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Autore: Euridice100    20/06/2015    7 recensioni
"Ma l’altra rialza il capo e lo fissa con odio.
È allora che Gold la vede.
Arretra di un passo con la certezza di avere dinanzi a sé un fantasma.
'No, non può essere.'
Ma è allora che il passato torna a essere presente."
(Victorian!AU RumBelle
Seguito di "Cleaning all that I've become" e "All of the stars".)
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Your dream is over... Or has it just begun?'
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XII - Paid in full
 
 
 

“I was nowhere near ready
when all it ended.”

 
 
 
Nulla l’aveva fermata, nulla l’aveva placata: non le spiegazioni di Killian, né le promesse di Emma, tantomeno le rassicurazioni di Graham.
Loro non potevano sapere – non erano loro a essere stati traditi.
Non erano loro ad avere la propria figlia così vicina a chi non conosceva pietà.
Bussò senza sosta finché Aurora non le aprì.
- Belle! Cosa…
Non rispose, non salutò: la spinse via e corse, corse verso la sala in cui sapeva si stava consumando la tragedia.
Non c’era spazio per la gentilezza, non ora. Non c’era spazio per la dolcezza.
Quando spalancò la porta del salottino, c’era spazio solo per la rabbia.
 
 
 
- Voglio andare di sopra! – Helena si lagnò per l’ennesima volta.
- Lo so, tesoro, ma c’è stato un imprevisto e tuo padre lo sta risolvendo per tornare da te. Pazienta un altro pochino, – Mary Margaret ripeté alla bambina che, sconsolata, poggiò la testa sul tavolo – Nel frattempo perché non mi aiuti a controllare questa teiera? Lustriamola insieme: da scuro l’argento diventa lucido lucido, è divertente!
L’espediente parve stupido alla donna stessa, che sospirò. Come se Regina non fosse stata sufficiente, ora anche la Contessa aveva deciso di far visita al padrone. Appena appresa la notizia, la governante aveva afferrato Helena e condotta in cucina ignorandone le lamentele, nella speranza che le Mills se ne andassero in fretta; ma il tempo passava senza novità alcuna.
E quei disgraziati di Emma e Jones parevano scomparsi…
- Mary, non immaginerete mai chi è arrivata! – Aurora irruppe trafelata nella stanza – Belle! Bussava come una pazza, e quando ho aperto…
La cameriera si accorse troppo tardi dei moniti silenziosi di Mrs Nolan.
Appena udì il nome della madre, Helena scattò in piedi
- Piccola, ferma!
Le due poterono nulla per fermarla: al grido di: – C’è la mamma! – la bambina sguisciò rapida e corse per le scale.
 
 
 
Si scrutarono in silenzio, gli occhi che sprizzavano scintille.
Quando incontrò quelle iridi azzurre, Cora Mills sentì il cuore – lo stesso cuore che si vantava di non possedere – saltarle in petto.
Non impiegò più di un istante a riconoscerne la proprietaria: anche se non l’avesse scorto, il volto era nitido nella memoria, come tatuato dietro le palpebre. Rivedendolo, pensò solo che ogni depistaggio era stato vano: il suo sesto senso si era ancora una volta rivelato nel giusto.
Quando Cora Mills rivide Belle French, sorrise; perché la sua più degna, più fiera rivale era tornata, e lei, la leonessa, era di nuovo pronta a sfoderare gli artigli.
Pronta ora più che mai.
Quando Regina Mills rivide Belle French, il mondo perse definizione. Per un momento non fu più certa di star muovendosi nella realtà o nel sogno, perché il presente, l’apparenza tangibile e reale del salottino di suo zio e della tazza che aveva tra le dita stavano assumendo a poco a poco tratti sempre più sfumati, tali da confondersi coi barlumi di un passato spinto a forza tra le memorie più lontane.
Ma ora il passato era lì, ogni sua menzogna e ogni verità più dure e brillanti che mai.
Quando Robert Gold rivide Belle French, non pensò.
L’impatto del suo sguardo fu una percossa.
La battaglia era ricominciata, e stavolta non avrebbe lasciato superstiti.
L’ultima arrivata non fece in tempo ad aprire bocca: la Contessa subito balzò all’attacco.
- Dei del Cielo, – mugolò portandosi una mano al petto – Sei una visione, o…?
- Sì, – Belle non attese invito per avanzare verso i presenti con incedere saldo – Sì, Cora. Sono proprio io. E sono viva.
A nessuno sfuggì come si fosse rivolta alla nobildonna.
- Se fossi stata meno forte, sarei già svenuta dal turbamento. Devo ringraziare la mia indole, – il tono complice nauseò Belle – Oh, mia cara, vieni, siediti e aggiornami! Se ne sono dette talmente tante sul tuo conto, muoio dalla curiosità!
- Vi ringrazio, ma vado di fretta. Devo discutere una questione col padrone di casa, – occhieggiò rapida verso Gold, che non riuscì a sostenerne lo sguardo. Vigliacco – Ma, a quanto vedo, è impegnato.
Sweetheart, non è come pensi, non immaginavo venisse qui.
Sarei dovuto andare io da lei.
Non è come sembra.
- Sciocchezze, finora le nostre sono state chiacchiere fatue! – Cora la liquidò con un affettato svolazzo delle dita guantate – Sono certa perdonerai l’atteggiamento del nostro comune ospite, ma senza dubbio è altrettanto sconvolto dal rivederti irrompere all’improvviso in casa sua dopo tutti questi anni! – rise a strappi, una concessione che lasciava intendere più di quanto esprimesse, prima di inclinare il capo e soppesarla – Piuttosto, ti trovo bene. Forse solo appena, come dire… Ingrassata.
Se la situazione non fosse stata tanto critica, Belle sarebbe scoppiata a ridere. Cambiavano il luogo e il tempo, il contesto e la posizione, ma le bassezze di Cora restavano una costante.
- Io invece ti trovo sempre uguale. Pronta a puntare il dito contro il prossimo per distogliere l’attenzione da sé.
La Contessa finse di non cogliere la provocazione e sorrise dolcemente. Lo sguardo le scivolò sull’abito da lavoro che Belle non aveva fatto in tempo a cambiare.
- Che vestito interess…
Una voce acuta squarciò l’atmosfera pesante.
- Mamma!
Una parte di Belle – la più razionale, quella che molto avrebbe dovuto apprendere dai precedenti con Cora – la redarguì. Se avesse risposto avrebbe coinvolto Helena. Avrebbe esposto a ritorsioni un’innocente la cui esistenza poteva – doveva – ancora essere celata.
Ma non voltarsi fu impossibile. Quel richiamo veniva dal sangue, dal profondo dell’anima: resistergli sarebbe stata una battaglia vana, che Belle mai avrebbe voluto condurre.
Appena udì la loro bambina cercarla, si voltò d’istinto verso la porta, subito imitata dagli altri.
- Helena, – mormorò alla vista della piccola, che entrava nel salottino ignara di chi vi fosse presente, e si fiondava tra le sue braccia senza che Graham, rimasto fuori dalla stanza, riuscisse a trattenerla – Tesoro mio.
Erano state distanti appena un giorno, ma a lei era parsa un’eternità; stringere la bimba, inspirarne il profumo unico e specialissimo, scostarle i capelli dalla fronte erano più importanti di ogni altra cosa. Le sfiorò il capo con le labbra senza vergognarsi di un gesto così intimo. Possibile che ventiquattr’ore l’avessero cambiata tanto? Le pareva così simile e al contempo diversa dal solito, con quell’abitino rosso che le vestiva alla perfezione e le scarpette finalmente nuove; ma le trecce erano le sue, adorabilmente scarmigliate come sempre, come il sorriso, il sorriso che l’aveva riportata alla vita.
Per un momento non esistette altro: non Gold e le sue bugie, non Regina e i suoi tradimenti, non Cora che le fissava tradendo appena un lieve sconcerto.
Da dove sbucava fuori la mocciosa, chi diamine era? La Contessa assottigliò le palpebre per mettere meglio a fuoco la ragazzina: il modo in cui si era rivolta alla French e la reazione di quest’ultima ne palesavano il legame senza possibilità di equivoci. E così la nanerottola aveva conosciuto le gioie e i dolori della maternità, ma bene! Non che gliene importasse molto, in realtà. La vera domanda era un’altra: cosa ci faceva la figlia di Belle da Gold? Che fosse…?
- Mi sei mancata tanto, amore mio, sei bellissima!
- Anche tu mi sei mancata! – la bambina rise – Però mi sono divertita, sai? Abbiamo fatto tante cose: abbiamo filato, e parlato della banshee, e stanotte ho dormito con Regina!
Belle, Gold e Cora si voltarono all’unisono verso l’interpellata.
- Regina? – il sibilo di Cora fendette l’aria.
Colei alla quale era indirizzato, tuttavia, rimase impassibile.
Lo sguardo che l’industriale rivolse all’adolescente non fu certo tenero, ma si trattenne: non era il momento di commentare. La sola cosa da fare era allontanare la bambina, farla sparire dalla vista di Cora impedendole di capire altro.
Sempre che non sia già troppo tardi.
- Non mi ero accorto ci fosse anche Mr Graham, – intervenne pacato – Helena, perché non lo accompagni a mangiare una fetta di torta?
- No! – la piccola si ribellò – Se la vuole ci va con Emma. Io voglio stare qua con te e la mamma, ora che c’è. Dai, ma’! – le afferrò una mano e fece invano per trascinarla.
Belle aveva capito all’istante le intenzioni di Gold. Malgrado tutto, non poteva che condividerle: era già abbastanza grave che la maggiore delle Mills avesse visto la bambina, non potevano permettere restassero vicine. Cora non era sprovveduta: ne avrebbe presto attribuito la paternità all’ex amante.
Helena doveva andarsene. Doveva proteggersi.
- Helena, – mormorò – Va’ con Graham.
La bambina aggrottò la fronte.
- No! Voglio stare qui!
Belle respirò a fondo. I capricci di loro figlia erano dotati di un tempismo alquanto inopportuno.
- Helena, per favore. Va’ con Graham, con Emma, con chi vuoi, ma va’. O non andiamo più da Tink.
- Non m’importa, io voglio stare qui!
- Helena, ti ho detto di andare!
Belle non perdeva facilmente la pazienza con la bimba. Cercava di farla ragionare, di spiegarle perché potesse o non potesse fare qualcosa aiutandola a capire; ma indugiare in parentesi pedagogiche dinanzi a colei che aveva cercato di farla rinchiudere in un bordello e fatta credere morta esulava da ogni capacità umana.
Helena le rivolse un’occhiata carica di quel rancore puro che solo a una certa età si riesce a nutrire.
La donna ignorò il dolore. Lo faceva a fin di bene. Non doveva cedere.
- Suvvia, Belle! – Cora scosse il capo con fare chioccio – Non essere così brusca! Tua figlia non ha fatto nulla di male e tu l’hai ripresa con tanta violenza! – riecheggiò le lontane parole pronunciate dalla giovane durante il loro primo incontro, prima di rivolgersi a Helena – Avvicinati, piccina, non avere timore!
- Non parlarle, – Belle sibilò all’istante – Non rivolgere una parola a mia figlia!
- Helena. Ascolta tua madre.
Gold aveva usato il suo tono più gelido, in grado di fare gelare il sangue nelle vene del subalterno più indisciplinato, ma l’ordine cadde nel vuoto: la bambina sorrise grata alla signora che aveva interceduto per lei prima di trotterellare, subito seguita dalla madre, verso il divano su cui sedeva il padre.
Le conferme arrivano all’improvviso. Questa sovvenne nell’istante esatto in cui quei tre furono uno accanto all’altro. Bastò un’unica occhiata a impietrire Cora: la bambina cui aveva dedicato mezzo sguardo ne meritava molti, molti di più.
Quella bambina aveva gli occhi di un’altra persona presente nella stanza.
Della persona che le sedeva accanto e che non era la madre.
Non erano solo il taglio e il colore: era l’espressione attenta, lo sguardo penetrante che contraddistinguevano lui e che, con ogni evidenza, aveva trasmesso alla figlia.
Alla figlia avuta con la sua camerierina.
Alla bastarda avuta con la sua camerierina.
- Che bella bambina, – a Helena i complimenti della signora parvero lievi come il fruscio del vento. Un vento freddo, si accorse però ella stessa – Quanti anni hai? No, aspetta: lasciami indovinare… Ne hai quattro, vero?
Prima che altri potessero frenarla, Helena annuì stupefatta: – Sì! E tu come lo sai?
- Lady Mills, – solo uno sciocco avrebbe ignorato il ringhio di Gold. Ma in quel momento Cora stessa si sarebbe definita una sciocca.
- Perché alle volte, piccina, ho un sesto senso. Come se fossi una maga.
- Oh! Anche lui, – indicò l’uomo – Anche lui, che è mio papà, vuole essere un mago.
Un’identica maledizione incendiò le menti di Gold e Belle. La donna si morse l’interno della guancia con tanta forza da sentire un gusto aspro di ferro in bocca. Regina, fino ad allora distante, trattenne il fiato.
Cora annuì, più a se stessa che all’interlocutrice. Chissà cos’avrebbero fatto quei due, ora. Avrebbero mentito? Avrebbero negato l’evidenza, sostenuto che si trattava di fantasticherie infantili? Sarebbero stati stupidi a farlo; ma già in più di un’occasione avevano dato prova di stoltezza.
Nessuno avrebbe potuto negare la realtà dei fatti – la realtà della bamboccia che dondolava i piedi dal divano troppo alto per lei, con uno stupidissimo ghigno stampato sul muso.
Cosa ridi, idiota? avrebbe voluto dirle. Non capisci cosa sei? Una bastarda, un’inutile bastarda.
Una nullità.
- Che dolcezza, – dichiarò infine non senza un sorriso che dimostrasse quanto fosse soddisfatta – Sono sorpresa, Robert caro. Non sapevo fossi divenuto papà.
- Non sentitevi esclusa, – la replica non tardò ad arrivare – Sapete bene che, da persona discreta quale sono, non amo far sapere molto di me.
Cora lo ignorò.
- Belle, mia cara, questi devono essere stati anni davvero molto intensi per te. Da morta e sepolta ti ritrovo viva… E mamma.
- Pensavo avessi imparato, – Belle si ritrovò a replicare con una pacatezza che non conosceva – A non fidarsi di nessuno. Tantomeno di se stessi.
- Saggio consiglio. Io ascolto solo i miei informatori, ma oggi, – la nobildonna si voltò verso Gold – Abbiamo imparato che neanche di loro ci si può fidare fino in fondo. Sembrano così onesti e diligenti, ma non va bene pendere troppo dalle labbra del prossimo. Neanche se è un prossimo cui siamo affezionati e che non vediamo da tanto tempo…
- Esattamente, – l’industriale convenne con l’espressione neutra che era solito riservarle – Tuttavia, io non ripongo fiducia nel mondo intero, ma in poche, pochissime persone. E si dà il caso che non tutte le presenti rientrino nel novero.
- Una precisazione quanto mai opportuna. Non tutti le presenti, infatti, potrebbero trovare interessante la reale ragione della mia venuta.
- Non sta a voi giudicare, milady, e in ogni caso le persone appena arrivate hanno maggior titolo di voi per frequentare la mia dimora. Se volete parlare, – concluse Gold – Lo farete in loro presenza. Diversamente, prenderete vostra figlia e la riporterete a casa senza ulteriori dilazioni.
Helena guardò il padre. Sembrava così diverso dal solito, quasi un estraneo, con quella mezza smorfia indecifrabile che tutto era fuorché sorriso. Se l’avesse conosciuto ora, l’avrebbe temuto. Che un incantesimo l’avesse trasformato, proprio com’era successo alla mamma? Non c’era altra spiegazione: del resto, non era mai stata tanto dura nei suoi confronti. Forse la responsabile era la sconosciuta che, in apparenza gentile, pure non riusciva a inquadrare bene…
- A tal proposito, – la Contessa continuò con annoiata noncuranza – È Regina l’esatta ragione della mia visita. Stroncheremmo ogni incomprensione se mia figlia tornasse a casa – si rivolse alla giovane con sussiego – Mia cara, tuo zio è stato così buono ad accoglierti. Non pensi di aver disturbato abbastanza la sua famigliola?
Regina rimase ancora in silenzio. Aveva ascoltato le sottili insinuazioni della madre e le offese rivolte a Belle; aveva tremato quando la verità era emersa, ma aveva taciuto. Ora che era arrivato il suo turno, avrebbe posto la domanda che le premeva in fondo la gola.
- Lui dov’è?
 Come se avesse previsto la mossa, Cora eruppe in un teatrale sospiro.
- Il tuo problema, adorata figliola, – sancì dopo aver sorseggiato il tè – È scavare nel passato, anziché guardare al futuro. Torna a casa, – la invitò con fare saggio – Lì ne discuteremo con discrezione.
- Rispondete alla domanda. Lui dov’è?
Calmati, Cora.
Non era il caso di attirare l’attenzione su una situazione già abbastanza compromettente.
Già solo per aver citato la feccia, quell’irriconoscente di ragazzina avrebbe ricevuto più di uno schiaffo.
Ma non ora.
Calmati.
- Sei chiaramente sconvolta, – disse a denti stretti – Siamo da un ospite, e ti ho insegnato a comportarti in un certo modo in società. Perché tu non sei una figlia di nessuno, tu non sei una bastarda qualsiasi.
Belle scattò.
- Non osare rivolgerti in questo modo a mia figlia, – fiele purissimo le si riversò in gola – Non ne hai diritto!
Cora le rivolse un’occhiata carica di compassione.
- Cara, – le ricordò impietosita – Sono la contessa Mills. Io ho diritto. Tu no.
Helena guardò le due donne senza capire. Perché la mamma aveva di nuovo reagito così? Perché papà si era artigliato una gamba e aveva serrato i pugni alla parola “bastarda”? A quanto pareva era rivolta a lei, e non doveva essere molto carina se faceva arrabbiare tanto le persone, ma Helena non ne era rimasta offesa. In fondo, non l’aveva mai sentita prima; si ripromise di scoprirne il significato.
- Maman, – s’intromise Regina facendo appello a tutto il proprio autocontrollo – Ne abbiamo già discusso, e sapete che non m’importa della boria del vostro nome. O meglio, – sottolineò caustica – Di quella di mio padre, dal momento che non ricordo nobili ascendenze dal vostro ramo. Perciò, rispondete: dov’è il mio fidanzato?
Per una frazione di secondo un guizzo d’allarme balenò sul volto della Contessa, per poi sparire con la stessa velocità con cui era apparso
Quasi dimentica della rabbia, Belle si voltò verso Gold in cerca di spiegazioni. L’uomo aveva impercettibilmente contratto la mascella.
- Che sciocchezza, – la Contessa arcuò un sopracciglio – Non c’è né un fidanzamento, né altro. Non c’è nulla tra uno stalliere e una nobile.
- Ma tra il vostro stalliere e vostra figlia c’è amore.
La gentildonna sbuffò.
- Lontana da me potrai crederti più forte, ma questa scenata prova l’esatto contrario. Credimi – francamente inizi a tediarmi. Se tornerai a casa ora fingerò che nulla sia accaduto. È l’ultima possibilità di comportarti da persona matura che ti offro.
Regina non chinò il capo.
- Ditemi dov’è.
Non mi lasci altra scelta, bambina.
- Vuoi davvero saperlo, Regina? Non lo so. Non so dove sia, né potrebbe importarmene. Per quanto mi riguarda, sarebbe meglio fosse morto. E tu, – sibilò a Gold, senza dar alla figlia modo di controbattere – Come puoi ospitarla? Come puoi permetterle si rovini con le sue stesse mani?
- Se Regina lo vorrà, si fermerà qui, – la decisione dell’uomo arrivò all’istante, calma come se fosse un commento sul clima.
Cora scosse il capo sinceramente incredula.
- Ti reputavo più saggio, ma mi stai smentendo in ogni modo. Parteggi per una ragazzetta viziata, ora?
- Io non parteggio per nessuno. Agisco solo per il mio interesse.
- E stavolta quale interesse potresti avere?
- Come ho avuto modo di affermare, sono una persona discreta. Non rivelo i miei segreti agli estranei.
Cora sentì lo stomaco contrarsi in un violento spasmo d’ira.
- Un tempo non eravamo estranei. Un tempo eravamo amici, – lo guardò dritto negli occhi – In nome di quei tempi, non interferire nei miei affari.
- Non sono stato io a presentarmi fuori dall’orario di visita e a portar scompiglio in quella che era iniziata come un’ordinaria giornata. Anzi – per il futuro vi pregherei di non interferire più nei miei affari. Non siete competente a farlo, – nemmeno se esplicitati i reali termini della dichiarazione e la minaccia sarebbero potuti essere più palesi.
La sua interlocutrice non perse tempo.
- Benissimo, – replicò stizzita – Se non sono competente a farlo, se non sono competente a interessarmi di mia figlia, allora me ne andrò. Ma tu, – abbaiò a Regina – Tu oggi hai fatto la tua scelta; dovrai affrontarne le conseguenze. Hai preferito un terzo a tua madre, hai preferito il tuo stalliere, loro a me. Ora tutto ti parrà anche idilliaco, ma presto rimpiangerai la tua immaturità. Rimpiangerai questa mattina, e la mia offerta.
Senza ulteriore commiato, la Contessa si diresse verso la porta Dopo pochi secondi si udì l’uscio sbattere con violenza. La casa ricadde nel silenzio.
Era ufficiale: Helena non aveva capito nulla. Aprì bocca per chiedere spiegazioni, ma fu preceduta da un’esangue Regina.
- Zio…
- Zitta, – le intimò l’uomo – Sta’ zitta, – si avvicinò alla porta: Graham, a disagio come poche altre volte nella vita, fingeva di essere ammaliato dai barbagli del legno di una cornice, – Tu, – l’apostrofò di malagrazia – Controlla la Contessina e mia figlia. Ho una questione da risolvere.
Il poliziotto non poté far altro che annuire.
 
 
 

“You gave me the chance
time and again
in vain.”


 
 
Gold sospirò.
Affrontare Cora era stata la parte facile.
Ora arrivava quella difficile.
- Belle…
- No.
Due lettere che furono acqua sporca sulla pelle.
- Permettimi di spiegare. Non…
- No, – la donna rialzò il capo, puntandogli addosso gli occhi scuriti dalla furia. Non c’era eco di remissività nel suo tono – Cosa intendi dirmi? Che non sapevi, non intendevi, altrimenti non avresti portato qui la bambina? Ma questo già lo so – me l’ha detto chi mi ha avvisato. Chi ha avuto il coraggio, – il modo in cui sottolineò il termine lo fece rabbrividire – Di venire a dirmi la verità.
- Avevo la situazione sotto controllo, – replicò comunque – Ho dato asilo a Regina in cambio del suo silenzio. Se non avesse accettato…
Belle scosse la testa. Robert non capiva – non riusciva a capire – quale fosse il reale problema. Continuava a perorare la sua causa senza chiedersi quale fattore avesse scatenato in lei simile reazione. Era cieco – come già era stato in passato, quando molte volte lei aveva chiesto sincerità ottenendo in cambio una catena di sotterfugi e segreti.
Una catena che era tornata ad avvolgerla, a stringere e soffocare come se l’esperienza non fosse stata maestra.
- …L’avresti messa alla porta? – l’anticipò – Avresti davvero gettato in mezzo a una strada chi per te un tempo – correggimi se sbaglio – era una figlia? E poi cos’avresti fatto? Saresti tornato a giocare con nostra figlia come se nulla fosse successo?
Il cuore gli si riempì di furia tanto velocemente che lo sentì bruciare.
- L’avrei fatto, per Helena. Per Helena farei di peggio, e lo sai.
- E credi sarebbe stato un comportamento lodevole? Credi che ti avrei elogiato quando l’avessi saputo, che mi sarei complimentata per la tua mancanza di pietà?
La provocazione fece montare nell’uomo un’ondata di rabbia.
- Non capisco le tue pretese. Ho messo al sicuro la bambina prima di procedere a qualsiasi mossa. E sì – credo che tu saresti dovuta essere soddisfatta se Regina avesse avuto intenzioni diverse e io l’avessi cacciata. Se qualcuno avesse voluto far del male a Neal, io l’avrei ucciso con le mie stesse mani. Anche tu dovresti provar lo stesso desiderio, se sei davvero genitore.
Trattenersi a quel punto sarebbe stato vano. Belle si avvicinò a grandi passi all’ex amante e lo afferrò per la giacca. Gold avrebbe giurato stesse per sferrargli un pugno.
- Ripetilo e sarà l’ultima frase che mi rivolgerai, – lo attaccò – Se Cora o Regina avessero torto un solo capello a Helena non sarebbero uscite vive da questa stanza, ma tu non devi giudicarmi, non osare giudicarmi! Non osare giustificarti, non osare dirmi quello che devo o non devo desiderare, e soprattutto, non osare giudicare me come madre! – urlò. Quando riprese a parlare, il suo timbro era amaro – Tu non sai niente. Tu non puoi sapere niente. Tu non puoi sapere com’è stato essere sola, io e solo io nei momenti peggiori. Tu non ci sei stato fino a due mesi fa. Tu sei comparso quando il periodo più difficile era ormai finito, hai conquistato la bambina a suon di storielle e giochi e credi che tutto vada bene, che riempendoci di  regali tutto possa sistemarsi. No, Robert Gold, – gli sputò contro le parole in un crescendo di odio che non sapeva fermare – Non si è sistemato niente. Tu non c’eri e questo, questo non si sistemerà mai.
 
 
 

“Now my feelings for you,
every tear, every smile,

paid in full.”
 

 
 
- Perché stanno urlando? – Helena chiese a voce tanto bassa che Regina l’udì appena.
Quando l’uomo di nome Graham le aveva accompagnare fuori dal salottino, la bimba non aveva sentito ragioni: era voluta rimanere vicina la stanza. Vicina, troppo vicina: le sue azioni avevano come rumore di fondo il litigio in corso.
- È colpa mia, vero? Perché prima ho fatto arrabbiare la mamma?
Per Helena doveva essere una situazione inedita: le sue domande inquiete ne erano prova.
- No, – la ragazza ripeté – Ti ho già detto che stanno litigando per colpa mia e di mia madre.
- Perché non vuoi andare con lei?
Regina annuì
- E perché non vuoi?
- Perché lei vuole controllare la mia vita.
- Cioè?
- Vuole dirmi quello che devo fare.
- E non vuole che ti sposi con il tuo fidanzato.
- Tra le tante cose.
- Ma poi quando ti sposi me lo dici?
Regina sbuffò per la petulanza della piccola.
- Se fai la brava e stai zitta, forse.
Helena parve soddisfatta. Il suo silenzio, tuttavia, non durò a lungo.
- Ma la tua mamma e la mia si conoscono?
“Se Helena non ha avuto suo padre, le colpevoli siete voi.”
- Diciamo di sì.
- E sono ami… – ogni replica fu interrotta da un urlo.
- Non osare giudicare me come madre!
La bambina s’irrigidì. Regina avrebbe desiderato le fosse risparmiato udire i genitori vomitarsi anni di rimpianti in un secondo.
- Io non voglio che litigano per me, – Helena sembrava sull’orlo delle lacrime – Io non volevo essere cattiva! Davvero!
Col visetto arrossato e gli occhioni lucidi, sembrava avere persino meno anni. Regina pensò a quanto fosse ingiusto che anche una creatura così piccola dovesse soffrire per eventi tanto lontani nel tempo.
- Non litigano per te. E comunque, anche se lo facessero, non per questo ti vorrebbero meno bene.
La cosa non rincuorò affatto Helena.
- Ma io ho paura!
La Mills sospirò.
- Vieni, – tentò. La bambina obbedì – Ti svelo un segreto che nessun altro conosce, – proseguì, malgrado la disattenzione della piccola – Quando tua madre lavorava qui, un giorno quasi per caso l’ho accompagnata in soffitta. Era disordinata e polverosa, però piena di cose con cui si poteva immaginare un’avventura e con cui abbiamo giocato. Mi è rimasto un bel ricordo di quella stanza, e in seguito ci sono tornata da sola quando ero triste. Mi distraeva, non mi faceva pensare alle cose brutte.  Era un posto che sentivo solo mio, che solo a me sembrava di conoscere. Che sapeva farmi dimenticare ogni cosa.
Era vero. Malgrado il reale motivo per cui aveva seguito Belle in soffitta, Regina conservava un ricordo dolce della stanza. Ci era tornata in segreto due  o tre volte durante quella triste settimana dallo zio cinque anni prima: lontana da tutto e tutti, aveva goduto di momenti di pace in cui il sorriso di Belle e le minacce di sua madre erano svaniti.
- Dovresti fare lo stesso. Trovare un posto solo per te, un angolo in cui niente e nessuno può toccarti e in cui rifugiarti quando le cose non vanno bene. Un posto tuo e solo tuo, che sia in grado di migliorarti l’umore e rendere più bello il mondo.
- E come faccio a trovarlo? – la bambina chiese. Malgrado fosse ancora triste, la sua espressione si era fatta più attenta.
Già, si chiese Regina, come si trova il posto in cui si sta bene?
Tanti anni in più, eppure non sapeva rispondere.
- Questa, – la giovane sorrise triste – È la domanda più difficile di tutte.
 
 
 
“Wrecked the chain,
 but no longer
I can take the pain.”


 
Belle sapeva di avergli fatto male. Ribadire a Gold la sua assenza significava ferirlo, ma non se ne pentiva. Forse in un altro momento gli avrebbe chiesto scusa; ma allora non ne sarebbe stata capace.
Il volto dell’uomo era una maschera. Teneva gli occhi bassi. Quando li rialzò, erano lucidi.
- Conosco Helena da due mesi, ma questo non significa che l’ami meno. Non la metterei mai in pericolo, mai. Lo sai.
- Ma perché non me l’hai detto? Perché non mi hai fatto sapere subito quale fosse la situazione? Sarei venuta ad aiutarti, a sostenerti, mi sarei fermata se ce ne fosse stato bisogno! Perché mi hai tenuta all’oscuro?
- Ma io l’avrei fatto, – ribatté l’industriale – Intendevo farlo ieri pomeriggio stesso. Poi però Regina ha scoperto tutto, ed era mio dovere controllare la situazione, – la debolezza dell’argomento fu palese a lui stesso.
- Avresti potuto mandare qualcuno, avresti potuto mandarlo subito se avessi voluto, ma tu non hai voluto! – una tempesta esplose in Belle – Non pretendevo molto, sai? Solo che l’informazione partisse da te, che non fossi costretta a scoprirlo attraverso terzi!
Terzi che conosceranno presto la fame.
- Erano affari che concernevano noi e noi soltanto. E chi è venuto a darti informazioni parziali…
- …Verrà licenziato? – i lineamenti della donna s’indurirono – Ottima idea, quella di meditare vendetta contro chi si è mostrato fedele a tua figlia e ha dimostrato di averla a cuore. Se li caccerai, dimostrerai solo una cosa: di temerli perché più coraggiosi di te.
Gold rise amaramente.
- Non ti smentisci mai, Dearie.
Belle si gonfiò, fremente d’ira.
- Non mi chiamare così. Non sono una Dearie a caso, sono la madre di tua figlia!
- E anche per questo almeno una volta potresti sostenere me e non gli altri.
- Io ti sosterrei sempre, se tu dimostrassi di fidarti di me come io mi fido di te!
- Però oggi non ti stai comportando come se ti fidassi, vero?
Le parole caddero come un velo ghiacciato tra loro, un velo che in un istante li separò forse più di cinque anni.
Si accorse di quanto detto quando ormai era troppo tardi.
Fu una stilettata. Belle quasi si stupì di non sentire il sangue bagnarle le vesti. Arretrò, alla ricerca di un sostegno che non incontrò, i polmoni che si allargavano dolorosamente in cerca d’aria.
- Belle…
La sua espressione mandò in pezzi ogni volontà.
- No. Non puoi aver davvero detto una cosa simile. Non puoi.
Che ne sai tu di quanto dolore ho accumulato da quella mattina?
- Stavo gestendo tutto alla perfezione, – riprovò l’uomo – Ci stavo riuscendo da solo. Regina non avrebbe parlato: io per primo sospettavo di lei, ma alla luce dei recenti eventi non credo sarà lei a tradirci.
- Non c’è più nulla da tradire. Non c’è più nulla.
No.
No, non è vero, non è vero…
- Cosa intendi?
- Cora sa. Questo posto non è sicuro per Helena. Non lo è quanto casa.
- Vuoi riportarla a Whitechapel? – non seguì alcuna risposta – Qui ho i miei uomini. C’è anche Regina, ma posso proteggere la bambina meglio che altrove. Posso rafforzare la sicurezza, posso far seguire Regina in ogni suo passo, mandarla via al minimo dubbio. Anche adesso, se preferisci.
- Ho promesso a Helena questi tre giorni, e ho promesso a te di non negartela. Sai che non vengo meno alla parola data.
Gold innalzò un muto ringraziamento al Cielo.
- Ma non la lascerò sola. Non potrei essere serena, non dopo quello che è successo, – Belle inspirò a fondo prima di proseguire – Resterò con lei. Ce ne andremo domattina come stabilito, ma oggi e stanotte staremo qui. Entrambe, o nessuna.
Gold annuì. Poteva solo ringraziarla per concedergli ancora loro figlia, nonostante quanto appena fatto.
Non certo dirle che quella decisione era più, molto più di quanto avesse sperato fino ad allora.
Né che una parte di lui avesse brigato a tal punto.
- Grazie.
Belle chinò il capo. Quando lo rialzò, il celeste dei suoi occhi era appena velato.
- Non mi ringraziare. Non lo faccio per te, ma per Helena. È troppo piccola per soffrire a causa nostra. Ma non chiedermi altro. Questo, – concluse – è il massimo che ti concedo.
 
 
 
“Needed to be strong,
yet I was always
too weak.”
 
 
 
Le faceva uno strano effetto rimettere piede in quella casa dopo tanti anni. Non se n’era resa conto prima: quando vi era rientrata, la furia era tale da annullare ogni altra emozione. Solo dopo aver ripreso Helena, essere passata a prendere una vecchia chiave arrugginita da Mary Margaret ed essersi diretta ai piani superiori era riuscita a prendere un profondo respiro e a guardarsi attorno; e solo allora aveva realizzato.
Mai e poi mai aveva immaginato un simile ritorno a Kensington. Fino a quella stessa mattina pensava a un rientro molto più sereno: si sarebbe trasferita una volta appianati i conflitti con Gold, quando entrambi sarebbero stati pronti a ricominciare consapevoli che l’onestà è il valore importante tra due persone. Come aveva detto all’uomo stesso, forse sarebbe stata questione di poche altre settimane, ma lei non intendeva accelerare il corso degli eventi: aveva già sperimentato che in amore le decisioni affrettate sono le più pericolose, e non intendeva reiterare gli errori.
Il corso degli eventi, però, aveva accelerato da sé.
Nel precedente lustro la casa era rimasta immutata. Colpa della lunga assenza del proprietario, certo: l’opulenza di cui Robert Gold amava farsi fregio era ancora il suo tratto distintivo. Era la casa di una persona ricca, sfacciatamente ricca, che non si faceva scrupoli nell’ostentarlo con enfasi in sprezzo al rischio di passare per parvenu. Ogni angolo traboccava di testimonianze del benessere cui l’uomo era riuscito ad accedere.
Testimonianze che facevano dannare i domestici quando dovevano spolverarle.
Era la casa di una persona sola, terribilmente sola. Di una persona che preferiva trincerarsi in un mondo di apparenze e finzioni piuttosto che avere la forza – l’umiltà, la parte più livida di Belle non mancava di precisare – di aprirsi al mondo e chiedere aiuto.
Una persona che aveva paura di vincere la sua paura.
Chissà come si era sentita perduta la loro bambina passando dall’umile stanza nell’East End allo sfarzo del mondo di suo padre. Aveva avuto paura? Si era aggirata per le sale alla ricerca di riferimenti, di segnali che le restituissero il senso di stabilità perduto?
Però Helena non dava quest’impressione. Appena si erano riviste la bimba l’aveva abbracciata forte, sì, ma ciò non indicava nulla: per quanto breve si fosse rivelata, era stata pur sempre la loro prima separazione. Malgrado le molteplici mancanze, Robert era un ottimo padre: sicuramente era stato più che in grado di far sentire la figlia a suo agio pur in un ambiente sconosciuto.
Era stata lei, paradossalmente, a riaccoglierla non con baci e carezze, ma con urla e comandi che alla bambina erano parsi insensati.
Ma l’hai fatto a fin di bene. Per proteggerla.
Anche se alla fine si è rivelato inutile.
Quando l’aveva portata con sé, Helena non aveva protestato. Aveva rivolto un ultimo sguardo a Regina, e da allora non aveva proferito parola.
Belle sapeva bene cosa significasse l’improvviso mutismo.
- Allora! – esordì fin troppo allegra – Cos’avete combinato tu e papà ieri?
La piccola bofonchiò appena qualcosa di inintelligibile. La donna sospirò.
- So che sei arrabbiata con me, – procrastinare era inutile – E ti chiedo scusa se sono stata brusca. Però ho avuto paura per te.
Finalmente la bimba alzò il mento.
- Perché?
- Helena, – Belle si fermò. Si chiese se facesse bene a dirglielo. Doveva pur metterla in guardia… – La signora che hai conosciuto… Non è una persona molto buona, ecco. Non ci ha fatto cose belle.
- Cioè?
- Sai che delle persone cattive ci davano la caccia, soprattutto prima che nascessi. Lei era una di loro. Se… Se mai dovessi rincontrarla, – Belle serrò le palpebre. Una simile eventualità non si sarebbe ripetuta – Mi prometti di far attenzione? Di dirlo subito a me o a papà?
Helena aveva sempre immaginato gli antagonisti della sua storia come delle persone grandi e grosse che picchiavano tutti, non certo come una signora cortese. La sconosciuta le era parsa strana, ma non cattiva; e poi, era la mamma di Regina. Che voleva dire? Anche Regina era cattiva? Però nemmeno lei ci andava d’accordo…
La mamma la guardava implorante, in attesa di una risposta.
-  È importante, Helena. Per favore, promettimi di stare attenta.
- Mh-mh.
Belle decise di accontentarsi. Sapeva non avrebbe ottenuto altro, per il momento.
Cocciuta tale e quale a tuo padre.
- Comunque sia, – cercò di allietarla– Fino a domani mi fermerò qui anch’io. Che ne pensi?
La piccola si strinse nelle spalle. Tra tante cose almeno una buona, per quanto stramba: allora Regina aveva avuto ragione nel sostenere che il litigio non fosse a lei imputabile!
Però in tutta la storia c’era qualcosa che continuava a non quadrare; forse era una di quelle “cose da grandi”, come le definiva Granny facendola arrabbiare. Anche il giorno prima aveva avuto la stessa impressione col discorso di papà sulla tazza rotta: avrebbe voluto saperne di più, ma quando aveva visto l’espressione dell’uomo ogni parola le era morta in gola. Sembrava che a papà facesse male qualcosa, ma non come quando ci si sbuccia le ginocchia o si ha mal di pancia: un male più profondo, un male che veniva da dentro e non si poteva scacciare. Proprio come quando la mamma era triste e non le diceva mai il perché.
Il giorno prima Helena avrebbe voluto che suo padre le dicesse dell’altro, magari cosa fare, come aiutarlo. Non era successo. Avrebbe dovuto far qualcosa; e non aveva saputo cosa, se non abbracciarlo.
E in tutto ciò, sorgeva un altro interrogativo: dove la stava conducendo mamma? Nella soffitta del racconto di Regina, che tanto l’aveva incuriosita? L’aveva trascinata per una scala che il giorno prima non aveva notato e che portava a corridoi per nulla belli su cui si aprivano tante porte. Era un posto cupo, e a Helena la cosa non piaceva.
- Dove andiamo?
- Nella mia stanza quando vivevo qui. Quando ancora tu non c’eri.
Sarebbe stata ancora una volta la sua stanza. Se fosse rimasta lì, Belle non avrebbe accettato nulla da Gold: era troppo, troppo arrabbiata e delusa. Tornava in quella casa esattamente come vi era uscita: da dipendente, una tra le tante, senza alcun segno distintivo.
Le prevedibili proteste dell’uomo sarebbero state inutili: in fondo, non era stato lui stesso a darle prova di quanto poco considerasse la sua opinione? Se non la riteneva degna di fiducia, non poteva ritenerla degna neanche di differenziazioni rispetto al resto della servitù. Che si dimostrasse, per una volta, coerente.
Arrivate a destinazione, la donna non perse tempo in riflessioni: infilò la chiave nella toppa e la girò. Quando finalmente la porta si spalancò, una zaffata di umido investì le due, facendo arricciare il naso alla più piccola.
- Ecco, – Belle fece strada – La mia vecchia camera.
Helena spalancò gli occhi: se, secondo la storia, la mamma era stata una domestica e i domestici vivevano in corridoi bui, certo le loro stanze non dovevano essere belle quanto quelle ai piani inferiori; però la bambina non si aspettava nemmeno che fossero tanto brutta.
- Non mi piace, – sentenziò all’istante – È piccola, e puzza.
Belle fu costretta a convenire
- È chiusa da anni, le cose andranno meglio appena aprirò la finestra, – provò a farlo, ma la piccola imposta non si mosse di un millimetro. Riprovò con maggior forza, senza alcun risultato – …Se aprirò la finestra. Tuo papà l’ha fatta chiudere per bene.
Dopo svariati altri tentativi, a cedere non fu la finestrella, ma Belle.
Robert Gold, se non ti ammazzo oggi non ti ammazzo più.
Io
Lo sguardo le scivolò sul comodino accanto al letto. Un portacandele sporco di cera riposava sul legno, accanto a un libro dall’aria antica.
Pur senza leggerne il titolo, lo riconobbe all’istante.
“- Romeo e Giulietta, – aveva sussurrato, gli occhi lucidi dall’emozione.
- Ricordi?
Il suo sorriso aveva scacciato il freddo di quella corsa convulsa.
- “Che cosa c'è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.” ”
- Allora andiamo, – Helena la riportò al presente – Puzza.
I loro primi istanti, la loro prima lite.
- Sì. Solo… Solo un momento.
Natale 1888, il loro primo bacio.
Percorse con un dito l’incisione sulla coperta impolverata.
La prima sera in cui lui era andato a trovarla in quella stanza, i segreti che le aveva rivelato.
Aprì il volume a una pagina a caso.
 
“Mercuzio: Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido e vola la di là di ogni limite.
Romeo: Io sono ferito troppo profondamente dalla sua freccia per volare con le sue penne leggere: e così legato, non posso sorvolare l’altezza del triste dolore: sotto il grave peso dell’amore, io precipito.” 1
 
Stava rileggendo quello stesso libro quando aveva smesso di sognare.
All’improvviso fu troppo.
Troppo passato, troppo presente, troppi ricordi, troppa se stessa, troppo lui, troppo amore, troppo dolore – troppo.
Era di nuovo lì, nella stanza in cui aveva lasciato il cuore.
Respirare era diventato difficile: far entrare l’aria, spingerla di nuovo fuori erano operazioni faticose, che la lasciavano spossata. Ondeggiò incerta sulle gambe prima di lasciarsi cadere come senza forze sulla branda.
Aveva creduto in lui, ora come allora. Ora come allora aveva guardato al futuro con ottimismo, cercato il modo per superare le difficoltà uno al fianco dell’altra, alla luce del sole.
Era questo ciò che le doleva di più, questo.
Il ritrovarsi ancora una volta sola, costretta ad affrontare battaglie che lei mai avrebbe voluto intraprendere, di cui mai sarebbe voluta essere origine e fine.
Anche gli altri le avevano mentito, le avevano occultato la verità per lunghe settimane; ma il loro tradimento non la feriva quanto quello di Gold. Solo lui aveva il potere terribile di mandarla in pezzi.
Solo chi ama può ferire davvero.
Udì i singhiozzi sgorgarle dal fondo della gola, violenti, irrefrenabili, crudeli. S’impose di non piangere, per Helena, si disse, non la spaventare, ma gli occhi non riuscirono a restare asciutti.
Voleva odiarlo perché era preso tutto di lei: tutta la sua giovinezza, tutta la sua comprensione, tutto il suo amore. L’aveva consumata, e abbandonata come si butta via un oggetto rotto, di cui sbarazzarsi perché oramai inutilizzabile.
Ma già un tempo aveva atteso a lungo il giorno in cui avrebbe smesso di amarlo.
Quel giorno non era mai arrivato.
Helena fissava preoccupata la madre. Non aveva mai visto Belle piangere tanto, e non capiva cosa fosse successo, il perché di quell’atmosfera di colpo triste. Sapeva solo che vedere la mamma star male era lo spettacolo più brutto cui avesse mai assistito; e che le faceva tanta, tantissima paura.
- Ma’, – le si avvicinò, dimentica del risentimento – Che hai? – ripeté più volte senza ottenere risposta.
Doveva essere colpa sua, si disse la bambina, colpa del modo in cui l’aveva fatta infuriare: se ora la mamma fosse morta sarebbe stata solo colpa sua!
Non sapeva cosa dire, come scusarsi per qualcosa tanto grave. Fece l’unica cosa che le sapeva fare: l’abbracciò.
- Va tutto bene, tesoro, va tutto bene, – Belle si strinse alla bambina e la baciò per tranquillizzarla. Lo sguardo che lei le rivolse, però, le fece capire di aver fallito – Sto bene. Sono solo triste. Ma non è colpa tua, davvero. Non è colpa tua. Solo… Abbracciami, per favore. Abbracciami e basta.
La voce della mamma sembrava una preghiera.
- Sei l’unica cosa che ho, – le diceva un tempo non tanto distante.
E lei voleva far contenta la mamma, renderla felice, meritarsi il suo amore.
Stavolta Helena obbedì.
 
 
 
“Did you change?
I did too.”
 
 
 
Regina sapeva che le azioni portano sempre a conseguenze: non seguire sua madre, rifiutare il ramoscello d’ulivo offertole le sarebbe costato caro. Se Daniel fosse stato nelle grinfie della nobildonna, l’avrebbe seguita senza esitare: Daniel veniva prima di tutto. Ma Cora era stata chiara in proposito, una chiarezza che quasi l’aveva stupita; e, malgrado tutto, Regina aveva capito – aveva sentito – che Maman era sincera.
A pensarci bene, la Contessa avrebbe potuto sfruttare proprio lo stalliere: avrebbe potuto mentire alla figlia facendole credere di avere il giovane prigioniero per indurla a tornare a Belgravia. Sarebbe stata una mossa spregiudicata e malvagia, ma degna della migliore Cora. Il fatto che non vi si fosse appellata dimostrava quanto sottovalutasse i sentimenti della figlia per Daniel: lo considerava un ostacolo da eliminare in quanto tale, al più un capriccio, ma non capiva – come avrebbe potuto, del resto? – la profondità del loro legame.
Ma Cora non capiva neanche quanto la figlia l’amasse.
Regina non lo sosteneva perché costretta, ma perché sincera: da che era venuta al mondo, la Contessa era stata il suo punto di riferimento, il modello più o meno imposto cui aspirare.
Inaccessibile, effimero, e anche per questo ancora più inseguito.
Sua madre era bella e intelligente, elegante e astuta; sua madre era la donna che, anche inconsciamente, sarebbe voluta essere. Ma sua madre era anche cinica e superba, tanto ambiziosa ed egoista da anteporre se stessa al mondo intero, e crudele – cattiva, di quella malvagità gratuita che non ha ragione d’essere e non lascia via di scampo.
Una parte di Regina odiava quelle caratteristiche; un’altra, in segreto, le amava. Perché erano comunque parte di sua madre, della persona che più era importante nella sua vita, la persona senza la quale non sarebbe mai divenuta ciò che era.
Sua madre le ripeteva una lezione che avrebbe voluto essere in grado di ricordare. L’amore è una debolezza e, malgrado tutto, alla luce degli ultimi sviluppi la ragazza si era ritrovata a pensare che c’era un fondo di verità in quell’affermazione. Se Regina non avesse amato Daniel non avrebbe avuto quel perenne nodo alla gola causato dall’incertezza; se non avesse voluto bene allo zio e a Belle, non si sarebbe sentita in colpa a contatto con loro figlia; se non fosse stata tanto legata a Cora, non avrebbe acconsentito a quella stretta ferrea che la donna aveva sul suo cuore.
Ogni affetto, una debolezza.
Ogni debolezza, una sofferenza.
Forse quella materna era natura, o forse uno scudo, un’armatura dietro cui trincerarsi per non restare feriti, Regina non lo sapeva; ma Regina sapeva di ammirare quelle armi. Di amare quelle corazze che permettevano di non apparire deboli, di non mostrarsi al prossimo tremanti e spaventati come lei non voleva più comparire.
Come lei si sentiva ora, scendendo le scale che la conducevano al passato.
L’intera servitù stava parlando fittamente con Belle; tutti però schizzarono in piedi quando l’adolescente entrò in cucina.
- Regina! – appena la vide, Helena le corse incontro, le manine appiccicose di glassa – Vuoi un biscotto? È buonissimissimo, prendilo! – le porse quello mezzo mangiucchiato che aveva tra le dita. Se fino al giorno prima un bambino si fosse comportato così, l’avrebbe guardato disgustata; stavolta, però, s’impose di rifiutare senza mortificarla.
- Ciao. Ti ringrazio, ma non ho appetito.
- Contessina, – Archie parlò con la sua solita cordialità – Possiamo esservi utili in qualcosa?
- Sollevandomi dalla vostra presenza. Desidero parlare con Belle, e da sola, – precisò all’istante, senza ingentilire il tono. Era affezionata ai dipendenti dello zio, ma non intendeva avere testimoni impiccioni come solo i domestici sapevano rivelarsi. Almeno su questo, sua madre era nel giusto: lo provava il fatto che avessero chiamato Belle ovunque fosse.
I presenti si guardarono tra loro, indecisi se fosse il caso di ubbidire o meno prima di voltarsi verso l’unica competente a decidere, l’unica rimasta seduta.
Dopo un lungo momento di silenzio, Belle si alzò.
Regina avrebbe voluto sospirare di sollievo. Rivedendo la donna, aveva sentito in petto un groviglio di emozioni impossibili da sbrogliare: allo stupore e alla sorpresa si erano presto sommate l’angoscia di chi è testimone inerte di un cataclisma e un’arcana, segretissima gioia. La Mills l’aveva giustificata col ritorno della sua prima amica, ma che nel contesto non aveva ragione alcuna di esistere.
- Helena, – l’ex domestica si rivolse alla figlia – Resta qui e smettila di mangiare biscotti. Mary, per favore, li fai sparire?
- Ma mammaaa!
- Niente “ma mammaaa”, non voglio tu stia male. E ricorda che sei controllata, perciò non cercare di fregarmi a modo tuo: far sparire i biscotti mangiandoli non vale! – fu l’ultimo avvertimento prima di uscire dal locale.
Regina sorrise dinanzi al breve scambio: Belle aveva sì vietato altri dolcetti alla figlia, ma l’aveva fatto con gentilezza, persino scherzando. Se a quattro, cinque anni lei si fosse avvicinata a una caramella, avrebbe rimediato un manrovescio micidiale. Suo padre, morto di lì a poco, le portava di nascosto qualche leccornia – come quando aveva avuto la varicella e le era rimasto accanto escogitando di tutto per distrarla. Anche lo zio era andato a trovarla ogni giorno. Le aveva portato doni come se fosse stato un perenne Natale assicurandole che presto sarebbe stata bene, ma Regina lo ricordava preoccupatissimo. Era stato lui a far venire ben più di un medico e a litigare anche con Maman, che in tutti quei giorni era passata forse una volta o due.
- La tua è una scenata. Resisti, o resterai sfregiata e le tue già scarse possibilità di accasarti svaniranno, – le aveva sussurrato tirandole uno schiaffo sulle mani.
Forse la Regina dell’epoca avrebbe preferito una mamma come Belle, una mamma che le insegnasse a non temere la debolezza. Sarebbe stato un vantaggio o una perdita?
La Regina attuale non sapeva rispondere.
Allontanatasi di qualche metro dalla porta chiusa, Belle si voltò. Aveva le braccia rigide lungo i fianchi, e gli occhi stanchi, ma vigili, severi.
Il momento del confronto era infine arrivato.
- Ciao, Belle, – esordì la più giovane – Ne è passato, di tempo.
- Cosa devi dirmi?
Il tono diretto della domanda la fece trasalire e perdere le fila del discorso che aveva abbozzato
- Io... Io… – si ritrovò a balbettare senza sapere come continuare. Come aveva potuto pensare di andare e parlare con Belle? Non ne era in grado. Era una stupida, e lo stava dimostrando – Io… Mi puoi aiutare?
No. No, maledizione, no.
Possibile che, tra le infinite scuse che avrebbe voluto porgerle, le mille verità che avrebbe dovuto confessarle, fosse andata a scegliere proprio quella? Era scesa per chiedere perdono, non sostegno!
Belle spalancò gli occhi. Nonostante l’atteggiamento risoluto che si era ripromessa di dimostrare, era sinceramente sbigottita: aveva udito bene? La piccola Mills aveva davvero, come prima cosa dopo cinque anni, invocato il suo soccorso?
La sfumatura di rabbia nella sua replica fu ben udibile.
- Esattamente per quale ragione al mondo io dovrei volere aiutare te?
Belle aveva una grinta che Regina non ricordava. Nella sua memoria era impressa una figuretta sveglia e sempre pronta al gioco, ma mite, gentile. Nemmeno durante le liti con la Contessa la sua voce era risuonata tanto distante e netta, una daga di ghiaccio in un giorno d’estate. Una parte dell’adolescente avrebbe voluto quasi ghignare perché – come l’aveva chiamata Cora una volta? –  se il topo di biblioteca stava mostrando i denti significava che la riteneva sua degna avversaria; ma l’altra parte sapeva che, con ogni probabilità, negli ultimi anni Belle aveva dovuto mostrare i denti per sopravvivere. Se la ragazza si era ritrovata sola, incinta e non sposata – rovinata – era stato a causa del suo tradimento; era naturale che non volesse ascoltarla, figurarsi aiutarla.
Nemmeno aiutarla a chiederle scusa.
- Hai ragione. Non sono nella posizione per chiederti nulla, nemmeno di chiederti di ascoltarmi per una volta.
- Io ti ho ascoltata molto più di una volta. Ti ho teso la mano quando eri una cosina ignorata da tutti, ti ho protetta e mi sono fidata di te anche quando tuo zio mi aveva messa in guardia, e tu non…
- Avevo dieci anni!
- Lo so, e non so per chi tu mi abbia scambiata, ma non sono così meschina da portar rancore a una bambina! – in quella casa Belle si riscopriva incapace di spiegarsi, poco ma sicuro. Prima Robert, ora Regina… Possibile che non riuscissero ad afferrare il suo punto di vista? Che entrambi fraintendessero a tal punto, che non intuissero le motivazioni della sua rabbia? Forse stava sbagliando tutto per l’ennesima volta, ma le sue ragioni non parevano poi tanto peregrine. Respirò a fondo prima di riprendere – Vorrei solo capire perché. Cosa ti ha indotto a farlo, perché non ne hai parlato, perché non hai chiesto aiuto. Io mi fidavo di te, ti volevo bene. Non mentivo quando dicevo di essere tua amica.
- Ero suggestionabile, – Regina disse la verità. Non c’era ragione di mentire, di fingersi superiore; era l’occasione che aspettava da un intero lustro, e non l’avrebbe sprecata – Mia madre mi ha spinta a odiarti. Non era esplicita, ma mi faceva intendere che ci avresti portato via lo zio, e dopo di lui ogni altra cosa. Che tu volessi prendere il nostro posto, che le tue mosse, anche e soprattutto quelle nei miei confronti, avessero questo fine.  Mi diceva che era una prova per capire se le volessi bene. Era un ricatto, – si corresse – Ma questo non potevo saperlo. E tu sai com’ero fatta, – sorrise amara – Non desideravo altro che compiacerla, che ricevere un po’ d’affetto. Non mi importava altro. Tu c’eri – tu sai. Per renderla orgogliosa di me ero pronta a tutto. Sono stata pronta a tutto.
Regina aveva una cicatrice sul labbro superiore che rendeva il suo sorriso più sfuggente, più pericoloso. In passato non l’aveva – non che Belle ricordasse, almeno. Si chiese come se la fosse procurata.
Ma i segni davvero indelebili erano nell’anima.
Belle poteva immaginare come fosse cambiata la sua vita. Nelle settimane precedenti, Robert aveva accennato malvolentieri qualche dettaglio – aveva parlato di un collegio, di educande e di sporadici ritorni. Cos’era diventata, in quegli anni? Cosa ne era stato della bambina riflessiva e insicura così diversa dalla sua Helena? Era tornata per entrare in società? Aveva quindici anni, era ancora presto. Col debutto nulla sarebbe cambiato: sarebbe rimasta una prigioniera triste, in abito da sera, bustino e troppi segreti alle spalle.
- Ti ho conosciuta nei momenti peggiori, e ho cominciato a volerti bene allora. Ho provato a essere una sorella per te, – non disse una madre: da quando lo era diventata, conosceva il reale peso della parola. E Regina aveva già dei genitori, cui lei mai aveva inteso sostituirsi – Ti ho abbracciata quando avevi paura, consolata quando eri triste, portata in soffitta per farti giocare. Se tra me e tuo zio le cose fossero andate diversamente non ti avremmo esclusa. E sono certa che tu sappia questo da sempre. Mi hanno raccontato del tuo ritorno la mattina stessa in cui sono stata cacciata: non l’avresti fatto se non ti fossi pentita del tuo gesto.
- Io me ne sono pentita, Belle. Davvero. E sono qui non solo per chiederti un perdono che pure so di non meritare, ma soprattutto per assicurarti che non sono un pericolo. Non sono un’emissaria di mia madre, come pensa lo zio – hai visto tu stessa quali siano i nostri rapporti. Crescendo, ho capito molte cose.
- E allora cerca di capire anche la mia prima reazione, come mi sono sentita vedendo te e tua madre così vicine a mia figlia. Ho avuto paura, e non intendo negarlo; ma per me non è facile  fingere che nulla sia successo. Non intendo negare neanche questo.
- Io non farei mai del male a una bambina, – Regina mormorò ferita – Io non sono come mia madre.
Anche se alle volte vorrei esserlo.
Belle sospirò.
- Ci sono cose che non possono essere controllate. È una questione d’istinto, la definirei così. Mi sono tornati in mente i brutti ricordi e difendere Helena è stata l’unica mossa possibile. Non avrei potuto far altro, e se si ripresentasse la necessità lo rifarei. È la mia bambina. Il minimo che possa fare è proteggerla da chiunque.
Regina annuì. Era giusto così. Non poteva neanche immaginare le emozioni di Belle, ma condivideva la sua opinione. Cora aveva già dimostrato la sua pericolosità; ogni reazione diversa sarebbe stata inopportuna e poco da Belle.
- Non farò del male a Helena. Te lo giuro. E impedirò che mia madre glielo faccia, anche se dovesse essere l’ultima cosa che farò.
- Spero non ci sia bisogno di ricorrere a misure tanto drastiche, – Belle non si trattenne dall’aggiungere.
La più giovane si strinse le spalle. Non poteva esserne altrettanto sicura.
- Torno dalla bambina, – la donna sospirò senza che ci fosse alcun seguito. Si voltò e fece per andarsene.
Era quasi arrivata alla porta della cucina quando l’adolescente la richiamò.
- Belle, – mormorò – Ti volevo bene anch’io.
La donna si fermò.
- Lo so, – rispose dopo qualche istante – E per questo ha fatto ancora più male.
 
 
 
 “So again,
 only blamed
myself
for this state
we are in.”
 
 
 
Era paradossale come le sue trame per indurre Belle al trasferimento fosse andate a buon fine.
Nel peggiore dei modi.
Riaverla con sé non si stava rivelando la meraviglia vagheggiata fino ad allora: Gold aveva pensato che con lei ed Helena il mondo sarebbe stato un dipinto compiuto, ma la realtà si stava rivelando ben diversa. Del resto, stante le circostanze del rientro, come aspettarsi altro? Era ovvio che Belle fosse furibonda con lui e con Regina Mills; forse persino più con lui, che aveva giurato di proteggere la figlia, e invece l’aveva pur involontariamente guidata tra le fauci di un lupo tanto ingioiellato e serafico quanto famelico.
Il modo in cui Cora si era rivolta alla donna e alla bambina, in cui l’aveva accattivata per indurla a confessare e quel bastarda che bruciava come fuoco erano solo il preludio; le due persone che avrebbero dovuto sapere di Helena per ultime si erano ritrovate ad avere ben più di un faccia a faccia con lei.
E con Belle.
Era naturale la rabbia della donna, era naturale la sua reazione; era innaturale avere lei e la figlia in casa e saperle così distanti. A essere onesti, Helena non si mostrava distante: quel tesoro di bimba pareva fortunatamente ignorare la situazione dei genitori e cercava senza sosta tanto lui quanto la madre, danzando per le stanze e mostrandosi chiacchierona come al solito – anche troppo, si diceva l’uomo ripensando agli eventi del salottino.
Gold invidiava quell’innocenza, quella voglia di vivere che s’imponeva anche dinanzi al crollo di una possibile neonata famiglia.
E in più in casa c’era anche Regina. L’adolescente l’aveva cercato per ringraziarlo; lui si era sempre negato. Non intendeva riceverne scuse o qualcosa di simile: l’aveva sostenuta nella sua personale battaglia contro Cora solo perché resosi conto di quanto fosse oramai esacerbato il conflitto tra le due. Quella della ragazza non era finzione, era palese, e questo la rendeva inoffensiva; ciononostante, l’idea di un contatto con Belle ed Helena non poteva che scuoterlo e indurlo, anche solo inconsciamente, a fare di tutto per proteggerle da chi in passato aveva collaborato a portargliele via.
Avrebbe voluto mostrarsi deciso nei confronti Regina tanto quanto Belle lo era stata nei suoi.
Questo è il massimo che ti concedo.
Belle non gli avrebbe portato via Helena anzitempo, né gli avrebbe impedito di incontrarla ancora, ma quanto al resto…
Ma perché continui a credere in qualcosa, se la vita ti ha insegnato altro?
Aveva fatto di tutto per perderla: il perdono era al di là di ogni possibile concessione.
Lo capiva dal silenzio di Belle quando s’incontravano per caso, dal modo in cui si scivolavano accanto senza voltarsi. Un tempo, quando litigavano era lui a rifuggire il suo sguardo: lei non glielo negava mai. Gli piantava addosso, gli piantava dentro senza tregua i suoi occhi, consapevole delle conseguenze che avevano sulla sua anima, della loro capacità di indurlo a riflettere, a fermarsi, di renderlo umano. Ora i ruoli parevano invertiti; ora era lui a bramare quell’incontro d’iridi, perché finché Belle l’avesse guardato, giudicato, anche accusato, anche fattogli del male con quei gioielli che aveva sul volto, ci sarebbe stata speranza.
Avrebbe voluto fermarla. Parlarle ancora, urlarle che non era vero – sapeva che lei si fidava di lui, e anzi troppe volte era stato il contrario, lui l’aveva allontanata spaventato, e…
Ma Belle non gli concedeva neanche la grazia di uno sguardo.
E lui, senza i suoi occhi, era perduto.
Non avevano condiviso un momento: ciascuno aveva condotto la propria vita, ciascuno si era fatto carico di fantasmi da declinare ancora una volta al passato. Sarebbero dovuti essere giorni di festa; si erano rivelati l’ennesimo rovescio della vita.
Eppure, lui non riusciva a pentirsi fino in fondo di quanto – non – fatto prima della lite. Restava fermo sulle proprie posizioni, accusandosi solo di non aver ancora licenziato i domestici colpevoli: se non si fossero precipitati a riferire all’ex collega la loro versione dei fatti, lui avrebbe affrontato Cora senza difficoltà. Belle non sarebbe irrotta nel salottino, Helena non l’avrebbe cercata e trovata, la Mills sarebbe tornata a Belgravia con un nulla di fatto e avrebbe ripreso a sguazzare nella pozza d’incertezza che era il suo regno dalla cena durante la quale lui le aveva stupidamente insinuato il dubbio – perché se Cora avesse già scoperto qualcosa, certo non avrebbe aspettato tanto per muoversi.
Da solo, Gold avrebbe risolto tutto.
La colpa era solo di quei due stupidi, incapaci, irriconoscenti di Killian Jones ed Emma Nolan. Odiava esserne succube – risparmiarli, restare impotente pur nella posizione raggiunta. Aveva piena facoltà di non rivederli più, ma se l’avesse esercitata avrebbe persino peggiorato le cose con Belle. Per lei era costretto a essere affiancato da un valletto infigardo e da una ragazzetta discola che per lo meno aveva il coraggio di guardarlo dritto in volto e sfidarlo nell’unico modo che aveva a disposizione. La Nolan meritava maggiore rispetto di quello sbruffone di Jones, che fingeva ignoranza quando era motore di ogni complotto.
E Belle fraternizzava con loro, li sosteneva in tutto e per tutto.
Non aveva accettato la camera che le avrebbe fatto preparare all’istante – una stanza da regina, la più ampia e confortevole, la più distante dalla sua –, ma non c’era stato verso di convincerla Avrebbe dormito all’ultimo piano come gli altri, ospite delle Nolan, e no, non era il caso di far sistemare una qualunque camera per una sola notte – il modo in cui l’aveva ribadito era stata una stretta al cuore.
Non c’è più nulla da tradire. Non c’è più nulla, aveva detto.
No, Sweetheart.
C’è ancora un mondo intero.
E ancora io sono riuscito a rovinarlo.
 
 
 

“It's hard for me
to love myself
right now.”
 

 
 
Anche Helena quella notte era andata da Regina.
In realtà, la mamma l’aveva messa a letto nella sua stanza e fino all’ultimo, tra una coccola e l’altra, le aveva proposto di dormire con lei e le altre.
La bambina aveva sempre risposto di no e chiesto che fosse lei a dormire con lei e Regina e, perché no, magari anche papà.
La mamma l’aveva guardata un po’ triste e un po’ arrabbiata, come quando lei s’impuntava su qualcosa che non poteva ottenere; solo che quella volta c’era stata molta più tristezza nei suoi occhi. Helena aveva sentito un groppo alla gola: d’istinto l’aveva baciata per l’ennesima volta sussurrandole che le voleva bene.
Per quanto si fingesse serena, aveva sempre davanti agli occhi l’immagine della mamma che singhiozzava e la implorava di abbracciarla. Le dispiaceva lasciarla sola proprio quella notte, ma lei non voleva stare in una stanza piccola come quella visitata, figurarsi passarci la notte: nel breve tempo che vi aveva trascorso, si era quasi sentita soffocare dalla polvere. Mary avrebbe accolto anche lei, ma se gliel’avesse chiesto pure Regina avrebbe accolto sia lei che Belle, e su un lettone tanto grande avrebbero dormito molto più comode.
- Sapevo saresti venuta, – aveva commentato la ragazza vedendola far capolino in camera e balzare sul materasso. Non aveva più detto nulla: di lì a poco anche lei si era accoccolata sotto le coperte e le aveva voltato le spalle, come per dormire; solo che, anziché prendere sonno, anche Regina aveva presto iniziato a essere scossa da singulti silenziosi.
Lì per lì Helena non aveva voluto crederci: perché nell’arco di poche ore un’altra persona a lei cara era tanto triste da mettersi a piangere? Cosa stava succedendo?
- Che hai? – le aveva chiesto – Male?
La ragazza aveva scosso il capo, ma aveva continuato a piangere piano, senza far rumore; ma non ci vuole il rumore per piangere. Ed Helena aveva il cuore tenero, diceva sempre Tink, non sopportava neanche di vedere un randagio soffrire la fame: come poteva stare accanto a una persona in simili condizioni e non intervenire? Ma non sapeva cosa fare, e Regina non rispondeva alle sue domande…
Avrebbe voluto cantarle la ninnananna che la mamma le dedicava sempre, ma non ne conosceva le parole; aveva potuto solo intonarne la melodia, carezzando la schiena dell’amica finché non si era calmata.
Helena era rimasta così, a fissare a lungo il soffitto chiedendosi dove fosse finita l’allegria che fino al pomeriggio precedente aveva dominato la sua vita e a meditare sullo strano mondo che ruotava attorno a quella casa.
La mamma le raccontava sempre che al di là del fiume e per il mondo c’erano tantissimi bei posti, ed era vero: le cose belle di cui le parlava esistevano, ma forse non erano poi tanto belle quanto sembravano. Forse era stata la casa stessa, con le sue stanze chiuse e piene di mostri, a risucchiare la gioia... Non voleva che le cose andassero così, non ora che c’era anche la mamma. Dovevano stare assieme, lei, la mamma e papà, e ridere, e giocare, e raccontarsi le cose come facevano quando mangiavano assieme e papà guardava la mamma come anche lei voleva essere guardata 2 e gli occhi della mamma brillavano dalla gioia.
Dovevano essere loro e, e la ragazza strana che le rispondeva male, ma non l’aveva cacciata mai, neanche la prima sera; e dovevano essere felici.
E no, non poteva aspettare l’indomani: lei doveva dirlo a qualcuno subito.
L’unica persona di cui potesse davvero fidarsi e che in quel momento potesse raggiungere era solo una.
Papà.
 
 
 

“I will take
what you have for me now
if it's not too late.”
 

 
 
Viktor all’inizio non ci aveva creduto. Aveva letto il foglio una, due, tre volte, e poi ancora e ancora, finché le lettere non si erano fuse formando il calderone infernale in cui era annegato.
Essere medici significa essere abituati alla morte: dal primo anno di studi maneggiava cadaveri, assisteva e compieva dissezioni, vedeva scivolare la vita da grandi e piccini dando la notizia a parenti straziati.
Essere medici significa essere abituati al dolore: alla sofferenza fisica e mentale, alle litanie e alle maledizioni, al sangue e al rantolo dei morituri.
Viktor Whale ne era abituato; il tempo gli aveva insegnato a essere impassibile.
Ma quale scuola di medicina insegna a restare impassibili quando la morte ghermisce chi ti è più caro di te stesso?
Gerhard era morto.
Ucciso da un colpo di fucile partito accidentalmente durante un’esercitazione: il colpo l’aveva raggiunto in pieno petto, fracassandogli la gabbia toracica e perforandogli il polmone sinistro. Intervenire era stato vano: suo fratello era spirato di lì a poco.
Whale odiava l’ignoranza, il non comprendere la realtà e restarne succubi, meri spettatori; eppure in quell’occasione avrebbe preferito non sapere. Avrebbe preferito credere che Gerhard fosse spirato all’istante, senza accorgersi di nulla; che avesse sussultato e fosse sprofondato nell’oblio eterno, che gli fosse risparmiato l’agonia propria di questo tipo di morte.
Conosceva fin troppo bene i dettagli tecnici per illudersi.
Quando aveva ricevuto il dispaccio, quando ne aveva tradotto in significato le frasi, il dottore era partito all’istante.
Non l’avevano aspettato per il funerale. Era entrato in casa, ma non aveva trovato alcun feretro ad attenderlo; e per un istante Viktor aveva pensato fosse solo un incubo, o uno scherzo di pessimo gusto, ma pur sempre uno scherzo; che suo fratello fosse sano e salvo, e che quando gli avesse scritto per raccontargli quell’assurda vicenda lui gli avrebbe con una lettera in cui i più scherzosi scongiuri s’affiancavano all’immanente certezza della sua salute.
Ma la casa era drappeggiata di nero, e i campanelli attutiti, e tutto, tutto urlava di una morte troppo prematura, troppo accidentale, troppo ingiusta.
Come se esistessero morti giuste e ingiuste.
La mente di Viktor sapeva che la morte non è definibile: la morte è. È un fatto della vita, o meglio, della natura. Tutto ciò che nasce è destinato a morire; non esisterebbe la vita, se non esistesse la morte. L’endiadi della realtà.
Ma la mente di Viktor doveva tacere, tacere, azzittita da Viktor stesso.
Perché Gerhard, così giovane e promettente, così brillante e giusto, col suo sorriso buono e l’animo gentile mai coperto da mostrine e medaglie, non meritava di morire.
Suo padre l’aveva ricevuto dopo un giorno, Si era chiuso nel suo studio, gli occhi puntati alla finestra come se da un momento all’altro aspettasse il ritorno del secondogenito prediletto, del figlio di cui pure Viktor non era mai stato geloso.
- Padre, – l’aveva salutato senza proseguire. Era strano, per lui, non sapere cosa dire in caso di decesso.
- L’abbiamo sepolto l’altro ieri, – la risposta non era quella che si sarebbe aspettato. Ma cos’aspettarsi da un padre che ha appena perso il figlio?
- Sarei voluto esserci.
- Ho preferito non ci fossi. Mi sono illuso fossi morto tu. Tutto è tuo. Tua madre non avrebbe voluto che ti diseredassi. Ma io – io non ho più figli.
Non era riuscito a rispondere, Viktor. Non era riuscito ad arrabbiarsi. Aveva annuito ed era uscito dalla stanza, chiudendo la porta con attenzione, senza far rumore, come gli era stato insegnato in quella stessa casa tanti anni prima. Si era recato nella cappelletta – lui, che non entrava in chiesa da metà della sua vita –, ma non era riuscito a formulare nemmeno una delle preghiere che riposavano negli angoli più reconditi della memoria. Era solo un diversivo per ritardare la visita sulla tomba di Gerhard, per non vedere epitaffi e date e rendere reale ogni cosa.
Viktor non aveva colpe, razionalmente lo sapeva bene. Non avrebbe potuto prevenire l’incidente nemmeno se si fosse trovato sul luogo, nemmeno se tanti anni prima fosse divenuto medico di campo. Gerhard era esperto di armi, era attento e sollecito; quella era stata un’autentica fatalità.
Ciononostante, non riusciva a non accusarsi per non essere stato in grado di proteggere il suo fratellino.
Lo ricordava, il minuscolo fagottino rosa che già da neonato rideva alle sue smorfie, il bambinetto che gli stropicciava le pagine dei libri e con cui pure non riusciva ad arrabbiarsi davvero, il compagno di mille avventure con cui sostenersi a vicenda.
Mille scene e mille scherzi, mille confidenze e mille aiuti che non sarebbero più tornati.
Era ripartito quella sera stessa. Non era ospite gradito, e il suo soggiorno avrebbe condannato tanto lui quanto il padre a ulteriori pene. Non poteva far nulla contro la morte, solo arrendersi e accettarla, per quanto arduo. Se ci fosse stato un metodo – uno studio, una tecnica ancora sperimentale, una mera possibilità – per invertire il processo e riportare Gerhard alla luce del sole, lui avrebbe agito.
A qualunque costo.
In nome del fratello.
In Inghilterra si erano tutti mostrati molto cordiali nei suoi confronti. Gli erano giunti biglietti di condoglianze da parte di illustri colleghi e pazienti, i domestici portavano la fascia nera al braccio, e tutti, tutti rispettavano ossequiosi il suo dolore.
Il problema era che non voleva questo.
Chiuso in una stanza con una bottiglia in mano e il peso dei fantasmi sulle spalle, Viktor voleva qualcuno con cui sfogarsi, cui raccontare quanto successo senza alzare il volto e trovare lo sguardo allucinato di chi considerava ogni emozione un’autentica volgarità.
L’idea che fino a poco tempo prima era stata sua.
Miss Carter, la dama di compagnia sua intima amica, nulla poteva: i suoi baci accendevano il corpo, non il cuore.
Desiderava un amico vero, e se ne riscopriva privo.
L’unico che avesse mai avuto giaceva sotto metri di terra brulla a molte miglia da lui.
In realtà c’era qualcuno. Una persona che non avrebbe saputo definire dal momento che solo due volte nella vita l’aveva incontrata. Sarebbe stato maleducato ripresentarsi da lei dopo oltre un mese e comunicarle una novella tanto triste, ma – pur conoscendola sommariamente, pur non avendo mai pensato davvero al di là dei suoi sorrisi salaci e corpetti provocanti – Viktor aveva l’impressione che lei avrebbe compreso. Che il suo eventuale Mi dispiace non sarebbe stato come gli altri.
O forse la sua era solo un’estrema idealizzazione, il triste bisogno di affetto che mi aveva desiderato in simile modo.
Non aveva realmente deciso di andare da lei fino a quella sera, quando aveva dato al cocchiere un indirizzo nel cuore più corrotto della città.
Quando entrò nel locale, non un avventore gli badò. Si sedette e attese. Lei non era da nessuna parte: pareva sparita, tornata al mondo di bosco e sogno cui apparteneva. Non c’era neanche la sua collega dagli occhi chiari, l’amica di Gold.
All’improvviso, quando aveva quasi perso le speranze, la porta della cucina si aprì e comparve lei. La vide dirigersi verso un tavolo, tirare una pacca sulla spalla di un uomo barbuto e ghignare a qualche battuta. La vide sistemarsi una ciocca bruna dietro un orecchio, annuire attenta e spostarsi verso il bancone.
La vide sorridere.
Fu allora che, quasi senza inviare il comando ai muscoli, si avvicinò.
- Ciao, – Ruby riconobbe la voce prima ancora di rendersene conto. Si voltò: il dottorino era dinanzi a lei, avvolto in un pastrano nero sgualcito che aveva conosciuto tempi migliori.
Il suo primo pensiero fu di rabbia: dopo essersi dannata a causa dell’uomo, la ragazza aveva deciso di lasciar perdere. Per citare Belle, se non la reputava abbastanza per lui, sarebbe stato lui a perdere un tesoro, non il contrario; non era l’unico uomo al mondo, e lei non avrebbe sofferto più per un simile pallone gonfiato.
- Bentornato, – disse infine. Infuse freddezza nel saluto,  ma quegli occhi gonfi la lasciarono interdetta – È… È successo qualcosa?
- È morto mio fratello.
Ruby non trasalì. Ruby non increspò il volto in una smorfia di dolore fin troppo artefatta, non si portò una mano al petto, non eruppe in litanie solo apparenti.
Ruby fece una cosa che non si sarebbe mai aspettato.
Ruby lo abbracciò.
 
 
 

“Yet
I've grown to love you
even more.”



 
La porta dello studio non era chiusa, e solo scostandola Helena si rese conto che durante il tragitto non un mostro l’aveva inseguita: forse, si disse, la mamma aveva ragione: stava facendo la cosa giusta, parlare anziché tenersi tutto dentro, e il coraggio era venuto da sé.
Per fortuna papà non era ancora andato a dormire: era lì, seduto in poltrona, in contemplazione del camino spento.
- Dearie, adduci tutte le giustificazioni che vuoi, ma sei entrato senza bussare e conosci già le conseguenze.
- Ma chi è Dearie?
Gold si alzò di scatto udendo la domanda tenera della sua bambina che se stava lì, in camicia da notte e scalza, a fissarlo perplessa. Maledisse la propria iracondia, pregando di non averla spaventata.
- Helena! – si diresse subito verso di lei – È tardi, perché sei ancora sveglia? Ti riaccompagno in camera, – fece per prenderla in braccio, ma lei si ritrasse – Se cammini senza scarpe ti buscherai un raffreddore. Vieni, su.
- No, – lo fissava talmente preoccupata che Gold s’inquietò.
- Cos’è successo? – le chiese più accondiscendente – Hai fatto un brutto sogno?
- No. Voglio che mi dici una cosa.
- Ti ascolto.
- Però dimmi la verità.
- Ti ho già spiegato che è pericoloso promettere senza sapere a cosa si andrà incontro, – provò a sdrammatizzare. L’espressione della bambina lo fece però tornare immediatamente serio – Ma con te farò un’eccezione. Sarò sincero.
Helena si morse le labbra come timorosa prima di chiederlo.
- Perché oggi state tutti male?
Se n’era accorta. Aveva sperato fino all’ultimo che la condanna le fosse stata risparmiata, ma ora l’estrema illusione cadeva: Helena aveva quell’intuito fenomenale nel percepire le emozioni altrui che era proprio di Belle, ma che era anche appartenuto a Neal. Se fosse sgradita eredità materna o paterna,  però, era questione che passava in secondo piano rispetto allo stato dei fatti: la loro bambina stava soffrendo, e stava soffrendo a causa loro.
- Helena, – esordì – Almeno siediti con me. Non voglio tu prenda freddo. Prometto di raccontarti ogni cosa, in cambio. Te lo prometto.
La bambina lo seguì docile, i grandi occhi castani puntati su di lui in attesa in risposta.
Sarebbe potuto sfuggire a molti sguardi, ma non a quello.
- La nostra non è tristezza.
Le iridi della figlia si fecero più larghe, più cupe. Più dure.
- Non è vero. Tu non sei come ieri. Ieri mi raccontavi le cose e mi facevi filare, e ridevi, ridevi quando eravamo qui dentro, anche dopo la tazza. Oggi non l’hai fatto, oggi non hai riso mai. E anche Regina piange, e la mamma stamattina ha pianto tantissimo nella vecchia stanza e mi ha chiesto di abbracciarla. E avete urlato, stamattina, e quando io urlo con Anna poi sono triste! – Helena stessa era sull’orlo delle lacrime: le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni serrati, le labbra le tremavano convulse – Perché mi dici bugie? Hai promesso!
La sua Belle che piangeva nella stanza in cui tanto spesso erano stati felici.
- No, no, no! Non era mia intenzione, – Gold si portò una mano al cuore – Non ti sto dicendo una bugia. Quel che intendo è che a volte le cose sono più complicate di quanto sembrino, e quella che somiglia a tristezza, ecco… Non è solo tristezza. È anche altro.
- So che sei grande, – disse per riconquistarne la fiducia – Ma quando sarai ancora più grande, quando avrai vissuto tante altre avventure e conosciuto tante altre persone, capirai che tornare in certi posti non sempre è facile. Tua mamma ha pianto perché ha ricordato i tempi in cui questa era la casa in cui viveva con i suoi amici e con me.
Non era del tutto vero, lo sapeva. La ragione per cui Belle stava male era, per l’ennesima volta, lui stesso. Il giorno prima aveva cercato di spiegare alla figlia di non essere perfetto come lei lo iniziava a idealizzare, e dalle sue risposte aveva capito di star parlando con una Belle ancora più ingenua, ancora priva delle lenti per leggere la loro realtà. Ripetere un simile discorso ora, dopo ciò che era successo, dopo ciò che aveva detto alla donna quella mattina, esulava dalle sue capacità.
Non ne aveva la forza; non ne aveva il coraggio.
- Ma se viveva con te e i suoi amici, era felice. Uno è felice, se pensa alle cose felici. E invece mamma piangeva.
- Anche questo è vero, – l’uomo convenne – Ma i ricordi funzionano in modo strano: anche quando sono belli, possono farci male. Possono renderci tristi. Si chiama nostalgia. E tua mamma conserva tanti ricordi di questa casa, alcuni belli e altri meno belli… E non è facile gestirli quando tornano tutti insieme.
Helena parve soffermarsi su quando appena dettole. Era un problema che non si era mai posta prima: ricordava episodi con mamma e le altre, e all’orfanotrofio con gli amichetti, la neve a Natale e l’incidente, la volta che papà le aveva proposto il gioco dei nomi e ciò che era successo da allora. L’unico ricordo davvero brutto era l’incidente.
- Come si smette di ricordare? – chiese.
- Non ti dirò una bugia. Non si smette di ricordare, e va bene così. I ricordi ci rendono ciò che siamo, persone e non cose. Senza, saremmo vuoti. Per esempio, io sono ciò che sono anche grazie a te e a tua madre. E non vorrei mai dimenticarvi.
Una volta ci ho provato.
Il cielo ha dimostrato quanto fosse vano.
Gold aveva la sensazione che, se pure un giorno un’amnesia l’avesse colto, in qualche modo avrebbe avuto memoria di Belle. Avrebbe sempre saputo che qualcosa non andava, che doveva esserci un motivo se conservava una tazza mezza rotta e portava un anello femminile, se il celeste era il suo colore preferito e ogni volta che passava vicino a una biblioteca gli si accelerava il battito. Magari il nome Isabelle French non avrebbe avuto significato per lui, ma comunque avrebbe sentito che era successo qualcosa tale da aver segnato un prima e un dopo definitivo.
Ma da quando aveva fallito non aveva più voluto dimenticare Belle.
Come mai avrebbe voluto dimenticare Neal.
Come mai avrebbe voluto dimenticare Helena.
- Anche se avete urlato? – gli chiese rannicchiandosi contro di lui.
- Anche se abbiamo urlato. Una lite non cancella l’amore che nutro per voi. Tanto più se, per l’ennesima volta, la colpa è stata mia.
Per lunghi minuti dominò un silenzio tanto profondo che Gold pensò la figlia si fosse addormentata.
Poi una voce insonnolita lo raggiunse.
- Papà… Ma poi passa?
Gli si fermò il cuore. Forse aveva solo sognato, immaginato la parola che tanto desiderava udire. Non poteva essere accaduto così, all’improvviso, senza una motivazione…
No: una motivazione c’era. Sua figlia si fidava di lui. Dopo mesi di lenti avvicinamenti, di studi e analisi che ancora non sapevano pronunciare il loro nome, Helena lo riteneva degno di lei, finalmente degno del suo amore.
L’aveva chiamato papà. Lo aveva collocato nella sua vita – una figura non più passeggera, non più isolata, ma presente, inserita in un contesto da cui non sarebbe più potuto sfuggire neanche se – folle! – l’avesse voluto.
Per anni aveva temuto quella parola e i ricordi di cui era latrice; per anni era stato certo non l’avrebbe più udita, ma ora dentro impazziva di gioia. Gli accadimenti recenti furono inghiottiti da una voragine; una voragine non cupa, non buia e spaventosa, ma gentile, luminosa.
Luminosa come Helena.
Com’era strano che una singola parola avesse un potere tanto terribile e stupefacente.
Com’era strano che riuscisse a farlo sentire un uomo migliore.
- Sì, – disse, e pregò di non star mentendole – Poi passa.
Ma Helena non udì la risposta: si era addormentata, il respiro lieve, il capo abbandonato sul petto paterno. La tristezza, tuttavia, non aveva abbandonato il faccino ancora teso.
L’uomo valutò di riportarla in camera. Ma il suo sonno era ancora leggero, non voleva correre il rischio di svegliarla… Avrebbe atteso qualche minuto, solo pochi altri minuti. L’avrebbe tenuta stretta e vegliato sul suo sonno e sulla sua vita, perché lei e sua madre, e suo fratello che tanto l’avrebbe adorata, erano le cose più belle che avesse mai conosciuto, e se con loro due era troppo tardi per tutto lo stesso non valeva con Helena, no, con lei non avrebbe ripetuto gli stessi sbagli, per lei ci sarebbe stato sempre, e sarebbe stato onesto, sì, sarebbe stato il padre che la figlia di Belle meritava, non era in grado di essere l’uomo giusto per Belle, ma per Helena, per Helena sarebbe stato il padre perfetto, glielo doveva, sì, non c’era stato per troppo tempo, aveva perso tutto di lei, glielo doveva…
 
Si svegliò dopo quella che sarebbe potuta essere un’ora o una notte.
 
Helena non c’era.
 
 
 

One day
we may have
whole new me's and you's,
but first I need
to learn to love me
too.”
“Paid in full” - Sonata Arctica

 
 
 
1: “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, atto I, scena IV;
2: riadattamento della celebre: “La guardava come tutte le ragazze vorrebbero essere guardate” dal film “Il grande Gatsby”. Per quanto m’impegni, non riesco a superare le prime pagine del libro di Fitzgerald, perciò non so se la frase sia dell’autore stesso; perdonate l’eventuale orrore. X’D
 
 
 
N.d.A. : Benvenute o bentrovate, bellezze!
Procedura civile mi ha fatta latitare dalla vita e da Effeppì, ma torno vincitrice! *_*
Dopo una pausa così lunga un capitolone era dovuto… Ma temo di aver esagerato! Non prometto di contenermi in futuro perché oramai mi conoscete, e comunque sarebbe inutile: il prossimo aggiornamento, lo dico subito, probabilmente sarà altrettanto lungo. Siamo a un punto cruciale della storia, per fortuna ho parecchio da scrivere e il dono della sintesi mi è sconosciuto; le conseguenze sono pagine e pagine di (dis)avventure per i protagonisti. Vi avverto inoltre che i due capitoli nascono come unico aggiornamento poi suddiviso per ovvi motivi, per cui molti temi qui introdotti verranno approfonditi e conclusi tra due sabati.
I nostri si sono, come si suol dire, scannati: una lite senza esclusione di colpi che li ha allontanati non poco. Una brutta situazione, ora aggravatasi… Dove sarà finita Helena? Le sarà successo qualcosa?
Come promesso, Viktor è ricomparso e ha portato con sé il primo morto della fanfiction. Sarà anche l’ultimo, o prima o poi qualcun(‘)altr* gli farà compagnia? #Nospoilers, muahahahahah! In ogni caso, c’è un passo in avanti per i FrankenWolf, mia “INtrattatissima” OTP del telefilm.
Spero di non essere andata OOC in alcun punto e con alcun personaggio – i miei timori per Regina e per Belle sono immani –, ma come sempre sono pronta al confronto: segnalandomi le criticità mi aiuterete, dunque fatelo senza remore! :)
Un immenso ringraziamento va a quant* anche durante l’interruzione hanno recensito la storia, l’hanno aggiunta alle varie categorie e l’hanno letta: non immaginate quanto siate importanti! Le vostre parole e il vostro sostegno sono una manna che mi rincuora e mi dà una carica strepitosa: se la storia è arrivata sin qui è anche per merito vostro, perciò GRAZIE DI CUORE!
Salvo imprevisti, ci si rilegge qui sabato 4 luglio e sulla pagina Facebook “Euridice’s World” un po’ più spesso coi miei deliri! ♥ ;) ♥
Bacioni, Dearies, e buon inizio estate/buona sessione/buon prosieguo di maturità! :) :***
Euridice100
   
 
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