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Autore: Eustachio    04/06/2015    4 recensioni
Una sera di novembre Francesca e Massimo si incontrano sotto la pioggia. Francesca è timida e insicura, spesso messa in ombra dalla sorella gemella. Massimo ci sta provando o è tutto nella testa di Francesca?
***
Mentre Evelina ruota il braccialetto attorno al polso, mi sembra di rivedere me stessa che mi rigiro il filo d’erba tra le dita. Solo che adesso Massimo le cinge la vita con il braccio e le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei sorride e lascia perdere il braccialetto.
A volte ho l’impressione di vedere la mia vita dall’esterno: qualcun altro identico a me, mia sorella, che la vive al posto mio. Incrocio lo sguardo di Massimo, lo sguardo da innamorato rivolto a Evelina che per un attimo sembra rivolto a me. [...]
Genere: Drammatico, Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Epilogo

Sfiderebbero Satana e tutte le sue legioni

Giovedì 26 novembre 2009

Sono sola alla fermata dell’autobus. In biblioteca ho perso la cognizione del tempo ed è stato il bibliotecario a ricordarmi che stavano per chiudere. Mi sono tolta le cuffie, ho controllato l’ora dal cellulare e mi sono sbrigata a uscire. Una volta fuori mi hanno sorpreso il freddo di novembre e il ticchettio della pioggia. Mi sono stretta nel cappotto, ho aperto l’ombrello e sono arrivata fino alla fermata. Il prossimo autobus dovrebbe passare tra un quarto d’ora. I lampioni tingono le strade d’arancio e sui marciapiedi sagome indistinte corrono al riparo sotto i portici o si affrettano ai margini della strada con gli ombrelli.

Sono dieci anni che aspetto questo momento. Rivivere dieci anni della mia vita non è stato terribile come pensavo. Mi sono goduta le belle cose e ho affrontato le brutte sapendo che sarebbero passate, che non avevano importanza — anche quando non me le aspettavo, perché Evelina ha cambiato molto più di quanto pensassi. Ho conosciuto l’Evelina vera, quella che non sa cosa accadrà e neanche ci pensa più di tanto.

Massimo, incappucciato, corre sotto la fermata. Sposto la borsa, ma si limita a guardare gli orari e poi la strada, in piedi. Si toglie il cappuccio e sospira. Il bel profilo, il naso prominente, l’accenno di barba, i capelli scuri tagliati corti, gli occhi grandi. Non è la prima volta che lo vedo. L’ho sorpreso un paio di volte a guardare nella mia direzione all’università, ma non si è mai avvicinato.

Sposta il peso dal tallone alle punte, sporgendosi ogni tanto nella speranza di intravedere l’autobus. La pioggia diventa scrosciante e Massimo si tira indietro.

In tasca e con i guanti le mani si scaldano, ma il freddo mi punge le guance e i jeans sono troppo leggeri. Accavallo le gambe.

«Fa sempre così ritardo?» chiede Massimo.

«Di solito prendo l’altro autobus. Oggi ho fatto tardi».

«Sarei dovuto uscire prima». Sbuffa e si siede anche lui, gli occhi fissi sulla strada. «Il professore continuava a spiegare e spiegare, se non dovevano chiudere le aule ci teneva dentro ancora mezz’ora. Se sapevo che pioveva mi portavo almeno l’ombrello».

«Vivi in zona?»

«Sulla traversa prima del supermercato. Se l’autobus si degnasse di arrivare mi eviterei la corsa sotto la pioggia».

Annuisco. La pioggia batte sul tetto della fermata. Dal vetro i lampioni sono aloni di luce opachi. Un autobus svolta.

«È questo?» Lui si alza e si sporge fuori dalla fermata, schermandosi gli occhi con la mano. Mi alzo anch’io, ma l’autobus alla rotonda prende l’altra strada. Torniamo entrambi a sederci.

«Scrivo a mia sorella, va’». Prendo il cellulare dalla borsa. «Se fa prima dell’autobus possiamo darti un passaggio, tanto è di strada».

«Oh». Per la prima volta mi guarda negli occhi. Li ha neri, molto espressivi. Le labbra si increspano in un sorriso. «Grazie, sarebbe proprio una mano santa».

Rimango col cellulare in mano e per qualche istante sia io che Massimo lo fissiamo, una luce chiara e distinta nella strada arancione. La pioggia riduce di intensità, ticchetta dolcemente sul tetto della fermata. Mi appoggio al vetro sospirando.

«Si sta calmando». Massimo guarda il tetto, come aspettandosi una conferma.

«Da qui a casa tua quanto ci vuole a piedi?»

«Di solito ci metto un quarto d’ora, anche meno. Perché?»

«Ho l’ombrello. Se vuoi ti accompagno. Tanto è di strada, mia sorella può passarmi a prendere lì».

Massimo si sforza di non sorridere. «Sei sicura?»

Fingo di esitare. «Non saprei. Giuri solennemente di avere buone intenzioni?»

Massimo ride. Alza la mano sinistra e si mette la destra sul cuore. «Giuro solennemente di avere buone intenzioni».

Ci rimettiamo le borse in spalla. Lascio il telefono nella tasca del cappotto mentre apro l’ombrello. Lo tengo sollevato per coprire anche lui. Gli arrivo sotto la spalla.

«Se vuoi lo tengo io».

«Sì, grazie».

Glielo porgo e ci incamminiamo. Lui cerca di coprire entrambi e allo stesso tempo di stare a debita distanza. Qualche locale è ancora aperto, ma le cartolerie e le librerie che di solito pullulano di studenti la mattina ora sono chiuse. L’acqua viene raccolta nei canali di scolo, ma qua e là ci sono pozzanghere di luce.

«A proposito, io sono Massimo».

«Piacere, Francesca».

Ci stringiamo la mano.

«Cosa studi?» chiede lui.

«Lettere. Tu?»

«Filosofia».

Cammino a testa bassa, attenta a dove metto i piedi.

«Ti avverto, se la casa è un disastro è tutta colpa del mio coinquilino. Ovunque, anche in camera mia. Non che dobbiamo andare in camera mia, eh».

Prendo il cellulare dalla tasca e scrivo a Evelina di venirmi a prendere all’altezza del supermercato e di chiamarmi appena può.

«Se hai fame possiamo mangiare qualcosa, sempre che tua sorella non risponda prima. Ancora niente?»

«Probabilmente è sotto la doccia. Non preoccuparti».

«Ecco, qui a destra». Il marciapiede è più piccolo nella traversa. Cammina dietro di me. Mi sfiora il braccio alle strisce dicendo: «Attraversiamo qui».

Appena arriviamo al suo condominio mi restituisce l’ombrello per cacciare le chiavi e aprire il portone. Lo tiene aperto, ma rimango sulla soglia.

Mi guarda sorpreso. «Non entri?»

«Sei sicuro che non disturbo?»

«Ma che disturbo, mi hai accompagnato fin qui! Entra, dai. Almeno non aspetti al freddo».

Chiudo l’ombrello e lo scrollo prima di entrare e chiudermi il portone alle spalle. Massimo chiama l’ascensore. Le porte si aprono lentamente. Abbandoniamo l’odore di prodotti per le pulizie dell’atrio per quello neutro dell’ascensore. Entro per prima. Massimo preme il cinque e cominciamo a salire.

Lo guardo attraverso lo specchio con la coda dell’occhio. Le spalle, il cappuccio e la borsa sono bagnati. Si mette le mani nelle tasche dei jeans e guarda il soffitto. Compongo il numero di Evelina anche se so già che non c’è campo.

Prima ancora che le porte si aprano Massimo traffica con le chiavi. Nel suo appartamento il corridoio è buio. Da una porta chiusa proviene una striscia di luce e una musica sommessa. Massimo mi precede. Struscio i piedi sullo zerbino un paio di volte e lascio l’ombrello all’ingresso.

«Permesso» mormoro. Mi chiudo la porta alle spalle.

Massimo è in cucina, la prima stanza sulla destra. La borsa è a terra, s’è tolto il cappotto. Indossa una felpa blu.

«Vuoi qualcosa?» Apre il frigo. «Abbiamo… Mmm. Acqua, tè, birra. A te la scelta». Mi guarda da sopra lo sportello. «O vuoi qualcosa da mangiare?»

«Il tè va benissimo, grazie».

Poso la borsa a terra, mi levo il cappotto e lo metto sullo schienale della sedia. Chiamo di nuovo Evelina mentre lui riempie un bicchiere, ma continua a squillare a vuoto.

Bevo qualche sorso di tè. L’orologio della cucina ticchetta. La musica dell’altra stanza cambia, è I Gotta Feeling.

Massimo tamburella le dita sul suo bicchiere. «Giuro che col mio coinquilino condivido giusto l’appartamento, non i gusti musicali. Ti dà fastidio? Se ti dà fastidio gli dico di abbassare».

«Non preoccuparti».

«Non può piacerti una roba simile, dai».

Mi umetto le labbra. «Ora come ora mi farebbe schifo qualunque cosa. Sono in fissa con gli Strokes».

Un lampo gli attraversa gli occhi. «Aspetta, questa ti piacerà per forza!» Si alza ed esce di corsa dalla cucina. Finisco il tè.

Massimo torna col portatile. Avvicina la sedia all’angolo del tavolo e gira il computer verso di me.

«Sai chi è Julian Casablancas?»

«Il cantante degli Strokes, no?»

«Sì, esatto! Ha fatto un album da solista, lo sapevi?» Il computer si è acceso. Le dita di Massimo si muovono velocemente sulla tastiera. «Senti un po’ questa, è la mia preferita».

Parte Glass. Vorrei canticchiarla a bassa voce, ma non ricordo più le parole e col tempo ho dimenticato anche la melodia. Non la sentivo da dieci anni. A risentirla adesso, in questo momento, in questo posto, mi travolge la stanchezza del viaggio. Il rischio che ho corso, gli anni che ho rivissuto. Tutto questo per cosa? Per questo momento, per questo posto, per un ragazzo che neanche so se sarò in grado di amare, per riappropriarmi della mia vita e per salvare Evelina. Cosa succederà tra più di vent’anni a Massimo? E a Evelina? No, non vivrò aspettando quei giorni. Mi godrò ogni giorno di sole.

Quando finisce mi sembra di riscuotermi da un sogno. Massimo mi sta guardando con un’espressione curiosa.

«Non mi dire che già la conoscevi».

Scuoto la testa. «Però è davvero bella. Mi fa pensare».

Sorride. «Aspetta, ce n’è anche un’altra che devi sentire».

Il telefono vibra. Lo prendo, Massimo smette di digitare.

«Scusa, ero sotto la doccia e poi stavo guidando. Ho parcheggiato davanti al supermercato. Dove sei?»

«Arrivo». Riattacco.

Io e Massimo ci alziamo contemporaneamente, le sedie stridono.

«Ti accompagno?» chiede.

«Non serve, è qui sotto». Mi rimetto il cappotto. «Grazie per il tè e per la musica».

Si mette le mani nelle tasche dei jeans, si stringe nelle spalle. «Grazie a te per la compagnia».

Mi accompagna alla porta, accendendo le luci nel corridoio. «Non dimenticare l’ombrello» dice.

Rimango sulla soglia. Ho la borsa in spalla, il cellulare in tasca, l’ombrello in mano. Ho tutto.

«Be’, è stato un piacere» dico.

«Ci becchiamo all’università». Ha la mano sulla porta. «Ci prendiamo un caffè, se vuoi. Ti faccio sentire le altre di Julian e magari mi fai scoprire qualcosa anche tu».

«Con piacere. Buona serata, grazie ancora».

«E di che».

Il sorriso scompare dietro la porta. Mi avvio lungo il corridoio. L’ascensore è impegnato. Faccio le scale a piedi, aggrappandomi al corrimano.

Evelina, in macchina davanti al supermercato, accenna un colpo di clacson. Entro in macchina con l’ombrello zuppo. Mi allaccio la cintura di sicurezza mentre Evelina mette in moto.

«Ho aspettato per più di venti minuti l’autobus. Ho perso la cognizione del tempo…»

«Ma con chi eri?»

«Un ragazzo che aspettava l’autobus con me».

«Sei andata a casa di un estraneo?»

«Non aveva l’ombrello, l’ho accompagnato a casa e…»

«È carino almeno?»

Evelina ha i capelli bagnati. Li ha legati in una coda. Una goccia le cola sulla fronte.

«Non hai fatto neanche in tempo ad asciugarti i capelli!»

«Mamma cucina, papà non è ancora tornato».

«Ti ammalerai».

«No che non mi ammalerò. Allora, è carino?»

I tergicristalli stridono sul parabrezza. Siamo ferme al semaforo. Un signore con l’impermeabile attraversa la strada a grandi falcate e corre al riparo sotto un portico.

«Sì, lo è». Trattengo a stento un sorriso. «Ascolta anche bella musica».

«Va all’università?»

«Sì, fa Filosofia».

«Allora lo rivedrai per forza».

Mi appoggio allo schienale. «La prossima volta che ci vediamo ci prendiamo un caffè».

Evelina sbuffa. «Non ci posso credere. Vi siete incontrati per caso sotto la pioggia. Perché a te succedono queste cose e a me no?»

«Ma tu stai con Filippo. Se ti accadesse una cosa del genere dovresti scappare nella direzione opposta».

«Sì, ma sarebbe bello avere una storia romantica dietro il nostro incontro».

«Potete sempre inventarne una».

Evelina ha fatto lo Scientifico. Al quarto anno si è messa con Filippo, un ragazzo di un anno più grande. Lui è entrato a Medicina al primo tentativo. Lei riproverà l’anno prossimo, per ora studia Farmacia.

Scatta il verde. La macchina riparte.

«Non mi hai ancora detto come si chiama» dice Evelina.

«Massimo».

«Mmm. Francesca e Massimo. Massimo e Francesca. Suona bene».

Rido. «Dici?»

«Certo! Raccontami com’è andata, voglio sapere tutto per filo e per segno».

Faccio un respiro profondo. «Be’… D’accordo, allora, è andata così. Ero sola alla fermata dell’autobus. Pioveva a dirotto e questo ragazzo è corso sotto la fermata. Non aveva l’ombrello, aveva solo il cappuccio. L’autobus non si decideva a passare e mi ha chiesto se faceva sempre così tardi». Mi umetto le labbra. «A essere sincera non era un completo estraneo. Nel senso, l’ho visto qualche volta in giro per l’università e ogni tanto ci siamo guardati. Aspettavo l’occasione giusta per parlarci, ma ogni volta esitavo. Almeno fino a stasera».

Evelina trattiene il fiato. «Non ci posso credere. Era proprio destino che vi incontraste».

«Destino?» Scuoto la testa. «No, ma che destino. Abbiamo corso un rischio. E poi non è successo niente di che, l’ho accompagnato a casa e abbiamo parlato un po’. Il resto si vedrà».

«Ho un buon presentimento» dice Evelina. «Devi rivederlo. Devi e basta».

 


Note finali:
  • Il titolo è tratto dalla fine di Cime tempestose.
  • Grazie a tutti quelli che hanno commentato strada facendo: clarissa_lestrange, PinkyRosie FiveStars, aelfgifu, audreygolightly, itpanya e in particolare Verde Pistacchio. Grazie anche a quelli che hanno aggiunto la storia alle preferite, ricordate e seguite. Se siete arrivati fino alla fine, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne avete pensato. Grazie mille per il tempo che mi avete dedicato. Buone letture!
   
 
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