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Autore: lady dreamer    06/08/2015    3 recensioni
Prendete una giornata di sole, aggiungete un artista concettual-impegnato poco disposto a farsi intervistare - Sherlock - e un giornalista del Times - John - che deve fare un vero e proprio scoop se vuole mantenere il posto di lavoro. Aggiungete un atterraggio inaspettato all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi, una mostra da organizzare, un pazzo criminale sempre in agguato e mischiate energicamente con la promessa di grandi avventure. Salate con inseguimenti e battute sagaci e pepate con relazioni inaspettate. Riversate tutto su un file word e... ecco quello che ne esce fuori!
Genere: Comico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il pittore dipinge su tela. I musicisti dipingono invece i loro quadri sul silenzio.
Leopold Stokowski
 
Arte contemporanea
Capitolo VI



Pare che Sherlock Holmes abbia appena trovato una giustificazione accettabile per cambiarti il guardaroba e far sparire il tuo adorato maglione beige. 

Ti ha trascinato fuori da un museo. È questo di per sé la dice lunga. Hai avuto modo di capire quanto Sherlock sia ossessionato dall’arte. Temi che non sia affatto intenzionato a soprassedere, ma non riesci ad esimerti da un tentativo di dissuaderlo, per quanto possa rivelarsi infruttuoso. 

- Mi spiega che problema ha il mio abbigliamento?

Sherlock ti riserva uno dei suoi sguardi più saccenti e indagatori. - Quand’è stata l’ultima volta che è andato ad un concerto?

Assumi l’aria pensierosa e sciocca insieme di quando si guarda da un’altra parte per ricostruire un ricordo sfuggente. - Beh… sono stato ad un concerto degli U2 nel…

Sherlock si schiarisce appena la voce, esprimendo tutto il suo disappunto. - Un concerto di musica classica.

In questo caso la situazione si complica, non hai nulla da raccontare. E non sapresti mentire. Non sei mai stato un estimatore di Mozart, Beethoven e compagnia bella, forse perché nessuno ti ha mai spinto ad ascoltarli sistematicamente e farti una cultura in materia. Ed è sempre stato un tuo rimpianto. Sherlock invece suona il vìolino, dev’essere un appassionato, e questa è l’ennesima differenza che vi divide. - Ehm…

Sherlock ti guarda come farebbe un genitore con un bambino scoperto a non fare i compiti che gli sono stati assegnati a scuola. Come se, così facendo, avessi tradito la tua fiducia. - Lei non è mai stato ad un concerto di musica classica, ovviamente. 

Sembra proprio che, stando in compagnia di Sherlock, tu ti debba sentire uno sciocco, un ignorante o un ottuso. Tutte cose che non sei. Rispondi con amarezza. - Non sono tenuto a…

Ma per una volta l’artista non sembra volerti far pesare più di tanto questa tua mancanza, maggiormente interessato ad estorcerti l’assenso a fargli scegliere il tuo abito per questa sera. - Quindi non sa come ci si veste.

Purtroppo non puoi dargli torto, ha ragione, non sei mai stato ad un concerto di musica classica, ma... - Ma io…- cerchi di protestare. 

Sherlock è estremamente serio, continuando a camminare sul lungo Senna, in attesa di raggiungere il ponte per passare sulla rive droite. - Non possiamo fare brutta figura, lo sa? Ci sarà la stampa.

Cerchi di sviare l’argomento, ironizzando: - Non c’è sempre?

Sherlock non accenna neanche un sorriso, per niente divertito. - Lei non è la stampa. È il mio assistente adesso.

- Ma alla fine mi deve un’intervista.

L’artista sorride incredulo. - Con molta probabilità avrà materiale per un romanzo, e mi vorrà ancora intervistare?

Il sorriso sul tuo volto è invece amaro. Sai che forse la sua è solo una provocazione, ma sa del tuo sogno di diventare uno scrittore e poi ti guarda con ingenuo coinvolgimento... Non vuoi pensare che ti sia prendendo in giro. - Mi pagano un’intervista, non un romanzo.

Sherlock risponde senza pensare, continuando a guardarti benevolmente. - Lei si sottovaluta.

Non vuoi iniziare questo discorso. Non adesso. Dovresti tirare fuori altri ricordi del tuo passato. Altri fallimenti. Cambi repentinamente discorso. 

- Lei mi blandisce perché vuole costringermi a vestirmi come un damerino. 

Sherlock capisce, gli basta un’occhiata, mentre continua a camminare al tuo fianco, e finge di essere inconsapevole della tua strategia. - Non ho bisogno di blandirla per questo. Non la fanno entrare se viene vestito così. 

Ti sembra esagerato. Non è un’udienza con la Regina e famiglia reale al completo. E poi sicuramente nessuno farà caso a te, sarai uno dei tanti pedoni sacrificabili sullo scacchiere della serata.  - Mi guarderebbero male, al massimo, ma mi farebbero entrare.

Peccato che Sherlock sia fin troppo abile nell’individuare le argomentazioni più varie ed adatte per le diverse situazioni. - Vuole che nel guardare male lei, guardino male anche me?

Sarebbe immensamente difficile. Non potresti mai con un tuo maglione, per altro bello, eclissare l’eleganza innata di Sherlock Holmes. - Così vuole che la assecondi per pietà?

Ti guarda con l’esasperazione di un genitore stufo di discutere. - John. La prego. 

Un sorriso malandrino si forma presto sulle tue labbra. - Mi prega?

Sherlock continua a camminare come se niente fosse, le mani in tasca. - No.

Insisti, divertito. - Mi stava pregando?

Ti lancia un’occhiataccia. - No.

Eppure non te la sei detta da solo quella frase. - Mi ha pregato?

- No. Si. La smetta.

E per una volta sei tu quello che ride beffardo. - Si sta sbilanciando un po’ troppo, non trova?

Ma prendere Sherlock in contropiede è forse impossibile, perché rilancia. Anche davanti all’evidenza. - E in che cosa mi starei sbilanciando?

Ma in questa maniera riesce, e non credi che non l’avesse calcolato, a far sbilanciare te. Il filtro che finora ha bloccato le affermazioni di questo genere deve essersi rovinato. Forse irreversibilmente. E ti scappa, tutto d’un fiato, guardandolo negli occhi, un sicuro: - Sta dimostrando che ci tiene a me.

Se a te basta aver insinuato una cosa del genere per avvertire un forte desiderio di scomparire, sembra che non basti per togliere la parola a Sherlock Holmes. - È il mio assistente. È ovvio che non voglia che mi faccia sfigurare.

È incredibile la sua capacità di cavarsela sempre. Ma questa volta hai intenzione di ottenere una, seppur modesta, vittoria. - Al punto di supplicarmi?

Il suo sguardo si fa d’un tratto serio, più intenso. - Sta giocando con il fuoco, John. Ma io so come evitare di bruciarmi. Lei no. 

Non capisci. Per una frazione di secondo pensi che si riferisca a emozioni...sentimenti? Ma ricacci subito indietro quest’insinuazione. Capisci che ancora una volta c’entra il Cavaliere Azzurro. E qualcosa che non ti vuole dire. 

- Non so cosa nasconda. Ma mi rendo conto che ci dev’essere dell’altro.

Sherlock ti riserva il suo ennesimo sguardo strafottente. - Cosa pensa di aver capito?

- Lei non è l’unico ad avere un paio di occhi per guardare in giro e sparare sentenze.

- Lei guarda ma non osserva, John. -sussurra, quasi tra sé e sé, con impercettibile dolcezza. 

- Basta fare caso al rapporto che ha con i quadri… come li accarezza con lo sguardo, prima di immergersi completamente nel soggetto e naufragare per un attimo in mezzo alle pennellate. Torna a galla sempre stravolto, Sherlock, come se ogni volta stesse per affogare in tanta bellezza. E ogni volta teme di ammettere a se stesso che non sarebbe così male perdersi e non ritrovarsi più… smarrirsi nell’arte.

Alza le spalle, stupito ma non convinto fino in fondo. Del resto, sono osservazioni abbastanza vaghe e a cui non è difficile arrivare. - Lo fa sembrare un segreto.

Ma deve lasciarti finire. - Ed ha lo stesso identico atteggiamento quando delle volte si perde nei suoi pensieri, in qualche remota stanza piena di polvere nel suo Palazzo Mentale. Guarda il vuoto davanti a se, come se si materializzasse il passato davanti agli occhi, e vi si perde, come per l’arte… e come per l’arte, sa quanto sia pericoloso correre il rischio di smarrirsi nei propri ricordi.

Nel suo sguardo una rara espressione genuinamente sorpresa. Ti fissa con i suoi occhi grigio azzurri, come se ti vedesse per la prima volta. Ma dura solo un’istante. L’allarmata dolcezza del suo stupore viene velocemente sostituita da un’espressione sicura e misteriosa insieme. - Finora non mi sono mai perduto.

Gli sorridi. Ti è sembrato strano vederlo così smarrito, anche se solo per un istante. - Io non glielo permetterei. Mi ha voluto qui per questo, no?

Sherlock Holmes non arrossisce, ma per un attimo distoglie lo sguardo, le orecchie e le guance meno pallide del solito. 
Quando torna a guardarti cambia radicalmente argomento. - Che dice, entriamo in questo negozio? 

- Se proprio dobbiamo. 

***

Sherlock esamina attentamente e con molta perizia gli abiti eleganti e fin troppo costosi esposti in una sartoria in pieno stile parigino, in cui ti ha costretto ad entrare. Un giovane commesso si era gentilmente proposto di mostrarvi gli abiti e di consigliarvi nella scelta, ma Sherlock lo ha licenziato alla svelta, facendogli capire con una dose insolita di tatto che avreste saputo cavarvela da soli. Oddio, tu non sapresti proprio cosa fare se non ci fosse lui a scartare tipologie di abiti, tessuti e fantasie varie... E anzi, faresti più felicemente a meno di tutto questo, se Holmes non ci tenesse tanto da costringerti. 
Se lo sguardo di Sherlock è quello dell’esperto che osserva, esamina l’abilità del taglio e saggia la qualità dei tessuti utilizzati, tu ti guardi intorno come frastornato, perso in mezzo a giacche, pantaloni e camicie così seri che pensassi si mettessero solo ai matrimoni e ai funerali. 

Sbuffi, cercando vanamente una via di scampo.  - A me questa roba non sta bene.

Sherlock si volta verso di te, smettendo per un secondo di scorrere le grucce dei completi sullo stand che stava esaminando. Ha uno sguardo tra il sorpreso e il divertito. - E chi gliel’ha detto? 

Il commesso è visibilmente incuriosito dal vostro breve scambio di battute, vi osserva, ostentando discrezione. Abbassi il tono di voce, per evitare di farti ridere dietro anche da lui. - Me lo dice lo specchio! Sono troppo basso. 

Sherlock ti guarda serio e composto come sempre, ma sul suo volto un vago sorriso. - Ma per favore… sono tutte scuse.


***

Non volevi dargli ascolto, e hai trovato molto antipatico che non ascoltasse le tue proteste, porgendoti altre camicie o altre giacche, o altri papillon. Non ti piace fare compere. Non ti è mai piaciuto. Ti accontenti di comprare un paio di maglioni o di camicie a stagione, un paio nuovo di pantaloni, quando ti servono, e un giubbotto ogni tre, quattro anni, e stai apposto. 
Non che tu abbia mai avuto un gran budget a disposizione, da spendere. 
Invece Sherlock sembra del tutto incurante dei cartellini dei prezzi, come se fossero lì per sbaglio. E non fossero importanti. Sceglie con la velocità di un esperto di moda, scartando con un veloce gesto del capo quello che non lo persuade. 

Hai provato un gessato che non è piaciuto a nessuno dei due. Tu hai cercato di fare pressione in favore di uno spezzato, sperando di poter mantenere i jeans sotto la giacca, ma Sherlock ha risposto con un secco “no” e negli occhi lo sguardo di chi non transige. 

- Ma io…

- Non ammetto lamentele. Con i jeans non si può andare ad un concerto di musica classica, tranne se non si abbia sotto i trent’anni. 

Lo fulmini con lo sguardo, contrariato. - Ma io ho trentacinque anni, non ottanta.

Lui ti passa l’ennesimo completo. - Non importa.


***

Sherlock ha chiesto a Trevon di procurargli due biglietti per il concerto di stasera allo Chatelet, ottenendo una telefonata in cui Victor, con voce trafelata, ha rischiato il licenziamento, perché pare non esserci nessun posto libero. Prima di condannare alla gogna il malcapitato, Sherlock ha poi contattato Mycroft che ha scoperto, con mezzi che non vuoi conoscere, l’intera lista di chi aveva acquistato i biglietti per lo spettacolo. Tra loro, fortunatamente, Irene Adler. 
 
La donna, vestita di un aderente tubino bianco, un copri spalle a maniche corte, con grandi bottoni candidi sul davanti, i suoi soliti tacchi vertiginosi, vi accoglie nella sua galleria con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra rosse. 

- Chi si rivede… la nostra coppietta preferita… 

Sospiri impercettibilmente. Ormai hai capito che con quella donna non vale la pena protestare. 

E ti stupisci quando lo fa Sherlock. - Irene, John non gradisce di queste insinuazioni.

Lei sorride maliziosa. - E da quando ti preoccupi degli altri?

Sherlock glissa elegantemente. - Dovresti sentirlo quando mi rinfaccia il contrario. Cambieresti idea.

Anche Irene per una volta decide di non insistere. 

- Sono addolorata di non poter venire a teatro. I biglietti li avevo presi per me… e un mio amico.

Sherlock prende i biglietti che Irene gli porge con ostentato rammarico.
- Andate da Maxime a nome mio.

Lei accenna un sorriso. - No, non te la cavi così. Diciamo che mi devi un favore, poi sceglierò io.

Sherlock annuisce, ringrazia e uscite. 

***

È passata una buona mezz'ora da quando, vestito di tutto punto, ti sei parato davanti allo specchio. Hai un semplice completo blu scuro, giacca, pantalone e papillon. Classica camicia bianca. Non stai male ma... 

La voce di Sherlock al di là della porta del bagno. - John?

Continui a bofonchiare davanti allo specchio. - Sono ridicolo.

- Venga fuori.

Prima c’erano le scarpe scomode, il papillon a soffocarti, il disagio di essere vestito inutilmente da pinguino. Poi sei uscito dal bagno, abbandonando le tue insicurezze sullo specchio. 

E poi semplicemente Sherlock. 

È elegantissimo. Indossa uno smoking nero, con i revers in satin. La camicia bianca a collo diplomatico con papillon nero. Una pochette bianca nel taschino. Scarpe Oxford nere, allacciate. 
Porta l’abito con l’elegante indifferenza dei suoi capelli ricci e vagamente ribelli. Con la ridente strafottenza dei suoi occhi tra l’azzurro e il verde. E tra il verde e il grigio. Tra il mare d’inverno e i prati verdi di sole, a maggio.
Il corpo rilassato in quel vestito elegante, unito all’altezza statuaria del giovane, al suo sguardo misterioso e assorto, fanno di Sherlock Holmes l’uomo più attraente che tu abbia mai visto. 

- Lei è bellissimo.

Ti è sfuggito, senza che il Super Io potesse censurarlo. Lo trovi affascinante. Ed è così. Punto. Purtroppo non servirebbe a niente negarlo. Ma ti mordi istintivamente la lingua dopo averlo detto, ad alta voce, nel silenzio più totale, con quell’espressione di totale ammirazione sul volto, per giunta a lui. Vorresti sparire dalla faccia della terra. Ma continuare ad avere la possibilità di guardarlo. Bello com’è ora, per sempre. 

Cerchi goffamente di rimediare al danno fatto. Di insabbiare il tuo interesse. Di offuscare qualsiasi cosa la tua mente abbia pensato, o anche solo sfiorato con l’immaginazione. - Cioè, il suo vestito. Il suo vestito è molto elegante.

Ma Sherlock ostenta sicurezza, infischiandose di quello che hai appena detto, rispondendo al tuo istintivo apprezzamento. - Anche lei sta molto bene. 

I suoi occhi nei tuoi. E questa volta vorresti morire. - Grazie. 

John. Stai arrossendo. Senti il sangue fluirti rapido e inopportuno in faccia. 
Sospiri invano, mentre Sherlock finge di non accorgersene.

***

Il teatro Chatelet è una costruzione sobria ma elegante al centro di Parigi. 
L’atrio è pieno di gente ben vestita e chic, donne in abito lungo e uomini in giacca e cravatta o in smoking, qualcuno persino in frac. 

Ringrazi mentalmente Sherlock di non averti permesso di presentarti in jeans e maglione. Dire che ti saresti vergognato anche solo di respirare non è un eufemismo. 

Sherlock è elegantissimo e dannatamente affascinante. E ti mordi ancora la lingua per averglielo detto, prima. Eppure… era la verità. I suoi riccioli scuri sono l’unico elemento di scompiglio nel suo aspetto impeccabile. A te lui sembra un dio sceso in terra, Apollo in persona.
Ma ai suoi occhi tu devi sembrare terribilmente banale ed ordinario.
Perché di certo non basta un completo elegante a farti sembrare affascinante. 

Sherlock sembra aver abilmente intercettato i tuoi pensieri mentre man mano acquistavano consistenza nella tua mente. Aggrotta appena le sopracciglia, come se si stupisse di trovarti così insicuro. - Deve smetterla di autocommiserarsi.

Non sei mai stato un uomo vanitoso, e neanche da ragazzo passavi molto tempo davanti allo specchio. Col fatto di non essere molto alto sei sceso a patti da adolescente, e non ti sei mai ritenuto brutto, anzi il successo che riscuotevi con le ragazze ti metteva al riparo da ogni tipo di fisima. Ma con Sherlock è diverso. Lui è sempre eccessivo. Nei commenti che fa. Nel successo e nel prestigio di cui gode. È ovvio che tu ti senta in difetto. 

- Io non mi autocommisero.

Sherlock accenna un sorriso corrucciato. - Dalla sua espressione sembrava diversamente.

Sei stufo di quest’ennesimo dannato vantaggio che lui nutre nei tuoi confronti. Perché gli basta così poco per leggerti dentro? Perché del resto questo non ti rende speciale ai suoi occhi? Sicuramente trova banali e poco interessanti le menti ordinarie come la tua. E ne hai abbastanza del suo più o meno tacito soppesarti. - Lei deve smetterla di osservarmi.

Sherlock reagisce tutto sommato bene alla tua reazione in fondo abbastanza infantile. Anche se ti scruta con quello sguardo velato di rimpianto. - Ho smesso di guardare la gente senza osservarla molti anni fa.

Lo guardi negli occhi, abbastanza curioso di sapere se è solo un’espressione di strafottenza, oppure c’è del vero. - Perché ha smesso?

Sherlock non si libera del suo tono elusivo. - Perché ho scoperto che mi piace osservare.

E quando usa quel tono hai imparato a capire che non c’è verso, non spiegherà niente, non dirà altro. Se Sherlock vuole tenere qualcosa nascosto agli altri è perfettamente in grado di stoppare con uno sguardo qualsiasi domanda. L’atmosfera non è tesa, del resto non hai avuto modo di dire molto, però quegli insostenibili momenti di silenzio stridono nelle tue orecchie. Dai fiato alla bocca senza parlare, risollevando un argomento che la parte razionale di te avrebbe evitato. - Non voglio sapere le sue ultime deduzioni su di me...

Combatti per non morderti la lingua. Avresti dovuto startene zitto e sopportare il silenzio, una buona volta. 

Sherlock ti squadra dalla testa ai piedi e ritorno in una frazione di secondo che nella tua alterata percezione sembra infinita. E poi, come se niente fosse, accennando a muoversi verso l’ingresso della grande sala da concerto, ti sussurra un sicuro:  - Le riassumo tutte in “smetta di autocommiserarsi”. 

***

Osservi il biglietto e il programma del concerto, facendo di tutto per non intercettare lo sguardo di Sherlock prima di aver trovato un argomento di conversazione sicuro. - L’orchestra del Bolshoi…

Sherlock guarda i primi musicisti sul palco. Scuote appena il capo, riservando un’occhiata quasi di tenerezza per la tua ingenua constatazione. - Non è l’orchestra del Bolshoi.

Lo sguardo va veloce al programma.. Che gli sventoli sotto gli occhi. - Ma qui c’è scritto…?

Sherlock sorride appena. - Non è l’orchestra del Bolshoi. Si fidi di me. 

Continui a fissarlo senza capire. Alternando occhiate alla scritta grande ed evidente che presenta gli orchestrali sul programma. 

Sherlock rigira tra le mani il suo programma e forse per via della questione che hai sollevato, prende ad osservarlo anche lui. Anche se abbastanza distrattamente. Finché qualcosa non cattura la sua attenzione.
 - E poi è molto più interessante cosa c’è scritto dietro il programma. 

Rigiri tra le mani il tuo foglietto.
 - Qui non c’è scritto niente.

Sherlock ti mostra quello che hanno dato a lui. - Guardi qua.

Tutti ce l’hanno sul palco, tranne Lei.

Sussulti. Inizi a guardarti intorno alla ricerca di persone sospette. Se quell’annotazione è stata fatta dal vostro fantomatico sfidante, magari si trova nella vostra stessa sala. E non avete neanche un indizio per individuarlo. - Il Cavaliere Azzurro?

Sherlock sorride quasi divertito. - La sua sagacia delle volte mi destabilizza.

Alzi gli occhi al soffitto decorato. - La smetta di prendermi in giro.

Sherlock ti prende in parola. E tace. Continui a osservare l’elegante e nervosa grafia di chi ha scritto quelle parole enigmatiche. 

- E questa Lei chi sarebbe?

Sherlock ti fa un cenno distratto con il capo. - Guardi il programma. 

- Ci sono almeno trenta nomi di donne.

Sherlock ti indica un nome in particolare, scritto in grande sotto al nome del direttore d’orchestra. - Ma c’è solo un primo violino. Ed è Anne Marie Jacquet.

Inizi finalmente a vederci chiaro. - Quindi dobbiamo vedere che cosa non ha lei.

- Esattamente.

***

Non sei andato ad un concerto di musica classica. Ma questo è decisamente strano. I musicisti entrano un po’ alla volta e non tutti insieme. Intravedi un paio di scarpe da ginnastica sul palco. 

Guardi Sherlock, lui sembra non essersi accorto di niente. 

Continui a guardare le sedie che si riempiono. Tutte. O meglio, quasi tutte. Quando il direttore d’orchestra entra, nel suo elegante abito scuro, con la bacchetta per dirigere in mano, e dietro di lui una splendida fanciulla bionda, abito lungo color argento, un violino in mano, ti accorgi che in realtà nelle ultime file ci sono due sedie vuote. E che uno dei musicisti è legato e imbavagliato. 

Mentre tutti applaudono, e uno dei violinisti bacia la mano ad Anne Marie Jacquet, tu non puoi smettere di cercare con lo sguardo il musicista imbavagliato, ora nascosto dalla selva degli altri tutti in piedi per onorare l’ingresso di direttore d’orchestra e primo violino.

Ti volti verso Sherlock, anche lui intento ad applaudire. - Quel tizio è legato o sto impazzendo?

Tutti gli orchestrali prendono posto, incuranti del tuo agitato spaesamento. 

Anche Sherlock non si scompone. Ti indirizza un’occhiata di sfuggita, poco interessato alla cosa. - Se è legato ci dev’essere un motivo.

Non riesci a capacitarti di tanta indifferenza.  Non riesci a trovare una valida giustificazione per quello a cui stai assistendo. - Ah si?

Sherlock ha ripreso a guardare fisso davanti a sé, liquidando le tue domande con sottesa irritazione. - Sì. E adesso stia in silenzio, che iniziano.

Andreï Filipov apre le braccia volgendo le palme delle mani verso l’alto, facendo segno ai musicisti di prepararsi. Le voci e i bisbigli dalla platea e dai palchi si zittiscono quasi di colpo, mentre tutti gli occhi sono calamitati dal direttore d’orchestra.  

Quando entrano in sala, impermeabili beige addosso, i due musicisti assenti, facendo reverenziali cenni di scuse a tutti, Andreï Filipov scuote appena il capo, mentre abbassa le mani. È di spalle, ma immagini un’espressione di sconsolato disappunto sul suo volto.
 
Ti rivolgi nuovamente a Sherlock. Questa volta deve risponderti. Passi il tipo legato e imbavagliato, che francamente potrebbe essere stato inquietantemente inventato dal tuo inconscio scosso, ma un concerto che non inizia perché mancano i musicisti che entrano con addosso l’impermeabile e in mano bustoni di plastica degni di un supermercato è un’evidenza che anche il tuo flemmatico e poco impressionabile vicino di poltrona non potrà negare. E ok che non sei dell’ambiente, ma è una scena che ti sembra universalmente quantomeno surreale.

  - Ma sono cose che succedono queste?

Sherlock scuote appena il capo, vagamente indispettito, come se fosse costretto a ripetersi. - Ovviamente no. Ma loro non sono da anni l’orchestra del Bolshoi, non la stanno prendendo seriamente.

- Prima non erano proprio l’orchestra del Bolshoi, ora non lo sono da molti anni… Tra dieci minuti saranno l’orchestra del Bolshoi attuale?

L’avevi detto per scherzo, ma Sherlock stranamente ti prende sul serio. - Se suonano bene potrebbero diventarlo. Ma non penso che sia questo il piano. 

Non stai capendo un accidente. Ma chi cavolo sono questi dell’orchestra? Cosa vogliono? 

- Ma il piano di chi?

- John, già fa fatica a stare dietro alle mosse del Cavaliere Azzurro, non si incasini la testa con cose che non la interessano e comunque non capirebbe. 

Tenti vanamente di protestare. - Ma io…

- Per favore, faccia silenzio. 

Filipov alza le braccia come prima. Tutti i musicisti si preparano, mettendo in posizione gli strumenti. I violinisti portano i violini sotto il mento, in quella posa che a te pare così scomoda e a loro così naturale, gli archetti pronti nell’altra mano. I flautisti, i clarinettisti, gli oboisti, i violoncellisti, i fagottisti, i trombettisti, i suonatori di corno e di timpano, sono tutti pronti a suonare, gli strumenti in posizione e gli sguardi che aspettano l’attacco dal direttore d’orchestra per poi rivolgersi velocemente agli spartiti. 
E finalmente, ad un cenno di Andreï Filipov, il Concerto ha inizio. 

Il concerto in Re Maggiore per violino e orchestra, opera 35 di Tchaikovsky.
 
Non sei un esperto, ma sembra che ci sia qualcosa che non vada. Sembra che i musicisti non vadano tutti a tempo, che ogni strumento suoni per conto suo, mentre fa fatica a stare insieme agli altri, con cui dovrebbe invece armonizzarsi in qualcosa che superi la somma delle parti e trascenda gli strumenti e chi li suona, per creare qualcosa di perfetto e di sublime. 

Ma non trovi niente di sublime in quei suoni discordi e solitari, ottusi nel loro individualismo. Il direttore d’orchestra scuote appena il capo, il pubblico é diviso tra lo sconforto e il divertimento. Sherlock non si sbilancia né in un senso né nell’altro, si limita a tacere, guardando intensamente l’orchestra davanti a sé sul palco. 

Anne Marie Jacquet in piedi davanti a tutti i musicisti seduti, vestita di un magnifico abito argentato, posiziona il violino sotto il mento, apparentemente incurante di quanto sta succedendo intorno a lei. 

Ad un gesto quasi impercettibile di Andreï Filipov, Anne Marie Jacquet inizia a suonare. 

L’orchestra tace durante il suo assolo di violino. Anche il pubblico tace. Non c’è più posto per risolini o commenti acidi. 

La perizia della musicista, il trasporto con cui suona, il movimento della mano che impugna l’archetto, tutto rapisce tempestivamente l’attenzione della platea e dei palchi. 

E ti scordi del musicista legato, ti dimentichi di quello con le scarpe da ginnastica, non hanno più importanza i due con gli impermeabili e le buste di plastica. Esiste solo Anne Marie Jacquet e la sua musica. 

Il resto dell’orchestra ad un tratto la segue di nuovo, e non hai il tempo di stupirti della ritrovata sincronia dei movimenti, della spontanea e sofferta armonia che rende tutti gli strumenti uniti, tutti gli animi uniti, quelli dei musicisti, quelli della gente del pubblico, per il tempo di un concerto. 

Sul palco del teatro Chatelet accade qualcosa che non pensavi possibile. Ti senti travolto da un emozione che non è solo tua. Da un’energia che non è solo musica. Che è sentimento. Che è passione. Che è ingiustizia. Che è morte e vita insieme. E senza capire perché, ti senti invaso simultaneamente da domande e da risposte che ti assillano. 

Pensi ai giorni trascorsi, a quelli che seguiranno, ad adesso e a sempre. E l’atavica paura dell’ignoto si mescola alla speranza che, nonostante l’incoerente e impietoso scorrere del tempo, tutto abbia un senso. È questa forse l’armonia suprema? 

Ti senti spaesato, ma felice di essere in balia di un’emozione che niente, se non la potenza e la leggiadria della musica, potrebbero mai farti provare. Tutto risuona di quest’emozione. I cuori le fanno da cassa di risonanza. Anne Marie Jacquet ha gli occhi lucidi, mentre le note stanno ormai giungendo al termine. Annuisce rivolgendo lo sguardo ad Andreï Filipov. Lui annuisce a sua volta. 

E d’un tratto ti senti di troppo, un intruso in un mondo che non ti appartiene. Sei testimone di un’armonia che non ti sei guadagnato. Ma non puoi fare a meno di sentirti felice. 

L’orchestra smette di suonare e Anne Marie Jacquet per ultima ripone il violino. Ed è un attimo di silenzio, colmo di emozione. E poi il fragore degli applausi esplode come una supernova. La gente in piedi come ad una cerimonia religiosa. Qualcuno lancia dei fiori, sul palco. Tutti sentono di aver assistito a qualcosa di speciale. 

Anne Marie Jacquet abbraccia Andreï Filipov. E lacrime copiose le bagnano le guance. E capisci che quell’Opera 35 di Tchaikovsky per violino e orchestra per loro non è stato un semplice concerto, ma Il Concerto. 
La storia delle loro vite, del loro passato, del loro futuro. 

***

Sherlock ha applaudito, composto anche nell’entusiasmo. Un sorriso sornione sul volto. - Dobbiamo rubare lo spartito di Anne Marie Jacquet. 

Ti giri di scatto verso di lui. - Sta scherzando?

- Tutti ce l’hanno sul palco, tranne Lei.
 Ha già dimenticato?

Non riesci a capire. Ti sembra che d’un tratto sia completamente impazzito. Vedere quella luce negli occhi di uno che dice di voler attuare un furto non ti piace. Specie se quella persona vuole coinvolgerti. - E quindi?

- Tutti gli orchestrali avevano lo spartito davanti, tranne lei. - spiega con la solita sicurezza. 

- E che c’entra? Se è per questo tutti stavano seduti tranne lei. 

Sherlock sorride mentre in realtà forse gli dà un po’ fastidio che tu metta in dubbio le sue intuizioni. - Lei pensa seriamente che il Cavaliere Azzurro si sia messo a scrivere indizi sotto una sedia? 

In effetti rientrerebbe molto di più negli standard che hai potuto appurare lo spartito che non una sedia ma... 

- Poniamo che ci serva davvero il suo spartito... Che cosa ha in mente di fare?

Sherlock liquida anche questo problema con una facilità che tu non dai affatto per scontata nella risoluzione della missione. - Lei deve distrarre Anne Marie Jacquet.

Ti volti a guardarla, circondata da ammiratori che chiedono discretamente autografi, o le porgono dei fiori e le stringono la mano, facendole i migliori complimenti. - E come faccio?

Sherlock accenna un sorriso insolitamente malizioso. - John Tre continenti Watson che chiede a me come corteggiare una donna?

Lo guardi come se fosse un alieno caduto dal cielo in una cabina blu. - Per distrarre lei intende corteggiare?

Lui si limita ad alzare le spalle. - È funzionale al nostro piano. 

Continui a guardarla. Una musicista di quel calibro... Che argomenti potresti mai usare? 

- Ma io non capisco niente di musica classica. Che le dico?

Sherlock sembra annoiato dalle tue proteste. - Quello che le pare. Basta che si distragga e lasci il suo spartito a noi. 

- È una musicista. Non lascerà mai lo spartito. Le serve.

Continua a guardarti come d’un tratto ti fossi trasformato in Mycroft, appoggiato serafico ad un ombrello, pronto a dispensare consigli non richiesti. - È noioso quando fa queste ridicole obiezioni.

E così, pur di scampartela, hai avuto la brillante idea di domandargli, in un moto di giocoso astio.  - Mi scusi, perché non ci va lei?

Pensavi che avrebbe protestato, si sarebbe sottratto, adducendo motivazioni più o meno valide, e sottintendendo ancora una volta che a lui non piacciono le donne, invece non si fa scuotere dal tuo sarcastico suggerimento. Anzi, annuisce, sornione, prima di voltarti le spalle e dirigersi verso la violinista. 

- Volevo darle la possibilità di rendersi utile. E di alzare un po’ la sua autostima. Ma andrò io, perfetto. 


***

Pensavi che a lui interessassero gli uomini. E poi lo vedi flirtare con molta convinzione con Anne Marie Jacquet. 

Alla distanza a cui ti trovi non riesci a sentire cosa stia dicendo, ma dal modo in cui lei sorride, deve aver trovato le parole giuste. Parla in francese. Puoi starne certo. Le ha donato il bocciolo di rosa che aveva nell’occhiello della giacca. Lei porta il fiore alle narici, sorridendogli. Sembra abbastanza compiaciuta delle attenzioni di Sherlock. Continua a parlarci. 

Forse deve anche aver riconosciuto in lui il genio artistico delle macchie rosse sulle tele, dei ritratti senza occhi e dei neon rotti, ma non necessariamente. Sherlock Holmes non ha bisogno del suo nome per interessare qualcuno. Se vuole piacere, sa esattamente come farlo. Non c’è niente di eccessivo nei suoi sorrisi appena accennati, nella sua aria schiva, gli basta la sua voce bassa, il suo sguardo profondo e malinconico, la sicurezza con cui snocciola la sua visione del mondo, illudendoti per un attimo che sia l’unico modo di pensare possibile. 

Pensavi che a te non interessassero gli uomini. E poi lo vedi flirtare con molta convinzione con Anne Marie Jacquet. Ed è lui a calamitare la tua attenzione, le mani in tasca, si staglia slanciato e statuario nel suo elegantissimo abito nero in mezzo alla folla, i capelli ricci il suo unico atto di ribellione all’etichetta. 

Poco importa l’abito grigio argento che lascia scoperte le spalle della violinista, o che le slancia la figura fasciandone il corpo. I suoi capelli biondi semi raccolti acquistano importanza solo quando Sherlock le scosta delicatamente quella ciocca che le ricadeva sugli occhi chiari. E capisci di non poter più mentire a te stesso. Devi smetterla di vivere di scuse e di bugie...

Anche se forse non sbagliavi a pensare che non ti interessassero gli uomini. Se ti guardi intorno ad osservare gli altri spettatori del concerto, nessuno ti provoca la minima attrazione. Ce ne sono alcuni di cui riconosci una certa bellezza, o un certo stile, ma preferisci guardare le loro compagne. 
Ma se ti volti verso Anne Marie Jacquet e Sherlock Holmes, d’un tratto la bellezza di lei diventa insipida e quella di lui preponderante. 

A te non interessano gli uomini. Ti interessa solo lui.
Il che è peggio. 

Li vedi allontanarsi verso l’entrata che presumibilmente conduce dietro le quinte, verso i camerini dei musicisti. Sherlock ti ha fatto un cenno col capo, riuscirà ad ottenere lo spartito. 
Ti avvii verso l’uscita della sala da concerto, per dirigerti verso il bar della hall, con aria sconsolata.

***

Quando Sherlock torna ti trova con un bicchiere di whisky in mano, il terzo. 

Ti indirizza uno sguardo tra il sorpreso e il canzonatorio. - Perché sta cercando di ubriacarsi?

Alzi gli occhi, facendo appello a tutta la tua dignità. - Sfortunatamente reggo l’alcool. 

Bevi d’un sorso il contenuto del bicchiere. 
La cosa migliore da fare è cambiare velocemente argomento. - Ha lo spartito?

Sherlock accenna un sorriso soddisfatto. - Ovviamente. 

Lo guardi con una cerca incredulità negli occhi, stupendoti della velocità con cui è ricomparso. Non più di un quarto d’ora. - Ha fatto presto.

Hai uno sguardo tra il guardingo e il sollevato. A Sherlock ovviamente non sfugge. - So cosa sta pensando, ma…

Scuoti appena il capo, poggiando il bicchiere sul bancone. - Non deve giustificarsi con me.

Sherlock sorride ancora, quasi divertito. - Ah no? 

Non gli rispondi. Ti limiti a pagare i whisky al ragazzo del bar del teatro, cercando di fare il vuoto nel tuo cervello. Ma ogni volta che pensi di esserci riuscito salta fuori, dolorosa, quella disgraziata consapevolezza. Lo trovi attraente, sogni che dorma abbracciato a te, ti deprimi quando mostra interessamento per altre persone, e vederlo allontanarsi con quella donna ti ha fatto ordinare tre whisky di fila. Ti stai infatuando di Sherlock Holmes. 

Ed é proprio lui a destarti da questi pensieri, facendoti segno di raggiungere l’uscita. - Andiamo.

- Dove?

Sherlock ti sorride, raggiante di aver ottenuto quello che voleva. - Ad esaminare lo spartito. 

- Non vedo nessuno spartito. 

Si affretta verso il guardaroba, mentre lo segui, imperterrito.  - Ho le foto.

Le sopracciglia corrugate, lo fissi senza capacitarti di quello che ha appena detto. - Le foto?

Sherlock quasi ti rimprovera con lo sguardo, come se solitamente l’insensibile dei due fossi tu. - Non potevo prenderlo. Lo spartito era di sua madre. Non l’ha mai conosciuta. E ha scoperto oggi che fosse sua madre.

Pensi di non aver capito. Anzi, senza il “pensi”. Non hai capito. Del resto, per una volta, la spiegazione di Sherlock non è poi molto esauriente. Sarà che per lui non è questo il nocciolo della questione. 

- È una lunga storia. - aggiunge, come se questo spiegasse tutto. 

Rifletti sulle parole che ha detto, perché il sguardo seccato ti intima di non chiedergli di ripeterlo. Era sua madre. Sua della musicista. E lei non lo sapeva. E l’ha scoperto oggi. Non capisci come sia possibile. Ma vabbè...

- Sembra una storia da film. 

Sherlock annuisce, soddisfatto che tu sia riuscito a comprendere la storia anche solo marginalmente. - Penso che ne faranno uno prima o poi.

Sherlock sorride appena alla ragazza del guardaroba che gli porge il cappotto Chesterfield nero. Dopo aver indossato a tua volta il soprabito, uscendo dal teatro, ti scappa una domanda spontanea ma forse per lui un po’ sciocca. 

- Da quando lei è gentile con le persone?

Sherlock esclude il tono scherzoso del quesito e ti riserva uno sguardo serissimo. - Io sono sempre gentile, a modo mio. Per questo le sto dicendo che non c’è stato niente con la violinista. Mi ha riconosciuto, mi ha chiesto di dipingerle un quadro. Non ho dovuto sedurla, se è questo che pensa. 

Da un lato la sua confessione ti solleva, dall’altro non ti libera completamente da i tuoi dubbi. Così incalzi. - Ma l’avrebbe fatto.

Sherlock finalmente sorride. - Suvvia, la Jacquet è troppo intelligente per cascarci.

Lo guardi come se avesse appena detto di lei che è la donna più bella che abbia mai visto e di essersene perdutamente innamorato. Se non fossi il protagonista di questa storia, ma la leggessi dal di fuori, probabilmente ti accuseresti di una poco abilmente mascherata gelosia, anche un po’ infantile, nonché immotivata. Tu e Sherlock non state mica insieme. - La trova intelligente.

Lui alza gli occhi al cielo, più irritato che lusingato, in realtà.  - Trovo anche mio fratello intelligente, se è per questo.

Prendi parzialmente coscienza di aver detto e provato qualcosa che non avresti dovuto. - Scusi.

Sherlock ostenta indifferenza, mentre in realtà non riesce a non sorridere quando distogli lo sguardo. - Non deve scusarsi.

***

Seduti in un caffè non lontano dal teatro, Sherlock ti mostra sul telefono le foto dello sparito. - Ci sono molte annotazioni di Lea, la madre di Anne Marie Jacquet... Dia un’occhiata anche lei, ma le assicuro che dal vivo una delle poche frasi che sembra scritta da poco tempo è questa. 


Je n'ai pas perdu une maîtresse mais la moitié de moi-même. Un esprit pour lequel le mien semblait avoir été fait. 

(Non ho perduto un'amante ma la metà di me stesso. Un'anima per la quale la mia sembrava fatta.)

- Le annotazioni di Lea sono principalmente in russo per quello che ho potuto vedere... 

Insomma. Non ti sembra una grande argomentazione. E la frase affatto significativa. E poi non trovi una grande eccezionalità nel fatto che sia scritta in francese. Scuoti appena il capo. - Di per sé non vuol dire niente. Era una persona colta, magari viaggiava molto...

Sherlock non sembra essere d’accordo. - Non dovremmo sottovalutarlo, potrebbe essere un indizio. 

Scuoti il capo. - È una frase sentimentale, Sherlock. Capisco un po’ di francese. Non potrebbe averla scritta la Jacquet?

Lui alza le spalle. - Gliel’ho chiesto, mi ha assicurato di no. 

Rigiri il cucchiaino nel tazza del caffè che avete preso solo per potervi sedere li al tavolo a meditare, lontano da occhi indiscreti. Hai sempre avuto difficoltà ad decodificare questi messaggi, ma questa volta anche Sherlock ti sembra completamente fuori strada. 

 - E che senso ha? Adesso il Cavaliere Azzurro le scrive messaggi d’amore?

Sherlock ti guarda non poco irritato. - Non dica idiozie. È al femminile. Parla di una donna. 

- E allora che senso ha?

Sherlock scuote appena il capo, come se non comprendesse la tua impazienza. - È uno dei suoi soliti indizi. Dobbiamo lavorarci.

E si ritira in una delle inaccessibili stanze del suo Palazzo Mentale. Se ne sta in silenzio per alcuni minuti, prima di riemergere dalle profondità di se stesso con nuove riflessioni. 

- Lo spartito originariamente apparteneva ad una musicista ormai defunta. E in queste righe parla qualcuno che ha perso la donna amata. Che voglia portarci ad una tomba?

Devi ammettere che ha abbastanza senso. Ammesso che la frase indizio sia effettivamente quella, questa potrebbe essere una buona interpretazione. - La tomba della musicista?

Sherlock distoglie appena lo sguardo dal punto indefinito sul muro dietro di te, che sta fissando per raccogliere i pensieri. - Dubito. È morta in un gulag. 

Questo complica notevolmente le cose. - E allora la tomba di chi?

Finalmente Sherlock torna a guardarti negli occhi. - Di chiunque sia stata la persona amata da chi ha scritto questa frase. 

Non ti lascia il tempo di somatizzare l’informazione che si rintana dietro lo schermo del suo telefono. Sei grato del fatto che non ti stia guardando in faccia adesso, mentre le labbra si distendono in un timido sorriso, quando i tuoi pensieri si soffermano sul casuale alzare lo sguardo di Sherlock su di te mentre parlava di amore. É una consolazione da adolescente che legge troppi romanzi rosa, e la scacci velocemente dal cervello, ma per una frazione di secondo ti aveva riempito il cuore di una tacita speranza. 

La calda voce di Sherlock Holmes ti distoglie dai tuoi pensieri, annunciando con soddisfazione trionfale il risultato delle sue ricerche. - Emilie du Chatelet. L’amante di Voltaire. 

- Chatelet come il teatro? Sembra un’ulteriore conferma.

Sherlock non condivide il tuo entusiasmo. La luce nei suoi occhi è adombrata dai dettagli che sta per comunicarti. - Il problema è che la sua tomba è a Luneville, saranno quattro ore di macchina. 

Quattro ore? Sprofondi sulla sedia del caffè. Solo un tale viaggio in  macchina occorre a distruggerti completamente di stanchezza. Per poi magari non trovare niente perché l’indizio non era quello a causa di una colossale cantonata. 

- E se si riferisse a qualcun altro? O se fosse solo un messaggio cifrato, come con il messaggio dietro al quadro?

Sherlock scuote appena il capo, deciso. - Dubito che sia un messaggio cifrato, il Cavaliere Azzurro non si ripeterebbe. E l’altra pista in ogni caso sembra più interessante. 

 Speri che ci sia un treno, magari diretto, che possa condurvi in questo questo fantomatico posto. - Dobbiamo andare a Luneville allora?

Sherlock non sembra aver contemplato la partenza tra le possibilità d’azione.  - Ovviamente no. Tutto ruota intorno a Parigi, non ci manderebbe da un’ altra parte, o almeno lo spero. 

E quindi? Se l’indizio è effettivamente quello, cos’altro spera ancora di cavarci Sherlock? Ad ogni modo continua a smanettare sul telefono, finché non capisce quale potrebbe essere la svolta dell’indagine. 

- E poi... Forse la marchesa Du Chatelet sarà anche sepolta a Luneville, ma la tomba di Voltaire è a Parigi, al Pantheon!

Le le tue labbra si rilassano in un sorriso. - Ecco dove andremo domani mattina allora...

Ma Sherlock ti riserva l’ennesima sorpresa. - Perché? Ha impegni per la serata?

***

State davanti al Pantheon. Una struttura ricca di fascino e di storia. Tempio neoclassico che troneggia con il suo algido candore sul quartiere latino, a pochi passi dalla Sorbonne. E tu non hai la minima idea di quali siano i piani dell’intraprendente, e a tratti incosciente, artista al tuo fianco. 

Ti volti ironico verso di lui. - Lei ha mai scassinato una porta?

Sherlock aggrotta la fronte, stupito. - Per chi mi ha preso?

Accenni ironicamente col capo al pesante portone sbarrato di fronte a voi. 
- E allora mi spiega come facciamo ad entrare?

Sherlock imita in fine il tono ironico della tua precedente insinuazione. - Facevo affidamento su di lei... È stato in Afghanistan...

- Questo non fa di me uno scassinatore. Anche se assomiglio un po’ all’attore che fa Bilbo Baggins ne “Lo Hobbit”...

Ti guarda come se avessi appena ammesso di giocare ogni pomeriggio con le costruzioni come quando eri piccolo. Ma la sua espressione di sdegno è visibilmente accentuata.  - Questo è il genere di film che guarda al cinema?

- Non vedo quale sia il problema. 

Sherlock sorride grave. - E non ha imparato a scassinare una porta?

Non capisci fino a che punto sia un gioco. Forse lui trova davvero la letteratura fantasy infantile, sebbene si tratti di Tolkien, e forse si aspettava davvero un maggiore aiuto da parte tua. Ti mantieni sul neutro. - Non ho mai avuto necessità di imparare a scassinare una porta, come tutte le persone normali. E poi è lei quello intelligente, si inventi qualcosa. 

Sherlock sorride soddisfatto di essere ancora una volta un passo davanti a te. - Mi sono già inventato qualcosa. Dobbiamo solo aspettare Victor Trevon.

***

Quando, dopo venti minuti buoni, vedi uscire da un taxi la figura slanciata e goffa del giovane, vivi emozioni contrastanti. Sei ovviamente sollevato di vederlo comparire con in mano la salvifica busta della missione impossibile, estinguendo l’angoscia di dover sopportare uno Sherlock annoiato e intollerante. Ma d’altro canto non sei poi così impaziente di rivedere così presto l’uomo che, non più tardi di questa mattina, ti ha visto uscire in mutande dalla camera da letto di Sherlock Holmes immaginandomi un film sfortunatamente affatto veritiero. 

Decidi di non fare nulla di eclatante e di ostentare indifferenza, prendendo velatamente le parti di Trevon per evitare che Sherlock si insospettisca. 

Diciamo anche che il giovane non sembra affatto intenzionato a rinfacciarti le insinuazioni della mattinata, indaffarato com’è, sin da subito, a discolparsi con Sherlock. 

 - Mi scusi, Signor Holmes. Non volevo arrivare tardi ma...

Sherlock mostra la sua annoiata intolleranza. - So immaginare da me più di uno dei motivi che potrebbe addurre come scusa. 

Trevon non si rassegna e continua a spiegare, gli occhi sbarrati, ancora agitato dalle peripezie affrontate. - Ma io...In realtà...Ho avuto problemi. Non c’erano negozi aperti. Ho perso la metro...

Sherlock lo squadra dall’alto in basso senza lasciarsi convincere, così Trevon si volta disperato verso di te, aspettandosi un po’ di umana comprensione. 

- Signor Watson lei almeno mi crede?

Gli riservi un’occhiata accondiscendente, desideroso di liquidare la questione alla svelta.  - Non si preoccupi...

Sherlock si intromette sprezzante. - Ha portato quello che le ho chiesto?

Trevon gli consegna la busta, accennando con la sua solita timida goffaggine ai dubbi che devono essergli sorti quando ha ricevuto il perentorio messaggio di Sherlock. - Si, anche se non capisco a cosa possano serv...

Holmes lo interrompe. - Ha la serata libera, può andare...

***

Victor Trevon si incammina a piedi. Non sai dove stia andando e al momento non ti interessa neanche, preso come sei dal cercare di capire quale possa essere il folle piano di Sherlock Holmes. 

- Mi spiega cosa pensa di fare?

Sherlock inizia a camminare a passo spedito. - Mi segua e lo vedrà. 

Perché se dovete entrare nel Pantheon si sta allontanando? - Ma dove stiamo andando? 

Sherlock si volta verso di te, senza accennare a rallentare. - Alla fermata della metro. 

Lo segui, incredulo. - E che c’entra la metro?

L’artista non si scompone affatto, ma ti guarda come se fossi cascato giù dal pero. - Lei come pretende di entrare?
 
Non sta effettivamente chiedendo il tuo parere. Ti sta solo sarcasticamente invitando a comprendere che al suo piano non ci sono alternative. 

Quando invece ovviamente non è vero. - Io aspetterei domani, gliel’ho già detto, così evitiamo di metterci nei casini, ma lei evidentemente non mi vuole ascoltare. 

Sherlock ti indirizza uno dei suoi mezzi sorrisi e un’occhiata penetrante. - La facevo più intrepido, John. 

Deglutisci a vuoto prima di parlare. - La facevo meno avventato. 

Lui continua a camminare, le mani in tasca, guarda davanti a sé, improvvisamente pensieroso. - La vita ci rende diversi rispetto a come ci aspettavamo di essere...

Lo sai bene. Da bambino sognavi di diventare uno scrittore affermato. Poi avevi deciso di fare il giornalista, reporter di guerra, di ottenere fama e successo, di realizzare le tue possibilità. E invece eccoti. A fare l’assistente a Sherlock Holmes in un’indagine improvvisata e potenzialmente pericolosa, mentre dalla redazione, complice la telefonata di Mycroft, tutto tace. Fatta eccezione per un messaggio in cui Stamford ti lasciava carta bianca sui tempi, ma pretendeva qualcosa di formidabile al tuo ritorno. Sai che se non lo otterrà probabilmente, nonostante tutta l’influenza della famiglia Holmes, verrai licenziato. 
Ma non ti sembra questo il momento di pensarci. 

Ti volti verso Sherlock, domandandoti che cosa gli passasse nella testa quando ha pronunciato quella frase sibillina. 
 - Lei come si aspettava di essere?

Sherlock fa a meno di guardarti, soppesando le parole. - Pensavo che alcune cose non mi interessassero, e altre che non sarebbero mai potute succedermi. Eppure... 

- Eppure? - incalzi, vista la sua reticenza. 

Sherlock torna a guardarti. - Lei è troppo curioso, John. E a me piace dedurre la vita degli altri per non parlare della mia, dovrebbe averlo già capito... 

- Forse non sono la persona più adatta a dirlo ma... Lei non è costretto a tenersi sempre tutto dentro. Non dico che debba raccontare tutti i fatti suoi a me, ma...insomma...

Holmes fortunatamente ti interrompe, prima che la tua lingua si attorcigli alla ricerca di perifrasi. - Non si affanni. Ho capito cosa intende. Però non è questo il momento, John. Abbiamo una missione da compiere, non ricorda?

***

La fermata della metro più vicina al Pantheon è quella Cardinale Lemoine, a circa seicento metri. Non capisci che senso abbia scendervi, quando in realtà dovreste entrare nell’edificio, ma segui Sherlock senza lamentarti, convinto che almeno lui sappia quello che fa. 
Non sai come possa sapere di scavi ignoti ai più ora in corso sotto il Pantheon per creare una nuova linea della metro, né che seguendo un percorso folle attraverso cantieri sotterranei si possa spuntare, tramite un improbabile condotto dell’aria, in una presa d’aria del Pantheon, ma lo segui in questa follia tra troppo per tirarti indietro ora. La busta che Victor Trevon vi aveva portato conteneva gli strumenti di una cassetta per gli attrezzi, cacciavite, chiavi inglesi, e una bella torcia elettrica. Tutte cose senza le quali non sareste riusciti a spuntare dentro il Pantheon. 

Ti guardi intorno titubante, indeciso su dove mettere i piedi e pronto in ogni momento a tornare indietro. - E adesso? Non scatta l’allarme?

Sherlock non si affanna più di tanto, si punta la torcia intorno e dà un’occhiata in giro senza apprensioni. - Perché dovrebbe? In fondo non abbiamo scassinato nessuna porta. 

Lo squadri come se fosse un bambino incosciente che gioca con l’acqua vicino ad una presa di corrente. - Io non capisco come faccia ad essere così tranquillo...

Sherlock si limita ad alzare le spalle. - Se tuo fratello è il governo inglese, è abbastanza facile. 

Microft Holmes potrà anche essere suo fratello. Ma un’effrazione del genere non potrebbe rimanere impunita, specie per l’opinione pubblica che si infiammerebbe, giustamente, di disappunto. E ovviamente immagini già chi potrebbe essere il capro espiatorio perfetto. Indignato, ti rivolgi con voce alterata a Sherlock. - Quindi in carcere manderebbero solo me?

Lui di tutta risposta si volta serafico verso di te, serissimo in viso. - Pensa che possa rinunciare a lei così facilmente, John?

Nella penombra non vedi nitidamente la sua espressione, ma la sua voce sembra dannatamente sincera. - Io, in realtà...

Sherlock continua, interrompendoti. - Ho bisogno di un assistente. Lo ha detto anche Mycroft, non ricorda?

Cerchi di rimanere serio a tua volta e non soffermarti sulle parole pronunciate senza dubbio ingenuamente ma che, insomma, ti erano sembrate... Scuoti velocemente il capo per tornare in te.

 - Allora in qualità di suo assistente la esorto a trovare questo dannato indizio alla svelta, perché io non sono tranquillo. 

Sherlock si esibisce in una delle sue menefreghiste alzate di spalle e punta la torcia intorno a sé, alla ricerca della tomba di Voltaire. 

Il Pantheon è una costruzione imponente, neoclassica, ma con un non so che di gotico. Sarebbe sicuramente interessante visitarla alla luce del giorno, apprezzarne gli affreschi, osservare le tombe delle persone illustri che vi riposano, per poi meditare sulla caducità dell’esistenza e la necessità di non sprecare il tempo che si ha a propria disposizione. O più semplicemente limitarsi a trovare bella la facciata, slanciati gli archi, grandiosi i dipinti, gloriosa e imponente la struttura nella sua fiera interezza. 

Ma in piena notte, dopo essere entrati tramite un condotto dell’aria, con una torcia in mano e la paura di finire in prigione, si ha ben poca voglia di guardare le pareti, studiare le proporzioni, fare riflessioni filosofiche davanti alle tombe. Vuoi soltanto andartene. 

Sherlock individua in poco tempo la tomba di Voltaire. Dietro ad una sobria transenna sta una statua che raffigura il celebre illuminista che reca un libro nella mano destra e fissa alto e fiero l’osservatore. Dietro la statua la tomba: un’urna contenente quel che resta delle sue spoglie. 

Sotto la statua un bouquet di rose rosse, un biglietto nascosto tra i rami...

Prima che tu possa fermarlo o tentare di fargli cambiare idea, Sherlock ha già scostato la transenna e preso il foglietto, risparmiandosi fortunatamente di sventolarlo come un trofeo. La sua composta eleganza glielo impedisce, ma non gli vieta di accennare un sorriso soddisfatto nella tua direzione, come per rimarcare il fatto che avesse ragione, sottintendendo un iniquo “come sempre”. 

Dà uno sguardo a quello che presumi essere il prossimo indizio, e quel sorriso beffardo sparisce piano dal suo volto, dileguandosi come una manciata di sale nell’acqua che bolle. 

- Cosa succede?

La sua voce si è fatta più tesa. Si guarda intorno furtivo, mettendo il biglietto al sicuro in una tasca del cappotto. - Usciamo di qui. 

***

Finalmente sopra di te il mantello blu della notte, puntellato sempre più di nuvole che di stelle. 

Ti volti verso Sherlock che ha trascorso tutto il tempo impiegato per tornare indietro, passando per gli scavi della metro in religioso silenzio, se si escludono le informazioni logistiche su cosa fare e dove girare. 

- Cosa c’era scritto sul biglietto?

Ti porge con riluttanza il foglio. - Guardi lei stesso. 


Ah! misère de t’aimer, mon frêle amour
Qui vas respirant comme on respire un jour!
O regard fermé que la mort fera tel!

(Ah! sfortuna d'amarti mio fragile amore
che respiri come si spirerà, un giorno!
O immobile sguardo, che tale farà la morte!)

- Verses pour être calumnié. Verlaine. 

A lui deve parere esauriente come spiegazione, perché non dice altro e cammina imperterrito verso la stazione dei taxi più vicina, ma tu ti limiti a seguirlo senza capire. 

***
Entrare in un cimitero di notte è ovviamente il più recondito desiderio di ben pochi uomini, e tu non sei di questi. 

Non che sia paura la tua, e neanche quel timore ancestrale per i defunti, alimentato da raccapriccianti racconti dell’orrore. Semplicemente un posto buio, deserto, desolato, in cui non dovresti assolutamente entrare, pena forse l’arresto, non è in cima alla lista dei luoghi da visitare prima di morire. 

Nonostante sia Marzo, poi, l’aria è gelida e le stelle in cielo si nascondono dietro una coperta di nubi per ripararsi. Nuvole scure che promettono pioggia. Motivi in più per non avventurarsi nella periferia nord ovest della città, con un taxi che costerà sicuramente un patrimonio all’incurante Sherlock Holmes. 

L’artista trascorre il viaggio in taxi guardando oltre il vetro, fuori dal finestrino, con svogliatezza congiunta ad una certa dose di  preoccupazione. Non ti azzardi a chiedergli  nulla, alternando le tue timide occhiate verso di lui allo studio del panorama fuori dall’abitacolo, vedendo spuntare complessi residenziali e sparire quasi completamente i turisti. 

Il diciassettesimo Arrondissement non è del resto dei più noti né dei più frequentati e forse la sua unica vera attrazione è proprio il cimitero monumentale, opportunamente inaccessibile ai visitatori a quest’ora della notte. 

Sherlock ha chiesto al tassista di portarvi in una via specifica, non lontana dal cimitero, evitando di farvi lasciare davanti all’ingresso sbarrato. La scelta è senza dubbio giusta, ma sei al contempo sicuro del fatto che licenziare il tassista per trovarsi poi da soli in mezzo al nulla, con un temporale imminente e un cimitero in cui entrare in modo illegale per trovare chissà che cosa, non è poi un’idea così brillante. 

Peccato che Holmes sembri non interessarsene, nonostante a bisbigli, cercando di non farti sentire dal tassista, tu abbia espresso più volte le tue perplessità. 

Lui ti ha guardato, svegliandosi improvvisamente dal suo momentaneo torpore, per poi licenziare le tue preoccupazioni con un noncurante cenno del capo, e sprofondare di nuovo nella sua apparente inattività. Nel suo cervello, invece, ne sei quasi certo, gli ingranaggi si muovono ad un ritmo così elevato da essere imbarazzante per una mente ordinaria come la tua. Peccato che non sembri minimamente intenzionato a metterti a parte dei suoi pensieri e si ostini a tenerli stretti nella scatola cranica, al sicuro sotto quei suoi ricci scuri e bellissimi. 

Noti con angosciante consapevolezza di aver persino smesso di censurarti questi aggettivi inappropriati che il tuo Super Io prima si affannava a confutare, per poi sbracciarsi come un naufrago che vede una nave che potrebbe trarlo finalmente in salvo, alla prima bella ragazza che ti passava vicino. Es e Super Io devono aver deciso una tregua, mentre l’Io, incredulo per questo momentaneo stallo, sembra tirare un sospiro di sollievo. 

Tu ti limiti ad uno di sconforto, indirizzando una timida occhiata all’oggetto dei tuoi pensieri che incurante, e forse ignaro, continua a guardare fuori dal finestrino. 

Quando il taxi arriva a destinazione, Sherlock riprende il suo usuale strafottente entusiasmo, paga il conducente, e ti esorta a scendere. 
Ti fa girare alla prima traversa, e poi ancora un paio di volte, come se conoscesse benissimo la zona, finché non vi trovate davanti al monumentale  Cimitiére des Batignolles. Un cancello troneggia a difenderne l’ingresso, la tangenziale a fargli da aureola. Un santo di periferia, quest’immensa distesa di tombe per lo più di gente sconosciuta. 

Accendi la torcia del cellulare, rinfrancato dalla percentuale di carica presente sul blocca schermo. 

Holmes si guarda intorno senza proferire parola. Il che da un lato di rincuora e dall’altro ti spaventa. Se non sa cosa fare potrebbe decidere, finché siete in tempo, di battere dignitosamente in ritirata. Ma ormai lo conosci abbastanza da sapere che non si arrenderà facilmente, e che si lancerebbe in questa follia ugualmente, trascinandoti inesorabilmente dietro di lui, verso il baratro. 

Non sai perché questa sorta di sfida sia così importante per lui, perché assuma spesso questo sguardo triste, e, oseresti quasi dire sconsolato, se non conoscessi il tono supponente che contraddistingue solitamente il suo modo di fare. Lui si ostina a non volertene parlare e la tua buona volontà non basta a farti scoprire molto, complice i suoi estenuanti silenzi. 

Del resto non ti va neanche di forzarlo, ognuno ha dei fantasmi contro cui è obbligato dal suo passato a combattere. Il tuo fantasma è l’Afghanistan. Il suo...non sapresti dire. E forse non lo saprai mai. 

Non basta l’incomprensione che ha subito da ragazzo, poi è riuscito a condurre la vita che desiderava, a essere la persona che voleva diventare. Ma nel frattempo cosa può essergli successo?
Sospiri, guardandolo con malcelata curiosità, finché non alza gli occhi a sua volta, interrogandoti tacitamente sul tuo interesse. 

Distogli frettolosamente lo sguardo. Lui se n’è accorto, ma non accenna a volerne parlare. 

Continui a guardare il cancello. Speri che almeno questa volta Sherlock sia per qualsiasi motivo in possesso di una copia della chiave per aprirlo. Ma continua a tacere, per poi incamminarsi lungo il perimetro del cancello, lontano dall’ingresso per i visitatori, sbarrato. 
Lo segui, aspettando che sia lui a dire qualcosa e a metterti a parte del piano con il tono disinvolto e geniale che lo caratterizza. 

Passi sfruttare gli scavi della metro, ma adesso? Come pretende di entrare e soprattutto di non perdersi in mezzo al buio in uno dei cimiteri più estesi di Parigi? 
Speri di scoraggiarlo e di convincerlo almeno questa volta a desistere, chiamare un taxi e togliervi dai pasticci, anche se sei ben consapevole di avere poche speranze. - E qui come dovremmo entrarci?

Sherlock ti indirizza un’occhiata eloquente. - Basta scavalcare. 

A onor del vero, dopo essere entrati in modo fortuito e soprattutto illegalmente al Pantheon, entrare in un cimitero dovrebbe essere una ben minor fonte di preoccupazione, ma dev’essere la stanchezza, unita ad una legittima esasperazione, a spingerti ad addurre ogni scusa per evitare l’impresa. - Ma si rende conto di come siamo vestiti? 

Sherlock continua a riservarti un sorriso beffardo. - Bisogna mostrare ritengo per i morti, non le pare?

E nel suo sguardo vedi che sarebbe inutile tentare di convincerlo. A malincuore ti arrendi a fare quello che dice, per quanto illegale. - Ma lei normalmente cosa fa nel suo tempo libero?

Sherlock alza appena le spalle, come se avessi fatto una domanda sciocca, una delle tue solite dalla risposta scontata. - Vivo la vita che mi capita, ogni giorno. Come fa lei. 

La cosa più avventurosa che hai fatto negli ultimi mesi è stata scordarti le chiavi dentro casa e dover cercare il doppione in mezzo alle mille cianfrusaglie di Harry. E poi è arrivato lui. Aereo per Parigi. Mostra. Indizi. Musei di notte. Effrazioni altrui. Concerto. Gelosia. Pantheon. Rischio di finire in carcere. Scuoti il capo.  - Questo lo dubito...

Sherlock non ti risponde, e si rimbocca le maniche del cappotto, dopo aver appoggiato a terra la torcia. 

- Lei ha la più pallida idea di dove si trovi la tomba di Verlaine?

Non alza neanche lo sguardo, intento com’è nell’operazione. - Ci sono già stato, penso che ritrovarla non sarà un problema. 

***

Sherlock sembra effettivamente ricordare la strada. Si muove tra le tombe con sicurezza, senza dare minimamente l’impressione di star improvvisando. Come sempre. Anche in un cimitero, di notte, vestito come un damerino persino più del solito, ha sempre quell’espressione di convinta risoluzione sul volto. 

Ma anche se al buio non riesci a vederli, i suoi occhi sono adombrati di tristezza. 

Pensavi che peggio di così non potesse andare, in giro di notte in mezzo al cimitero, quando inizia anche a piovere. Una pioggia leggera e lieve. E sarebbe anche piacevole se non foste appunto in mezzo ad un cimitero. 
Sherlock illumina i suoi passi con la torcia che avevate usato anche nei tunnel sotto al Pantheon, cammina sicuro, per poi fermarsi ogni tanto a controllare che tu gli vada dietro, con la luce che riesci a fare con il telefono. 

La tomba di Verlaine è una tomba come le altre. A vegliare le spoglie mortali del poeta non una musa addolorata e bellissima, non un angelo che intona preghiere per il suo inquieto spirito. Solo fiori lasciati dai turisti. 

Verlaine era uno dei poeti maledetti. Amava un ragazzo, il giovane Arthur Rimbaud. Era una storia tormentata e morbosa la loro, distruttiva e additata dagli altri. Eppure un amore travolgente e passionale. 

Davanti al piccolo monumento stanno diversi mazzi di fiori, posti lì dai turisti di passaggio. Ma troneggia sugli altri un mazzo di rose rosse, molto simile a quello che avete trovato al Pantheon. Tra le foglie dei fiori è incastrato placidamente un bigliettino. 

Sherlock fissa la tomba e i fiori come se avesse visto un fantasma. Ti azzardi a prendere il biglietto, ma non a leggerlo prima di lui, così glielo porgi, restando in silenzio. L’artista ti riserva uno schivo cenno col capo e fissa il biglietto nella sua mano come se provenisse da un altro mondo, dal paradiso o dall’inferno. Non sembra avere fretta di leggerne il contenuto, esita, come finora non ha mai fatto. E non alza neanche gli occhi, sapendo che il tuo sguardo pretenderebbe spiegazioni. 

Quando dà finalmente segno di volerlo aprire, illumini come puoi con la torcia del cellulare il foglietto, cercando di intravedere anche tu il prossimo delirante indizio. Sherlock sospira sonoramente, lasciandoti il biglietto dopo averlo scorso con lo sguardo per alcuni secondi. Si allontana. Continua a fissare la tomba di Verlaine, infischiandosene della tua presenza. Le goccioline di pioggia che si fanno man mano più insistenti a bagnargli gli abiti, ad appesantirgli i capelli ricci. Sembra non importargli neanche di questo. 

Da un lato vorresti seguirlo, chiedergli che cosa ha capito, dove dovete andare, che cosa vuole il Cavaliere Azzurro questa volta. Dall’altro c’è la tentazione di leggere il biglietto e cercare di capire da solo cosa possa averlo gettato così visibilmente nello sconforto. 

Illumini il foglio. Scuoti a tua volta il capo, per un motivo intuitivamente diverso da quello di Sherlock. 
Non capisci una parola di latino. E l’ultima frase in inglese per te non ha un significato meno arcano. 

Chýntia príma suís miserúm me cépit océllis,
cóntactúm nullís ante cupídinibús.
Túm mihi cónstantís déiecit lúmina fástus
ét caput ímpositís préssit Amór pedibús,


Stavolta sarò io a farti abbassare quegli occhi indolenti, Holmes. 
 
Fissi quelle parole scritte verosimilmente dal Cavaliere Azzurro e poi Sherlock, alternando così l’oggetto della tua incredulità fin troppo teatralmente ogni pochi secondi. 

L’artista se ne sta in piedi a fissare il marmo, come se fosse fatto del medesimo materiale. E capisci che ci dev’essere di più di quello che vedi o che puoi supporre. Qualcosa del passato. Qualcosa che continua a condizionare il suo presente ed adombrargli ancora il futuro. Sherlock Holmes conosce il Cavaliere Azzurro più di quanto non sia disposto ad ammettere. Non è solo un gioco, un labirinto che si snoda tra quadri e spartiti. È qualcosa che non è rimasto confinato in musei e teatri. Qualcosa di più intimo. E di più doloroso. 

Guardi quelle rose rosse, le hai lasciate sulla tomba del poeta, e anche Sherlock non le ha toccate. Non possono essere casuali. Perché il Cavaliere Azzurro ha fatto in modo che trovaste proprio rose rosse? Che ci sia stato qualcosa tra di loro? Sherlock guarda afflitto la tomba, senza renderti partecipe dei suoi pensieri. Ma ti ha lasciato troppo in fretta il biglietto. Forse non l’avrebbe fatto se quelle rose avessero questo significato. E poi ti ha detto che non conosce il Cavaliere Azzurro, che non sa chi si celi dietro la sua vera identità, che non sa cosa voglia da lui. 
Ma fino a che punto puoi fidarti?

Sherlock di solito sa quello che fa, forse spesso bluffa, ma comunque è consapevole delle sue strategie, mentre costringe te a giocare a carte coperte. 
Sembra chiuso nel suo mondo, che non voglia essere scosso né salvato. Ma non puoi aiutarlo se ti rivela così poco, né puoi lasciarlo sprofondare senza fare niente. 

- Ce ne andiamo via? 

La tua voce dapprima é un sussurro, come se non volessi profanare la sacralità della scena. Ma continua a piovere sulle vostre teste, sui vostri vestiti eleganti, sul marmo delle tombe. Ti permetti di insistere. 

- Sherlock. Andiamocene di qui. Sta piovendo. 

Lui annuisce appena. Lo sguardo stravolto. Non sembra più l’artista strafottente che ti ha accolto qualche giorno fa al 221 B di Baker Street. Non l’arrogante sbruffone che prende in giro Molly Hooper. Non il saccente insoddisfatto che sbraita contro Victor Trevon. Non l’affascinante giovane uomo che scherza con Irene Adler, che corteggia Anne Marie Jacquet o che ti fa ordinare tre whisky di fila per non pensare a quanto sia sbagliato essere geloso dei mezzi sorrisi che indirizza agli altri. 

Sembra un’altra persona. L’ombra di se stesso. E sono bastati due colpi ben assestati, tre versi di Verlaine e quattro scritti in latino per ridurlo così. Un mausoleo e un cimitero. Due mazzi di rose rosse. Che cosa ti nasconde Sherlock Holmes?

***

La pioggia non è più lieve né piacevole. L’acqua ti è entrata nelle scarpe, il cappotto che indossi è zuppo, e te lo sei anche pateticamente tirato sulla testa per evitare di bagnarti completamente anche i capelli. Le gocce di pioggia cadono giù con disperazione, con rabbiosa ansia. Il vento ti sferza ancora di più il freddo addosso, facendoti rabbrividire ancora di più sotto i vestiti bagnati. Sherlock ti conduce fuori dal cimitero, ma non ha più completamente la prontezza di prima, sbaglia strada un paio di volte, anche a causa della visuale offuscata dalla pioggia, dall’imponente cascata d’acqua che il cielo vi scarica addosso. 

Se questa è la punizione per essere entrato in un cimitero di notte, giuri a te stesso che sarà stata la prima e ultima volta che fai una cosa del genere, ma ovviamente non basta a far cessare il diluvio. Sherlock non corre come al suo solito, nonostante questa volta ce ne sarebbe bisogno, non fa molto neanche per ripararsi dall’acqua, come se le angherie delle intemperie non lo toccassero. Il suo istinto e la sua memoria fotografica vi portano fuori dal lugubre luogo della vostra indagine, ma i suoi pensieri vagano dove tu non puoi vederli, perdendosi in ricordi che non vuole rivelarti, indugiando su luoghi e persone che forse non hai mai conosciuto né conoscerai mai. 

Usciti dal cimitero, lo spingi nel primo portone aperto che trovate, e da lì ti affretti a chiamare un taxi, sperando che arrivi in fretta. 
Ti togli il cappotto e la scarpe, sedendoti su un gradino dell’imponente scalinata, tamponando come puoi i capelli bagnati. Sherlock si è tolto il cappotto a sua volta, se ne sta appoggiato alla parete, guardandosi intorno con uno sguardo stranamente perso nel vuoto. Fissa la parete davanti a sé come se fosse di grande interesse storico o se Van Gogh di passaggio a Parigi ci avesse dipinto qualcosa. 

Sei esausto, ma gli vai vicino, e gli sfiori appena il braccio per attirare la sua attenzione. 
- Ho chiamato un taxi. Spero che non ci metta molto. 

Ti guarda. Hai detto un’ovvietà, lui era presente quando hai chiamato e deve averlo necessariamente sentito, ma non ti riserva il suo solito tono strafottente. - Lo so. 

Goccioloni di pioggia gli cascano dai capelli sul viso e sui vestiti. - Ha i capelli zuppi d’acqua. 

- Lo so. 

Prendi la pochette dal taschino della giacca del completo e gliela porgi. 

- Si rovinerà, ma a me non importa. 

Sherlock ti riserva appena un cenno e si tiene il fazzoletto di stoffa in mano, finché non insisti continuando a fissarlo. 
Tampona un po’ i capelli come può, e anche abbastanza distrattamente, come se non gli interessasse. 

- Non mi ammalerò per così poco. 

Non ti è mai piaciuto essere apprensivo nei confronti degli altri, hai sempre pensato che ognuno sia libero di curare se stesso come meglio crede, ma non riesci a non preoccuparti per Sherlock Holmes. Per la sua ostinata e ormai apatica cocciutaggine. - Non sono un medico, ma con tutta l’acqua che abbiamo preso io non mi meraviglierei se...

Sherlock ti guarda fisso negli occhi. E nei suoi occhi un certo intenerito fastidio, come se tu non fossi capace di cogliere il cuore del problema, indirizzando le tue energie ad azioni senza alcun senso. - So già quello che pensa. Non c’è bisogno che continui. 

- E allora saprà anche che non so come aiutarla. Che non capisco quello che lei non mi dice. 

Scuote appena il capo, continuando a riservarti quel suo sguardo. - Sono solo pensieri senza consistenza. 

- E qui si sbaglia. Perché devono averne una ben pensante per ridurla così. 

Ostenta un’espressione di strafottente serenità, scandendo bene ogni lettera.  - Sto benissimo. 

Sospiri, impotente di fronte al suo mutismo. - Potrà mentire a se stesso, ma non a me. 

Sherlock non risponde, si siede su uno dei gradini e aspetta. Tu non dici niente, ti limiti ad osservarlo, in silenzio, e a camminare dalla scalinata al portone, sbirciando di tanto in tanto fuori sperando di intravedere la sagoma bianca del taxi sotto lo scrosciare incessante della pioggia. 

***
Durante il percorso in taxi Sherlock non ha detto una parola. Guardava fuori dal finestrino, la pioggia che moriva sul vetro, le strade piene d’acqua, qualche saltuario ombrello che copriva appena il suo proprietario già zuppo fino al midollo. 

Arrivati in albergo, dopo aver sborsato una bella somma al tassista, con i vestiti eleganti sporchi di fango e bagnati fradici, avete anche dovuto sopportare di buon grado l’occhiata di schifata compassione della receptionist che ha porto a Sherlock la chiave della suite indirizzandogli un sorriso abbastanza tirato. 

Avresti voluto cantargliene quattro, dicendole che avrebbe potuto indirizzare a te questo trattamento e che non l’avresti biasimata, sebbene non ti avrebbe fatto piacere, ma che Sherlock Holmes, il grande pittore d’arte contemporanea, avrebbe sicuramente meritato ben altri modi. 

Ma hai preferito startene in silenzio, senza dire niente, ed hai seguito Sherlock in camera, esausto, rendendoti conto nell’aspettare l’ascensore, che sei così stanco che preferiresti assopirti su una delle poltrone dell’ingresso che salire due rampe di scale appiedi. 

Sherlock si è tolto il cappotto bagnato lasciandolo cadere con noncuranza su una delle poltrone del salotto, vicino alla quale ha lasciato anche le scarpe e i calzini inzuppati d’acqua. Per il resto non sembra intenzionato a fare più di tanto, si è seduto sul divano, la testa tra le mani, gli occhi chiusi. 

Ti liberi del soprabito bagnato e vai in bagno ad asciugarti un po’ e metterti il pigiama a righe che hai comprato oggi durante la sessione di shopping forzato. 
Durante la corsa in taxi avevi accarezzato l’idea di farti un bagno caldo, visto il freddo che sentivi fin dentro le ossa, ma vedere Sherlock così provato e così restio a parlare, lui, sempre abituato a dire la sua senza pudori, hai capito che non era il caso di pensare a te stesso più del necessario. 
Già indossare qualcosa di asciutto ti dona sollievo e sprofondare sulla poltrona del salotto ti conforta e ti ricompensa di tutto l’estenuante attivismo delle ultime ventiquattro ore. 

Sherlock viceversa non si è mosso di un millimetro, le mani sempre in faccia, gli occhi sempre bassi e chiusi. 

Ti costringi ad alzarti dalla poltrona e recuperi un asciugamano pulito per Sherlock. Glielo porgi, scuotendolo dalla sua apatia. 
Lui annuisce, indirizzandoti un cenno di ringraziamento. Poi si tampona un po’ i capelli bagnati con l’asciugamano, frizionando le tempie finché il risultato non gli sembra soddisfacente. 

Lo guardi per tutto il tempo, aspettando che da un momento all’altro lui possa spiegarti cosa volesse dire l’indizio, ammesso che ce ne fosse davvero uno, e sopratutto che voglia giustificarti il suo repentino cambio d’umore, i suoi silenzi, la sua tristezza. 
Eppure non dice niente. Continua a trincerarsi in questo elegante mutismo. 

- Mi spiega il perché di quella poesia?

Sherlock riprende a guardarti. I suoi occhi hanno riacquistato un po’ di ostinazione, la voce non ha mai perso la sua compostezza nonostante lo sguardo stravolto. Dà l’impressione di constatare l’ovvio. - Il Cavaliere Azzurro vuole sfidarmi. 

La risposta in realtà è fin troppo magra. Si ferma alla superficie del problema, senza scendere in profondità, senza volerne svelare l’essenza, senza permetterti di elaborare una soluzione. Detesti guardarlo così e non poter fare nulla. Torni alla carica, incurante della sua reticenza. - Non è solo questo. Me ne sono accorto. Non può essere solo questo.

Sherlock vuole visibilmente licenziare alla svelta la questione. Non vuole spiegare nulla. Così finge di averlo già fatto. Di averti già dato tutti gli elementi. E forse se soltanto tu fossi più intelligente, avresti già capito cosa nasconde. - Le ho già spiegato…

Ma tu purtroppo non riesci a cogliere. E del resto non è una sfumatura di colore che non sai perfettamente definire, ma un’intera tavolozza di persone, di cose, di situazioni, che non sai immaginare. Che puoi semplicemente tirare ad indovinare. 

Eppure non ti senti neanche di forzarlo, di costringerlo a rivelarti cose del suo passato che vuole tenere nascoste. Non oggi. Non ora. Ti sembra immensamente stanco e immensamente fragile. Sospiri quasi impercettibilmente. Sai come si fa ad estorcere informazioni dalla gente, ma con lui non ha mai funzionato. È sempre stato tre passi avanti a te, per non dire quattro. Non si è mai fatto prendere in contropiede. Forse adesso se continuassi ad insistere, potrebbe capitolare, rivelare qualcosa. Ma ti sembrerebbe sleale. Non ti sembrerebbe giusto. 

- Non deve dirmi niente che non voglia confidarmi. Voglio solo aiutarla.

Sherlock accenna appena un sorriso. Il suo volto è bello anche così, stanco come se reggesse sulle spalle le sorti del mondo, come se non potesse sfuggire a qualcosa di imminente e funesto. Gli basta quel mezzo sorriso e ha già vinto. 

- Lo sta già facendo.

Lo guardi negli occhi, quei suoi occhi scuri e chiari insieme, macchiati d’infinito e di inquietudine. - Lei deve dormire stanotte.

Inizia vanamente a protestare, alzandosi dalla poltrona, come per farti vedere che è perfettamente in grado di fare qualsiasi cosa, che non ha sonno, che non ha affatto bisogno di dormire. - Io non ritengo che…

Gli riservi lo sguardo più perentorio che la stanchezza ti concede. - Lei deve dormire. Non è una domanda. 

A Sherlock non piace ribadire l’evidenza, ma per onestà intellettuale non riesce neanche a negarla per molto. Si arrende abbastanza in fretta per i suoi standard. Annuisce. 

- Io starò sul divano. - chiarisci, scortandolo in camera. 

Sherlock si siede sul letto, lo sguardo assente, le mani abbandonate sul materasso. È così stremato che non continua neanche a protestare. 

Apri l’enorme armadio di fronte al letto e ne tiri fuori una coperta da portarti sul divano, insieme ad uno dei cuscini del matrimoniale. 

- Si cambi e vada a dormire.
Sherlock ti guarda con gli occhi di un bambino che ascolta tutte le sere le stesse raccomandazioni da parte della madre. Fai finta di non accorgertene. 

- Tornerò a controllare tra un quarto d’ora e voglio trovarla col pigiama e a letto.

Sherlock scuote appena il capo, non sai se infastidito o intenerito. Forse entrambe. - Non si preoccupi per me.

- Se lei adesso non va a dormire, domani non la faccio uscire da questa stanza.

La fronte corrugata, in realtà sembra appena divertito. - La stanza è mia.

Liquidi la questione sorridendo a tua volta, contento di vederlo un po’ più sereno. - Particolari.

Sherlock continua a guardarti, come se volesse dirti qualcosa. Così te ne resti lì, fermo come un salame, il cuscino e la coperta in mano, aspettando. 

Ma non sembra che la sua parte razionale voglia concedere alla sua bocca di dare voce ai suoi pensieri. Ha gli occhi fissi su di te, come se fossi un’ancora in mezzo al mare. La sua ancora. E ti basta quello sguardo addosso. Senti che non c’è bisogno di parole da parte sua. Ti volti, dirigendosi verso il salotto. 

E mentre sei di spalle Sherlock ha di nuovo il coraggio di parlare. La voce ha la consistenza di un sussurro, sfuggito via alla censura. - Grazie per quello che fa. 

Ti rivolgi di nuovo a lui, guardandolo a tua volta, mentre scuoti appena il capo, dolcemente. - Non faccio niente di strano.

Sherlock ti guarda con estrema serietà, continuando a starsene seduto sul letto, pesante di tutte le sue impronunziabili preoccupazioni. - John. Lei non mi conosce, io sono insopportabile, l’ho praticamente costretta ad aiutarmi in un’impresa folle, e lei si preoccupa persino che mangi e che dorma a sufficienza.

Sorridi appena, intenerito dalla sua ammissione di colpa. - È così che si comportano le persone. Si preoccupano per gli altri.

Ma per Sherlock quello che dici sembra essere scritto in arabo. Non sembra capacitarsene. - Tenerci non è mai un vantaggio.

È un artista deciso ed anticonformista, ma è anche un uomo solo e tormentato. Un uomo a cui l’aiuto spassionato degli altri sembra quasi impossibile.

Gli sorridi con fare rassicurante, nonostante il carico del cuscino e della coperta addosso. - Non serve che sia un vantaggio. Se sento di fare qualcosa la faccio e basta.

Sherlock ti guarda come imbambolato. Sembra d’un tratto diventato un altro.
 
Continui a sorridergli. - E adesso sento che lei deve dormire. 

Annuisce ancora. - Recepito il messaggio.

***

Entri nella stanza di Sherlock dopo una ventina di minuti, quando dalla porta aperta hai visto spegnersi la luce dell’abatjour sul comodino. L’artista se ne sta sdraiato sulla schiena, i capelli ricci schiacciati sul cuscino. Gli occhi chiusi. Il silenzio nella stanza interrotto solo dal tacito respiro di Sherlock. Non dorme. Non ancora. Ma è già un inizio.

Esci in punta di piedi dalla camera e ti sdrai sul divano, dove hai preparato una sorta di brandina.
Ti raggomitoli sotto la coperta e pensi che solo la sera precedente dormivi tu al posto di Sherlock. 
Dorme sulla sinistra, tu avevi dormito a destra. È un particolare irrilevante, ma dopo averci fatto caso, non riesci a dimenticarlo per un po’, prima di addormentarti. 

Un divano non è il posto più comodo su cui dormire, ogni tanto ti svegli, ti giri dall’altra parte, risistemi la coperta che ti aveva lasciato scoperti i piedi, pregando di riaddormentarti. E ti riaddormenti. Finché non senti dei mormorii, dei lamenti, dalla camera di Sherlock.
Esiti per un attimo ad alzarti dal divano, pensando di aver immaginato tutto. Ma senti delle parole sconnesse. Non nitidamente. Ma le avverti. Decidi che è il caso di andare a controllare.

Sherlock non è sveglio, gli occhi chiusi, il volto sudato, scuote il capo, mormora cose incomprensibili, visibilmente agitato e in preda ad un incubo. 

Sai che vuol dire avere gli incubi. Non sai che cosa lo angosci tanto, ma decidi di fare qualcosa. 

Ti siedi sul bordo del letto, titubante.
- Sherlock.

Lui non si accorge del tuo sussurro. Continua ad agitarsi. Gli accarezzi il viso pallido, e freddo di sudore, e fai risalire le dita fino ai suoi capelli scuri, saggiando tra i polpastrelli quei ricci che ti hanno sempre inconsciamente affascinato, accarezzandogli il capo con fare rassicurante.

- Sherlock. È solo un brutto sogno.
 
Si sveglia di soprassalto, scostandosi istintivamente. Ti guarda come se fossi un sicario mandato lì ad ammazzarlo. 

- Stavi avendo un incubo. Ti ho sentito dal salotto. Dovevo fare qualcosa.

Abbandona il capo di nuovo sul cuscino, respirando affannosamente, e scostando di poco le coperte. 

Ti alzi dal letto, tornando con un bicchiere di acqua fresca.

Lui annuisce appena, si mette a sedere e prende dalle tue mani il bicchiere.

- Non la bere tutta d’un fiato. 

Sherlock ha uno sguardo stravolto. I suoi occhi vagano in tutti i punti della stanza, come se non si rendesse conto di dove si trova. 
La camera è illuminata dalla luce proveniente dal salotto, ma per tranquillizzarlo accendi l’abatjour sul suo comodino. 

- Va tutto bene, Sherlock. Ci sono qua io.

Ti siedi di nuovo istintivamente sul letto affianco a lui, ma ti astieni dal toccargli di nuovo i capelli. 

Lui ti guarda come se non ti vedesse, il respiro ancora alterato. Gli fai cenno di bere.

Annuisce e prende un sorso d’acqua. E poi un altro. E un altro ancora. Fino a svuotare il bicchiere.

La luce, l’acqua, la tua presenza non sono sufficienti a calmarlo. 
Gli prendi il bicchiere dalle mani e lo appoggi sul comodino.

Lo spingi a sdraiarsi di nuovo.

Gli scosti la coperta. E ti azzardi a mettergli una mano sulla pancia. 

- Respira. Respira con il diaframma. Forza.

Ti lascia fare, chiude gli occhi. Senti la sua pancia alzarsi ed abbassarsi sotto la tua mano. 

- Più piano, Sherlock. Molto più piano. 

Dopo qualche minuto ti sembra più calmo, ha preso a respirare regolarmente. Gli controlli il polso, e i battiti sono regolari. È più padrone di sé, ma continua a non stare bene. È scosso. Non ha neanche la forza di lamentarsi della tua intrusione. Allontani la mano dalla sua pancia. 

- Va meglio?

Annuisce appena. 

- Cosa hai sognato?

Porta lo sguardo su di te, continuando a respirare piano. - Cose. Del mio passato.

Sospiri, mordendoti la lingua. Non è questo il momento di mettergli pressione per farti raccontare cosa lo tormenta. - Non sei tenuto a raccontarmele.

Annuisce ancora.

- Hai dormito a stento due ore. Hai bisogno di riposare. 

Lui scuote appena il capo, chiudendo gli occhi per poi riaprirli dopo appena un istante, prendendo a fissare la testata del letto. - Non ce la faccio.

Gli prendi la mano abbandonata sul fianco. - Sherlock, guardami. Qualsiasi cosa tu abbia sognato, è stato un incubo. È finito. E se è una cosa che appartiene al passato è finita da molto tempo. 

Sherlock ti guarda con risoluzione sconvolta. - Non finirà mai.

Continui a stringere la sua mano, sperando di trasmettergli un po’ di stabilità e di speranza. - Il passato bisogna lasciarselo alle spalle. Non dobbiamo farci perseguitare dai nostri fantasmi.

Sherlock ti guarda serio, con in volto la stessa esasperazione che manifesta quando non capisci una deduzione ovvia. - Non ci riesco. 

Paradossalmente sembra stare meglio. Che abbia la forza di controbattere è sicuramente un buon senso. Decidi di insistere. - Hai spesso questi incubi?

Per una frazione di secondo sembra restio a risponderti, ma anche questa volta la sua onestà intellettuale davanti all’evidenza si fa sentire. - Sì.

Lo guardi negli occhi, per captare ogni sfumatura del suo sguardo, per assicurarti che non ti menta. - Ed è per questo che non vuoi dormire?

Sherlock allenta la presa dalla tua mano, fino a lasciarla andare del tutto. - Non constatare l’ovvio, John, non lo sopporto.

- Siamo tutti fragili, nonostante la corazza che cerchiamo di costruirci. 

Sherlock non risponde, ma scosta completamente le coperte e fa per alzarsi dal letto.

- Hai bisogno di dormire. 

Sembra aver riacquisito la sua consueta elegante compostezza. - Non ho più sonno.

Tu sei stanco morto, e ieri notte hai dormito le tue consuete otto ore, lui, stravolto, provato, dopo essersi inzuppato d’acqua anche più di te, e per giunta senza aver dormito la notte scorsa, pretende di convincerti di non essere affatto stanco. Scuoti il capo. - Le tue occhiaie dicono diversamente.

Sherlock è rimasto immobile seduto sul letto affianco a te. Nel suo sguardo sembra nascosto un segreto troppo pesante perché un uomo possa sopportarlo. - John… tu non sai che cosa vedo.

Ti alzi precipitosamente dal letto, risoluto a risolvere, anche se solo parzialmente, la questione. - Ho capito.

Sherlock sembra allarmato. - Dove vai?

Torni con il cuscino in mano e ti siedi di nuovo affianco a lui.

- Quando ero piccolo e avevo gli incubi, mia madre, se se ne accorgeva, si sedeva sul letto affianco a me, mi faceva respirare come ho fatto prima con te, mi portava l’acqua, e poi restava con me finché non mi addormentavo di nuovo. Quando sono tornato dall’Afghanistan, avrei tanto voluto che ci fosse ancora mia madre, o qualcun altro, a farlo.

Sherlock ti guarda con quello che potrebbe sembrare spaesamento o imbarazzo. - Io…

Non capisci il perché di quell’esitazione finché non si consuma un interminabile attimo di silenzio. Hai invaso il suo spazio personale, gli hai accarezzato i capelli, ti sei seduto sul tuo letto, gli hai toccato la pancia, e poi hai stretto la sua mano, adesso stai dicendo di voler stare lì, affianco a lui, finché non si addormenta. Non c’era neanche un briciolo di malizia in tutto quello che hai fatto o detto, e Sherlock ha spesso dato prova di grande sfrontatezza, non pensavi di metterlo in imbarazzo...

Ti alzi nuovamente dal letto, afferrando il cuscino come per mettere una rassicurante barriera tra te e lui. - Mi devo mettere sulla poltrona?

Sherlock sembra stupirsi a sua volta della tua reazione. - No. 

Rosso in faccia ti siedi sul bordo del letto, appoggiando il cuscino. - Ok. Resto qua allora. Se vuoi vai in bagno, bagnati un po’ il viso. Quando vuoi torna… E se nel frattempo mi addormento svegliami.

Sherlock si alza dal letto e scompare in bagno per meno di cinque minuti, poi si sdraia di nuovo tirandosi addosso le coperte, spegnendo la luce sul comodino. 

Ovviamente non ti sei addormentato. Del resto, come avresti potuto? Hai trascorso tutto il tempo a passare in rassegna tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli indizi del Cavaliere Azzurro, le frasi in sospeso di Sherlock, il suo comportamento al Pantheon e poi al cimitero, le sue vaghe rivelazioni sul suo passato. Ma non hai trovato nessun indizio serio, forse perché le maggiori capacità deduttive le ha sempre avute lui. 

Al buio intravedi appena la sua sagoma. Sa benissimo che non stai dormendo. - Va meglio?

Senti un fruscio di coperte e di lenzuola, e Sherlock che si volta verso di te. - Insomma…

Dal tono della sua voce capisci che è davvero troppo esausto anche per mentire. Avrà cercato di darsi un certo contegno, se non altro per non farsi vedere ancora così disperato da te, e si sarà anche ripromesso di non cedere e di non dirti quali siano i suoi demoni, ma al contempo deve anche essersi reso conto di non avere abbastanza forza per fingere che vada tutto bene. 

Sospiri, guardando nella sua direzione. - Hai bisogno di dormire. 

- Lo so. Cercavo un sonnifero, per non ricordare gli incubi. Ma devo averli finiti.

Allarghi appena le braccia. - Vieni qua. Mia madre mi abbracciava. E io mi addormentavo.

Gli sfugge uno sbuffo, che voleva essere un accenno di risata.

Ma non aggiunge altro, si limita ad accoccolarsi addosso a te, poggiando la testa sul suo petto, un braccio abbandonato sul materasso, l’altro ti cinge il fianco. 
Senza neanche alzare gli occhi a guardarti, sussurra, contro la tua maglietta:- Grazie.

- Non c’è bisogno che mi ringrazi. Dormi un po’… 

Ed averlo lì, abbandonato tra le tue braccia, bellissimo e tremante, è più di quanto avresti osato sperare. Non riesci a non accarezzargli i capelli che ti solleticano il collo. 

Lui non si lamenta. Anzi, senti il suo respiro farsi sempre più calmo, e il cuore battere più regolare sul tuo petto, finché non si addormenta. 

***

Cominci gradualmente ad avvertire di nuovo il mondo intorno a te. 
Non senti più né il tacito respiro di Sherlock né il suo cuore battere. 
Apri gli occhi, infastidito. Lui non c’è più. 

Lo sapevi. 


Lo trovi in salotto. Seduto sulla sua poltrona. Di nuovo impeccabile nel suo completo elegante. Apparentemente impassibile. - Buongiorno.

Sherlock ha riacquistato la compostezza di sempre, il suo sguardo sembra di nuovo freddo e sicuro. Solo la sua voce tradisce qualche esitazione. - Per quello che è successo ieri notte…

Corrughi a stento la fronte. - Ma non è successo niente. 

Ti guarda negli occhi, con il tono di chi vuole giustificarsi alla svelta. - Io…

Non lo lasci continuare, scuotendo la testa. Non vuoi che si scusi di essere umano. - Hai avuto un incubo.

Sherlock si alza in piedi, avvicinandosi di poco a te con una sottesa ansia ben celata agli angoli degli occhi. - Lei mi promette di non scriverlo nell’articolo?

Ti sta dando del lei. Si tiene a distanza. Ostenta indifferenza, ma sembra preoccupato. Davvero teme che tu possa essere così vile da scrivere di ieri notte su un giornale? Ti ripugna il fatto che abbia anche solo potuto pensarlo. 
- Non mi frega niente dell’articolo. L’ho fatto per te.

Sherlock scuote appena il capo. - Nessuno fa queste cose per me. Da molto tempo.

Lo guardi negli occhi, sperando che il contatto visivo possa esprimere meglio delle tue parole quello che pensi. Quello che provi. - Questo non vuol dire che non possa farlo io.

Sherlock non si muove di un millimetro. Continua a guardarti, ma sembra intenzionato a farti desistere da qualsiasi proposito tu abbia. - Lei non mi conosce. 

Vorresti urlargli che è inutile continuare a darti del lei, o provare a cancellare in altro modo la familiarità che avete sviluppato ieri notte, in quell’abbraccio, la necessità di proteggerlo che ti è fiorita nel petto, il desiderio di avere di più, di non dover aspettare il prossimo incubo per accarezzargli i capelli, o stringerlo a te. Vorresti sapere il perché di quegli incubi, il senso dei biglietti del Cavaliere Azzurro, di quei fiori, di quelle poesie, dell’apatica disperazione di Sherlock. Hai bisogno di saperlo per poterlo aiutare, per renderlo felice, se solo volesse. - Tu non me ne dai la possibilità.

Sherlock ti fissa esasperato. - Perché continua a darmi del tu?

Ma non gli urleresti mai contro. Sarebbe inutile.  Eppure la tua voce ha un tono deciso, forse più del suo. - Perché continui a darmi del lei?

Sherlock non abbassa mai lo sguardo. Non distoglie mai lo sguardo. Ha occhi solo per te nella stanza. Lo prendi come un buon segno, insieme al suo momentaneo fissarti in silenzio. Negli occhi emozioni contrastanti su cui gli vedi imporre un grande autocontrollo. 

Quando ti avvicini a lui, non indietreggia né si scosta. Si limita a dire qualcosa di improvvisato e melodrammatico insieme. - Io sono una persona difficile. Con un passato difficile.

Annuisci, per fargli capire che questo non ti spaventa, che ci vorrebbe ben altro per farti esitare o per farti scappare via. - Anch’io ho un passato difficile. E con questo?

Stai sfidando Sherlock Holmes, abbattendo quel che resta delle sue difese. Eppure sei stanco, hai le occhiaie, i capelli arruffati, indossi un patetico pigiama a righe, fino a qualche giorno fa ti consideravi un fallito. E adesso Sherlock Holmes, quell’artista che avresti solo dovuto intervistare, si avvicina a te titubante, continuando a guardarti negli occhi. Continuando a blaterale stronzate. - Ti rovineresti la vita con me.

- Non penso. 

Sei ad un passo da lui. Un passo solo. 

Lo colmi, guardandolo negli occhi. 

Siete così vicini che avverti il respiro di Sherlock sul viso. 

Chiude gli occhi prima di te, le labbra che toccano per la prima volta le tue. Si abbandona completamente a quel bacio, saggiando la consistenza della tua bocca, esplorandone l’interno con la lingua. Di colpo ti manca il respiro. 

La tua voce è ridotta ad un sussurro. - Sherlock. 

È troppo in fretta sembra essersene pentito. - John, dimentic…

Gli sorridi quasi divertito, accarezzandogli il volto con le mani. - Sono fermamente intenzionato a non dimenticare niente.

Lo baci di nuovo, completamente perso nella sensazione di beatitudine che questo comporta. 

E il mondo intorno a te sfuma di nuovo nell’indistinto, e per qualche secondo non esiste altro che Sherlock e la disperata necessità di quel bacio. 




Note dell’autrice: 

Miei cari lettori, nonostante il caldo, le vacanze e casini con la connessione internet, sono qui finalmente ad aggiornare! Questa volta ho tardato forse più del solito, ma spero che il capitolo corposo e ricco di avvenimenti possa ricompensare l’attesa. Che ne dite? Ve l’aspettavate una svolta del genere? In realtà suppongo si, visto il mio intento manifestato senza troppi segreti di scrivere una Johnlock. Ma la storia ovviamente non finisce qui, anzi, ci aspettano ancora altri rocamboleschi capitoli! Il mistero intorno al Cavaliere Azzurro e ai suoi propositi é ancora molto fitto... Se avrete la pazienza di seguire la storia ne verremo a capo insieme a John e Sherlock. 

Nel frattempo, devo specificare qualcosa del capitolo che avete appena letto. 

Mi auguro che qualcuno abbia capito il riferimento - e l’omaggio - al magnifico film di Radu Mihăileanu “Il concerto” i cui protagonisti sono appunto Anne Marie Jacquet e Andreï Filipov. È la storia bellissima e tormentata dell’allestimento allo Chatelet di Parigi dell’opera 35 di Tchaikovsky. Non ho spiegato molto della trama del film per non fare troppi spoiler per chi volesse vederlo e poi perché la storia è dal punto di vista di John che non ne sa niente e non ha l’intuito di Sherlock. Mi auguro di aver saputo rendere l’atmosfera del film, comunque! Se qualcuno dei miei lettori l’ha visto spero di leggere il suo commento circa quest’omaggio all’originale. 
Per chi non ha visto il film, beh, guardatelo, è bellissimo! E spero di non avervi annoiato.
La scena che ho descritto è quella finale, se volete, su internet si trova anche solo quella parte. 

Per il resto. Non esistono davvero gli scavi sotto al Pantheon e dubito che anche se ci fossero possano mai essere facilmente utilizzati per entrare nel monumento illegalmente, ma spero di avere la nostra comprensione, dovevo pur inventarmi qualcosa. 

La tomba di Voltaire è davvero al Pantheon e quella di Verlaine davvero al Cimitiére des Batignolles. 

I versi in latino sono di Properzio. L’incipit dell’Elegia I del Corpus di quest’autore latino. Ecco la traduzione:

“Cinzia per prima conquistò me, infelice, con i suoi begli occhi,
io, mai colpito prima da alcuna passione. 

Allora mi costrinse ad abbassare gli occhi dall’alterigia ostinata
Amore, e mi premette il capo sotto i piedi”

Sul perché di questa scelta taccio per evitare spoiler! 

Colgo inoltre l’occasione per ringraziare Blue Lady, Fiamminga e  marig28_libra, che mi sostengono e dispensano saggi consigli - o semplicemente condividono i miei scleri - per questa ed altre storie. 

Ringrazio le venticinque persone che hanno messo la storia tra le seguite e le sei che l’hanno messa tra le preferite. Nonché chi mi segue come autrice. Mi auguro di leggere un vostro parere prima o poi, ma nel frattempo sono comunque contenta di avervi come pubblico. Spero di non deludervi. 


Alla prossima! All’incirca tra un mese dovrei pubblicare il capitolo VII, se va tutto bene. Nel frattempo buone vacanze a tutti! 

Saluti, 

lady dreamer 
  
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