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Autore: L o t t i e    26/06/2015    3 recensioni
«Sei una cretina», iniziò lui accomodandosi sul letto ad una piazza e mezza: aveva ancora la giacca. «Puoi accusarlo di tutto, tranne che non ti voglia bene... a modo suo.»
Ah, ecco.
William sottolineò, a mente, «a modo suo» un paio di volte, in rosso. Ripassandolo più volte.
Quelle semplici frasi stesero un velo scuro sul viso di porcellana della vampira, la quale preferì stare in piedi; se si aspettava la comprensione faceva prima a gettarsi dalla finestra, l'umano. Non dopo aver parlato al cellulare con una fanatica, non dopo aver ricevuto un bacio dal suo creatore ubriaco e con chissà quali sensi di colpa venuti a galla.
«Non ti permetto di parlarmi così», si impose pacatezza, danzando verso l'armadio per prelevare dei vestiti più leggeri. Vide il ragazzo schiudere le labbra, forse per parlare ancora, protestare. Fu più veloce.
[Da revisionare!]
Genere: Fantasy, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vampire - the series.'
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Fantoccio tra le fauci della tigre.








Era di giovedì che avrebbe dovuto avere la lezione d'inglese più lunga della sua vita e, teoricamente, era già giovedì: l'orologio da polso di Alexandre sul comò le annunciava che la mezzanotte era passata da circa tre minuti.
Samantha dall'altra parte dell'apparecchio le aveva spiegato molto semplicemente come far rintracciare il proprio cellulare dal portatile di Claude―il vampiro aveva un portatile, già. Che lei non ne fosse a conoscenza era plausibile visto e considerato che la camera del tedesco era una sorta di punto caldo della villa: non ci si avvicinava mai.
Il colore rosato dell'iride di suo padre sembrava essersi incendiato e lei si morse le labbra con veemenza voltandosi verso il letto per dare le spalle a quegli occhi così penetranti nell'oscurità della camera e poter pensare con razionalità. Con le dita di porcellana ad attorcigliare una ciocca di capelli ostentava calma.
-Will, ci sei?-
«Mh-mh. Aspetta un attimo: ti richiamo io se posso», così, le chiuse la chiamata in faccia, sospirando pesantemente.
«Cosa vuoi fare?», le chiese Alexandre.
Ed in quel momento sussultò, quasi fosse stata colpita da un tizzone ardente e capì―capì che non ci sarebbe stato nessuno a salvarla in quella realtà contorta se non lei stessa. Cosa voleva fare? Ciò che sapeva fare meglio, ovviamente.
«In quel baule ci sono le tue armi», nonostante non fosse una domanda, l'altro annuì. L'albina fece il giro del letto e si chinò davanti al baule per aprirlo.
«Cosa vuoi fare?» le ripeté con una nota d'apprensione il padre.


Dopo qualche minuto, sette ne contò il tedesco, ancora nessuna notizia di William e starsene seduto sul divano a non fare nulla lo innervosiva a tal punto che non riusciva a far smettere la gamba di tremare. La sua non era normale preoccupazione, quello si chiamava perdere il controllo ed un come lui non era abituato a ciò: avrebbe preferito che gli tagliassero un arto, piuttosto. Solo lui avrebbe potuto uccidere William. Lo sapeva, ci aveva impiegato troppo tempo. Accidenti.
«Verdammt» sibilò pressando con forza la mano destra sulla coscia.
«Mi stai mettendo ansia», mugugnò Samantha concentrata con lo sguardo sullo schermo del computer.
«Samatha!» esclamò Trevor calando gli occhiali sul naso. «Il pallino! C'è un pallino!» ed ecco che in men che non si dica il corvino si era unito ai due.
«Dov'è? Devo andare a prenderla e poi staccare la testa a chi l'ha presa.»
Lo sguardo verde della ragazza dai capelli rossi gli si posò un attimo addosso, forse preoccupata poi inspirò. Claude non gli piaceva. «È in un magazzino abbandonato... lo conosco», mormorò.
«Bene. Ora tu, signorina, ti fai accompagnare a casa da Trevor che io vado a recuperare l'albina.»
«No!», protestarono i diretti interessati.
«T-tu non sai dov'è, posso accompagnarti!», propose Samantha.
«Devo costringerti con la forza, mh?»


Alexandre Leroy non sapeva come ci fosse finito, lì. O sì. Era tutto abbastanza confuso se provava a rifletterci e l'odore di sangue non lo aiutava benché sapesse resistere. Ricordava bene quel capannone e come la piccola Samantha e William si fossero perse in quel luogo: lui ed il padre dell'altra ragazza erano rimasti abbastanza sorpresi. Alla fine la situazione si era risolta per il meglio e quelle due canaglie avevano adottato quel capannone abbandonato come un luogo segreto dove incontrarsi.
Ma ora non sarebbe stato più così: in mezzo al pavimento polveroso vi era sua figlia William―non ferita gravemente, per carità, ma non sarebbe stata capace di mettersi seduta senza l'aiuto di qualcuno. Lui invece era in attesa, abbracciando una balestra, dell'arrivo di Claude. La tensione era palpabile ed il suo disagio poteva tagliarsi con un coltello se fosse stato un oggetto tridimensionale. Si sentiva anche abbastanza sciocco e per nulla un buon padre, in quel momento.
Poi in un battito di ciglia―il vampiro era già lì. Affinò lo sguardo e punto l'arma contro le spalle del corvino ora piegatosi verso l'albina, non aveva più bisogno del mirino. Sentiva qualcosa intorno a lui, qualcosa che lo intorpidiva, lo chiudeva in una scatola trasparente e lo aiutava a concentrarsi―senza, si disse, non riuscirei a fare nulla. Si ricordò: lui era un cacciatore, Dio, la balestra gli pesava quasi: era fredda, pesante, bollente allo stesso tempo ma il grilletto no, quello era fin troppo leggero ed aveva paura.
Paura di uccidere, condannare la persona a cui teneva di più.
Bastava così poco.
E proprio mentre veniva scosso da un momento di pace, abbassò l'indice.







* * *









Una settimana dopo, altro giovedì.
Cos'era cambiato, precisamente? Nulla. O... Claude era ancora più protettivo nei suoi confronti. Sapeva che era sbagliato pensarlo, ma trovava suo padre davvero un incapace: aveva avuto la schiena del vampiro servita su un piatto d'argento, quindi, perché evitare il cuore? Perché lasciarla ancora con lui? Anche Alexandre era sadico? Strinse la matita fra i denti, visibilmente nervosa: la presenza di Neru la mandava in subbuglio, la gola sembrava foderata di carta vetrata.
Nonostante non ne fosse sicura, pensava che il professore si rendesse conto del cambiamento che subiva l'albina ed anche lui non scherzava. L'espressione del ragazzo di faceva più seria e la voce pacata e calma come quella di un ipnotista; gli alunni della seconda G non potevano che prestargli attenzione, tutti tranne William. Uno sguardo in più verso il professore e sarebbe stata la fine, quindi continuò a sfogarsi torturando quella povera matita, osservando fuori dalla finestra le nuvole grige e minacciose compattarsi fino al suono della campanella.
Forse lei fu la prima ad uscire dalla classe, seguita da Samantha. Stavano scendendo le scale―ovviamente Nicole la fissava, ce l'aveva ancora con loro per non essersi presentate quel giovedì scorso, ma non potevano spiegarle ciò che era accaduto realmente.
«Comunque vedi di stare attenta.»
«Mh? Possiamo parlarne dopo? Magari per telefo... no», William abbassò lo sguardo. Si sentiva più leggere in effetti, ma non avrebbe mai pensato di dimenticare la cartella in classe!
«Oh, Will, hai dimenticato―!»
«Grazie dell'acuta osservazione, Sam», roteò lo sguardo, fermandosi facendo andare in confusione gli studenti dietro di lei come formiche spaesate, «puoi andare avanti ed avvertire Claude che arrivo tra un minuto?»
«No problem», la rossa oscillò non curante la mano riprendendo a camminare mentre l'albina, voltatasi, si faceva largo tra la folla.
Già una rampa di scale dopo, si presentava di fronte a lei la desolazione di una scuola priva di studenti. Si sarebbe data una mossa, ma di vedere il tedesco non ne aveva proprio voglia, piuttosto, si chiedeva quando suo padre si sarebbe deciso a farsi vivo o uccidere direttamente il vampiro. Istintivamente portò una mano al fianco a tastare da sopra la stoffa il punto in cui si era fatta conficcare un paletto―avvertiva la pelle ancora pericolosamente sottile e tutto ciò perché anche come vampira faceva schifo, perché non riusciva a bere il sangue e le sue capacità rigenerative erano poco superiori a quelle umane. Camminando per il corridoio, rifletté nuovamente su quanto tetra e deserta diventasse la scuola senza gli alunni a popolarla. Fuori le nuvole tenevano alla larga i raggi del sole, scure e pronte a riversare sulla città un bel temporale.
Uno strano brivido le percorse carezzevole la schiena fino alla nuca; deglutì in modo forzato e finalmente di fronte alla porta dell'aula la aprì con un colpo secco―contemporaneamente al tuono che rimbombò greve tra quelle quattro mura, subito dopo accompagnato dal lampo celeste.
Proprio quest'ultimo illuminò, spettrale, la figura seduta dietro la cattedra.
«P-prof!» boccheggiò l'albina retrocedendo.
«Willia―» Elijah si morse il labbro, «Leroy, hai bisogno di qualcosa?»
«No, ecco... in realtà ho dimenticato la cartella quindi sì», mosse velocemente qualche passo all'interno dell'aula, «l-la prendo e vado.»
L'altro annuì velocemente prima di sollevare nuovamente il viso dai vari documenti che occupavano la sua visuale, quindi inchiodò quei due frammenti d'universo impunemente sottratti dal cosmo sull'albina. «Potrei parlarti?»
«Ora?!»
Il ventiquattrenne aggrottò la fronte. «Non vuo―»
«N-no, voglio dire, certo», si sistemò in spalla la borsa e, seppur con riluttanza si avvicinò all'insegnante: troppe sensazioni insieme. «Mi dica.»
«Forse non è compito mio, ma ti vedo sempre parecchio distratta dalla lezione... va tutto bene?»
«Sì», soffiò stringendo la bretella della borsa, «ora... devo sul serio andare.»
Nonostante ciò. Nonostante quella frase, quello che in realtà desiderava in quel momento era del sangue, andava bene anche una goccia, una soltanto. E mentre si avvicinava a quel collo, la voce di Elijah veniva piacevolmente coperta dal battito del suo cuore. Mentre sentiva che la William umana avrebbe fatto un altro passo verso lo strapiombo fino a venir inghiottita―ecco che qualcuno la tirò per i capelli: Claude.
«Sapevo che ci stavi impiegando troppo tempo», mormorò tra sé e sé, «ma non pensavo che ci stessi provando con il tuo professore», ghignò.
«Non ci sto provando con nessuno, lasciami i capelli!» si lagnò l'albina senza staccare lo sguardo cremisi da quello del giovane principe.
Quest'ultimo stava già per alzarsi e magari darsela pure a gambe, scioccato ma comunque ancora inconsapevole di chi aveva, in realtà, di fronte.
«Riprendi un attimo la lucidità e lascia fare a me, mh?» quindi con nonchalance, scaraventò William al muro per concentrarsi sul ventiquattrenne tutt'uno con la parete.
«Stammi lontano!», ma, pronunciate queste parole, Claude era già ad un palmo dal suo viso―troppo vicino. Elijah, senza via di fuga, si limitò a deglutire il nodo che gli si era formato in gola e scostare lo sguardo da quello magnetico del vampiro.
«Eh no, devi guardarmi», sorrise Claude prendendogli il viso con una mano, comprimendogli le guance per costringerlo. «Non puoi muoverti e neanche urlare. Batti le palpebre se hai capito. Perfetto!»
Si voltò quindi verso l'albina, lasciando scivolare via la mano dal viso di Elijah; quest'ultimo avrebbe voluto correre via eppure nessuna parte del proprio corpo sembrava voler collaborare, poteva solo osservare―come la piccola preda di un'incantevole tigre bianca guidata dal perfido addestratore. La vide allungarsi sulle punte per poter raggiungere il collo eppure Claude la fermò ancora per indirizzarla sul polso del ragazzo, di quel povero manichino. Gli alzò la manica della camicia e porse l'arto all'eterna sedicenne.
Avvertì distintamente le punte dei canini aguzzi conficcarsi nella propria carne, il pungente dolore irradiarsi in tutto il braccio e la schiacciante sensazione d'impotenza stringergli le interiora: era come se la propria giovinezza venisse risucchiata via. La sentiva e non la sentiva, mentre chiudeva gli occhi, lasciava che la vita fluisse via da lui e pian piano esalava respiri sempre meno regolari. E proprio quando credette che avrebbe iniziato a vederci sfocato, la vampira si staccò―era tutto così irreale.


«Quindi sei passato da essere il mio ragazzo, a stalker... a tutore? Potevi inventarti qualcosa di meglio.»
Claude rise senza far rumore a quelle parole, svoltando con l'auto per addentrarsi nella vegetazione che circondava la villa. Poco dopo, molteplici gocce iniziarono a cadere sofficemente sul parabrezza dell'auto creando eleganti mosaici d'acqua.
«Mi ascolti?»
«No. Sono troppo concentrato a capire perché tu non abbia vomitato il sangue di quel tizio. Come ti senti?», spense l'auto, voltandosi verso l'albina.
«In colpa
«Suvvia, dovresti essere felice.»
William stava già salendo pigramente le scale, incurante della pioggia: i candidi capelli erano aderiti in più punti sul viso, come i vestiti sul corpo snello. «E invece no, credi stia bene?»
«Oh, cielo, devi esserti presa una bella cotta per preoccuparti così!» ribatté lui sogghignando.
La più giovane buffò, lasciandolo passare per aprire il portone, poi lo sorpassò. «Ti odio», mormorò quindi saltellando giù per i tre scalini come un piccolo pettirosso, frustando l'aria con i capelli e lasciando dietro di sé una scia di goccioline.
«Allora mettiti in fila», si limitò a cantilenare Claude chiudendosi il portone alle spalle.


Aveva iniziato a piovere, forse già da una buona mezz'ora.
L'unica cosa che poteva fare Elijah era ripararsi il capo con la propria valigetta in pelle, infischiandosene dei vestiti ormai più bagnati che asciutti. Sentiva la testa pesante, come se stesse per venirgli un forte mal di testa ed aveva l'impressione di dimenticare qualcosa―prima di farsi venire seriamente un'emicrania, arrivò al condominio dove aveva affittato un appartamento. Come da routine salutò la portiera e togliendosi la giacca fradicia salì le scale fino al terzo piano.
Aprì la porta con su appeso un cartellino di benvenuto ed una volta dentro l'aria satura di pioggia l'accolse quasi calorosamente―aveva dimenticato di chiudere le persiane la mattina, già. Sorrise al nulla, quindi si diresse verso la cucina dove poggiò su una sedia la giacca e su un'altra la valigetta. Allentò il nodo alla cravatta ed in seguito anche lui si sedette, sospirando.
In quelle giornate gli capitava di pensare a Synnøve, era certo che a lei, almeno, mancava la sua presenza―e forse la sorella Victoria si era pentita di aver sventolato la verità sotto il naso dei loro genitori... seh, a chi voleva prendere in giro? Quella vipera non aspettava altro per accaparrarsi il titolo di erede.
Uno starnuto, soffice, varcò le labbra dell'ex-principe, quindi decise definitivamente di togliersi di dosso gli abiti umidi e andare a fari una doccia calda.
Il lavoro di insegnante tutto sommato gli piaceva: in ventiquattro anni non era mani andato normalmente a scuola, come giusto che sia per il figlio del re di Norvegia: lui aveva degli insegnanti privati, di conseguenza insegnare in un liceo lo riempiva di una strana quanto genuina felicità. Questa felicità poco a poco scemava man mano che William Leroy continuava ad essere assente o, quasi con nervosismo, si girasse ovunque tranne che la lavagna o lui stesso spiegare l'argomento giornaliero. Quella ragazzina in qualche modo lo incuriosiva parecchio, parlarle era la sua priorità e proprio quel pomeriggio si era presentata una buona occasione per farlo... Aggrottò la fronte poi tirò indietro i capelli bicolore.
«Jævla1», mormorò mentre l'acqua tiepida delineava il profilo del viso ed i lineamenti del corpo, mentre i muscoli contratti e tesi potevano districarsi e alleviare per qualche attimo la strana tensione accumulata. Abbassava le palpebre e pur sforzandosi non riusciva a comporre quel puzzle che aveva in mente, ma piuttosto vedeva, come in un tunnel, due gemme verdi avvicinarsi, magnetiche come quel paio di labbra sogghignanti che avrebbe voluto tanto mordere.
Non posso permettermi certi pensieri...”, pensò poggiando la fronte sulle mattonelle fredde.








Jævla1= Accidenti.
  
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