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Autore: giulji    23/07/2015    1 recensioni
*Storia corretta e rivisitata nei primi capitoli, in modo tale che adesso, anche a coloro che non hanno letto la saga di Hunger Games, risulti una lettura comprensibile*
Questa fanfiction, ambientata in un survivial game, avrà come protagonisti la maggior parte dei personaggi presi dalla saga dello zio Rick, ricollocati sotto forma di tributi/sacrifici.
Il tutto averrà attraverso più punti di vista (POV).
Chi sarà il vincitore finale ? Chi morirà durante i giochi ?
In che circostanze ? Quali saranno le alleanze ?
Dal testo :
"... Nonostante la sua enorme voglia di lasciarsi cadere tra le braccia di Morfeo, affogando in un sonno privo di memorie, che lo avrebbe momentaneamente esonerato dalle tenebre che gli offuscavano perennemente il cuore, Nico non era invece riuscito ad addormentarsi nemmeno per un ora di seguito e le occhiaia violacee che gli contornavano lo sguardo già corrucciato ne costituivano una prova.
Sapeva che quella mattinata, non rappresentava infatti, l'inizio di un giorno comune, bensì quella maledetta giornata portava con se la consapevolezza che di li a poche ore ci sarebbe stata la fatidica mietitura per il distretto 13 dello stato di Panem..."
Genere: Azione, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Hazel Levesque, Leo Valdez, Nico di Angelo, Percy/Annabeth, Talia Grace
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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FRANK

Frank Zhang si svegliò in quel confortevole treno diretto a Capitol City, in preda al sudore ed all'affanno dovuto ai terribili incubi che lo perseguitavano da ormai parecchie ore.

Il giorno precedente era stato selezionato alla mietitura, ed in seguito a quello spiacevole evento, si trovava costretto a dover partecipare al famoso quanto orrido “gioco della fame”.

Quella notte, come conseguenza, la sua mente non si era risparmiata dall'avvolgerlo in realistici sogni riguardanti tanti cadaveri e fiumi di sangue.

Comunque non se ne sarebbe dovuto impressionare, dato che veniva dal distretto 2, il distretto degli armamenti, il distretto della formazione dei Pacificatori, il distretto dei “favoriti”.

Insomma, un luogo che offriva i più forti partecipanti dei giochi da generazioni or sono.

Eppure quell'anno, il nome maschile che era stato prelevato dalla teca di vetro, era stato proprio il suo.

E lui non era di certo come i ragazzi tipici e classici del 2, quelli tanto famosi a Panem per essere i più violenti ed i più bruti, lui era semplicemente un ragazzone robusto dotato di una scarsa muscolatura, un tipo mite ed anonimo, che possedeva un carattere molto impacciato ed introverso.

In genere, tutti gli anni, per i ragazzi del 2 era un vero e proprio onore esser scelti come “tributi”, tanto che la maggior parte dei bambini passava l'infanzia e l'adolescenza intenta ad allenarsi con le armi e con i pesi, in trepidante attesa del giorno in cui sarebbe giunta la loro memorabile mietitura.

La ragazza che era stata selezionata insieme a lui, Clarisse La Rue, ne era l'esempio vivente.

Lei si era offerta come volontaria al posto di una ragazzina di 13 anni ed era arrivata sul palcoscenico esultante e con un gran sorriso stampato in faccia.

Lui invece, incredibilmente, dopo esser stato estratto, non aveva ricevuto offerte di sostituzione da parte volontari.

Veramente non riusciva a capirne il motivo, era convinto di essere al sicuro al cento per cento, dal momento che qualcun altro avrebbe sicuramente preso il suo posto in quel distretto di esaltati pronti a far di tutto pur di partecipare ad una lotta, ma così, per sua grande sfortuna, non accadde.

Cercava di illudersi pensando che forse avendo visto la sua possente corporatura tutti i possibili volontari avessero creduto che Frank fosse abbastanza forte da donare un eventuale vittoria al suo distretto.

Però sapeva che pensarla in quello strampalato modo ottimista era solo un mero prendere in giro se stesso.

Sapeva che la cosa più probabile, era che tutti i ragazzi del suo distretto avessero fatto affidamento su Clarisse La Rue, e rimanendo pienamente fiduciosi , rispettosi ed intimoriti dalle capacità che quest'ultima ragazza aveva sempre dimostrato, avessero deciso di non arrischiarsi a partecipare a loro volta agli Hunger Games, dato che in un certo qual modo sarebbe equivalso a sfidarla, d'altronde era risaputo quanto lei non amasse gli affronti diretti.

In quel caso, lui non poteva biasimarli, quella ragazza era esattamente ciò che si poteva definire come “la pupilla del 2”: figlia di un ex campione, era sempre stata il capo indiscusso dei giovani che volevano entrare nei giochi.

Possedeva delle abilità da leader scarse da trovare in altri individui ed era un portento con tutte le armi.

Invece, a sfigurare dall'altra parte, c'era lui, la pecora nera del gruppo, quello che veniva preso in giro da tutti a scuola, la femminuccia e per di più il pietoso, piccolo e povero orfano.

Sua madre era infatti morta da Pacificatore, lasciandolo in balia del pretenzioso padre che si vergognava puntualmente di lui, perché era sempre “così imbranato”, ed ovviamente, questa sua situazione di svantaggio, era vista da tutti i bulletti del 2, come un buon appiglio per riuscire a far leva sui suoi sentimenti e ferirlo.

Inoltre, a prova del fatto che suo padre lo considerava alla stregua di una delusione, il giorno dell'estrazione, una volta giunto nella cabina, non aveva fatto altro che intimargli, e quasi minacciarlo, di vincere.

L'aveva sempre esortato a reagire, ma lui non ce la faceva, lui era fondamentalmente buono.

Frank quella notte l'aveva trascorsa a piangere e rigirarsi nel letto in balia della nostalgia e del panico.

Ad un certo punto, quando l'alba non era ancora sorta, si era alzato dal letto agitato, ed aveva cominciato ad aprire furiosamente tutti i cassetti dei vari mobili presenti nella sua perfetta camera.

Quando aveva trovato una pila di fogli ed alcune matite, nella prima anta del comodino, immaginando che fosse un segno del destino, si era affrettato a scrivere una lunga lettera di testamento ed addio verso il padre, simbolicamente verso la madre e verso tutte le persone con cui aveva degli affetti, più o meno consolidati, nel distretto.

La mattina, appena alzato, si diresse nel candido e lindo bagno adiacente, e si immerse nella doccia, cercando di calmarsi sotto il flusso costante e tiepido dell'acqua resa profumata dai vari sali.

Quell'azione, riuscì nel suo intento, e rapidamente, Frank riuscì a frenare i battiti smisurati del suo cuore, lasciando spazio ad una breve e vacua vuotezza della mente.

Avrebbe prolungato quegli attimi di “finta pace” all'infinito, se non fosse stato per la rumorosa ed altezzosa presentatrice che ad un certo punto lo distrasse dal suo stato d'animo, con il suo bussare ripetutamente sulla porta della stanza, esortandolo a muoversi nel prepararsi per riuscire ad arrivare in orario alla colazione.

Frank allora aspettò che se ne fu andata, e poi praticamente, si lanciò fuori dalla porta, aprendo rapidamente i vari armadi, in cerca di qualche vestito casuale da indossare.

Trovare la sua taglia tra quella fila netta di abiti, che sembravano estremamente nuovi, non fu un impresa facile, dato che a quanto pareva generalmente i tributi maschili dovevano essere molto più magri di lui.

Alla fine comunque riuscì ad afferrare due vestiti, che infilò in maniera talmente rapida, che si accorse tramite il riflesso del finestrino di aver messo al contrario.

Dopo essersi sistemato, corse verso la sala da pasto, accompagnato in quei confusionari corridoi del colore del mare, da una delicata e giovane cameriera che aveva avuto il piacere di conoscere la sera prima, quando gli aveva servito le portate della cena, e che probabilmente, avrebbe rincontrato in qualunque caso, anche a colazione.

Tecnicamente, i due non potevano interagire tra di loro, per via della loro “differenza di ranghi”, ossia di tributo e senza-voce, ma lui, infischiandosene di quelle stupide imposizioni, le rivolse un timido “buongiorno”, che venne ricambiato da una sua malinconica occhiata che si sforzava di sembrare felice.

L'unica interpretazione che trovò fu che probabilmente anche lei aveva capito che era già spacciato.

Una volta giunto nell'invitante sala in cui aveva già mangiato il giorno prima, ammirò lo spettacolo che si presentava sopra il largo tavolino in legno, ossia un' esposizione enorme di cibi, la maggior parte appartenenti al gruppo dei lipidi, come i succhi, le brioche, le paste e le torte, che fecero venire istantaneamente un impellente acquolina in bocca al ragazzo.

A ridestarlo dai suoi pensieri, trovò la sua compagna di distretto, che a quanto pareva, era già sveglia ed intenta a divorare un caldo panino imbottito di carne di manzo macinata.

A quella vista deglutì a fatica, trovandola una scelta un tantino azzardata, di prima mattina, ma lei sembrava non curarsene, mentre manteneva i piedi poggiati sul tavolino, accanto al piatto, e gli lanciava un espressione di sfida cheera già stampata sul suo volto appena sveglio.

Si lamentò per la lentezza del ragazzo e gli diede un leggero colpo di gomito sulla testa.

Poi, non gli rivolse più la parola per tutto il pasto, continuando a concentrarsi voracemente sulla sua colazione.

Frank proveniva da una famiglia più o meno benestante, il lavoro da addestratore di suo padre veniva ben retribuito e lui non si era mai lamentato, sopratutto confrontandosi con la miseria che aleggiava negli altri distretti ed anche in molte famiglie dello stesso 2.

Comunque, quel treno così decorato, fastoso e ben fornito, era una cosa veramente sorprendente ed esagerata anche per il ragazzo, che non aveva smesso un attimo di guardare con aria affascinata ogni singola particolarità dell'arredamento.

Clarisse La Rue, invece, faceva parte di una delle famiglie più ricche del distretto, suo padre era stato campione nella decima edizione degli Hunger Games e da quel momento in poi il governo aveva provveduto a risarcirlo con grandi ed importanti somme.

Frank non era neppure sicuro che per la ragazza potesse fare qualche differenza tutto quel lusso.

Di certo, lei non assomigliava minimamente alle classiche riccone figlie di papà di Capitol City, quelle stesse donnicciole che portavano egocentrici vestitini ornati da fiocchi e si tingevano i capelli dei colori più impensabili, facendosi allacciare anche le scarpe dai badanti perché troppo “viziate”.

Clarisse era il classico maschiaccio, Frank non l'aveva mai vista portare una gonna, e mai si sarebbe aspettato di immaginarsela con un simile indumento addosso, portava sempre abiti semplici e comodi per fare attività fisica ed il suo unico segno di distinzione, minimamente femminile, era la perenne bandana rossa che gli teneva sollevata la chioma castana. Personalmente pensava che lei stesse molto bene con il suo classico stile trasandato.

Rimasero tutta la giornata chiusi in quella camera, intenti a ripassare attentamente le varie proiezioni degli Hunger Games che erano trascorse e le varie strategie compiute dai vincitori, edizione dopo edizione, con la mera compagnia dei loro mentori, due fratelli palesemente allegri per la prospettiva dei giochi, che dimostravano particolare fiducia ed aspettativa per Clarisse e particolare noncuranza per Frank.

Poi, giunse il momento delle domande private e, per quanto gli riguardava, sarebbe andata bene anche la presenza di Clarisse durante le sue risposte, ma lei sembrava contraria ed aveva insistito per compiere quel processo separatamente.

Il fatto un po' lo rasserenò, probabilmente perché, per una strana ironia della sorte, La Rue era l'unica a non darlo già per morto e quindi a non fidarsi ciecamente della sua incapacità, ma anzi, forse lo temeva almeno un pochino...

Comunque lui rispose in tutta sincerità al suo annoiato mentore, affermando di esser abbastanza “forte” da saper sollevare grandi massi, in quanto dopo la scuola gli capitava spesso di andare ad aiutare il padre nella fabbrica di armi ed a volte c'era bisogno di due braccia in più per trasportare grandi pesi, e lui, nolente o dolente era costretto ad “offrire” il suo aiuto.

In più, sin da piccolo aveva nutrito una grande passione per il tiro con l'arco e sicuramente riteneva di poter riuscire a sopravvivere eventualmente nell'arena, solo grazie ad esso.

Ovviamente la sua adorabile addestratrice gli scoppiò a ridere in faccia quando udì le sue parole, sostenendo fermamente quanto l'arco “fosse una cosa da ragazzine del distretto 10” e non certo arma da possente 2.

Il ragazzo arrossì a quella specie d'insulto, sentendosi toccato, dal momento che quelle erano le medesime parole che gli ripeteva il padre ogni volta, ma cercò di mantenere ugualmente un atteggiamento composto, ascoltando i soliti banali consigli della donna, che tecnicamente avrebbe dovuto salvargli la vita.

Avrebbe cercato di imparare più cose gli era possibile e si sarebbe soffermato sull'uso della lancia per il combattimento corpo a corpo, dato che aveva come vantaggio, una buona mira.

Inoltre, tutti quei discorsi non erano così rilevanti per il ragazzo, che al momento, stava, prima di tutto, cercando di accettare con enorme sforzo l'idea di dover sopravvivere uccidendo, obbiettivo che proprio non gli riusciva di digerire.

Era certo che non si sarebbe lasciato morire senza fare niente, ma non comprendeva neppure la possibilità di dover troncare delle vite.

Continuava ad aggirarsi per i corridoi dal pavimento soffice del treno, come uno zombie, con l'umore sotto i piedi e delle occhiaia quasi nere.

Comunque lui sembrava l'unico ad esser anche minimamente di cattivo umore su quel veicolo, perché sia la presentatrice che i mentori, che la possente Clarisse, sembravano spensierati come degli scout che stavano partendo per il loro primo campeggio all'aria aperta.

Ogni volta che incontrava la ragazza non poteva fare a meno di rivolgerle un occhiata più rassicurata, perché stranamente l'aura rosso fuoco di Clarisse riusciva a trasmettergli speranza.

Una cosa alquanto controproducente dal momento che quasi sicuramente alla prima occasione lei stessa l'avrebbe squartato a mani nude, durante i giochi.

Comunque la ragazza non si faceva troppi problemi e ricambiava titubante quel saluto con un secco movimento del capo. Personalmente, lui si sarebbe sicuramente fatto scrupoli nel pensare di uccidere anche Clarisse, che per quanto temuta, in fondo gli pareva una brava ragazza.

Un paio di volte l'aveva anche scorta dentro il salone da pranzo, intenta a leggere libri di teoria con un percettibile strato d'ansia. Libri che puntualmente trovava spiaccicati a terra o contro il muro.

Comunque cercarono di evitarsi il più possibile, dato che in teoria non avrebbero dovuto creare rapporti di nessun genere con il “nemico”.

Ogni tanto a Frank venivano degli attacchi di disperazione, ed era costretto a rifugiarsi velocemente nella sua camera, dove scoppiava a piangere sommessamente sopra il cuscino, sperando di non farsi sentire da nessuno.

Era in quei momenti che lui cercava di non arrendersi psicologicamente ad una morte certa, stava addirittura pensando che con il tempo sarebbe riuscito realmente ad uccidere qualcuno per mera sopravvivenza. Prima accettava questa possibilità e meglio sarebbe stato per la sua vita.

Mangiava sregolatamente ad ogni ora che passava sul treno, per via del nervosismo, e passava il tempo a pendere dalle labbra del suo mentore e di qualsiasi altra fonte di consiglio avesse sottomano.

Comunque mangiare tanto, non gli avrebbe fatto male, doveva racimolare una buona scorta di cibo all'interno del suo corpo, dal momento che con ogni possibilità sull'arena avrebbe patito la fame.

Il giorno prima dell'arrivo alla fatidica Capitol City, il ragazzo andò a dormire verso le sei di sera, cercando di riuscire ad appisolarsi subito, recuperando in questo modo tutte quelle ore di sonno che aveva passato in uno stato di soffocamento a causa dei tetri sogni seguiti da pianti.

Purtroppo, riuscì a dormire per due ore soltanto, dato che in seguito fu costretto a svegliarsi per un ennesima volta, a causa di un terribile incubo.

Questa volta aveva sognato di trovarsi già nell'arena.

Sorprendentemente in questa proiezione della realtà lui era riuscito a sopravvivere, troncando molte vite in nome della sua resistenza, senza patire nemmeno degli atroci sensi di colpa.

Gli mancava un solo tributo e sarebbe diventato il campione annuale, e per altro, battere quest'ultimo si prospettava come un gioco da ragazzi.

Dopo aver vagato per un po' in dei fitti boschi, trovò il suo ultimo e fatidico rivale intento a sistemare una trappola per animali, inchinato sulla radice di una albero, con la schiena curva e di spalle, completamente indifeso.

Frank pensò immediatamente di approfittare di quel suo enorme svantaggio.

Si testò le tasche e le spalle, in cerca di un possibile arma, che trovò quasi subito, posizionata come tracolla.

Con se aveva un leggerissimo arco di legno, simile a quello che aveva sempre sognato di ricevere durante l'infanzia.

A quel punto, senza doversi neppure avvicinare, caricò precisamente la mira, estraendo una sottile e ben calibrata freccetta scura, scoccò il tiro.

L'avversario venne presto trafitto dall'oggetto, che lo colpì proprio in mezzo alle costole.

Appena subito l'impatto, la vittima cadde a terra in una pozza di sangue, che preannunciava la sua morte, probabilmente per dissanguamento.

Frank stava per esultare, era diventato un vincitore, quando però la il cambio di scenario gli fece cambiare idea.

Ruotando di quaranta gradi il corpo, in preda ad un' atroce sofferenza, il tributo si girò, mostrandogli il volto agonizzante, ed il ragazzo, scoprendo quei lineamenti, delicati quell'espressione ferita, e quegli occhi penetranti, scoprì che quella persona altri non era che sua madre.

Un urlo acuto percorse il suo corpo, passando dall'interno dello stomaco, e lui si risvegliò preda del fiatone e ad un battito cardiaco irregolare. Quella visione era stata qualcosa di veramente raccapricciante.

Posò i suoi occhi mossi da fremiti di paura sullo svariato mobilio presente in quel luogo, soffermandosi sulla faccia cruda e scura dei vari ritratti che sembravano fissarlo dritto negli occhi.

Quasi balzò a terra dall'enorme letto ricamato, quando si rese conto che la porta della sua stanza era aperta e che c'era Clarisse che lo fissava a sua volta, appoggiata comodamente allo stipite dell'entrata, con le braccia incrociate, ed il viso illuminato dalla flebile luce proveniente dal corridoio, nella penombra.

“Mi spieghi che hai da strillare come una ragazzina OGNI singola notte?” gli chiese aggressivamente, con le sopracciglia corrucciate in una smorfia di stanchezza.

Frank balbettò una risposta, giustificandosi con l'affermazione di un insonnia ereditaria e lancinante, ma non essendo poi tanto sicuro di volerla irritare ulteriormente con le sue parole,, si zittì quasi subito, abbassando sconsolato la testa.

Clarisse scosse energicamente il capo, scrocchiando i pugni, cercando forse di incutere fermezza agli occhi timorosi dell'altro tributo.

“Non me ne frega realmente! Era una domanda retorica, ovviamente.

Comunque, lascia che ti dica una cosa: ti conviene goderteli questi ultimi giorni di “felicità”, magari cercando di ragionare con l'istinto, e non con le emozioni, sennò per te sarà veramente la fine.

Ed inoltre, evita di fare questi piagnistei anche sull'arena, sennò i partecipanti udendo i tuoi urletti da mammoletta ti individueranno in un batter d'occhio, ed a quel punto non riuscirai a vivere neppure per un giorno di seguito.

Sia chiaro che questo non è in alcun modo un tentativo di rassicurazione. Anzi ti avverto che ti conviene fare silenzio o la prossima volta che mi sveglio a causa tua, ti uccido prima di averti dato la possibilità di metter piede nel campo di battaglia, quindi probabilmente ti farei anche un favore” proseguì Clarisse con occhi accusatori, passandosi un dito sul collo per far recepire meglio la sua minaccia.

Poi, senza ascoltare la risposta di Frank, sparì nel buio situato al di fuori di quel luogo, silenziosa come al suo solito.

Frank dopo essersi ripreso da un attimo di smarrimento, si affrettò a scendere dal materasso ed a raggiungere la stretta porta arancione, ma quando si affacciò sui corridoi esterni, Clarisse era già fuori portata per la sua visuale.

Decise che sarebbe andato comunque a dormire, senza provare a cercarla o tanto meno seguirla fino in camera sua, non voleva che la sua ultima frase fosse veramente attuata.

Si sedette su un divanetto, ancora stralunato, e si rese conto guardando il suo riflesso nel finestrino che aveva le gote arrossate, e si sentiva incredibilmente sollevato.

Clarisse sosteneva di non aver voluto assolutamente rassicurarlo, ma a lui le sue parole erano parse tanto come un incoraggiamento a non mollare.

Pensò che se veramente Clarisse aveva riposto un briciolo di fiducia in lui, forse era il caso che desse veramente il massimo.

Ringraziò la ragazza mentalmente, provando a riposizionarsi sul letto, intenzionato nuovamente a dormire, molto meno agitato di prima.

Quella sera infine, riuscì a non patire più le consuete ed insopportabili speculazioni programmate dal suon cervello, bensì dormì bene, cullato da un sonno vuoto e privo di sogni.

All'alba del giorno dopo, ritornò a riflettere sull'uscita compiuta da Clarisse qualche ora prima, e questo, oltre che trasmettergli il solito senso di contentezza, lo portò anche a vacillare nell'inquietudine.

Davvero aveva pensato che sarebbe riuscito ad uccidere quella sua compagna di distretto?

Davvero sarebbe riuscito ad uccidere un qualsiasi altro tributo?

Cercò di seppellire ed ignorare quelle assillanti domande che lo stressavano senza tregua, intenzionato a rimandare l'inevitabile.

Quasi sicuramente il suo inconscio era certo che lui non ce l'avrebbe fatta, ma altrettanto lo era sul fatto che non si sarebbe arreso facilmente.

Quella mattina, quando prima ancora di svegliarsi, gli frullarono in testa questi pressanti pensieri, si accorse che qualcosa era cambiata nell'aria, tanto quando notò che il fievole ma presente rumore del treno che viaggiava, era cessato.

Si tolse l'ingombrante copriletto, ancora in dormi veglia, e si staccò da quella postazione, rabbrividendo per il contatto freddo che recepirono i suoi piedi poggiandosi sul pavimento.

Cominciò a camminare verso il finestrino, ancora oscurato dalle grosse tende che aveva abbassato il giorno prima, intenzionato ad assicurarsi se il veicolo si fosse fermato o meno.

Solo quando con il semplice gesto di spostare quei veli, riuscì a scorgere il paesaggio surreale, il fiato gli si mozzò in gola, ed il suo corpo si irrigidì in maniera istantanea.

Quello che si stagliava davanti ai suoi occhi era un luogo quasi fiabesco, un misto tra tecnologia ed antichità, tradizione ed avanguardia.

Palazzi pieni di esuberanza ed un architettura unica ed asimmetrica si stagliavano nell'orizzonte, di diversi colori, forme e dimensioni.

In aria volavano dei piccoli macchinari elettronici, che probabilmente riconobbe come rarissimi hovercraft, ma a cui nessuno in quel posto sembrava badare.

Poteva vedere in lontananza delle personcine dagli insoliti mantelli di pelliccia camminare e vantare i più strani accessori, alcuni a piedi, alcuni su delle carrozze, altre su dei mezzi di trasporto che non riusciva a riconoscere, che creavano delle chiazze più chiare in quell'enorme tela che sembrava fosse stata ideata da Pollock.

Tutto in quell'immagine sprigionava sfarzo, ed a Frank, bastò respirare quella fresca area rosata per capire che erano finalmente giunti nella bella quanto dannata Capitol City.

 

   
 
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