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Autore: Tikal    16/06/2015    1 recensioni
Si narra che un tempo l’Impero non appartenesse affatto a re Crono: alcuni tra i sudditi più coraggiosi osano ancora sfidare il suo potere, raccontando dell’era di Zeus, l’antico sovrano che molti credono solo una leggenda.
Si dice che sotto il suo dominio l’Impero fosse giusto, che non esistessero guerre né carestie e che tutti vivessero in pace ed armonia.
Ma quel regno di pace – narrano i cantori – non era destinato a durare; Zeus e gli altri re vennero spodestati da Crono, l’Esiliato, ed uccisi.
L’impero di Crono dura da più di mezzo secolo ormai, e tutti coloro che gli si sono opposti hanno trovato la morte, o un destino peggiore di essa.
Eppure qualcosa sta cabiando, due tempestosi occhi grigi se ne sono accorti.
Una strana nave solca i mari dell’Impero e la sua bandiera non è affatto viola e oro.
Qualcosa sta cambiando; il primo pezzo dell’amuleto è stato trovato, adesso non rimane altro che trovare gli altri undici.
Il vento della rivoluzione soffia feroce sul mare, e non manca molto perché si scateni la tempesta.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I sette della Profezia, Nico di Angelo, Quasi tutti, Rachel Elizabeth Dare, Talia/Luke
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo 2
Il labirinto
 
Fino a quel momento della sua vita, Perseus Jackson, da tutti comunemente soprannominato Percy – anche se, doveva ammetterlo, quando mai si era visto un pirata chiamato Percy? –, non avrebbe mai e poi mai pensato di finire, un giorno, in una situazione simile a quella in cui si trovava in quel momento.
Quando gli uomini di Mr. Chase – che, vestiti con gli abiti da festa, sembravano tutto, meno che minacciosi – avevano fatto irruzione nella stanza, non avevano trovato altro che decine di trofei di guerra ricoperti di polvere; e il merito era tutto di Annabeth.
Doveva ammetterlo, quella ragazza era geniale: se non fosse stato per lei, probabilmente si sarebbe gettato a combattere contro i soldati nonostante non avesse nessuno a guardargli le spalle; Annabeth lo aveva convinto a non farlo, trovando una seconda opzione quando non sembrava essercene nemmeno una.
Percy aumentò la stretta sull’elsa della spada che aveva preso dalla stanza, aggrottando la fronte. Le doveva la vita – perché era certo che, se lei non ci fosse stata, sarebbe morto – e, anche se era un pirata, un criminale, era abituato a tenere fede alle promesse; e, quella, era una muta promessa che si erano fatti nel momento in cui la ragazza dai capelli biondi gli aveva afferrato il polso, indicandogli con lo sguardo una vecchia libreria ricolma di cianfrusaglie insignificanti. Come la ragazza sapesse che dietro gli scaffali ci fosse un passaggio segreto era un’altra storia, ma per il momento Percy preferiva concentrarsi sulla fuga.
Accanto a sé, il pirata sentì Annabeth trattenere il respiro quando degli uomini passarono accanto alla libreria, le loro voci che rimbombavano nella stanza.
«Dove sono finiti?!» ringhiò una voce agli altri soldati.
«Padre…» mormorò la ragazza, come se l’uomo potesse sentirla.
«Shh…» disse Percy, posandole una mano sulle labbra. «Non posso permettermi che mi scoprano qui» la ragazza annuì, liberandosi della mano dell’altro. «So benissimo quali sarebbero le conseguenze, Perseus, non serve che tu me lo ripeta».  
Il silenzio calò tra loro due, interrotto soltanto dal suono degli stivali dei soldati dall’altro lato della sala; nascosti lì dentro, proprio a pochi metri da coloro che avrebbero potuto ucciderli se li avessero scoperti, persino il respiro più silenzioso sembrava pesante quanto il suono del martello di un fabbro su un’incudine: il minimo movimento azzardato poteva farli scoprire. Un brivido percorse la schiena del pirata, mentre l’adrenalina iniziava a fare effetto, pompando più velocemente il sangue nelle vene. Amava sentirsi così, sull’orlo del precipizio, in bilico tra la vita e la morte, quando anche un solo passo falso ti può costare la testa.
All’improvviso, un giovane si rivolse a Mr. Chase, e Percy sentì chiaramente la ragazza irrigidirsi al suo fianco. «Signore, credo che non sia più qui» disse, seguito da alcune imprecazioni da parte dell’uomo.
«Certo che tuo padre è veramente una persona fine» ironizzò Percy con un ghigno. La bionda gli scoccò un’occhiata di fuoco, senza replicare.
«Ci conviene andarcene, o ci troveranno» suggerì sottovoce Annabeth, stringendo il polso del pirata. Lui annuì, il volto improvvisamente serio. «Se accadesse, sarebbe un vero guaio, almeno per me.» Percy si voltò, accendendo con dei fiammiferi una vecchia torcia trovata appesa al muro e indicando con un cenno del capo il corridoio immerso nell’ombra che si apriva davanti a loro. «Sei tu a conoscere questo posto, quindi prego, fai pure strada».
 
«Dove stiamo andando?» domandò il ragazzo, incamminandosi dietro ad Annabeth. Quella sorrise, anche se nella penombra del loro nascondiglio il suo volto sembrò trasformarsi in un ghigno. «Ho vissuto in questo palazzo per più di dieci anni, abbastanza per conoscere benissimo quasi ogni angolo di questo posto, pirata».
«Vorrei sapere perché hai deciso di parlarmi allora, se mi disprezzi così tanto» rispose il ragazzo, senza mai smettere di osservarla.
Annabeth sembrò ignorarlo, continuando a camminare senza mai voltarsi. Le fiamme della torcia gettavano delle strane ombre sulla sua schiena. «Anni fa, ho sentito dire che tra le file di Crono vi fosse un architetto, il più grande mai conosciuto; il suo nome era Dedalo» la ragazza fece una pausa, come aspettandosi chissà quale reazione dal compagno all’udire quel nome, ma Percy si limitò ad osservarla stranito. «Si dice che Dedalo», riprese allora la giovane, «fosse un sottoposto di Minosse, uno dei Governatori delle Isole fedeli a Crono. Quando questi venne in visita al vecchio Minosse, egli gli mostrò le grandi capacità del suo architetto, che Crono volle subito per sé, per poter costruire un palazzo degno della sua grandezza. Dedalo mise al servizio di Crono tutta la sua intelligenza e conoscenza per creare un palazzo talmente meraviglioso da poter fare invidia a quello di un Dio» Annabeth fece una pausa, lasciando che per alcuni istanti nello stretto corridoio si udisse soltanto il suono dei loro passi sulla pietra fredda. «Dedalo costruì il palazzo partendo da quello precedente, un tempo dimora di Zeus, e preparò i progetti basandosi su di esso. Ma, sapendo che, completata l’opera, l’Imperatore si sarebbe quasi sicuramente sbarazzato di lui, integrò nel suo progetto una rete intricata di cunicoli e corridoi sotterranei che collegava diverse stanze del palazzo ad alcuni luoghi poco fuori dalle mura della città, in modo da poter scappare al minimo segno di pericolo». 
«Eppure non riesco a capire» borbottò Percy, scostandosi delle ragnatele dal viso. «Se Dedalo ha progettato questa gigantesca rete di cunicoli, perché nessuno ha pensato di venirci a cercare qui? Insomma, non credo che possa passare inosservata una cosa del genere».
Un altro ghigno si formò sulle labbra della ragazza. «Dedalo era un genio. Come ho già detto, costruì il palazzo di Crono partendo da quello di Zeus, dove era già presente una rete di cunicoli sotterranei da usare in caso di fuga – Annabeth si lasciò andare ad un piccolo risolino – E’ strano, quando Zeus venne sconfitto da Crono né lui né la sua famiglia fecero niente per cercare di scappare, almeno stando a quanto dicono i libri» la ragazza si fermò un secondo, il volto contratto in un’espressione pensierosa. «Comunque sia, Dedalo riuscì a creare questo labirinto sotto al palazzo reale senza essere scoperto; inoltre, i progetti originali, dove viene mostrata anche la rete di cunicoli, andarono perduti decenni fa, quindi nessuno è a conoscenza di questo passaggio. Puoi stare tranquillo che non ti troveranno».
 
Continuarono a camminare per quelle che sembrarono ore, mentre sopra le loro teste il palazzo si agitava, svegliandosi dal torpore in cui era caduto durante il ricevimento. Passi frettolosi di servi nelle cucine, pezzi di discorsi pieni di terrore, frasi sussurrate all’orecchio dalle dame di corte risuonavano in tutto il palazzo, mentre i soldati rovistavano in ogni stanza, alla ricerca del fuggitivo.
Percy e Annabeth camminavano in silenzio, consci che anche il benché minimo rumore avrebbe potuto farli scoprire, e allora le conseguenze per entrambi non sarebbero state affatto piacevoli.
Annabeth l’aveva vista, l’esecuzione di un pirata, e non una soltanto: la prima volta, con gli occhi di quella che all’epoca era poco più che una quindicenne, in una piazza gremita di gente, durante un pomeriggio afoso, aveva guardato il boia incappucciato preparare con macabra maestria la corda che poco avrebbe passato attorno al collo di quello che, presumibilmente, doveva essere stato un uomo, ridotto a un ammasso di ossa e stracci dopo i mesi passati in prigionia, torturato e deriso dai soldati, lasciato sempre a poco meno di un passo dalla morte, che, in quel momento, camminava al suo fianco, nel lungo ed estenuante cammino verso il patibolo.
Aveva osservato, con lo sguardo scuro, mordendosi le labbra fino a sentire sulla lingua il metallico sapore del sangue, mentre nei suoi occhi iniziavano a soffiare i venti di tempesta, la botola aprirsi sotto i piedi del condannato, lasciandolo a penzolare nel vuoto finché i lamenti smisero di uscire dalla sua bocca semiaperta e la luce svanì dai suoi occhi; e anche allora, il suo corpo scheletrico venne lasciato lì, nella piazza, alla mercé degli corvi e degli avvoltoi, come monito a chiunque – lo vide ogni giorno, per più di un mese, quando apriva la finestra della sua stanza dopo essersi svegliata, finché un mattino non si alzò dal letto e non scoprì che era stato portato via: c’era in programma un’altra esecuzione, per quel pomeriggio.
Aveva osservato silenziosa, Annabeth, il volto morente di quegli uomini già morti prima che il fiato lasciasse i loro polmoni, mentre i loro occhi senza vita e le loro voci che si spegnevano lentamente si imprimevano a fuoco nei suoi occhi, affianco agli sguardi divertiti e alle volte disgustati degli altri spettatori, finché non era diventato uno spettacolo comune anche per lei. Eppure, ancora ricordava il volto di quell’uomo, visto cogli occhi di una quindicenne, congelato in quell’ultimo istante di paura e di dolore – alla fine, davanti alla morte, ogni uomo sente il orrore avvolgergli il cuore, e il terrore di fare i conti con ciò che si è fatto diventa improvvisamente reale.
La ricordava ancora, la sensazione di gelo che aveva sentito attraversarle le ossa, e non aveva intenzione di provarla di nuovo, non adesso, così vicina alla libertà. Inspirò profondamente, cercando di scacciare dalla mente il volto di quell’uomo, e proseguì, stando ben attenta a dove metteva i piedi.
 
Camminavano da quelle che sembravano ore: un passo dopo l’altro in quelle buie gallerie di pietra umida, alla ricerca di una strada che potesse salvarli, in mezzo ai topi e alle ragnatele, soltanto la flebile fiamma della torcia di Percy a illuminargli di poco la via; persino le voci che fino a poco prima – o forse si trattavano di ore? – li avevano accompagnati sembravano svanite, lasciandoli soli nel loro silenzio, rotto solo dallo squittio dei ratti e dai loro passi sul pavimento di pietra.
Procedevano lentamente, una mano posata sulla parete alla loro sinistra, mentre centinaia di occhietti rossi si voltavano ad osservare il loro passaggio, le fiamme della torcia che gettavano strane ombre, simili a orribili mostri, sulle pareti.
Per Percy, incapace di aspettare e senza più l’adrenalina di prima nelle vene, quella situazione era diventata insopportabile, ancora peggio della tortura – magari era quello il piano di Annabeth, farlo vagare in quelle macabre gallerie finché la morte non sarebbe stata l’univa valida alternativa alla noia. In fondo, non sapeva niente di lei, ed era la figlia dell’uomo che gli dava la caccia da anni, come poteva fidarsi di lei?
Percy scosse il capo, posando lo sguardo, di nascosto, senza farsi notare, sul volto di Annabeth, di fronte a lui: il volto corrucciato e preoccupato, gli occhi scuri che vagavano veloci davanti a lei, scrutando il buio davanti a lei, i capelli, che già al ballo le ricadevano in una treccia scomposta sulla spalle, ridotti a un groviglio opaco di ragnatele, i vestiti sporchi e strappati – nemmeno lei sembrava avere la benché minima idea di dove stessero andando, ma si era limitata a ordinargli di tenere sempre la sinistra, per un motivo a lui sconosciuto –; di sicuro, se avessero voluto ucciderlo, lo avrebbero fatto in modo più plateale possibile, non in un labirinto di cunicoli umidi e infestati dai topi, con la figlia del Contrammiraglio Frederick Chase.
Quando era entrato nella sala, con gli occhi di tutti i presenti puntati addosso, lo sguardo di Annabeth era stato il solo a non posarsi su lui, e Percy se ne era accorto, come se una scossa gli avesse attraversato all’improvviso la spina dorsale. Si era avvicinato, tendendole la mano per invitarla a ballare, e solo allora lei lo aveva degnato di uno sguardo, osservandolo con un finto rimprovero negli occhi, come se fosse realmente in ritardo. Era difficile non restare colpito da uno sguardo del genere, e nemmeno il pirata era riuscito a rimanere immune da quegli occhi grigi, eppure, quando quelle parole erano uscite dalla bocca di Annabeth, la sua mano era scattata al pugnale sotto la giacca – aveva pur sempre una missione da compiere, in fondo.
«Sei sicura di dove stiamo andando?» le domandò ad un certo punto, dopo un’infinita serie di passi. Le fiamme della torcia iniziavano a tremare, diventando sempre più flebili.
Annabeth si girò di scatto, un uragano negli occhi grigi. «Perché, tu sì, pirata?» sibilò, incrociando gli occhi di Percy.
Si scrutarono a lungo, l’uno con l’altra, studiandosi attentamente, alla ricerca di qualcosa che nessuno dei due conosceva, finché Percy non abbassò lo sguardo, ammettendo la sconfitta. «No» sussurrò con un filo di voce.
Un sorriso di vittoria si aprì sul volto della bionda. «Bene, allora, ti chiedo gentilmente di lasciarmi lavorare» commentò acida. «Tirerò fuori entrambi di qui, non ti preoccupare.» Annabeth si voltò di nuovo, ritornando a studiare la parete della galleria, alla ricerca di una via di fuga.
«Scusami, sai, di solito non affido la mia vita nelle mani di ragazze sconosciute e figlie dell’uomo che mi dà la caccia» commentò sarcastico Percy, rivolto alla sua schiena. «Vorrei soltanto capire qualcosa di più. È la mia vita, quella nelle tue mani, voglio capire se posso fidarmi a lasciartela».
Quando si girò, la rabbia negli occhi di Annabeth sembrava essersi affievolita un poco, ma bastò un’occhiata al compagno perché tornasse a splendere nel suo sguardo. «Ti sto salvando la vita, Perseus» ringhiò, afferrandogli il colletto della camicia e avvicinando i loro volti. Si squadrarono a lungo di nuovo, il verde del mare in collisione con il cielo in tempesta. «Questo ti deve bastare», disse Annabeth, lasciandogli il colletto con uno strattone e voltandosi di nuovo, i passi che risuonavano lenti sulla pietra.
 
*
 
«Signore, non c’è nessuna traccia del ricercato» la voce del soldato arrivò alle orecchie di Frederick Chase lontana, come se uno specchio d’acqua li dividesse. Alzò lo sguardo dal rapporto sulla sua scrivania, un paio di piccoli occhiali rotondi poggiati sulla punta del naso: davanti a lui, un ragazzo biondo aspettava silenziosamente gli ordini. Non doveva avere più di venticinque anni, gli occhi azzurri che splendevano di determinazione – la stessa che, in passato, era vivida negli occhi del Contrammiraglio, dopo essersi arruolato –, i capelli biondi spettinati e una brutta cicatrice che gli sfigurava la parte sinistra del volto; indossava ancora l’uniforme della festa, con la quale era stato nominato Commodoro.
«Oh, Commodoro Castellan. Non si sa niente nemmeno di lei?» domandò il Contrammiraglio Chase con tono stanco.
«No Signore, nessuna notizia di sua figlia» rispose freddo il giovane, evitando di guardare il volto del suo superiore.
«Lei non è mia figlia» affermò tetro l’uomo, prendendo in mano un vecchio rapporto. «Non più, almeno, e tu lo sai molto bene, quindi evita di chiamarla così» i suoi occhi erano ricolmi di tristezza, mentre voltava lo s guardo verso la finestra che dava sul porto della città, dove il Sole si tuffava nel mare, tingendolo di rosso. «Vada pure, Commodoro», lo congedò con aria stanca, tornando a guardarlo in volto.  
«Mi scusi, Signore» disse il Commodoro, uscendo dallo studio accompagnato dal rumore dei suoi passi sul pavimento. Lo sguardo di Frederick Chase non si staccò dalla sua schiena finché le porte del suo studio non si chiusero dietro di lui.
«E’ così giovane…» mormorò il Contrammiraglio, passandosi una mano sul volto ormai stanco, mentre in cielo la Luna iniziava a fare capolino.
 
*
 
Le stelle erano già apparse nel cielo da ore, quando finalmente Silena chiuse gli occhi, stremata. Si trascinò a fatica verso il suo piccolo giaciglio, negli appartamenti dei servi, il corpo dolorante e ricoperto di lividi violacei. Era stata una lunga notte, fatta di dolore e di grida, ma non diversa da ogni altra, da quando era entrata in quel mondo cupo e grigio; un labirinto di terrore e di sofferenza, da cui non le era dato di uscire, non finché avrebbe continuato a indossare le vesti stracciate degli schiavi.
Aveva perso la cognizione del tempo, ormai, da quando era arrivata a Olimpia, la capitale del regno di Crono; i giorni si susseguivano lenti, scanditi soltanto dai gemiti e dalle grida di dolore: il giorno non era altro che un conto alla rovescia prima della notte, quando il suo corpo sarebbe stato di nuovo violato da mani rozze e violente, e altri lividi sarebbero apparsi sulla sua pelle diafana, troppo presto perché gli altri potessero guarire.
E allora, dopo che gli uomini la usavano a loro piacimento, ogni notte, Silena sgusciava via dai loro letti sfatti e tornava silenziosa al suo giaciglio, il sorriso che era costretta a tenere macchiato di lacrime amare e mute, gli occhi spenti di chi, ormai, la speranza l’ha perduta del tutto. 
La prima volta era stato orribile; si ricordava il dolore e il terrore che il suo aguzzino le aveva fatto provare, mentre con le sue mani la accarezzava, la toccava, marchiava il suo corpo con le sue unghie e i denti, insinuandosi dentro di lei con prepotenza. All’epoca, Silena, diciassette anni fatti da poco e il viso di una bambola di porcellana, era stata terrorizzata, ma, col tempo, ciò che accadeva la notte era diventata una cosa comune, alla quale cercava di non farci caso; non al dolore, quello però no, non ci sarebbe mai riuscita.
Lacrime silenziose bagnarono il cuscino, mentre le sue dita percorrevano delicate il suo corpo violato,  attorno a lei, le altre serve, soprattutto giovani, da bambine a donne di qualche anno più grandi di lei, dormivano, o cercavano di farlo, per dimenticare, almeno per qualche ora, l’orrore in cui vivevano.
«Silena…» la vocina acuta di Rose, una minuta ragazzina dai crespi capelli biondi, la riportò alla realtà. Silena voltò lo sguardo, trovandola accanto al suo letto, gli occhi arrossati e le guancie rigate di lacrime.
«Hey, Rose» sussurrò, asciugandosi le lacrime sulla manica del vestito e accarezzandole il volto con una mano. «Cosa succede, piccola?» domandò, nel tono più dolce che riuscisse a trovare.
«Non riesco a dormire, ho fatto un brutto sogno» rispose la bambina, tirando su col naso e stropicciandosi gli occhi.
Un velo di tristezza passò negli occhi della maggiore mentre si metteva a fatica a sedere sul letto. Rose non aveva ancora capito la fortuna di riuscire a sognare, in quel posto, anche se si trattava di incubi. «Che ne dici di venire qui e raccontarmi cos’hai sognato?» un sorriso tirato si aprì sul suo volto stanco, mentre la piccola si arrampicava accanto a lei.
«Ho sognato le ombre, Silena» iniziò Rose, tirando su col naso. «Venivano da me di notte, mentre dormivo… prendevano la mamma e il papà, e li portavano via da me…» un piccolo singhiozzo le uscì dalle labbra.
«Hey, hey, è tutto okay, Rose», mormorò Silena, abbracciandola e stringendola forte tra le sue braccia.
«Io non voglio che accada, non di nuovo…» singhiozzò la piccola, piangendo sulla sua spalla.
«Lo so, piccola» disse Silena, cercando le parole adatte per confortarla. «Ma era un brutto sogno, no? Adesso siamo qui, e ci sono io, quindi non ti devi preoccupare. Ti proteggerò io da quelle brutte ombre, e allora non ti accadrà nulla.» Rose alzò lo sguardo, gli occhi arrossati di lacrime. «Sul serio? Promesso?» domandò.
«Promesso, guarda» Silena le porse il mignolo, aspettando che lei lo afferrasse.
La bambina la guardò, asciugandosi il volto dalle lacrime, e poi le afferrò il mignolo col suo, suggellando quel piccolo patto.
«Grazie Silena» disse, sorridendo timidamente. La mora, in risposta, sorrise, abbracciandola di nuovo. «Adesso che ne dici se andiamo a dormire, eh?» domandò, sdraiandosi di nuovo sul suo lettino, abbracciata a Rose.
«Nel covo dei pirati c'è poco da scherzare chi non si arruola finisce in fondo al mare… Finanche i più convinti, finanche i più decisi a denti stretti si sono tutti arresi.... Tu invece sei la sola che va così sicura sul trampolino di Capitan Uncino... Ma dimmi come fai a non aver paura o sei incosciente oppure sai che è un sogno che non dura!...» la voce di Silena riempì la stanza, mentre le parole di quella vecchia canzone, ricordo dei tempi felici prima di arrivare ad Olimpia, le uscivano delicate dalle labbra.
«Come sei brava a raccontare ad inventarti quelle avventure sembrano vere... che fantasia che hai!... Continua il tuo racconto, mi sembra di vederti al punto giusto lui arriverà a salvarti... Tutte le tue avventure son belle da sognare però nei sogni non ti puoi rifugiare.... Non vedi il tempo corre e non lo puoi fermare diventi grande e ti vogliono cambiare.» non lo avrebbe mai ammesso, ma un tempo, Silena avrebbe voluto incontrarlo, un pirata, e vivere mille avventure con lui, come quelle di cui aveva sentito parlare da piccola, in uno dei pochi ricordi che le rimanevano di sua madre.
«E questo ti spaventa, i grandi sono strani fanno paura più dei pescecani. Ma proprio adesso, ti vuoi fermare non ti interessa di far vedere se e proprio vero che non ti arrendi mai!» ma poi era cresciuta, la guerra era arrivata e si era portata via le storie e i sorrisi, portando con sé lacrime e lividi, e trascinandola in quel labirinto di dolore. Rose invece era ancora piccola, un giorno sarebbe riuscita a vedere di nuovo il cielo senza le lacrime di paura e avrebbe camminato di nuovo senza le catene; di quello Silena ne era sicura, e avrebbe fatto di tutto pur di tenere fede a quella promessa.
«Nel covo dei pirati c'è poco da scherzare...»
 
 
Angolo Autrice
Hola a todos!
Lo so, sono passati, quanto, sei mesi? Eppure eccomi di nuovo qui, a rompervi le scatole con questa storia ^^
Che dire? Avevo degli appunti di questo capitolo ancora da gennaio, ma un po’ per la scuola, un po’ per la vita sociale che anche se è quasi inesistente c’è, un po’ perché non avevo voglia e avevo iniziato Doctor Who, ho rimesso mano a questa storia soltanto in questi giorni.
Quindi, qualche cosuccia in merito a questo capitolo:
  • Annabeth e Percy stanno attraversando il labirinto di Dedalo, che in questo caso è una rete di cunicoli sotterranei sotto il palazzo di Crono. Tenetelo d’occhio, perché tornerà di nuovo, in futuro
  • La canzone di Silena è ‘Nel covo dei pirati’, di Bennato. Perché ultimamente sono in vena di Bennato, quindi sì.
  • Rose è un mio OC, che manterrà comunque un ruolo marginale nella storia. È una bimba di nove/dieci anni a metà tra Rose Tyler e River Song la cui storia verrà comunque svelata più avanti
  • Luke è Commodoro, Frederick Chase è Contrammiraglio. Per la gerarchia delle istituzioni militari mi sono rifatta sia a quella OnePieciana che a quella Americana, anche se più alla prima. Comunque, il ruolo di Contrammiraglio è più alto. E sì, Luke è il biondo del capitolo precedente che parla con dei suoi amici.
  • Ogni isola dell’Impero ha dei Governatori, come delle specie di provincie, ma di questo parlerò più avanti
Credo di aver detto tutto, ma per qualsiasi cosa chiedete pure ^^
Un grazie a tutti coloro che hanno inserito questa storia tra le preferite/ricordate/seguite e a coloro che recensiscono, vi adoro, e scusate il ritardo!
Scappo che sono in ritardo, alla prossima tra qualche mese
Tikal
 
 
   
 
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