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Autore: TheEldestCosmonaut    07/08/2015    2 recensioni
Una rielaborazione del mondo fantastico ideato da Leandro Consumi e Gianfranco Enrietto, e sviluppato da Giochi Preziosi ©.
In una un tempo sperduta e sconosciuta isola del Grande Golfo, situata alle porte dell’inesplorato Mare dei Serpenti, un anziano maestro nato e cresciuto qui, dal passato oscuro e dall’identità misteriosa, noto a tutti, fuorché la moglie, come semplicemente il Cronista, riunisce ogni mattina i giovani del suo Popolo di appartenenza, il Popolo della Foresta. Il Cronista insegna ai cuccioli della sua etnia la storia lunga della razza che domina l’Isola di Gorm: in particolare, è arrivato il momento per il Cronista di narrare le vicende degli ultimi cinquant’anni circa dei gormiti, i più intensi e sanguinari, quelli che maggiormente hanno sconvolto le usanze, la filosofia, la scienza, e in generale la realtà intera dell’isola, e che hanno aperto i suoi abitanti alle altre razze del Grande Golfo.
Mappe:
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Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Come aveva sospettato Opale Nero, le più orribili e nefande magie con il preciso scopo di uccidere e distruggere non si sarebbero fermate alle Armature Dorate e nemmeno allo spettacolo privato di Opale Nero e Fasonis il Re Stregone.
La battaglia della Valle della Disperazione era stata avviata con un’iniziale svantaggio da parte delle truppe di Luminescente III e del Vecchio Saggio, costrette alle marce forzate nel deserto, nonostante gli aiuti rinfrescanti del popolo di Karmil.
E’ pur vero che le Armature Dorate avevano apportato un generoso contributo all’avanzamento della campagna a favore della fazione del Vecchio Saggio, sufficiente per portarla alla parità con l’esercito dello Stregone di Fuoco, ma non abbastanza per generare un cospicuo vantaggio.
Nulla sarebbe stato d’aiuto ora che l’esercito di Obskurios si era deciso in quella tattica. La Valle della Disperazione doveva essere abbandonata.
Una magia prodigiosa e mostruosa, e altrettanto impegnativa e piena di sofferenza sia per il bersaglio che per il mandante.
Akarion, il nome affibbiato alla nefandezza aracnide recuperata da Skorpios, era la vittima di quell’incantesimo e l’artefice della ribalta vulcanica e yamense.
Sotto gli occhi increduli delle decine di migliaia di soldati di entrambi i fronti, accompagnati dalle grida imbizzarrite delle salamandre, dei grifoni e dei cervi muschiati, il ciclopico ragno rosso stava subendo una trasformazione immonda.
Gradualmente ma dolorosamente ed estremamente rapidamente, l’aracnorosso stava crescendo in dimensioni ululando per l’agonia dei muscoli che accrescevano il loro volume, a tal punto da poter inghiottire gli interi eserciti in conflitto con una sola tela espulsa dal suo addome.
Fu il delirio più assurdo e totale, un abominio grottesco e apocalittico.
L’aracnorosso avanzò a furia cieca, spinto dalla follia e dal tormento che quell’incantesimo gli aveva impartito.
La sua fazione fu più gioiosa che atterrita, e si diede a una carica ancora più sfrenata e spericolata che mai, convinti della vittoria e di non poter più essere respinti.
Il fronte opposto al contrario fu solamente e nella maniera più assoluta invaso dal terrore al suo stato più autentico e potente. Una fuga scatenata senza precedenti nelle campagne belliche di Gorm.
L’abbandono della Valle della Disperazione fu un evento dettato dalla necessità di aver salva la pelle a tutti i costi, non c’era bisogno di alcun ordine. L’intera massa dell’esercito si spostò all’unisono, risalendo quanto più rapidamente le loro gambe stanche gli permettevano, e ancor di più per la paura, le due entrate alla conca desertica, e scorrazzando disordinatamente per il deserto sabbioso che si apriva al di sopra, con l’esercito nemico alle calcagna, per nulla infiacchito e rinvigorito fino al midollo da quell’improvvisa svolta degli eventi.
I plotoni del Sommo e del Vecchio Saggio non cessarono l’evasione nemmeno quando Akarion, esaurita la durata dell’incantesimo, tornò rapidamente al suo stato originale, espandendo nell’area circostante un calore insostenibile che arrivò fino agli accampamenti nella Valle di Teunor, la meta prescritta dell’esercito che voleva distrutto l’Occhio della Vita.
La Valle di Teunor.
Un ammasso caotico di rovine della natura più svariata e dell’età di centinaia d’anni, lasciate a bruciare nell’arsura dello sconfinato Deserto di Roscamar, invase da forti licheni.
Un’antica città, fiorente in tempi antichi quando si narrava che il Deserto fosse più ospitale al punto da offrire un ricco lago all’interno della sua distesa.
Questo in tempi antichi, i tempi della leggenda di cui nemmeno le profezie e le tavole di Patmut Iun parlano. Nessuna traccia degli abitanti di quella città, nessuna reliquia che possa dare informazioni sul loro stile di vita, su cosa li costrinse ad abbandonarla.
Solo alte colonne semidistrutte, pilastri crepati, muraglie diroccate la cui pittura era andata svanendo velocemente nel corso degli anni, rosa dal clima arido, lasciando ai posteri che vagavano occasionalmente tra i suoi resti mere bianche ossa di marmo e creta.
La carica folle di Akarion era stata devastante anche per lo stesso esercito che l’aveva scatenata.
Fu stipulata una tregua di ben pochi giorni, per dedicarsi allo stabilimento – o al rinsaldamento – degli accampamenti, il rifornimento, la sepoltura dei morti – qualora era possibile, tranne per i ka’nhili che valorizzavano solo gli occhi dei defunti – la cura dei feriti, il riposo delle truppe prima di una nuova esplosioni.
In questo clima, gli ingegneri e gli stregoni di Karmil non persero tempo a progettare e fabbricare altre di quelle speciali armi che avevano promesso ai gormiti; lo stesso fecero i gargoyle.
Tuttavia ciò che avevano in serbo richiedeva ulteriore tempo prima di poter essere dispiegato, e si decise di sfruttare la tregua per scoprire che cosa di preciso stessero macchinando gli avversari e, magari, derubarli dei loro progetti.
***
I due drappi che chiudevano la tenda del re furono sollevati dalle due guardie all’esterno – una era vulcanica – lasciando Skonissas libera di entrare.
Si scostò il cappuccio della veste grigio - verde che la ricopriva, chinando il capo e facendo oscillare la treccia di capelli neri, piegandosi nel leggero inchino con la mano sinistra sul cuore.
“Mio re.” ossequiò.
L’obiettivo dei suoi ossequi e il suo motivo di trovarsi in quella tenda era ovviamente il re Obskurios, comodamente sdraiato su un improvvisato trono di legno rialzato su tre ampi gradoni e decorato all’estremità dei braccioli con teschi di varia origine, come del resto anche il vero trono a Tato Yami. Non indossava la corazza, appesa a un palo lì dietro, solo la clamide azzurra. L’attrezzatura con la mazza ferrata era appoggiata per terra, la catena ben arrotolata al suo interno, lasciando libero il moncherino del re.
Pantiavros, il secondo di Obskurios, era in piedi al fianco sinistro del seggio regale. Diversamente dalle altre volte che Skonissas lo vide, non era nudo, solo parzialmente dalla cintola in su. Aveva un braccio fasciato.
“Skonissas figlia di Emoghenes, sapevo che le tue doti non ti avrebbero lasciata morire, nella Valle della Disperazione. - si congratulò inizialmente Obskurios - Queste tue doti ci servono ancora.”
“Ditemi in che modo, e obbedirò.”
“Sono sicuro che lo farai.” commentò il re, poi si diede alla spiegazione della sua missione.
“Nostre spie alate hanno confermato che i ka’nhili stanno cooperando ancora una volta con i gormiti per la costruzione di un'altra arma speciale, un’ennesima armatura il cui nome pare essere…Neor’gani.”
“L’ingegnere a capo di questo progetto sembra essere di nuovo El’eter. Non sappiamo se siano già pronte, quante ne siano in costruzione né che cosa di speciale abbiano. Ma i nostri SSX-47 non sono ancora pronti, e voglio che i nostri uomini sappiano che cosa li aspetta e reagire come si deve a questa nuova minaccia.”
“Mio re, volete che io corra per la terra di nessuno, mi infiltri nell’accampamento avversario e mi impossessi di una di queste Neor’gani?” chiese Skonissas, volendo arrivare subito al sodo senza tanti sproloqui.
“Esattamente.” confermò Obskurios. Chiamò a sé Pantiavros con un gesto della mano: quello, muto e obbediente come rare volte, entrò in una stanza secondaria della grande tenda. Ne uscì subito dopo, con in mano un panno che nascondeva un oggetto lungo e affilato. Un pugnale particolare?
“Tieni, Skonissas. - intimò Pantiavros porgendoglielo - Questo è un dente di un grande daicao, insieme a una cartina per arrivare da El’eter. Sicuramente non te ne frega da dove viene, e nemmeno a me frega di dirtelo. Comunque, contiene un veleno, che dovrai iniettarti e ti darà il potere del mimetismo perfetto. Ne avrai sentito parlare, spero.”
“Certo, Pantiavros.” gli garantì lei, stringendo a dire il vero un po’ insicura il panno bianco.
“Dovrai usare quel potere per passare inosservata nella terra di nessuno e nel territorio nemico. - riprese Obskurios - Molto più valido dell’incantesimo dell’invisibilità. Quando ti sarai presa il veleno, attivarlo ti verrà spontaneo. Ricordati che renderà invisibile con te tutto ciò che hai addosso al momento in cui lo attivi. Quindi se prendi qualcosa quando lo hai già attivato, dovrai disattivarlo e riattivarlo per nasconderti a dovere. E se lasci qualcosa che si era mimetizzato con te, perderà l’invisibilità.”
“E ricordati - si intromise Pantiavros - che dovrai essere molto scrupolosa. Se fosse così facile infilarsi e nascondersi tra i nemici con la magia, a quest’ora traboccheremo di intrusi.”
“E non lo siamo, decisamente no.” assicurò nervoso Obskurios.
“La tua ombra non sarà nascosta. - continuò sempre il re - Dovrai partire questa notte stessa, o una delle prossime, ma preferisco oggi. Non possiamo farti uscire dalla porta dell’accampamento, dovrai volare, o potrebbero accorgersi di qualcosa. Nella terra di nessuno, ti consiglio di usare la muraglia per nascondere meglio i tuoi movimenti. Sei autorizzata ad attaccare e uccidere solo quando hai preso l’armatura, se c’è. Tutto chiaro?”
“Ho compreso tutto, mio re. Sono pronta a partire stanotte.” garantì lei senza esitazione, portandosi una seconda volta la mano sul cuore.
“Il tuo successo sarà premiato come si deve, Skonissas. - gli promise Pantiavros - Avrai a disposizione gli schiavi da letto che preferisci, o le schiave, o entrambi, se hai gusti particolari. Fallisci, e la tua punizione sarà esemplare.”
“Non fallirò, lo giuro.”
“Lo spero per te. - mormorò Obskurios poco convinto - Lascia questa stanza, ora.”
 
Come aveva promesso, Skonissas volò all’esterno dell’accampamento illuminato dalla torce quella notte di menumdie 32 Redrubise 859, secondo il calendario gormitico.
Era particolarmente freddo il deserto notturno: l’escursione termica in simili ambienti era cosa risaputa da chiunque, anche da chi come Skonissas – o come tutti i gormiti – non avevano messo piede in altro deserto che in quello di Roscamar.
La coscienza del funzionamento della natura in quel paesaggio non fu di grande utilità per scacciare quel gelo che Skonissas soffriva, contrapposto all’afa più sopportabile per lei del giorno precedente.
I suoi vestiti non la aiutavano: una veste uniforme, grigia e verde, dotata di cappuccio che al momento le copriva il volto e la cupa chioma, dandole inoltre un aspetto temibile e misterioso, degno di un’assassina qual era. Non aveva maniche per coprirsi le braccia nude, e terminava in una sorta di corta gonnella che lasciava scoperte quasi tutte le gambe, dotate di una grandiosa femminilità, perfettamente depilate e con le generose curve al posto giusto.
L’intera veste era piena di tasche e aperture, in cui era sapientemente contenuta una dose letale di armi da taglio delle più svariate misure e forme.
Degli stivali anch’essi corti occupavano i piedi e la parte inferiore di tali gambe, foderati com’era solito di uno speciale panno che attutiva i suoni emessi dai passi. Cosa che non arrecava chissà quale guadagno, su suolo sabbioso.
Lo stesso si poteva dire del fossato e dei pali anneriti e appuntiti conficcati nel profondo della sabbia per intralciare l’avanzata nemica. Quando sicuramente metà dei propri nemici sono capaci di librarsi in volo o come minimo superare tale ostacolo con magia, forza magica, o ali naturali, quel tipo di precauzioni erano obsolete, alla vista di Skonissas.
Una vista riempita da un panorama amabile, per chi sa riconoscere le bellezze costruite dalla natura.
La sabbia era polvere di diamante alla luce delle due lune Redrubin e Greemerald visibili nel cielo stellato, straordinariamente luminoso e privo di qualsiasi nuvola ad ostacolare l’approdo dei cupi raggi di luce delle stelle e delle lune, così invidiose di Nejema e desiderose di imitare e superare la sua brillantezza, ma destinate per sempre ad essere pallide copie del grande astro diurno.
Le rovine marmoree che fuoriuscivano candide dalla sabbia come fossili portati alla luce dallo scalpello del vento accrescevano la spettacolarità di quel panorama, conferendogli un aspetto più romantico, quasi a rammentare i viventi dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo e del suo porre fine incontrastabile ad ogni civiltà.
Le torce luminose di fuoco e di pietre di luce che accendevano l’orizzonte riportavano Skonissas alla realtà, e alla consapevolezza della propria missione e che la fine della sua, di civiltà, era ancora lontana.
Nascondendosi cautamente nonostante il mimetismo magico nella roccia dei resti di Teunor, come le era stato consigliato, il suo pensiero vagò per un attimo sulle tre lune di Mitera.
Chelreba, Reshuanra e Azratua le chiamavano i gargoyle di Tato Yami e coloro che non erano stati cacciati dalla madrepatria. Anch’essi, come i ka’nhili e i gormiti, chiamavano il sole Nejema. Questo perché quel nome non era di origine gormitica e fu l’influenza che un tempo quei due popoli adiacenti ebbero sui gormiti ad introdurlo nel loro dizionario.
Davvero strano. - si disse Skonissas - Pensare alle lune, proprio adesso e proprio qui. Mah.
Terminate tutte le possibili riflessioni su i tre dischi maggiori della volta notturna, Skonissas si concentrò sui gormiti. Una specie affascinante e potenzialmente pericolosa. Per fortuna o per destino, la loro potenza combattiva non devastò mai Tato Yami. Quando l’avo di Magmion Magmadoni approdò alle coste nere della loro isola, la paura fu ciò che provarono prima di tutto i gargoyle di quel tempo. E paura continuarono a provare le volte seguenti che i vulcanici scendevano tra di loro per trafficare merci. Una paura superiore a quella che saggiarono i guerrieri delle Tenebre quando si videro arrivare a frotte gormiti di ogni colore e forma, al tempo dello scontro con i karmiliani su Gorm.
Quando però, nonostante la loro indole furente, i gormiti del Vulcano dimostrarono di voler semplicemente mercanteggiare, e disponendo inoltre di numerose materie prime e lavorate che i gargoyle fecero la fila per comprare, gli yamensi abbandonarono gradualmente il timore nei loro confronti, ma non il loro interesse.
L’argomento di maggiore interesse per Skonissas in quel momento fu come riuscivano i gormiti a sostenere quello stato di belligeranza, di guerra e guerriglia che continuava ormai da diversi anni.
Da quel che sapeva, i gormiti erano assai numerosi, nonostante lo strano modo di concepire l’atto della riproduzione, e godevano, sia i civili che i soldati, di un benessere generale invidiabile.
Di quali inesauribili risorse disponeva l’Isola di Gorm oltre al famigerato Occhio della Vita che per altro mai fu usato per ottenere qualcosa, solo riverito e temuto?
Tali dubbi dovettero rimanere senza risposta, giacché Skonissas era ormai giunta in prossimità dell’accampamento di Sommo Luminescente III.
Il fossato e la barriera di giavellotti era presente anche da quella parte. Non dubitava che probabilmente sarebbe servito a qualcosa, ma pensò comunque che fosse una cosa stupida. Oltrepassarlo senza farsi male era un gioco da ragazzi. Oltrepassarlo senza farsi sentire, a quell’ora della notte, era un altro paio di maniche.
Le sentinelle oltre il fossato c’erano, e usare la forza magica, sia secondo la via della luce o dell’ombra o anche senza manifestarla, creava notoriamente un disturbo sonoro – niente di particolare, ma durante la notte poteva essere udito maggiormente – nonché visivo, simile a quello provocato dal calore (l’aria che tremola, per intenderci).
Con la massima attenzione, sorvolò la fila mobile di guardiani e la palizzata e atterrò parecchio dietro di loro, attenta a non fare troppo rumore e a non smuovere troppa sabbia.
L’ombra generata dalle torce e dalla pietre luminose appese intorno alle tende era trascurabile. Non lo era affatto la sabbia schiacciata e scossa sotto il suo peso. Dovette procedere con estrema precisione e lentezza, appoggiando il più dolcemente possibile i piedi a terra, onde evitare che i suoi passi tradissero la sua presenza.
Camminare lentamente era però allo stesso tempo controproducente, a causa delle sentinelle e dei gormiti svegli che passavano per la sua strada, che lenti non andavano, e doveva lottare per non urtare con essi.
Tuttavia, lei era preparata a tutto questo. Erano le sue doti che l’avevano fatta scegliere da Obskurios per quella missione. Non era la prima volta che la sua vita era messa in pericolo da una simile situazione ostile: non sarebbe stata l’ultima.
Tutto procedette per il meglio fino a destinazione, la tenda con il laboratorio dell’ingegnere El’eter, straordinariamente non molto lontana dal confine con il deserto aperto.
Fu costretta a impararsi a memoria il sentiero da percorrere, e ad andare alle volte a caso. Questo perché la mappa datale, mimetizzata insieme a lei, non la poteva vedere!
Alla tenda cominciavano però problemi più seri. Il lato positivo fu che non vi si entrava attraverso una porta solida in legno, e nemmeno con le porte scorrevoli tipiche dei ka’nhili, era un drappo come tutti gli altri. Il lato negativo era rappresentato da due guardiani ka’nhili, appostati a un piede dall’entrata.
Non sarebbe potuta accedere senza urtarli.
Niente di troppo complicato. - pensò poi, vergognandosi per aver avuto timore di fallire di fronte a quella sciocchezza - Una distrazione, una distrazione qualunque.
Cauta a non farsi scoprire, raccolse un ciottolo da terra, e lo lanciò. Si impegnò per fare in modo che facesse più rumore possibile, scagliato contro una tenda vicina e sollevando molta polvere.
“Cosa è stato?” domandò la guarda più vicina.
“Va’ a controllare.”
La guardia si allontanò. Skonissas entrò in azione. Facendo attenzione a non sollevare troppo il lembo di tela che chiudeva la tenda, a far sì che non toccasse la guardia restante, entrò.
Ora entrava in gioco la parte più pericolosa e difficile della missione: recuperare l’armatura Neor’gani o suoi progetti, uscire e tornare dal re.
L’armatura era senza dubbio realtà: El’eter, spogliato di tutto tranne che di un paio di calzoni, stava lavorando a un completo metallico nero, nel buio della stanza che si allargava più avanti, illuminando il piano di lavoro con la luce che emetteva dal palmo del braccio sinistro minore.
Skonissas avanzò sicura di sé. Poi l’improvviso e l’inaspettato. Forse perché presa dalla convinzione di non poter fallire, forse perché non ancora abituata al non vedersi del mimetismo perfetto, andò a sbattere contro un ripiano, facendo rovesciare un vaso di terracotta.
“Chi è là?” gridò El’eter, puntando il suo fascio luminoso sul vaso che cadeva…e che poi, in un lampo, rimaneva sospeso da una forma invisibile e lanciato a tutta forza verso il volto mezzo cecato dell’ingegnere ka’nhili. Non appena il colpo andò a segno, Skonissas saltò fino a ritrovarsi alle spalle di El’eter.
Gli tappò la bocca. Estrasse dal guanto che copriva la mano un pugnale nascosto. Lo conficcò nella gola del ka’nhili.
Quando fu certa della sua morte, trascinò il corpo a un angolo della tenda, per poi voltarsi con una certa preoccupazione alle quattro corazze nere come la notte appese ai loro sostegni nel bel mezzo della sala.
Le guardie dovevano aver sicuramente sentito i rumori all’interno. Non sarebbe mancato molto prima che il loro sospetto le avrebbe fatte entrare e scoprire il misfatto.
Non c’era tempo per cercare progetti, e nemmeno poteva trascinare una di quelle armature fino all’accampamento opposto. Doveva trovarne in fretta una che facesse al caso suo e indossarla.
Inforcò quella più sottile e più piccola che trovò, constatando che, eccezion fatta per la schiena, le calzava a pennello. Notò con curiosità uno strano bracciale, sul braccio sinistro, parecchio pesante e ingombrante, che presentava quelli che sembravano tre ingranaggi con le punte colorate in modo diversamente.
Tuttavia aveva prodotto un frastuono immane, facendo cozzare le varie parti – era anch’essa a placche.
“Ingegnere El’eter, tutto bene? - domandò una guardia all’esterno - Abbiamo sentito del rumore. Ingegnere, rispondete.”
La sabbia della clessidra era agli sgoccioli. Skonissas doveva uscire, e non certo per la porta.
“Ingegnere, sto entrando. Ingegnere, dove siete? Ingegnere!”
“El’eter è morto! E’ scomparsa un’armatura Neor’gani!”
“I suoi occhi sono a posto?”
“Sì, tutti e due.”
“Bene. Lascialo andare. Guardie, abbiamo un intruso dotato di protezioni magiche. Ha rubato una delle armature Neor’gani. Sondate il perimetro, non può essere andato lontano.”
Skonissas, dopo aver attivato nuovamente il mimetismo perfetto, uscì completamente invisibile sollevando un lembo di tenda, diretta a rotta di collo fuori da lì.
Dovette fare i conti con le precauzioni prese dalle sentinelle. Tre guardiani, due ka’nhili e un marino, portavano due dita a contatto con la tempia. I loro occhi brillavano di verde, e cercavano ovunque tracce dell’intruso.
Uno dei ka’nhili posò lo sguardo magico e luminescente sul punto in cui si era fermata Skonissas. Non sul punto, proprio su di lei. Quell’incantesimo permetteva di vedere attraverso la maggior parte delle protezioni magiche, e il mimetismo perfetto sembrava non fare eccezione.
“Intercettato l’intruso. - gridò - Gargoyle femmina, ha indosso l’armatura Neor’gani.”
Portò alla tempia opposta due dita dell’altra mano: un fascio di luce verde proruppe dai suoi quattro occhi, andando a colpire la celata Skonissas. Quel colpo non le fece male, ma fece di peggio. Annullò il mimetismo che aveva attivato su di sé. Ora potevano vederla.
“Fermate l’intruso, fermate l’intruso.” ordinava meccanicamente il ka’nhili, spegnendo gli occhi magici e traendo con la forza del pensiero la sua spada lunga. La tenne saldamente nella mano, e con una decisa sciabolata produsse un tagliente getto rettilineo di luce diretto a lei. Lo stesso fece l’altro ka’nhili; il gormita mise in moto una rapida Zanna del demone marino.
Senza credere a quello che faceva, Skonissas, abbassandosi, saltando, scattando lateralmente a velocità impressionante, maggiore di quella a cui era abituata, riuscì a schivare tutti i tre colpi iniziali, e tutti quelli che seguirono, che quasi non la toccarono.
Sorprendente. - pensò Skonissas - Possibile che l’Armatura Dorata potenzi la forza, e questa Neor’gani l’agilità? Mi pare un po’ una copia del senso di colibrì e del vigore delle gemme, però…
Sebbene i tre avversari non fossero molto basiti di quella dimostrazione di prontezza di riflessi – ad eccezione del marino – Skonissas scelse di ignorare ulteriori attacchi per far fuori quei tre guardiani.
Sollevandosi graziosamente in aria con una giravolta, estrasse inosservata tre dardi da una tasca e con la forza magica li lanciò con precisione fenomenale ai colli dei tre.
Quelli si immobilizzarono subito. Versi di soffocamento proruppero copiosi dalle loro bocche, mentre si portavano invano le mani alla gola avvelenata.
Skonissas si era già dileguata.
“Mostrami cosa sai fare, Neor’gani.” gridò Skonissas fuggendo. Quello strano bracciale doveva pur servire a qualcosa. Quei tre strani ingranaggi sembravano essere in grado di muoversi. Verificatolo, ruotò il primo dei tre, con i dentelli colorati di pittura argentea.
Traendo energia sia dal suo corpo che dalla riserva stessa della corazza, Skonissas e tutto ciò che aveva indosso si fecero trasparenti.
“Davvero interessante, ma alquanto inutile per me.” commentò leggermente delusa, un attimo prima di andare a sbattere contro un terricolo. Che l’armatura fosse non ancora ultimata, che forse non fosse costruita per lei, l’urto annullò l’invisibilità appena evocata. E cosa ancora peggiore, c’erano due terricoli insieme a quello. Non si fece cogliere impreparata.
Balzò immediatamente dietro al terricolo in questione, di fronte agli altri due. Quasi come accadde con El’eter, tenne fermo il corpo del gormita, un pugnale pronto a dissanguarlo pericolosamente vicino al collo.
“State fermi! Fermi, o l’ammazzo! Lasciatemi andare e non succederà nulla.” intimò a quei due, solo vagamente sicura che fosse una buona idea.
I gormiti della Terra ringhiavano rabbiosi, ma a parte questo sembravano restii a salvare il loro amico così come a impedire a Skonissas di farla franca.
“Idioti! - gridò il gormita in ostaggio - Non pensate a me! Che aspettate, fermatela!”
“Taci, tu!” urlò Skonissas, avvicinando la lama al gozzo.
“Tocca fare tutto a me!”
Senza aspettarsi un’azione simile, il terricolo spostò con decisione con la sua forza superiore il braccio che minacciava il suo collo, facendo cadere il pugnale, e con l’altro diede una gomitata dritto in volto a Skonissas. Si voltò repentinamente e diede uno schiaffo al furtivo gargoyle.
“Ti pentirai per questo.” ringhiò Skonissas facendo qualche passo indietro, davvero contrariata per quel ceffone – del resto, chi ama riceverli?
Si alzò in aria, e abbassandosi con uno schianto sollevò un’onda nera di forza magica, che travolse i tre terricoli il tempo necessario perché lei potesse continuare la sua fuga.
Azionò il secondo ingranaggio, quello dentellato di blu. Nulla cambiò.
“Che scherzo è questo. - digrignò i denti, battendo furiosamente la mano su quel bracciale mal funzionante - Una cosa simile non aiuterà per niente il Sommo o il mio re.”
“Di sicuro non aiuterà il tuo re, ladra.”
La voce profonda e severa che pronunciò quelle parole provenne da un’imponente figura dalla pelle rugosa e verde, di fronte a lei. Un volto segnato dagli anni, allungato in avanti e pieno, ma ancora carico di forza da scatenare in battaglia, sormontato da un paio di lignee lucide corna. Un grosso e bitorzoluto bastone componeva il suo braccio destro, una mano grande e forte da spezzare le pietre nella sua stretta e dita uncinate erano il sinistro.
Tutto questo rivestito di una sfolgorante e massiccia corazza d’oro, riccamente decorata. Le spalliere richiamavano la forma di maschere tribali, triangolari, con occhi, naso e bocca scolpiti in quella lega incantata. Grandalbero il Signore della Foresta.
“Non riuscirai a fermarmi.” sibilò Skonissas, piroettando di lato per sfuggire alla prestanza superiore di quel bestione di legno.
Grandalbero si spostò rapidamente al punto di arrivo della gargoyle, nonostante l’impedimento del peso maggiorato e i riflessi migliorati di cui doveva disporre Skonissas.
Con il ciclopico bastone sferrò una potente vergata alla spalla della yamense, che per poco non si capovolse. In seguito fu il turno del pugno, ma che mancò il suo bersaglio.
Infatti fu deviato da una pronta flessione dell’avambraccio di Skonissas. Repentinamente si piegò con il busto all’indietro per assestare un calcio in volto al Signore della Foresta.
Volteggiando subito dopo il calcio, si gettò con il braccio in avanti caricando un colpo d’ombra diretto al petto dell’avversario.
Grandalbero indietreggiò solo di mezzo passo.
“E’ inutile resistere. - gli fece notare, tutt’altro però che tronfio - Non puoi competere contro un gormita con questa corazza. Anche se dovessi sfuggirmi, sei in territorio nemico, da sola. Non la farai franca.”
“Questo lo credi tu.” lo sfidò. Scelse di mettere in azione la sua mossa preferita con la forza magica.
Concentrò la tenebra attorno al suo braccio: lunghi filamenti di cupa e bruciante oscurità si avvolsero attorno al polso, e da lì si prolungarono in una punitiva e impietosa frusta.
Schioccandola senza far rumore, la fece stringere al braccio di Grandalbero e, nonostante la sua massa imponente, lo sollevò e lo scagliò via.
Ora doveva correre, correre e correre fino anche a morire, purché la Neor’gani arrivasse da re Obskurios.
Fu vano. Un assalto di luce la travolse come una meteora. Grandalbero, tutt’altro che fuori gioco, caricò verso di lei, sballottolata a terra da quell’improvviso e furioso attacco.
Il Signore della Foresta fu su di lei, e ben preso radici forti come catene d’acciaio la costrinsero al suolo.
“Come ti avevo detto, gargoyle: non potevi competere. La tua missione è fallita. Ora sei un prigioniero di guerra, e non tornerai al tuo accampamento, né con il bottino, né a mani vuote.”
***
Sessantacinque anni. Tredici lustri. Poco meno di un secolo. L’anno del calendario elfo non differiva molto da quello gormitico.
Questo il tempo che il Vecchio Saggio aveva passato lontano dalla sua culla e casa, la sua madre amorevole, fonte della sua vita e del suo successo come persona, come stregone più potente del suo tempo.
Sessantacinque anni fattivi, compiuti. In realtà ne erano trascorsi di meno, all’incirca cinquanta. La permanenza saltuaria all’interno del Dachezhanyù era origine di numerose problematiche temporali.
Come si chiamava la sua città? A stento lo ricordava, ormai. No, era lui che si ostinava a dimenticare il suo passato, a far crollare nel buio tutti gli anni trascorsi a Lacedimora. Gli anni migliori? Chi può dirlo.
Centotredici anni. Aveva raggiunto quella straordinaria età, e senza troppe complicazioni fisiche, grazie a un oceano di intrugli di lunga vita e al suo smanioso attaccamento all’Occhio della Vita e al senso di responsabilità per la sua necessaria distruzione.
Molto più di metà di quegli anni li aveva trascorsi in quell’isola abbandonata e misteriosa, mai solcata da più di un abitante delle terre orientali in una volta sola. Ventiquattro per la precisione. Quarantotto a Lacedimora e nel Grande Golfo.
La sua mente cominciava a fare cilecca. Aveva passato su Gorm proprio metà degli anni passati in patria. I restanti anni li aveva trascorsi a ricostruire il popolo gormitico nel suo appezzamento di territorio privato, di cui non ricordava il nome.
Forse non aveva davvero centotredici anni. Era vecchio, il Vecchio Saggio. Vecchio oltre ogni modo e misura possibile per le persone normali. A ben guardare poteva essere definito immortale dai vici, che hanno una speranza media di vita assai breve.
Vici. Non ne vedeva da una vita. Chissà se la faida tra i rivoluzionari di Inverrith e i fedeli alla Triade del Venturgio era stata risolta. Poteva essere successo di tutto in quegli anni lontano da casa. Poteva essere stato dimenticato da tutti, e forse era meglio così.
Ciò che contava per lui era la gloria e il bene che aveva portato su Gorm. Sull’Isola, lui non sarebbe mai stato dimenticato.
Era il Vecchio Saggio, il grandioso stregone che aveva compiuto un lungo viaggio per approdare sull’Isola di Gorm, il prodigioso inventore ed educatore che insegnò ai gormiti una conoscenza assai più specifica dei meccanismi della natura e i metodi per piegarla ai propri scopi, il salvatore la cui venuta era stata profetizzata dalle incisioni a Patmut Iun.
Salvatore, già. Così poco sapevano i gormiti delle vie con cui Aria, Terra, Mare e Foresta erano stato ricreati dal nulla. Così poco sapeva lui stesso di come riuscì a realizzare un simile progetto stringendo alleanze con genti di mondi arcani e lontanissimi.
Più di ogni altra cosa, era colui che li avrebbe salvati dal più pericoloso degli oggetti e il più vicino ai gormiti: l’Occhio della Vita.
La sua ragione di vita, il suo unico scopo. Lo tenne lontano dagli insaziabili gormiti del Vulcano e dalle fauci dello Stregone di Fuoco, che ormai non riconosceva più come un tempo suo simile, suo amico e apprendista. Lo nascose e lo studiò con tutte le sue forze. Aiutato dai gormiti che tanto in gratitudine erano con lui da seguirlo persino nel pozzo incandescente di un vulcano, nei tentacoli instancabili e inarrestabili della Grande Piovra.
Disegnava curiosi e precisi cerchi nel terreno polveroso di quella grotta buia, pensando senza nascondere un po’ di divertimento a come fu azzardato e al tempo stesso azzeccato nascondere l’Occhio della Vita dove Magor e il Vulcano non avrebbe mai pensato potesse trovarsi: nella Caverna di Roscamar, nei labirintici cunicoli sotto la pianura della capitale, non lontano dal precedente rifugio.
Ma continuare a nascondere e studiare l’Occhio non arrecava alcun guadagno. Nonostante tutti i suoi sforzi, quel manufatto, la sua misteriosa correlazione con i gormiti – era giunto a credere che fosse in qualche modo responsabile della loro stessa esistenza - continuavano a rimanere un segreto.
E il sangue e la linfa continuavano ad essere sparsi in scontri eterni che avrebbero portato Gorm al collasso, presto o tardi. L’intromissione di ka’nhili e gargoyle portava il conflitto a un livello di importanza esageratamente più alto: l’intero mondo sarebbe dipeso dall’esistenza o la distruzione dell’Occhio della Vita, se le cose avessero proceduto a quel modo.
Il Vecchio Saggio si era ripromesso di impedire che la situazione fosse degenerata nella via che temeva, divenendo un eroe solitario commemorato unicamente dai gormiti.
Ho esaurito le mie risorse, non posso fare nient’altro -  i pensieri drammatici del Vecchio Saggio, a dire il vero piuttosto tranquillo - Bisogna porre fine a tutto questo, adesso. Serve una soluzione finale…
Il suono della pietra che crepita riempì la grotta. All’inizio fu flebile come il passo di una formica, un ticchettio continuo e inconsistente, spaventoso a lungo andare se non ne si conosce la causa, una bazzecola di cui non aver motivo di preoccupazione in caso contrario, e un fastidio crescente se incessante.
Il crepitio non accennava ad arrestarsi e in più accresceva la sua potenza sonora e la sua frequenza.
Il misterioso picchiettio continuava e continuava, divenendo pari a una cascata di diamanti su una superficie solida e rigida, e più esso si poteva definire frastuono, più un preoccupante calore colmava la sala naturale.
“E’ finita, Razael.”
L’annuncio altisonante di chi sa di avere la vittoria in pugno, il nemico nella propria stretta, riecheggiò per le pareti rocciose della caverna come un incontestabile verdetto di punizione.
“E’ davvero finita, lo so bene.” sospirò il Vecchio Saggio, alzandosi dalla umile sedia di pietra e reggendosi tremante al bordone di legno e di smeraldo, inseparabile compagno di vita.
Fiamme fragorose avviarono la loro lenta e inflessibile invasione del rifugio da ogni fessura e frattura che trovavano, imperlando della loro elevata temperatura la fronte del povero vecchio.
“Hai spezzato le mie difese in silenzio, vedo. Dopo così tanti anni, i miei insegnamenti non sono andati perduti.”
“E’ ormai inutile pararsi dietro questa maschera di arroganza e superiorità, Razael.” dichiarò indiscutibile, celato agli occhi del Vecchio, lo stregone che pregustava il suo trionfo, e al contempo si manteneva composto e austero come di fronte a un figlio maleducato e impertinente.
“Questa non è un’illusione: è la realtà. Io sono qui, maestro. La tua resistenza decennale è giunta al tramonto, e con essa porrai fine al maleficio che hai imposto su di me, e su quest’isola e i suoi poveri abitanti.”
“Non sono dello stesso giudizio, Magor. - eccepì l’anziano stregone . La tua punizione è stata più che giusta, e non ci sarà fine ad essa. Per quanto riguarda l’Isola…hai ragione, Magor.”
“Parla chiaro, maestro. La mia esitazione a colpirti sta per cedere.”
“Sono stato uno sciocco a credere di poter aiutare i gormiti distruggendo l’Occhio della Vita. A giocare a fare l’eroe, studiando un metodo per annientare questo pericolo forgiato dagli déi. Io non posso. Non so distruggerlo.”
Il fuoco di Magor cresceva sempre più, e il fumo prodotto dalla collisione di esso contro le pietre cominciò a divenire soffocante.
“Temo che mi abbia…fatto qualcosa. - svelò, a capo chino, vergognandosi per essersene accorto solo ora - Sono diventato il suo schiavo. Se io non posso distruggerlo, sarà qualcun altro, qualcuno di cui mi possa fidare, a farlo per me, o a buttarlo via lontano, come l’immondizia che è, dove non possa più nuocere a nessuno.”
“Non ti permetterò di farlo. - tuonò Magor - Non hai possibilità per farlo.”
“Il mio tempo qui è finito, Magor. Ho ancora della vita davanti a me, ho ancora la possibilità di aiutare, di ripagare vecchi debiti…e lo farò.”
Incurante del fuoco che gli arricciava la barba e aveva fatto del suo volto un oceano di sudore, si precipitò zoppicante verso il tumulo su cui l’Occhio della Vita fluttuava innocuo.
Lo prese tra le mani.
“Cosa stai facendo? Fermati!” ringhiò tempestoso Magor.
Un grido muto delle labbra screpolate del vecchio stregone, e l’Occhio sollevato in alto scomparve, un bolide spinto veloce come il mare in tempesta. Scavò la sua strada verso la sua meta, precedentemente collegata a quell’incantesimo di trasporto, attraverso un foro nella roccia, e da lì diretto verso luoghi ignoti.
“Addio, Magor. Abbi cura di te…per sempre.”
“NO!”
Le fiamme si unirono in un solo grande incendio sotto sembianze elfe. Un artiglio incandescente prese forma, affamato del Vecchio Saggio. Ma quello era anch’esso scomparso.
Un tocco della punta del bordone al suolo: la stella del varco spaziale, disegnata e riempita delle magiche polveri nel pavimento ruvido, si era illuminata, e la rottura dimensionale ebbe luogo.
In un istante, il Vecchio Saggio vi passò attraverso, scomparve da Gorm, dal Grande Golfo, da Mitera, e richiuse il passaggio dietro di sé.
“No! No, no! NO!”
Magor non aveva più contegno. La sua rabbia, la sua frustrazione, ribollivano prive di limiti. Lacrime di fuoco scorrevano per le guance d’incendio, bagnavano le labbra roventi e si asciugavano sui denti infiammati, stretti, digrignati fino a spezzarsi.
“Sei un mostro, un mostro! UN MOSTRO!”
Incantesimi e forza magica scagliate senza controllo rimbalzarono per le pareti rocciose, ruppero le stalattiti, distrussero i barattoli ivi conservati, bruciarono il prezioso sale nero guadagnato dal Vecchio Saggio nella sua vita su Gorm, rovesciarono la ricca sfera veggente.
Ma mai il frastuono provocato dalla distruzione della grotta poteva smorzare le urla di disperazione di Magor, lo Stregone di Fuoco.
***
Lo scontro aveva ripreso a infuriare presso le antiche rovine di Teunor, sotto gli occhi guardinghi e preoccupati di Sommo Luminescente III, che osservava il proseguimento dello scontro dall’alto.
L’Occhio della Vita era nella sua mano. L’avanzare delle ostilità gli sembrò un affare privo di importanza, ora che teneva stretta tra le sette dita la vera fonte di quel conflitto.
Così piccolo, così pericoloso…a detta del Vecchio Saggio.
Aveva sospettato di dover prendersi quella responsabilità. Era parte del piano, il Vecchio Saggio lo aveva informato in segreto che la probabilità che si sarebbe dovuti giungere a questo era elevatissima.
Non aveva idea di dove si trovasse al momento il Vecchio Saggio, del suo stato di salute, o altro. Sapeva solo che le condizioni si erano mostrate ostili, e non aveva avuto altra scelta che consegnare l’Occhio nella persona più fidata ancora in vita che Razael possedeva come amico.
Ora spettava a lui. La chiave per far eclissare ogni scontro era nelle sue mani, e la porta si sarebbe aperta senza indugi.
Si chiese se era davvero quella la scelta migliore da fare.
Esaminò per qualche secondo la superficie levigata e vitrea di quel dono dalle stelle, come lo rappresentava un graffito dei cultori degli Osservatori, la strana materia ora liquido, ora come fumo che scorreva al suo interno.
Ritrasse immediatamente lo sguardo: non poteva esitare, non poteva deludere il suo amico e le migliaia di gormiti che erano morti per fari sì che quel giorno divenisse realtà.
In più, temette che, come aveva fatto al Vecchio Saggio – così diceva lui – l’Occhio potesse mostrargli visioni, allucinazioni, corrompere la sua mente e piegarla a compiere azioni che gli sarebbero parse ovvie e naturali, ma che con l’attuale consapevolezza sapeva essere l’esatto contrario di ciò che era la sua missione.
Non c’era da indugiare oltre.
Si innalzò sempre più avanti nel cielo, scattando via via più velocemente e più lontano con l’incantesimo di trasporto rapido, librandosi con una scia di luce e usufruendo delle sue ali come non aveva mai fatto prima.
Salì dove nessun altro gormita aveva mai sbattuto le sue ali, dove nessun ka’nhili o gargoyle era giunto con l’arte della forza magica, dove persino gli uccelli rapaci più robusti evitavano di andare.
La battaglia, un quadrilatero scomposto e multicolore nell’immensità del deserto, sembrava davvero così futile e poco importante, vista da lassù.
Il vigore delle gemme e le pietre preziose di cui era carico lo avrebbero salvato. Però il suo respiro diveniva faticoso, e le ali parevano essersi appesantite e congelate. Ora o mai più.
Pronunciò un incantesimo sull’Occhio, quasi baciandolo, e con forza lo lanciò in altitudine, dove si precipitò tanto spedito da creare una scia, nel cielo più freddo e insondato…
El’issam si lasciò cadere giù.
***
Freddo. Gelo e vuoto incolmabili riempivano il suo cuore, il profondo dell’animo di tutti.
Una tempestosa e dominante sensazione di freddo, di mancanza, di inaspettata e mai provata vuotezza.
Una spada arroventata tra fiamme di ghiaccio, che aveva trapassato il cuore e lo spirito di ogni combattente, e abbandonato il costato privo di ferite ma svuotato di tutta la voglia di fare che scorreva nel corpo, di ogni desiderio al di fuori di quello di riempire lo spazio freddo e arido che occupava quella nicchia protetta dai muscoli e dalle costole così perfettamente e costantemente contro gli urti e le armi.
Nulla poteva però difenderla dai moti dell’animo, da quel mistico e malinconico gelo che l’aveva colpita, privo di una lama che le ossa potevano trattenere, di una forza che il petto poteva respingere.
All’unanime, ogni gormita in lotta presso l’antica e distrutta città di Teunor, riarsa e splendente alla bieca luce del deserto, aveva cessato ogni ostilità.
Non appena quel freddo glaciale toccò senza più abbandonarli i cuori dei gormiti, guerrieri da entrambi i fronti, la loro passione bellicosa si spense come le stelle quando sorge il Sole.
Chi caricava rabbioso, arrestava il suo cammino; chi alzava la propria spada per dare il colpo di grazia all’avversario, lasciava cadere giù il braccio, e il nemico in questione non faceva nulla per fuggire o per contrattaccare, sconvolto anch’esso come il suo carnefice; chi tendeva l’arco per scoccare temibili e precisi dardi, rilassava fulmineo la corda.
Tutti loro percepivano il mutamento improvviso scatenatosi dentro di loro: debolmente portavano la mano al petto, sperando vanamente che il conforto del calore del proprio palmo potesse addolcire l’agghiacciato cuore.
Rendersi consapevoli in un istante di aver sempre posseduto qualcosa, un’abilità innata, un occhio, un dito, di averne sempre usufruito con spontaneità, solo quando questa viene tolta prepotentemente da una forza nascosta, senza possibilità di trattenerla o di riaverla indietro. E capacitarsi in quello stesso attimo di come la vita sarà dura, indiscutibilmente diversa, impoveriti di tal elemento.
La voce tonante e stremata di El’issam Luminescente III portò all’intero campo una notizia che scosse ulteriormente tutti i guerrieri.
L’Occhio della Vita non era più su Gorm. Consegnato con la magia dal Vecchio Saggio nelle mani del Sommo Signore di Karmil, gettato con ribrezzo e odio a centinaia di piedoni d’altezza, proiettato per decine di leghe di mare lontano verso sud, destinato a sgretolarsi ed estinguersi una volta per tutte prima di poter toccare la superficie del mare, o di qualunque terra si trovasse nell’estremo meridione.
Il principio e la fine di tutto. Ciò per cui Gorm è stata stremata dalla guerra sin dall’efferato Grande Sacrificio, per cui anche le relativamente pacifiche civiltà di Karmil e Tato Yami erano state attanagliate in nuove ostilità, per cui il Vecchio Saggio, il magnifico stregone d’oriente, aveva lottato una vita intera.
Mai più. Mai più un crimine imperdonabile come il Grande Sacrificio sarebbe stato commesso in nome del maledetto artefatto; mai più l’ossessione del suo possesso avrebbe portato allo scoppio di un conflitto micidiale quale la Grande Guerra di Gorm; mai più l’avidità di potere e di dominio avrebbe guidato genti amiche a uccidersi tra di loro; mai più.
La convinzione che il conflitto eterno fosse giunto alla sua tanto attesa eclissi riempì parzialmente di gioia il vuoto nei cuori dei gormiti. Da quel momento in poi, nessuno avrebbe più dovuto abbandonare i suoi compagni e familiari, il suo lavoro e le sue ambizioni, per arruolarsi e morire in battaglia, per quanto eroicamente.
Un altro avvenimento, di cui alcuni scelti furono resi consapevoli in oscure e sconosciute maniere, fu riferito e riportò nei gormiti parte dell’inquietudine colmata dalla felicità di un attimo prima.
Il Vecchio Saggio era scomparso. Non vi era più alcuna traccia di lui. La grotta in cui era nascosto anzitempo insieme all’Occhio della Vita era divenuta muta immediatamente dopo il lancio dell’Occhio, e nessun messaggio da parte dell’elfo aveva più raggiunto i suoi guardiani della Terra.
Era morto per l’incredibile età raggiunta? Era scappato rattristito dalle condizioni in cui Gorm si era ridotta, anche per causa sua?
I gormiti non sapevano quale delle due opzioni preferire: entrambe erano terribili. Ben presto avrebbero scoperto che il suo corpo non si trovava tra le macerie del suo rifugio, ma già prima di averne la certezza dicevano a se stessi che era fuggito. Fuggito per un buon motivo, senza dubbio, vivere la sua vita, quel poco che sicuramente gli rimaneva, nella pace e nella tranquillità di un luogo ameno. Tornato nella sua dimora, a est.
Tali convinzioni non confortavano del tutto i gormiti. Dovunque fosse, era irraggiungibile. Non avrebbero più avuto in lui una guida solida e fedele, di cui non temere mai nessun inganno. Il naufrago che scelse di vivere gli anni più vivi della sua esistenza a favore del progresso gormitico, che li aveva aiutati più di quanto essi stesse credevano possibile, non era più al loro fianco a consigliarli e guidarli, ad insegnar loro il funzionamento della natura e delle macchine con cui migliorare la vita.
L’abbandono così repentino di quell’uomo che era da sempre stato il loro faro, senza preavviso, il vuoto lasciato da lui e dall’Occhio della Vita – era chiaro che dipendesse dalla sua mancata presenza, ormai – rendeva gli abitanti dell’Isola assai tristi.
Ma guardavano avanti, a un futuro migliore, privo della minaccia dell’Occhio della Vita, e il loro umore si risollevava.
Disorganizzate e sbandate erano le truppe, scosse e trionfanti, rassegnate e disturbate. Non c’era più motivo di continuare la lotta: alcuni da entrambe le fazioni seguitarono ugualmente a mietere vittime, presi dalla follia della sconfitta, dalla vuotezza per diversi insostenibile del loro spirito, dalla convinzione della vittoria, ma poi tutte le armi brandite dai gormiti si fecero mute e sorde.
Solo i ka’nhili e i gargoyle procedevano a combattere, non invasi dalla sensazione gelida che aveva accomunato i gormiti, poiché nulla avevano loro a che fare con l’Occhio della Vita.
Tuttavia anche loro dovettero mettere da parte i reciproci odi razziali e abbandonarsi alla realtà: la battaglia era conclusa.
Grandalbero era di diversa opinione. La lotta era sì terminata, ma lo stesso valeva per la civiltà gormitica. Lui più di altri, così come i gormiti affini che aveva raccolto innanzi a lui, sentiva di più l’assenza dell’Occhio della Vita e il vuoto da esso scavato dentro i gormiti.
“Ci siamo scavati la tomba da soli!” gridava quasi furibondo, nell’Armatura Dorata ammaccata e impolverata.
“Non era questa la soluzione che dovevamo cercare, e il Vecchio Saggio è fuggito proprio perché non l’ha saputa trovare.”
Ora che la loro mistica guida era sparita, anche se solo da meno di un giorno, Grandalbero ed altri si sentivano più liberi nel criticare alcuni aspetti della sua condotta. Ovviamente non tutti accettavano di buon grado che si parlasse di lui a quel modo, presente o non presente su Gorm.
“Non dobbiamo biasimarlo per le sue azioni” si rifece repentinamente per l’azzardo delle parole precedenti, notando i cipigli contrariati di alcuni “Ha agito per il nostro bene, dobbiamo tutti essergli grati per ciò che ha fatto. E se n’è andato per evitare di farci del male, e lo ringrazieremo anche per questo.”
“E’ noi stessi che dobbiamo incolpare!” e additò uno ad uno i presenti, e poi indicò se stesso con un pugno al petto.
“Non abbiamo capito il profondo collegamento che esiste tra noi e l’Occhio della Vita. Lo abbiamo gettato via senza comprenderlo, questo dono degli Osservatori. Lo abbiamo rifiutato, ed è questa la giusta punizione che dobbiamo soffrire.”
Non c’era più alcun motivo per nascondere la sua fede, così contraria agli ideali condivisi da più di metà dei Popoli alleati e del Vecchio Saggio. Poteva tranquillamente sbandierarla come un vessillo senza temere nulla. Inoltre, la sua fede negli Osservatori era anche differente dal canone per certi elementi.
“Questo vuoto dentro di noi, questo freddo…Dovremo sopportarlo fino alla fine dei nostri giorni, e tutti i nostri figli, e i figli dei nostri figli, la nostra discendenza ne soffrirà fino all’apocalisse.”
Perseguiva nel colpirsi malinconicamente il torace corazzato con la verga al braccio destro, lo sguardo abbassato e crucciato nella consapevolezza di dover vivere con quel senso di freddo.
I suoi seguaci davanti a lui, sorpresi della verità e della potenza del suo verbo, non erano di diverso umore, rassegnati. Il trionfo definitivo pareva quasi non avesse alcun significato per loro.
“Non è finita qui, oh, no che non è finita.” riprese Grandalbero. Levò la mano e forgiò, combinando spirali su spirali di legno, un tozzo e corto paletto, duro di corteccia. Contrariato, fece no con la testa e lasciò cadere il rametto per terra. I suoi compari non sembravano capire.
“Lo sapete anche voi, lo avete provato. I nostri poteri si sono indeboliti, ci fiacchiamo prima. Ce lo meritiamo.” spiegò, e anche questa volta i forestali in piedi di fronte a lui dovettero dargli ragione.
Un cambiamento improvviso nei visi e negli occhi di quei abitanti della Foresta sorprese Grandalbero.
Il loro interesse verté all’unanime, uno dopo l’altro, verso un oggetto non ben definito che prendeva forma in alto, dove i loro occhi lo fissavano pervasi da emozioni contrastanti.
Chi tremante e impaurito, chi invece decisamente più tranquillo e affascinato da quella visione.
Quando i primi cominciarono ad additare confabulanti lo straordinario fenomeno che si stava scatenando nel cielo, prossimo sempre più al suolo, Grandalbero si voltò, e fissò anche lui.
Alto nel brillante e sereno cielo diurno del deserto, più abbagliante di Nejema, stava avendo luogo un fantasioso gioco di luci: violetto, magenta, verde mare, indaco, una nube luminosa grossomodo circolare orbitante un nucleo pallido e accecante.
L’eccezionale fenomeno atmosferico lasciava una scia di fuoco bianco dietro di sé, e avvicinandosi sempre di più a Gorm le inquietanti vibrazioni da esso emesse crescevano in intensità.
“E’ proprio come è stato profetizzato. - concluse Grandalbero, sicuro di sé, sicuro della fine imminente - Ricordo perfettamente la profezia che ci avvisava di questo futuro. Abbiamo tradito le parole e l’offerta degli Osservatori, e dalle stelle, la loro casa, discende ora l’astro fautore della nostra meritata distruzione. Fratelli e sorelle, questa è l’apocalisse.”
***
Thorg sovrastava trionfale con lo sguardo l’intera Valle di Teunor. Stanco, sereno, soddisfatto, vittorioso, ferito, felice.
Osservava con piacere le truppe da entrambi i lati ritirarsi nelle proprie file, i pochi soldati che ancora lottavano fermare la loro avanzata e gettare, vinti e vincitori, le armi per riunirsi con i fratelli sopravvissuti.
La lotta decennale si era conclusa, e Thorg il Signore della Terra aveva preso attiva parte alla battaglia, al progetto che ne aveva decretato la sua definitiva fine.
La missione di grandiosi condottieri prima di lui si era incarnata in Thorg ed era lui ad averla portata a termine, riunendo in sé i giuramenti fatti in vita da quegli onorabili Signori e capi militari che avevano dovuto portarseli oltre la tomba.
I loro sogni erano stati rispettati e conquistati e le loro preghiere in letto di morte per il trionfo dei loro discendenti erano state ascoltate.
Thorg, insieme ad altri valorosi e molti morti, aveva reso finalmente reale la fine della guerra, e si era così facendo ricavato un posto d’onore tra gli immortali eroi del suo Popolo e di tutta Gorm.
Poteva dire di poter morire felice e senza rimorsi: il suo ricordo dopo la morte non sarebbe mai svanito.
Il vuoto e il freddo che lo rodevano piano da dentro erano trascurabili, la fuga o la morte del Vecchio Saggio era un evento sì mesto ma che non doveva oscurare la certezza della vittoria decisiva.
Assorto nei suoi pensieri, racchiuso nell’armatura nera e arancio ampiamente rovinata, specie dopo la caduta con il dragone, notò solo con la coda dell’occhio alcuni ciottoli pietrosi al suolo che si levavano dalla sabbia, mossi da un leggero quanto anomalo mulinello di vento.
Si rese appieno conto di ciò che stava accadendo e della sua anormalità quando quei sassolini raggiunsero la sua altezza e con deboli ma fastidiosi urti andassero a colpire, uno dopo l’altro, la fronte cornuta del Signore della Terra.
Più incuriosito che preoccupato dall’anomalia, gettò svogliatamente lo sguardo a destra e a sinistra, in basso e in alto, alla ricerca di cosa poteva aver prodotto quel singolare accadimento.
Alzando gli occhi, la vista lo disgustò alquanto.
Un guerriero piumato, il peggiore con cui avesse avuto l’opportunità di incrociare sguardo, parole e armi. Scarsamente armato, quasi per niente, con il piumaggio violaceo e pervinca scuro, a tratti ceruleo e addirittura rossiccio, libero da qualsiasi sorta e forma di abito o corazza ingombrante e grave.
Portava al contrario una specie di piccola bisaccia bruna a tracolla, e una cintura di pelle piena di tasche e piccoli sacchi di tela.
Devilfenix, il Signore dell’Aria.
“Salve, Thorg. ‘Antico’ Thorg.” Lo salutò fingendo amicizia e salacemente.
“Antico? Come mai questo soprannome?” domandò alquanto infastidito e per nulla turbato dalla sua presenza il Signore della Terra.
Se vuole fare quattro inutili chiacchiere - si diceva il terricolo - non sarò io a non dargli corda. Ha perso.
“Sei vecchio dentro, Thorg. - spiegò sfacciato ma serio il Signore dell’Aria - Così legato ai tuoi eroi del passato e alle loro ambizioni…anacronistiche.”
“Non c’è nulla di vecchio, o di sbagliato, nel rifarsi ai classici. E i loro ideali sono seguiti da tutti ancora oggi.” replicò offeso Thorg. Poteva fargli di tutto, Devilfenix o chiunque altro, ma non toccare i suoi modelli del passato e offenderlo per la sua emulazione di quelli.
“Certo, certo…da tutti. L’importante è crederci, dico bene?” lo schernì per nulla convinto l’aereo.
“Che sei venuto a fare, Devilfenix? - gli chiese innervosito - A farmi perdere tempo, o a chiedere la mia pietà? E’ legittimo, dopotutto. Il tuo Popolo è sconfitto, Devilfenix. Se solo avessi usato la tua posizione per riportarlo alle sue radici, potresti essere anche dalla parte dei vittoriosi.”
“Non mi interessa del mio Popolo o di avere perso. - osò Devilfenix - Quello che conta è che sono vivo.”
“E cosa vorresti con la vita che ti sei tenuto?”
“Quest’Isola è ingiusta, e pericolosa. Ho deciso di andarmene, abbandonare questo mucchio di sassi.” queste le drammatiche e concise parole, che racchiudevano in esse tutta la detestabile personalità materialista e sfruttatrice di Devilfenix.
Pur essendo consone al personaggio, Thorg non riuscì a nascondere la sua sorpresa.
“Andartene? Andartene dove?”
“A Tato Yami. O più in là, se devo. Ovunque tranne che qui. In un posto dove possa arricchirmi, e diventare potente e famoso. Qui non c’è più strada sicura che possa prendere. Guerra e responsabilità da ogni parte, e poi tutti possono dominare gli elementi.”
Levò le mani al cielo, sognante e sorridente. Disse rapito: “Pensa. Pensa a cosa potrei fare io, con i miei potere dell’aria e la mia forza e il mio aspetto, dove nessuno può eguagliarmi. Diventerei un dio tra gli elfi, o tra le altre genti di questo mondo.”
“Questa è follia. - lo rimproverò Thorg, contrariatissimo e sconvolto da quelle parole - Saresti disposto ad abbandonare il tuo Popolo solo per diventare più ricco?”
“Certo che sì.” affermò schietto Devilfenix. Un pugno al cuore per il Signore della Terra.
“Niente mi lega a questa gente, che non può più offrirmi nulla. Se non il sangue, o le leggi. Ma le leggi sono fatte per essere infrante, è così che dicono.” riprese disinvolto.
“Tu…tu sei… - Thorg a stento tratteneva la sua rabbia - Sei il peggiore gormita che abbia mai incontrato. Il peggiore esempio di gormita dell’Aria. Con te il tuo Popolo ha davvero toccato il fondo. Non hai un briciolo di rispetto per i tuoi valorosi antenati, carichi di veri ideali e onore, che ti hanno permesso tutto ciò che hai adesso?”
“Basta! Finitela tutti quanti con questa storia dell’onore e degli antenati!” gridò esasperato e rabbioso il Signore dell’Aria. Non c’era davvero nulla di aereo in lui, oltre alla natura fisica. Era più un vulcanico, ormai.
“Non me ne frega niente, lo capite? Voi non avete ancora capito che quello che conta in vita è sopravvivere anche sfruttando gli altri, viverla al meglio che si può. Non c’è nessuno che vi giudicherà quando sarete polvere. Dimmi, Antico Thorg, i tuoi straordinari eroi e i loro straordinari valori, che fine hanno fatto? Dimmelo, coraggio. Sono morti, i loro sogni non li hanno salvati. Sono tornati polvere alla pari di tutti gli altri, compresi i criminali e i più immeritevoli gormiti che sono esistiti.”
No, almeno un vulcanico aveva un senso dell’onore e rispettava i propri simili e i personaggi del passato. Lui no.
“Vedi? Sei rimasto senza parole. - continuò Devilfenix - Non puoi negare la verità”
“Ho già perso troppo tempo con te, Thorg. Divertiti con i tuoi eroi.” parlò ancora.
Si volse, lanciando uno sguardo che il Signore della Terra non poteva decifrare alla distesa della Valle di Teunor e del Deserto di Roscamar.
“Addio, mucchio di sassi.” e volò via celere, senza più guardarsi indietro.
Thorg dimenticò presto quanto il tempo che impiegò Devilfenix a scomparire quella conversazione. Non aveva mai avuto luogo. Balle, scempiaggini, idiozie e blasfemie erano le uniche cosa che Devilfenix aveva vomitato dal suo becco indecente.
Non sfuggirono agli occhi ora più che mai attenti del Signore della Terra le luci multicolori che si formavano nel firmamento lindo di nuvole, e il fragore prima un mero tremore poi sempre più forte che accompagnava quel globo luminoso misterioso che discendeva su Gorm. Ma non gli diede molto peso.
***
La mazza ferrata dipinta di rosso colpì nuovamente la schiena di El’issam, che fu scaraventato su una roccia.
Il suo avversario gli camminava incontro, lento e sicuro di sé. Le sue ali da pipistrello erano comodamente ripiegate, sul volto un sorriso malefico, reso più oscuro dalla sinistra luce prodotta dalle sue corna verde veleno.
Il Sommo si rizzò più rapidamente che poté, scostando la polvere dalla sua armatura argento e oro, e mettendosi a posto l’elmo - corona pallido. Quasi non sentiva più le ali e la schiena, tanti i colpi subiti.
“Dovresti riconsiderare la tua opinione di colpo potente.” proferì altezzoso. Sebbene, in realtà, soffriva eccome di quell’attacco.
Obskurios spalancò la bocca divertito.
“Non l’avrei mai detto, ma non ti passa proprio la voglia di scherzare!”
Mentre la catena della mazza ferrata si riavvolgeva nell’attrezzatura del braccio monco, Obskurios schioccò la sua frusta personale, il Nero Artiglio, in direzione del volto del Sommo.
Il re di Tato Yami, contrariamente ai suoi sudditi in battaglia, non lottava mai con lo scudo circolare dipinto, la lancia lunga e arzigogolata nella parte della lama. Le uniche armi tradizionali che aveva con sé erano la spada corta, solo di rado delle lance particolari come l’asta avvelenata che uccise Lux’al.
Il suo armamento era composto quindi dal gladiolo, in quell’occasione perso in combattimento contro El’issam, la mazza ferrata agganciata all’arto reciso, e il Nero Artiglio, una frusta uncinata molto speciale e pericolosa.
Il corpo, nero lucido, era quello di cuoio di qualsiasi altra frusta, ma rinforzato senza perdere in flessibilità e con l’aggiunta di letali spini penetranti. Occorrevano anni di esperienza per ottenere la maestria nell’uso di quell’arma: ogni negligenza avrebbe potuto portare alla perdita di un occhio o a profonde cicatrici.
Obskurios era discretamente pieno di tali cicatrici, sul collo, una lunga che gli correva per attraverso l’occhio sinistro, poche nel corpo delle ali, altre che non potevano essere viste al momento; ma alla fine era riuscito a domare quello spiacevole strumento.
Difatti, la punta uncinata della frusta catturò l’elmo - corona di Luminescente III, togliendoglielo dal capo.
Per una frazione di secondo il volto e il cranio dell’attuale Sommo Signore di Karmil furono visibili alla luce del giorno. I quattro occhi, le singolari macchie, le tenaglie ai lati delle larghe labbra, la forma del viso si mostravano a Obskurios per una delle rare volte. E come sempre, per un periodo troppo minuto per poterne trarre delle conclusioni. Il Sommo riacquistò con la forza magica il proprio elmo con la stessa rapidità con la quale gli fu rimosso, e se lo ripose in capo, nascondendo di nuovo e per sempre il suo viso al pubblico.
“Tsk. - borbottò seccato Obskurios - Voi ka’nhili dite di essere così indifferenti, insofferenti rispetto a tutto; dite di estraniarvi da ogni cosa. Eppure, sei così legato a questo elmo-corona da non volertene mai separare. Questo simbolo di quello che chiami potere, ma tu non vali niente. E’ la Consulta a dominare la tua gente.”
“Non giudicare le nostre usanze senza conoscerle.” lo ammonì rigido il Sommo.
Con uguale rigidità e meccanicità, e con impareggiabile velocità, ondeggiò le due spade lunghe innanzi a sé. Ritagliò una porzione d’aria di fronte a sé dall’interno verso l’esterno con le lame tenute in linea con l’orizzonte, generando due archi di luce diretti verso il re dei gargoyle.
Ritirando le spade indietro e spingendole con forza in avanti un fascio luminoso concentrato fu sparato rapido, contro lo stesso bersaglio.
Deviando i due tagli lucenti con agili movimenti del braccio monco e sollevando un tronco d’ombra con un calcio per parare l’altro attacco, Obskurios uscì indenne dall’assalto del suo rivale.
Non si aspettava che non fosse ancora finito: la vista ostacolata dall’ombra da lui stesso generata, non vide El’issam caricare velocemente in volo contro di lui, le letali lame protese in avanti.
Con enorme fortuna, un ennesimo movimento del braccio più corazzato lo difese dal doppio affondo di Luminescente III, e non solo. Strattonando il solito arto, una delle due spade rimase conficcata nel legno che costituiva parte dell’attrezzatura per la mazza.
Fece indietreggiare il Sommo, tornato coi piedi per terra, con un calcio all’addome. Estrasse la spada incastrata, la tenne sospesa per il lungo di fronte a sé.
Pressandola alle due estremità con la forza magica, la spezzò sonoramente e nettamente come non sarebbe stato altrimenti possibili. Scagliò a ugual modo le due parti, entrambe pericolose, contro il Sommo.
Questi respinse il lancio ostile con una scia lucente dal suo pugno libero. Commise però lo stesso errore di Obskurios di un attimo prima, ostacolandosi la vista con la forza magica.
La luce si dissolse abbastanza velocemente per El’issam per vedere Obskurios avanzare volando per collidere con lui. Esattamente come aveva fatto il Sommo.
Quest’ultimo si dimostrò più accorto: si librò in aria, alzandosi verso l’alto, sfuggendo per un soffio all’impatto con le corna del re, che andò a rovinare clamorosamente nella sabbia.
“Obskurios, a che pro continuiamo a combattere? L’Occhio della Vita non è più.” domandò esausto il Sommo, approfittando finché poteva dell’antagonista temporaneamente fuori gioco.
Il gargoyle vangava furibondo nella sabbia con le braccia, tentando alla rinfusa di tirar fuori la testa e la parte superiore del dorso, intrappolate nella caduta.
Un’onda buia e ampia fu espansa dal suo corpo con un largo movimento del braccio, mentre quello finalmente riusciva a evadere. Tuttavia l’attacco fu dato alla cieca, ed El’issam non dovette nemmeno spostarsi per non essere colpito.
“La guerra per l’Occhio della Vita è finita. - concordò, sputando della polvere impastata in bocca, il re nero - Questa è una guerra tra noi due, e non finirà finchè non ne rimarrà solo uno. E sarò io.”
Obskurios fu zittito una seconda volta. Mentre quello si rialzava e parlava, Luminescente III aveva caricato due sfere di luce parecchio ampie da entrambe le mani, e spintole in avanti. Procedettero obliquamente per la loro strada, attirate dal loro unico obiettivo come chiodi a un magnete, che non mancarono di abbattere.
Ecco che di fronte al sovrano di Karmil si apriva l’opportunità per uccidere una volta per tutte il suo antagonista per eccellenza. Una lama nel suo cuore, o attraverso il suo collo, e la lotta che infuriava tra le due genti esiliate, scoppiata anni e anni or sono per motivi che a nessuno erano chiari come un tempo, sarebbe potuta finire. Precisamente come la discordia interna a Gorm per il dominio o l’abbandono dell’Occhio della Vita.
Qualcosa di nuovo, una sorgente luminosa proveniente da sopra di lui, catturò la sua attenzione, distogliendolo dalle intenzioni assassine per il suo nemico mortale.
Un oceano di colori attorno a un corpo centrale di luce bianca che si spandeva e spandeva nel cielo blu turchese del pieno giorno, e più scendeva più il suo perimetro perdeva definizione e si confondeva nell’azzurro limpido della volta celeste.
Non accese in lui alcun fascino, alcun interesse, né paura. L’unica cosa che lo infiammò fu la volontà di scoprire di cosa si trattava, capirne il funzionamento, la natura, cosa lo aveva generato.
In pochi secondi di analisi di quello spettacolo celeste, El’issam giunse a una tremenda conclusione, proferita nel vuoto di quello spiazzo desertico con spontaneità e senza terrore.
“Gorm è in pericolo di essere distrutta. Da un mesh’ag.”
“Che cosa stai dicendo? Parla chiaro, una buona volta.” scoppiò a gridare Obskurios, stremato, avendo udito le parole di El’issam.
“Un mesh’ag. Una meteora, un corpo roccioso vagante per il vuoto in cui viaggiano Mitera fissa e tutte le stelle e le lune e Nejema in cerchio. Diventa un dardo infuocato quando entra nel cielo di un astro più grande, e i suoi effetti quando tocca il suolo sono devastanti.”
“Staremo a vedere, se sarà devastante come me quando ti strapperò la testa a morsi.” ringhiò Obskurios.
“Non avrai opportunità di paragone. - obiettò il Sommo, confidente e freddo - Volerò verso l’alto, un’altra volta, e fermerò questo mesh’ag. Devierò il suo corso, non so bene cosa farò, ma non cadrà qui.”
“Tsk! E vorresti farlo tu? - lo derise, a dire il vero stupefatto sotto il suo sorriso di scherno, Obskurios - Non hai la forza nemmeno per sollevare un sasso con le tue sole mani, figuriamoci fermare una stella cadente.”
“Non è una stella cadente. Le stelle non cadono.”
“Qualsiasi cosa sia, morirai e i tuoi sforzi saranno vani.”
“E’ probabile. - concordò - Tuttavia, non rimarrò qui ad attendere la fine. Se è questa l’occasione in cui mi riunirò ad Aru Ra’vima, sia. Ma lo farò salvando coloro a cui ho giurato alleanza.”
El’issam se ne volò via senza ulteriori parole, ponendo una drastica fine all’ultimo degli scontri nella Valle di Teunor.
Obskurios osservava basito il Sommo allontanarsi e dirigersi verso quel globo luminoso, immerso nei suoi pensieri.
Si rialzò, massaggiandosi la schiena e il fianco doloranti. Possibile? Era davvero un mesh’ag, come lo chiamava El’issam, diretto verso Gorm a portare l’annientamento totale?
Perché proprio ora? Non era curioso, inquietante che il giudizio finale arrivasse proprio nei momenti successivi al rifiuto, alla distruzione dell’Occhio della Vita?
Obskurios non voleva crederci: doveva essere qualcos’altro. La sua esistenza non poteva terminare così, lontano dalla propria casa, dalla propria consorte, nel bel mezzo di una battaglia interrotta contro la sua volontà. La sua esistenza non poteva affatto finire, e se era vero che quella era una meteora portatrice di morte, se El’issam fosse stato miracolosamente in grado di fermarla, l’idea di essere salvato proprio da lui lo riempiva di disgusto. Un coraggio sbalorditivo, non c’è che dire, che Obskurios non sapeva se avrebbe mai potuto pareggiare, quel giorno come i futuri. Se ce n’erano ancora.
Una mano silenziosa gli si appoggiò sulla spalla, facendolo trasalire.
“Ah, Pantiavros. - si rilassò Obskurios, riconoscendolo - Mi hai spaventato. E’ tutto a posto tra le mie fila? Quanti ka’nhili hai sgozzato?”
“Avete poco da scherzare.” lo rimproverò Pantiavros, leggendo in quella parole divertite un tentativo di evasione dal dubbio della realtà. E poteva farlo anche duramente, essendo stato il suo tutore e maestro da piccolo, il consigliere di suo padre e il suo attuale.
“Avete visto o no quel dannato…coso? - e lo indicò preoccupato e seccato dalla mancanza di interesse del suo re - Una meteora, dicono. I gormiti parlano di una punizione divina. Nessuno, e dico nessuno sta facendo qualcosa per capire che cazzo succede.”
“E allora? - domandò innervosito Obskurios - Che cosa credi possa fare se è davvero una meteora? Dovrei sfracellarmi su di esso?”
“El’issam ci sta almeno provando, per aiutare anche noi.” gli fece notare Pantiavros.
“El’issam è un pazzo.” obiettò borbottando il re, rifuggendo dallo sguardo del suo secondo e voltandosi a braccia incrociate.
“Un pazzo con del coraggio, lo dovete ammettere.”
Pantanera gli si avvicinò, mentre il re rimaneva muto, e gli sussurrò: “Andate con Luminescente III.”
Obscurio non era per niente sicuro. Strabuzzò gli occhi, pensando a se stesso che si schiantava contro quel bolide infuocato, e a tutte le cose che si sarebbe perso morendo così giovane. Tuttavia, se era davvero quello che si temeva fossa, il suo destino era sempre lo stesso.
“Dimostrategli che avete la forza e il coraggio di affrontare qualcosa di superiore! - continuava con più violenza Pantiavros - Anche se Sommo morrà, verrà ricordate per sempre per aver compiuto quest'impresa eroica. Sì, perché nessuna meteora ha mai distrutto un’intera città: ci saranno sopravvissuti.” spiegò.
“Voi invece, rimanendo qui con le mani in mano, verrete dimenticato, anche vivendo per milioni di anni!”
Lo guardò negli occhi, tenendolo stretto per le spalle tra le tue forzute e nude braccia nere. Pantiavros e la sua austerità penetrarono violentemente negli occhi incupiti e spaventati di Obskurios, e quelli si persero nello sguardo del viceré, sprofondando nel mare di rigore che si muoveva tempestoso in essi
“Volete questo, re?”
Per un momento Obskurios sospettò che lo stesse mandando al macello per prendere il suo posto come sovrano. Ma no, non era possibile: era una persona fidata, quasi di famiglia, e durante il regno di suo padre aveva avuto più di una possibilità per spodestarlo. Ed era sempre rimasto fedele al fianco della famiglia reale.
“Volete questo?! Rispondetemi!” lo scuoteva con tutta la sua forza.
“NO!” urlò Obscurio con tutta la sua rabbia. In meno di un secondo Pantiavros lo ritrovò alto nel cielo, che gli parlava.
“Se non dovessi tornare, riporta a TatoYami il mio...il nostro popolo, e di’ a Karmilla che per lei ci sarò sempre!” E con questo volò via, verso il Sommo e verso la meteora.
Nessuna esitazione lo fermò e lo fece dubitare delle sue intenzione da quando abbandonò la precaria sicurezza della superficie per volare con la magia e le grandi ali nella totale assenza di sicurezza del cielo aperto, diretto a velocità sorprendente e spinta contro la stella cadente.
Non avrebbe smesso di chiamarla così. Un corpo roccioso che vagava nel vuoto? Non aveva nulla di roccioso, abbagliante, sfuggente e variopinta com’era.
Le stelle non cadono? Eppure ruotano nella grande volta, si muovono ciclicamente all’interno della sfera cava e buia che trattiene Mitera e gli altri astri maggiori, separata e chiusa a tutti gli altri mondi, il cui unico modo per accedervi era con i varchi spaziali.
Chi può dire che qualcosa o qualcuno non sia stato in grado di raggiungere la stella e smuoverla dalla sua traiettoria, abbatterla e spingerla verso il mondo del Grande Golfo?
Avvicinandosi in tempi record al Sommo e al nocciolo abbacinante fu ancora più sicuro di prima che si trattasse di una stella strappata dalla sua giusta sede da una forza ostile.
“Tu!” gli parlò enormemente sorpreso il Sommo Signore, mentre quello, caricatosi di un coraggio superiore alla sua voglia di vivere, viaggiava con maggiore fluidità di El’issam e lo aveva superato nella corsa alla stella - meteora.
“Che ci fai qui?!”
“Non permetterò a questa stella di distruggere l’Isola...e nemmeno che distrugga te: sarò io a ucciderti!"”
Insieme, si diressero, mani in avanti, contro l’astro morente cercando di respingerlo. C’era qualcosa di strano, di anomalo e quasi di sbagliato in quel fenomeno, lo intuirono entrambi.
Non andava per niente veloce, nonostante da terra sembrasse ingigantirsi spropositatamente, apparentemente per la velocità incredibile a cui stava viaggiando, quasi esso stesso volesse andare piano. Il cuore candido centrale era anche piuttosto piccolo, molto piccolo rispetto a come sembrava.
Impalpabile era alle mani dei due sovrani, sfuggiva dalle loro dita come fumo e lasciava di esse una sensazione di umido come fosse acqua. A nulla sembravano servire i poteri della luce e dell’ombra: nulla lo arrestava.
Un calore soffocante li intrappolò. Entrambi cominciarono a espellere una pioggia di sudore incontrollabile, e ad ansimare per uno sforzo che non stavano compiendo, mentre nei loro occhi si imprimeva una strana immagine, una visione contorta: tre cerchi e uno.
I loro muscoli si agitavano da soli: Obskurios percepiva le sue ossa ingrandirsi da dentro di lui e fare breccia nella pelle, riversando fiumi di sangue.
Il contrario per El’issam: il suo esoscheletro si crepava e si spezzava, mentre muscoli e organi mutavano sotto di esso e chiedevano più spazio di quanto ne fosse disponibile.
L’anomala trasformazione che stavano subendo raggiunse l’apice con un estremo dolore che soffocarono entrambi con urla strazianti e gesti che nessuno dei due si era mai sognato di fare.
Insopportabile il calore e la pienezza che provava. Obskurios si strappò gridando tutti i pezzi dell’armatura, facendola a brandelli con feroci attacchi di ombra e agitando come una bestia in trappola ogni arto. Lo stesso valeva per El’issam, i cui precetti ka’nhili non potevano confortarlo dalla micidiale straordinarietà di quello che stava succedendo al suo corpo.
Fu il turno della mente. Una forza incontrastabile e dolorosamente perforante originata dal nucleo rotondo bianco della meteora penetrò con una facilità impressionante le difese mentali per altro stremate di Obskurios e di Luminescente III.
Parole di una lingua arcana e sconosciuta, proferite senza emettere alcun suono ma che rimbombavano come campane nella testa dei due sovrani.
SONO L’OCCHIO DELLA VITA. ABBRACCIATE LA TERZA ONDATA.
La mutazione stava raggiungendo il suo termine: sotto gli occhi increduli di Obskurios, l’attrezzatura al moncherino si spezzava da sola. Il braccio…il braccio gli stava ricrescendo! Un arto nuovo, uniformemente robusto, di una lucida scorza verde veleno uguale alla lucentezza delle corna, con quattro dita uncinate. Le corna in questione anch’esse mutavano, assumendo una forma a spirale e trasportando la punta aguzza rivolta in avanti, quasi all’altezza della mandibola.
La sua pelle si faceva nera come la notte senza stelle, e le sue ali cambiavano fattura, divenendo bianche avorio, più larghe e spesse, dentellate all’estremità.
Il Sommo El’issam non si capacitava delle due braccia piccole e ausiliarie, scoperte dalla corazza recisa, ridursi fino a scomparire, mentre gli avambracci degli arti superiori maggiori accrescevano la loro durezza e la loro dimensione. Tutto il suo esoscheletro si ricomponeva dalle fratture immediatamente precedenti, assumendo un nuovo e agghiacciante colorito violaceo. Per compensare la perdita delle braccia, nonostante non le utilizzasse mai, un secondo paio di ali crebbe al di sotto delle già presenti, ed entrambe le coppie cambiavano di forma e colore, ora ambra e più allungate e sottili, per permettergli un volo senza problemi.
La trasformazione era conclusa. L’onda di energia li travolse senza più toccarli, e andò ad adagiarsi dolcemente, senza alcun impatto distruttore, solo un’accecante esplosione di luce che si propagò per tutta l’Isola, al largo della Valle di Teunor, vicino allo Stretto.
Sei frammenti di cristallo, nel fulcro dell’impatto. L’energia li invase in modo diverso: crebbero in dimensioni e spessore, e mutarono di colore, ognuno differente, attribuendo forme sferiche.
Una sfera vermiglia, una scarlatta, una turchese, una ambra scuro, una smeraldo, una zaffiro.
La loro unica influenza sugli esseri viventi si fece immediatamente sentire, sebbene l’onda di luce annebbiasse la vista di qualsiasi creatura, non ancora dissipata.
Gruppi di insetti, di lucertole e topi del deserto, di corvi e avvoltoi che si cibavano di cadaveri, tutti quelli che si trovavano nelle immediate vicinanze, accorsero attirati dall’irresistibile richiamo al luogo dove presero forma i sei nuovi cristalli sferici, incapaci di muoversi di moto proprio, e si lasciarono dagli animali raccolti trasportare verso i cuori di ogni Popolo.>>
   
 
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