato abbastanza religiosi e cose simili, non credo che in questo momento sarebbe qui. Per la cosa dell'arresto, intendo. Poi non lo so, ma credo che se un giorno dovessero arrestarmi, mio padre l'ergastolo me lo farebbe fare in casa, nel senso che verrei privato del permesso di uscire per tipo il resto della mia vita, non so se mi spiego. Ma se Gerard è lì di fronte a me, allora significa che qualcuno gli ha dato il permesso di farlo. Tutto questo ragionamento lo faccio in un secondo, e so che adesso voi sarete davvero increduli e tutto quanto perché ancora una volta ho dato prova della mia capacità di pensare a moltissime cose in pochissimo tempo. Fatto sta che io questo ragionamento l'ho fatto e che le conclusioni che ne ricavo sono uno, che io in questa faccenda dell'arresto non ci capisco proprio un cazzo; due, che se Gerard abita con i suoi, com'è altamente probabile che sia, loro sanno per forza dell'arresto. E a meno che i suoi non siano tipo dei narcotrafficanti abituati ad avere i familiari in galera, se non altro non credo che gli permetteranno di stare fuori fino a molto tardi, vista la sua... inaffidabilità. 

    «A che ora devi essere a casa, Gerard?»

    «All'ora che mi pare.»

    Ah. Non avevo capito proprio un cazzo. Bene. 

    «Non hai un coprifuoco?»

    Fa schioccare la lingua una volta.

    «E tu?», chiede.

    «Nemmeno io. Senti, se mi dici dove abiti posso passare a prenderti verso le dieci e un quarto.»

    «No. Vediamoci direttamente lì alle dieci e mezza.»

    «...Oh. Beh, d'accordo.»

    Lo capisco. Questa cosa dell'indirizzo, dico, la capisco, perché alla fine lui che ne sa? Cioè, magari io sono un assassino pazzo o uno della squadra antidroga sotto copertura o cose simili, e questo lui non può saperlo — in ogni caso non sono nessuno dei due. Immagino che non non si fidi, e dico “immagino” perché Gerard non ha mai cambiato espressione facciale da quando abbiamo cominciato questa conversazione. Gerard non cambia mai espressione. Ormai ci faccio poco caso; quello a cui faccio caso, invece, è che stiamo parlando da almeno cinque minuti e lui non ha l'ombrello e ha la testa piena dei pallini che ho già detto, quelli che fanno sembrare che tu abbia la testa a pois o cose simili, eppure è ancora lì. Potrei montarmi la testa. Ad ogni modo ci sono io e c'è Gerard, ma adesso siamo troppo lontani per sembrare la copertina di un libro. Lui mi studia per un altro paio di secondi e poi fa dietrofront. All'angolo con Greylock Parkway tira dritto, e poi continua a camminare velocemente senza mai voltarsi indietro.










Tra un minuto saranno passati esattamente quarantacinque minuti da quando mi sono seduto su questo muretto ad aspettare Gerard come un cretino. Gli avevo detto alle dieci e mezza. Gli avevo detto alle dieci e mezza e adesso sono le undici e un quarto, ma fatto sta che di Gerard non c'è traccia e che a questo punto io mi sentirei anche un po' preso in giro. Tanto più che a me Gerard piace da impazzire e tutto quanto mentre invece io a lui sono del tutto indifferente, tipo che l'ho pagato otto volte per farmi fare uno pompino e lui non mi ha mai concesso privilegi nemmeno in quel senso.

    Ok, straparlo. Cioè, strapenso, se così si può dire. Fa un freddo, ma un freddo che giuro su Dio che se mi chiudo dentro a un congelatore mi scaldo. E Gerard non c'è, mentre lì a due passi la festa di Craig Russell è cominciata da secoli e continua alla grande, con tanto di musica e piscina e cibo e sigarette. C'è da dire che dal tipo di gente che vedo entrare e uscire dal retro della casa di Craig Russell ho come l'impressione che quella più che una festa sia l'Oktoberfest, però che cazzo. Che cazzo. Mi dico che quando arriverà Gerard glielo dirò — glielo dirò eccome. Farò la faccia arrabbiata e tutto, e poi lo guarderò un con un cipiglio pieno di disapprovazione e gli dirò: “Che cazzo”, (gli dirò proprio così), “che cazzo, Gerard”. Oh, potete giurarci. Gli dirò così e poi magari subito dopo mi accenderò una sigaretta e guarderò lontano facendo la stessa faccia che fanno i tizi dei film quando devono sbollire la rabbia. E allora Gerard temerà di aver perso un potenziale amico e a quel punto si getterà a terra e tra le lacrime e dirà...

    «Bel posto di merda.»

    C'è Gerard. Ha i jeans e una giacca a vento nera e se non stesse guardando la casa di Craig con aria contrita sembrerebbe quasi etero.

    «Dov'eri finito?», chiedo.

    Quella cosa del “che cazzo” mi sa che non gliela dico. Metti che poi si infastidisca e allora se ne vada e basta.

    «A casa mia.»

    Non si scusa per il ritardo e fa un cenno con la testa verso casa Russell. Piega gli angoli della bocca verso il basso e ribadisce quanto ha già detto.

    «Bel posto di merda.»

    «Tutta Belleville lo è», ritorco io. «Vieni.»

    Giriamo attorno alla casa fino ad arrivare sul retro. La porta è aperta, un tizio fuma sulla soglia e guarda lo schermo del cellulare. In questo buco di culo di paese entrare alle feste senza essere stati invitati è uno scherzo, ve lo assicuro. È uno scherzo perché di solito alle feste uno ti dice “porta chi vuoi”, e qui si conoscono tutti, quindi io potrei benissimo essere un amico di un amico di un amico di un amico del festeggiato – probabilmente lo sono anche. Gerard tiene il naso all’insù e mi segue passivamente mentre superiamo il tizio che fuma ed entriamo. È una casa che si sviluppa per lungo, di quelle che

stanno in mezzo a due strade – La porta sul retro dà accesso alla cucina e la cucina dà accesso al salotto e il salotto dà accesso alla porta principale, non so se avete presente.

    «E così Craig Russell è carico di soldi.»

    Siamo dentro da meno di otto secondi e Gerard ha già in mano una cornice con dentro una foto di famiglia. Me la agita sotto al naso con sguardo eloquente, ma io non capisco cosa dovrei capire. Un’altra cosa tipica di Gerard è che lui fa un sacco di pensieri complessi e poi, dopo essersene stato in silenzio per minuti interi, si gira verso di te, ti guarda e fa la sua considerazione ad alta voce. Il punto è che spesso le cose che dice ad alta voce sono il risultato di una lunga riflessione che la maggior parte delle volte non c’entra un tubo con ciò di cui si stava parlando, e allora tu non sai a che cosa si riferisca e resti lì come un cretino. E adesso lo sta facendo di nuovo: con un dito indica la famiglia di Craig Russell immortalata nella foto e alza le sopracciglia come se la considerazione che ha appena fatto fosse scontata. E io resto lì come un cretino. Tanto più che la musica è altissima e schifosa e ogni due secondi vengo investito da qualche ubriaco che non riesce a camminare in linea retta, quindi è difficile rimanere concentrati su Gerard e sui suoi voli pindarici.

    «Che intendi?», gli chiedo.

    Sospira, come se fosse tutto così ovvio.

    «Intendo che Craig Russell è ricco sfondato.»

    «Sì, ma perché pensi che sia ricco sfondato?»

    In questa casa non c’è nulla di prezioso. A dire il vero, le uniche cose che ci sono in questa casa a parte me e Gerard sono la musica altissima e schifosa e gli ubriachi che non riescono a camminare in linea retta.

    «Ma ti prego, Iero. Guarda qui. Ha la foto di famiglia. In una cornice

    «E cosa c’è di così strano, scusa?»

    «Questa qui», (e qui indica la foto con davvero tantissima enfasi), «Questa qui è una di quelle foto che ti fanno i fotografi in cambio di vagonate di soldi, e poi guarda lo sfondo: è azzurro. Cioè, questo significa che come minimo la famiglia di Craig Russell un mattino si è svegliata tipo alle sei e poi è partita alla volta di uno studio fotografico. Capisci?»

    «Sì.»

    Inutile dire che in realtà non ho capito niente. Gerard adesso guarda di nuovo la foto e potrei quasi giurare che sia malinconico.

    «Ma te li immagini?», chiede. «Un bel giorno questi si svegliano alle sei, si mettono tutti eleganti e poi si fanno tutta l’autostrada di merda fino a Kearny o che so io solo per farsi scattare una dannatissima foto di famiglia. Robe da matti.»

    Io ve lo dicevo, che quando Gerard fa qualche ragionamento il novanta percento delle volte non si capisce niente. Rimette la foto sul ripiano con un’espressione schifata e poi si volta verso di me.

    «Questo qui caga i soldi che è una bellezza e poi fa tante storie per trenta dollari di pompino.»

    «…Ah. Ecco dove volevi arrivare.»

    «Mh-mh. Quando gli ho detto quanto costava un mio pompino, ha cercato in tutti i modi di farsi fare uno sconto; ho fatto bene a non farglielo.»

    «Il… il pompino?»

    «No, lo sconto. Il pompino gliel’ho fatto.»

    «Ah.»

    Quanto candore, eh? Io lo vedo così. Non sono volgari nemmeno i pompini, quando li fa lui, non so se mi spiego. La canzone cambia, la festa continua, la musica è sempre altissima. E Gerard continua ad avere qualcosa che non va. Negli occhi. Lo so dagli occhi, che ha qualcosa che non va. E sto per chiedergli che cosa sia, ma poi il suo telefono vibra dentro alla tasca della giacca e Gerard esce dalla porta sul retro per rispondere alla sua chiamata.










Per qualche motivo credo fermamente che in questo momento Gerard stia parlando con la stessa persona che gli ha mandato un messaggio quando eravamo nell’aula 124 del terzo piano. Se è il suo ragazzo è l’uomo più fortunato al mondo. Giuro su Dio che se è il suo ragazzo è l’uomo più fortunato al mondo, tanto più che Gerard sta attaccato a quel dannatissimo telefono con tutta la guancia e sorride anche un pochino. E io lo so perché da qui lo vedo benissimo – mi pare di aver già detto che questa è una casa che si sviluppa per lungo, e che quindi se uno sta in salotto vede benissimo chi sta sul retro. È un po’ frustrante sapere che al mondo c’è qualcuno in grado di catturare tutta l’attenzione di Gerard. No, beh, più che altro è frustrante sapere che questo qualcuno c’è e che questo qualcuno non sei tu. E così resto qui. Come un cretino.  È difficile non restare lì come dei cretini quando accanto a voi c’è Gerard, e penso che ormai questo l’abbiate dedotto tutti. È che mi dà noia sapere che dietro a quel telefono c’è qualcuno che sa esattamente cosa dire a Gerard e come comportarsi con lui per non farselo sfuggire. È come quando vedi un gatto per strada, e allora sei tutto contento e con aria allegra vai là per accarezzarlo, però il gatto scappa via. E mentre tu te ne stai lì (come un cretino, appunto), arriva qualcun altro, dice quattro parole in croce e subito il gatto si gira e va da lui.

    Dopo qualche minuto Gerard annuisce tre volte come se chi sta dall’altra parte del filo potesse vederlo, borbotta ancora qualche altra cosa e infine mette giù. Quando mi raggiunge di nuovo in sala io ho in mano il telefono e faccio finta di essere molto impegnato, tipo che sono proprio un ragazzo fantastico se nonostante tutti i miei impegni trovo anche il tempo di uscire con Gerard. È più o meno l’idea che vorrei dare in questo momento, ma ad ogni modo lui non ci casca. Anzi, non nota nulla e basta. Viene da me camminando velocemente, mi indica la cassa per farmi capire che la musica è troppo alta per riuscire a parlare e infine mi prende per una manica e mi trascina fuori, facendomi sbattere contro tutte le persone che troviamo lungo percorso. A questo punto non so voi che ne pensate, ma io direi che è abbastanza evidente che non riesco a sembrare un ragazzo impegnato. Gerard mi porta fuori e poi mi lascia la manica. Si morde continuamente il labbro inferiore e guarda a destra e a sinistra, e io giuro su Dio che mi cago sotto dalla tenerezza, perché è la prima volta che lo vedo così... agitato, credo. Gerard ha sempre l'aria annoiata. Sempre. E ce l'ha talmente... beh, sempre, che non appena cambia espressione tu non capisci nemmeno che espressione sia perché riesci solo a pensare “oh Cristo, ha cambiato espressione”. E resti lì come un cretino. Però dura solo un attimo, perché non faccio neanche a tempo a fare tutto questo ragionamento che Gerard si calma e riprende tutto quel poco contegno che si era permesso di perdere.

    «Che... Gerard, che c'è?»

    «Ti piace questa festa, Iero?»

    «Cosa?»

    «Ti piace questa festa?»

    «Io...»

    «Iero, sono due i casi, sì o no. Ti piace questa festa, sì o no?»

    «N-Non particolarmente, credo.»

    Ma come fai a rispondere lucidamente a una domanda che Gerard ti fa alle undici e mezzo di sera durante una festa che non è tua e a cui non sei stato nemmeno invitato? Come fai, che non giochi nemmeno in casa? Non puoi, dico io. Non puoi proprio.

    «Movimentiamo la festa, Iero», mi dice, e adesso sul suo viso c'è di nuovo quello sguardo che lo fa sembrare molto più grande della sua età. «Ti va?»

    «Che intendi?»

    «Che cazzo, Frank.»

    Lo dice stancamente, come se avesse a che fare con un completo idiota. “Che cazzo” avrei dovuto dirglielo io, quando si è presentato davanti a casa di Craig con quarantacinque minuti di ritardo. E invece ora me lo dice lui. Mi ruba anche le battute, ma vi sembra normale?

    «Che cazzo», continua Gerard, «hai sempre le solite due opzioni. Sì o no. E allora, vuoi movimentare questa serata morta, sì o no?»

    «Io... sì.»

    E mentre dico di sì lo guardo bene negli occhi e ci ritrovo una traccia di quell'agitazione che fino poco fa gli aveva mangiato tutto il viso. Che Gerard mi proponga qualcosa, lui a me, è grandioso, sul serio. L'unico vero problema è che io non so che cosa intenda lui con “movimentare la serata”. O lo so e non voglio saperlo. E allora mi viene in mente che Gerard la settimana scorsa aveva un bel paio di manette attorno ai polsi, e che Gerard un mese e mezzo fa aveva la faccia in un fermo immagine della telecamera a circuito chiuso del negozio di mio padre. Ma la verità è che Gerard ha gli occhi grandi grandi come i gatti che quando ti avvicini scappano, e io ho una specie di debole per gli occhi di Gerard e per Gerard in generale. Lui mi dice che conosce un posto dove non ci disturberà nessuno, e io lo sto a sentire mentre cerco di capire dove voglia arrivare. Però non ci riesco. E resto lì come un cretino.










L'Albergo Delle Puttane è un albergo che io chiamo così perché prima che lo costruissero in quel punto della strada c'era un bordello. Cioè, ufficialmente doveva essere un centro massaggi, presente no?, di quelli che tu paghi ottanta dollari e una tizia ti mette dei sassi sulla schiena per aprirti i chakra o chiuderteli o quello che è. Fatto sta che in quel centro massaggi non maneggiavano proprio nessun chakra, al massimo maneggiavano qualcos'altro (non credo di dover essere più esplicito). Poi un bel giorno la polizia se n'è accorta e sbam, tutto chiuso.

    Gerard mi ha portato all'Albergo Delle Puttane e io per un attimo mi lascio trasportare dalla deliziosa ipotesi che abbia intenzione di maneggiarmi i chakra come si deve — non so se mi spiego —, e invece Gerard gira l'angolo dell'edificio e va a infilarsi sotto una specie di portico che dà sulle stanze al pianterreno.

    «Che significa?», gli chiedo.

    Ovviamente mi ignora.

    «Queste stanze qua non sono occupate», dice. «Se arriva qualcuno, il signor Humphrey, che è il gestore di questa merda, gli dà una delle stanze all'ultimo piano, e quando tutto l'ultimo piano è pieno allora passa a quello sotto. Ma tanto l'ultimo piano non è mai pieno. Quindi se ci mettiamo qui non ci vede nessuno. E poi questo è uno dei pochi punti che le telecamere dell’albergo non riescono a riprendere.»

    «E tu come lo sai, scusa?»

    «Ho lavorato qui.»

    «Cosa? Quando?»

    «Appena mi sono trasferito.»

    «E poi? Te ne sei andato?»

    «Beh, grazie tante, il signor Humphrey mi ha fatto arrestare.»

    Si siede con la schiena addossata a una delle portefinestre e picchietta il palmo accanto a sé, per terra. Mi siedo lì.

    «Come sarebbe a dire che ti ha fatto arrestare, scusa?»

    Se il signor Humphrey ha fatto arrestare Gerard allora è proprio una bella merda. Come fai a fare la spia su una cosa che ha fatto Gerard? I casi sono due, e cioè uno, sei scemo, oppure due, sei folle. Tanto più che Gerard ha solo sedici anni. Mi accendo una sigaretta e aspetto che Gerard risponda alla mia domanda.

    «In realtà è leggermente più complicata di così», dice. «Io lavoravo qui nel senso che alcuni giorni alla settimana, di pomeriggio, stavo dietro al bancone della reception e prendevo le prenotazioni. E poi, all’occorrenza, tornavo anche di sera e facevo sesso a pagamento con i clienti che lo volevano; e lui si prendeva una percentuale.»

    Ora probabilmente sembrerò cattivo, però io dico che se Gerard al posto di trovarsi un lavoro normale va in giro a prenderlo in bocca o altre cose a quelli che lo pagano, allora evidentemente un po' gli piace. Me lo tengo per me.

    «Al signor Humphrey andava bene, tanto più che gli affari di questo posto procedono veramente da schifo. E a me anche, nel senso che sinceramente se posso guadagnarci qualcosa non mi frega più di tanto prendere in bocca un paio di...»

    «Sì, ho capito.»

    Mi getta una brevissima occhiata stranita.

    «Dicevo. Dopo quattro giorni circa lui comincia a farmi avance varie, tipo che arriva da dietro e cerca di appoggiarsi, cose così.»

    «Non sapevo che il signor Humphrey fosse gay.»

    «Non si tratta di essere gay o meno. È che sono giovane. E poi mio fratello mi dice sempre che ho la faccia da donna.»

    «Aspetta, tu hai un frat...?»

    «Il signor Humphrey ha cominciato a farmi delle avance e a quel punto io gli ho detto che se se lo voleva far prendere in bocca allora doveva pagare, esattamente come tutti gli altri.»

    Mi sono accorto del modo in cui mi ha interrotto appena ho menzionato suo fratello, ma anche questa volta non dico nulla. Tanto, se Gerard non vuole parlare, non parla e basta.

    «Una sera il signor Humphrey mi è praticamente saltato addosso», continua. «Mi ha detto che c'era un cliente per me e invece non c'era proprio nessun cliente. C'era solo lui.»

    «Ma... e quindi ti ha...?»

    «“Mi ha...”?»

    «Beh... violentato

    «Ah, quello. No, non mi ha violentato. Però ci ha provato. Mi ha afferrato per le spalle e mi ha sbattuto contro al muro. Lì accanto c'era il caminetto, e allora io ho preso un vaso che era appoggiato lì sopra e gliel'ho rotto in testa.»

    Sorrido, probabilmente fuori luogo. È che mi diverte il fatto che finora tutti quelli che hanno provato a immobilizzare Gerard sono finiti con qualche cosa di sanguinante — Poliziotto Severo il naso, il signor Humphrey la testa.

    «E allora ti ha denunciato per questo?»

    «Certo che no. Cosa avrebbe potuto dire? Non poteva mica uscirsene con una frase tipo “questo ragazzo che stavo cercando di stuprare mi ha rotto un vaso in testa, mettetelo in prigione”. Io mi sono licenziato la sera stessa, ovviamente. E allora lui mi ha fatto la bastardata: ha preso un paio di nastri delle telecamere a circuito chiuso dell'albergo e li ha spediti alla polizia. E il giorno dopo... lo sai già. C'eri anche tu, no?»

    Non mi torna. A parte che se fai prostituire un ragazzino con i clienti del tuo albergo e ti beccano, quello che va in prigione non è certo il ragazzino, ma piuttosto sei tu, per favoreggiamento alla prostituzione. E poi in tutta questa storia la droga non c'entra niente. Sembra che Gerard mi legga nel pensiero, perché subito dopo riprende a parlare.

    «Nelle riprese che quello stronzo ha mandato alla polizia la mia faccia si vede benissimo. E lo so perché quelle riprese quando mi hanno interrogato me le hanno mostrate tutte. Tre giorni diversi e la stessa identica scena: io entro dalla porta principale dell'albergo, mi infilo tra le due piante accanto al bancone della reception, tiro fuori un po' di special K da una bustina trasparente, me la spalmo sul dorso della mano e tiro.»

    «…Ketamina

    «Mh-mh.»

    Lo dice così. Come se niente fosse. Come se avesse appena risposto a una domanda come tante altre. “Tutto ok?”, “sì”, “Hai fratelli?”, “sì, due”, “Ti fai di ketamina?”, “mh-mh”. Così. Mi chiedo come possa un ragazzino di appena sedici anni avere già tanta familiarità con una delle droghe più forti in commercio, ma poi decido che non voglio saperlo. Penso al Gerard che ho visto io per la prima volta, quello biondo; quello con il drink rosa acceso in mano e il boa con piume bianche e nere attorno al collo che per forza di cose da lontano sembrava grigio. Però quella volta era da lontano. Adesso Gerard è qui. Ce l'ho qui e non mi scappa. Né lui né i suoi occhi pieni di cose meravigliose e spaventose allo stesso tempo. Penso disordinatamente che forse è proprio per questo che Gerard ha gli occhi così grandi: probabilmente, se fossero stati più piccoli, non ci sarebbero entrate tutte le cose meravigliose e spaventose che invece ora ci sono, e che fanno sembrare Gerard più grande. E a tratti anche più triste.

    «Non...»

    Sono stato io a rompere il silenzio. Però non so cosa dire. Vorrei andare da chiunque abbia venduto quella roba a Gerard e prenderlo a calci e dirgli che non si doveva permettere di fare qualcosa di così orrendo a un ragazzino come lui.

    «“Non”?»

    «Non... ma... insomma, in polizia non si sono chiesti com'è che nelle riprese è sempre notte fonda? Non hanno pensato che il signor Humphrey possa averti ricattato, o... non hanno pensato a qualcos'altro? Una seconda ipotesi, o...»

    «Non c'è nessuna seconda ipotesi, Iero. In tutti quei video è pieno giorno. Nei giorni in cui lavoravo, quando uscivo di scuola andavo lì; facevo il mio normale turno lavorativo fino alle sei e poi, se c'erano clienti interessati, tornavo anche la sera per offrire il mio servizio. Sempre che si possa chiamare così, ovvio. Ma io la special K non la prendevo di sera. La prendevo di pomeriggio, quando cominciavo il turno.»

    Sono completamente incantato. È notte, sono da solo con Gerard e Gerard mi sta parlando di sé come se fossi un suo vecchio amico, quando fino a stamattina credevo che sarei morto congelato dal suo sguardo pieno di profonda misantropia. E io giuro su Dio che in questo momento sono talmente preso a pensare a questo che detto proprio tra noi la cosa della droga passa quasi in secondo piano. Per dirvi come sono messo.

    «La ketamina se presa in certe dosi è un analgesico, che non so se lo sai ma vuol dire che è una cosa che fa passare il dolore.»

    Gli dico che lo sapevo, ma lui non mi sente e continua con il suo discorso.

    «Quando avevo qualche cliente andavo all'albergo verso le dieci di sera, facevo quello che dovevo fare e poi verso l'una di notte tornavo a casa e crollavo subito dal sonno. Ma il giorno dopo ero sempre pieno di dolori. Alcuni di quei vecchi ci davano proprio dentro, sai?»

    «E quindi è successo che qualche volta tu sia venuto a scuola mentre eri... sotto l'effetto di quella roba?»

    Mi prende la sigaretta dalle dita e ne ruba un tiro, poi me la rimette in mano. Sbuffa il fumo lentamente, gettando la testa all'indietro.

    «No, mai», risponde. «La gente avrebbe cominciato a insospettirsi. E a scuola c'erano troppe persone. Se dovevo farmi una striscia me la facevo appena tornavo a casa da scuola oppure appena venivo qui a lavorare. E i video lo confermano.»

    Annuisco. Credo che da quando ce ne siamo andati dalla festa sia passata almeno un'ora; per quanto mi riguarda può essere passato anche un anno, a dire la verità, ma questo è solo per farvi capire come vola il tempo con Gerard, anche se lui ti sta dicendo che fa sesso per soldi e che si droga e che il signor Humphrey è uno stronzo che manda alla polizia le prove per incastrarlo. È pazzesco.

    «E quindi», concludo io, «e quindi, ricapitolando, ogni giorno che eri di turno, tu ti svegliavi, andavi a scuola, dopo scuola correvi qui e appena arrivato ti facevi una striscia?»

    «Più o meno. La striscia me la facevo solo quando la notte precedente qualcuno mi aveva aperto il culo.»

    Candidamente.

    Gerard cerca ancora la mia sigaretta con la mano e quando realizza che l'ho spenta arriccia le labbra in una vaga espressione di disappunto. Una cosa che — se proprio vogliamo usare dei paroloni — mi spaventa, per così dire, è che del fatto che Gerard si faccia di ketamina per non sentire dolore dopo il sesso a me frega fino a un certo punto. Per carità di Dio, intendiamoci, c'è anche di meglio, tipo che c'è un sacco di gente che al mattino si sveglia alle cinque per andare a correre o che di pomeriggio va in chiesa e mette un sacco di soldi in quell'affare di stoffa per le offerte. Però se ho capito bene Gerard usa la ketamina solo come analgesico, e allora è molto diverso — cioè, sì, senza nessun documento che ti autorizzi a farlo è illegale anche così, ma adesso è inutile star qui a fare i cavillosi. Ad ogni modo sia che non si droghi e sia che si droghi io pendo dalle sue labbra. È impossibile non farlo. E mi dispiace dirlo, (no, in realtà non mi dispiace affatto, però mio padre mi ha detto che aggiungere espressioni come queste alle frasi offensive è buona educazione); dicevo, mi dispiace dirlo, ma io non credo che esista qualcun altro che sia così incantevole e allo stesso tempo così cupo quanto lo è Gerard in ogni cosa che fa. Come adesso, per esempio: ha raccolto un ciuffo d'erba da una crepa sul pavimento, alla sua destra, e si è messo a strapparla in tanto piccoli pezzettini, lo sguardo annoiato e perso nel vuoto. Lo guardo bene e sì, confermo: non ce n'è per nessuno.

    «Iero.»

    «Dimmi.»

    «Tu sei uno stronzo?»

    Mentre me lo chiede mi guarda dritto negli occhi. È molto serio.

    «N-no, non direi.»

    «Sicuro?»

    «Sì, perché?»

    «Perché sto per fidarmi di te.»

    Io continuo a non capire e lui a guardarmi negli occhi, e poi Gerard abbassa la cerniera della sua giacca e fruga da qualche parte all'interno finché non tira fuori una bustina trasparente con dentro qualcosa. Sulle prime non ho idea di che cosa abbia intenzione di fare e allora resto lì, come un cretino. Poi però non è che ci voglia molto a capire che ciò che ha appena tirato fuori Gerard è una polvere, e che plausibilmente Gerard ha tutta l'intenzione di farsi finire quella polvere su per il naso e magari di farla finire su per il naso anche a me. Giuro su Dio che il problema più grande che ora mi si pone è come dirgli che io non ho nessuna intenzione di provare a drogarmi senza farlo arrabbiare. O senza farlo scappare via come i gatti, se preferite. Fatto sta che c'è Gerard con il sacchettino e con la polvere dentro al sacchettino, e se io non trovo una scusa nel giro di un secondo so già che Gerard vorrà chiedermi di unirsi a lui. Decido che è meglio parlare piano, con cautela.

    «Gerard.»

    «Mh?»

    «Quella… quella è cocaina?»

    Scoppia a ridere. Non so se sia un buon segno, perché questa è solo la seconda volta che lo vedo ridere, e la prima è stata quando ha rotto il naso a un agente di polizia che lo aveva appena dichiarato in arresto.

    «Sei fuori di testa, Iero?», mi chiede.

    Ha ancora un sorriso a metà, e anche se non ci sto capendo un cazzo sorrido anch'io allo stesso modo. Per riflesso.

    «No, io... non so, mi era sembrato che fosse cocaina», mi giustifico.

    «Sei matto», sfiata lui scuotendo la testa e cominciando ad aprire il sacchettino. «Cocaina, certo.»

    «E allora cosa?»

    Si volta verso di me e io giuro che adesso mi verrebbe da alzarmi in piedi e fargli una foto così com'è, con il volto impassibile e la luce che gli proietta una specie di aureola luminosa sui capelli neri. Dice una parola sola, con tutta la tranquillità di questo mondo.

    «Ketamina.»

   
 
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