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Autore: mairileni    16/08/2015    4 recensioni
«Siediti.»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Eeeeeeeeeeeeee – ok ho provato a scrivere una frase di apertura decente trenta volte ma sono tutte orrende, quindi partiamo subito con il concetto di fondo, e cioè – faccio schifo. Sono stata via davvero tanto, lo so, ma d’ora in poi proverò ad aggiornare con frequenza più regolare.

Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno messo tra le seguite/ricordate/preferite questa storia oppure proprio me come autrice (siete tantissimi, è un onore) e soprattutto i miei recensori! Grazie di cuore per tutto il vostro sostegno e scusate se a tanti di voi non ho ancora risposto – lo farò appena pubblicato il capitolo.

Tornando a noi, il capitolo che segue è più lungo del solito – 17 pagine di parole italiane, uiiiii – e ovviamente spero che questo vi faccia piacere. Fatto sta che c’è Gerard e a un certo punto ci sono anche un toast e una fermata del bus, e tutto questo per dire che se proprio volete saperlo vi auguro una buona lettura e spero che continuerete a seguire [ride].

 

Enjoy!

 

 

pwo_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andantino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il bar in cui lavoro si chiama “Bar di Hank” anche se in realtà non è affatto il bar di Hank perché Hank è morto. Due anni fa, se non sbaglio, o dodici, mi pare. Hank era andato a farsi una di quelle arrampicate in montagna, che non so se avete presente, ma sono tipo quelle gite che piacciono tanto alla gente che vuole complicarsi la vita, e che invece di fare i picnic e guardare le nuvole scala le montagne aggrappandosi agli spunzoni. Fatto sta che Hank era andato a farsi una di quelle arrampicate in montagna, e io ora non conosco bene la dinamica di ciò che è successo dopo, ma tant'è che per farla breve Hank è caduto ed è morto. A quel punto il bar è passato nelle manone grasse di sua moglie Ginger, che è davvero brutta come il peccato, e adesso tenetevi forte perché quella che segue è una cosa simpaticissima: La signora Ginger di cognome fa Rogers. Ragazzi, quando l'ho scoperto ho riso tipo per dieci minuti, perché la moglie di Hank è davvero brutta unta orrenda, e non so se avete presente quant'era bella Ginger Rogers nei film, tutta carina con i ricciolini e le guance rosse. Tutto questo per dire che la signora Rogers è l'attuale proprietaria del bar di Hank e che io nel bar di Hank ci lavoro.

    C'è il tavolo dodici, c'è una coppia e ci sono io che aspetto pazientemente che questa tizia con i capelli rossi si decida a ordinare qualcosa.

    «Ma fate solo i toast, qui?»

    «Sì.»

    «Non fate la pasta?»

    «Solo toast.»

    «Verdura?»

    «Toast.»

    «Dolcetti?»

    «Toast.»

    Annuisce, forse finalmente ha capito. Non è la prima cliente sconvolta dalla povertà del nostro menù, ma è divertente lo stesso. Ogni volta la gente arriva qui con l'idea di divorarsi una di quelle insalatone tutte salute e crostini di pane, oppure una di quelle torte a cento strati cioccolato panna cioccolato panna cioccolato panna cioccolato panna, e invece niente, qui facciamo solo i toast, molto spiacente, signorina. Apro il blocchetto delle ordinazioni con un solo gesto, proprio che sono davvero un bravo cameriere e tutto quando ad aprire il blocchetto delle ordinazioni con un solo gesto, e sopra ci scrivo quello che ha appena ordinato la signorina con i capelli rossi.

    Poi entra Gerard. Cammina piano e con la testa incassata tra le spalle, ha quella giacca a vento nera che su di lui mi piace tanto. "Bentornato", vorrei dirgli, però non glielo dico. Fuori c'è un freddo cane. Si sente perché c'è Gerard che è appena entrato, e Gerard è gelido. Non c'è bisogno di toccarlo, per rendersene conto. Si siede al tavolo sette, attaccato alla parete che sta di fronte al bancone, vicino al jukebox che sta là solo per bellezza.

    Stevie si avvia verso di lui mentre con un piccolo scatto del polso apre il blocco delle ordinazioni (questo perché anche lui è davvero un bravo cameriere); io gli dico che quello lo servo io, è un mio amico, faccio in un attimo. Stevie se ne va. Non serviva che gli facessi tutti questo gran discorso, perché a Stevie i dettagli e le dinamiche non interessano. A Stevie basta che lo paghino a fine mese. Gerard non guarda verso di noi.

    «Ti sei rimesso in piedi». 

    Lo saluto così.

    «A quanto pare.»

    C'è Gerard e ci sono io, e io aspetto con il blocchetto in mano la sua ordinazione. Spero che sappia che qui facciamo solo toast, nel dubbio glielo dico.

    «Qui facciamo solo toast.»

    «Sì, lo so.»

    «Bene.»

    «Già.»

    Tira su il menù con due dita, come se non gli interessasse, o come se gli facesse schifo. È pallido, ha le occhiaie. Sono due giorni che non lo vedo, potrei quasi dire che in questo intervallo di tempo non ha più dormito. Sa di freddo — e di pesche, ma ormai questo posso anche non dirlo perché se c'è una cosa che ho ripetuto fin troppo è che Gerard sa di pesche e di qualche altra cosa di cui non mi sovviene l'immagine. Scorre rapidamente la lista stampata in grassetto ma giurerei in tribunale che la testa ce l'ha da qualche altra parte. Forse ha sniffato ancora. 

    «Prendo quello con il ripieno bianco e rosa», sentenzia, dopo essersi concesso una lunga pausa di riflessione.

    «Eh?»

    «Quello con il ripieno bianco e rosa», ripete candidamente.

    Gli sfilo il menù da sotto il naso, pensando che forse l'hanno cambiato e adesso ci sono solo le foto dei toast, che non so se avete presente ma sono tipo quelle foto che i proprietari dei bar mettono sui menù per far venir fame ai clienti, ma che poi non assomigliano ai veri toast nemmeno per sbaglio, tipo che in quelle foto i toast sono tutti gustosi e splendidi e nella realtà invece i toast sono mollicci e schifosi. Fatto sta che c'è Gerard e ci sono io, e di foto di toast sul menù non c'è nemmeno l'ombra, proprio zero, solo le scritte con i nomi. Mi arrendo.

    «Quale... quale sarebbe il toast con il ripieno bianco e rosa?», domando.

    «Boh. Ha il ripieno bianco e rosa. E il pane, sopra e sotto. Tostato.»

    «Sì, ma dentro che cosa c'è?»

    «Il ripie...»

    Io dico che qui è meglio andare avanti a tentativi, perché altrimenti giuro su Dio che non finiamo più, tipo che da vecchi saremo ancora qui a cercare di metterci d'accordo sul toast bianco e rosa e tutto quanto.

    «Dici fontina e prosciutto?»

    «No, quello è giallino e rosa chiaro.»

    «Crescenza e speck?»

    «Bianco e marrone.»

    «Ah, forse dici...»

    Tira su un dito, lo punta verso un vecchietto seduto a un tavolo alle mie spalle. Io inizialmente guardo solo il dito, e non perché sono scemo, ma perché trema, e con il dito trema anche tutto il braccio. Improvvisamente spero che abbia sniffato ancora. Perché se Gerard trema oggi per quel paio di grammi sniffati tre giorni fa allora Gerard è fottuto, non per dire.

    «Il suo. Voglio il suo, quello che sta mangiando quel vecchino.»

    «Ah, crescenza e mortadella.»

    «Boh. Voglio il suo», ripete testardamente.

    «D'accordo.»

    «Cioè...» Mi guarda dritto negli occhi e  da quando è entrato qui questa è la prima volta che lo fa. «Cioè...» fa oscillare un po' la testa, come se stesse tenendo il tempo di una musica che sente solo lui. «Cioè non è che voglio proprio il suo toast personale... io... basta che me lo fai uguale. Hai capito che cosa intendo.»

    Io giuro su Dio che non ho mai avuto così tanta paura per qualcuno in vita mia. Gerard sembra scappato da uno di quei centri in cui i dottori mettono la gente con le malattie mentali, quelle che entrano nei manicomi che hanno una brutta cera ed escono che sembrano degli eroinomani a causa di tutte le medicine schifose di cui li imbottiscono. Tutto questo per dire che io giuro su Dio che non ho mai avuto tanta paura per qualcuno in vita mia e che Gerard è meraviglioso e lento e scoordinato e pallido. Mi chiede ancora se ho capito quello che mi ha detto, gli rispondo che no, al vecchietto non ruberò il toast, mi limiterò solo a prepararne uno uguale al suo.

    Comunico l’ordinazione di Gerard a Finn, che se proprio volete saperlo è quello che sta dietro al bancone a fare i toast, e poi torno al tavolo sette. Dovrei stare in piedi e girare per il locale a chiedere ai clienti se hanno bisogno di qualcosa e se i loro toast sono buoni, ma giuro su Dio che non me ne frega proprio niente se i toast dei clienti sono buoni o fanno schifo. Non quando c’è Gerard al tavolo sette con i capelli tinti e la giacca a vento nera che se lo guardi di profilo quasi quasi sembra etero. Stevie mi fissa distrattamente mentre prendo posto di fronte a Gerard, ma tanto a Stevie i dettagli e le dinamiche non interessano. A Stevie basta che lo paghino a fine mese. Fatto sta che ci sono io e c’è Gerard, e improvvisamente ho l’insensato timore che mio padre sappia che è stato a casa nostra. Mio padre non sa nulla, eppure basterebbe annusare l’aria e sentire quel profumo a metà tra le pesche e qualche altra cosa di cui ora non mi sovviene l’immagine. Nessuno ha un profumo che è a metà tra le pesche e qualche altra cosa di cui ora non mi sovviene l’immagine, solo Gerard.

    Mio padre non sa nulla.

    «Non ci torni più a scuola?»

    Non mi risponde, non sono neanche sicuro che ci sia con la testa. Tamburella pigramente le dita sul tavolo.

    «…Gerard?»

    «Non sapevo che lavorassi qui.»

    Non c’entra niente con ciò che gli ho chiesto, ma almeno ora sta parlando. Ho una mezza sensazione che parlare gli faccia bene, e ho anche una mezza sensazione che non lo faccia spesso.

    «Solo part-time», rispondo. «È comodo perché dai la disponibilità solo nei giorni che vuoi e alle ore che preferisci, e loro ti regolano gli orari in base a quanto riesci a fare. Così puoi continuare a studiare e tutto quanto.»

    «Oh.»

    Una mano gli piazza un bicchiere di Coca di fronte, la mano è di Stevie. Gerard dice che non ha ordinato nessuna Coca, solo un toast con il ripieno bianco e rosa.

    «Boh, bevila lo stesso», gli dice Stevie. «Tanto è alla spina, non credo che facciano controlli incrociati tra i millilitri di coca venduti e gli scontrini. Non credo che facciano controlli proprio in generale. La vita è già abbastanza complicata senza i controlli, figuriamoci con. E poi sembra che ti sia passato sopra un treno – senza offesa, eh , almeno ti rimetti in piedi. Nella Coca-Cola c’è lo zucchero.»

    Stevie se ne va. Mi piace, Stevie. A Stevie i dettagli e le dinamiche non interessano. Gerard prende un piccolo sorso dal bicchiere, lo rimette sul tavolo. Poi ci ripensa e lo riprende, questa volta beve quasi tutto quello che c’è dentro. Quando finisce si pulisce le labbra con una nocca.

    «No.»

    «“No” cosa?»

    «Non ci torno, a scuola. O almeno, non credo.»

    Rilasso i muscoli delle spalle, non mi ero accorto di averli tenuti contratti finora.

    «Se non ti vedono per un po’ il preside Higgins chiamerà i tuoi.»

    «Ho dato il numero sbagliato.»

    «Allora verrà a casa tua.»

    «Ho dato l’indirizzo sbagliato.»

    Ha pensato proprio a tutto, non c’è che dire. In qualche modo tutto ciò è geniale. Lo dico.

    «In qualche modo tutto ciò è geniale.»

    «Grazie.»

    Stevie arriva con il toast di Gerard tagliato a metà, una metà sopra all’altra per rendere il tutto più tristemente coreografico. Gerard fa un cenno con la testa, credo che sia un altro modo che ha di dire “grazie”. Toglie le posate dal piatto e dà il primo morso tenendo il toast con le mani. Sta zitto. È uno di quei momenti in cui senti che la cosa più logica da fare sarebbe togliere il disturbo, ma allo stesso tempo resti perché hai l’impressione che stia per succedere qualcosa, e tu questa cosa non vuoi proprio perdertela. Fatto sta che ci sono io e c’è Gerard al tavolo sette accanto al jukebox che sta là solo per bellezza, e quello che succede è che Gerard mangia con troppa educazione per essere un sedicenne allo sbando che si fa di droghe pesanti. Ha la testa bassa e non usa le posate, ma è educato. In modo discreto e sottile, come se non volesse farlo notare.

    Mi lascio andare all’indietro, contro lo schienale della sedia. Il viso di Gerard sta riprendendo colore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Nella nostra scuola c’è un professore che si chiama George Mitchell ma che per rendersi più interessante dice sempre che possiamo chiamarlo solo “George”. Credo che sia una di quelle cose che fanno i professori per farsi amici gli studenti o che so io. Quello che so io è che io lo chiamo “signor Mitchell”, e su questo non ci piove. Non siamo mica amici – brava persona e tutto quanto, eh, per carità di Dio, ma non siamo mica amici. Il signor Mitchell ha due figlie e un cane, ed è uno di quelli che credono che se ti impegni abbastanza puoi anche dominare il mondo. Tutto questo per dire che il signor Mitchell ha due figlie e un cane, e che una volta, dopo il suono della campanella, mi ha chiamato alla cattedra e mi ha chiesto di sedermi di fronte a lui. Davanti alla cattedra non c’erano sedie, ma mi ricordo di aver pensato che questo non mi impediva di stare comunque di fronte a lui. Lui mi ha detto che su una sedia sarei stato più comodo, e io gli ho detto che sarei stato comodo anche in piedi. Il signor Mitchell ha cominciato a parlare prendendosela comoda. Io sto sempre all’erta quando le persone se la prendono comoda, perché se uno prima di arrivare al punto deve fare un lungo discorso di solito significa che ciò che ha da dirti non ti piacerà. Fatto sta che il signor Mitchell ha due figlie e un cane, e questa è stata la prima cosa che mi ha detto quel giorno. La tentazione di dirgli che trovavo quest’informazione assolutamente inutile era piuttosto forte. È andato avanti, mi ha parlato delle sue passioni, mi ha detto che gli piace collezionare statuette di tartarughe e stampe degli anni cinquanta. Poi è arrivato al punto, e quando lo ha fatto ha appoggiato gli avambracci sulla cattedra e ha intrecciato le dita. Aveva un cerotto appena sotto all’orecchio sinistro.

    «Non arriverai mai da nessuna parte se non hai la motivazione di farlo», mi ha detto.

    Io gli ho detto “Ah”. Poi il signor Mitchell ha aggiunto che se volessi potrei essere il primo della classe, e io gli ho risposto “Ok”. Quel giorno il signor Mitchell ha parlato per quasi venti minuti di seguito, ogni tanto si grattava la spalla sinistra. Mi ricordo che a un certo punto ho cominciato a pentirmi di non aver preso in considerazione l’idea della sedia, perché le gambe cominciavano a farmi male. Fatto sta che alla fine il signor Mitchell ha finito di parlare, e di quanto aveva detto io avevo capito soltanto il succo. Il succo era che dovevo muovere il culo e fare qualcosa della mia adolescenza mediocre. È stato quel giorno che per la prima volta sono andato a esplorare il luna park abbandonato a Est della città. Proprio così, niente scherzi. Ho preso la bici e ci sono andato, e se non sbaglio ho anche cancellato un appuntamento, per andarci. Mi sono reso conto solo in un secondo momento che quello che stavo facendo, in sostanza, era seguire il consiglio del professor Mitchell a modo mio, ma mentre pedalavo a perdifiato non pensavo proprio a nulla. Sono arrivato al cancello sfondato del luna park e per un attimo mi sono chiesto che cosa stessi facendo, tipo come quando ti vengono quelle idee folli e a un certo punto di fermi e pensi “E qui come ci sono arrivato”? Da quel giorno ho cominciato ad andare al luna park abbandonato quasi ogni settimana, senza nessun motivo apparente. Vado, sto un po’ e torno. Non è una di quelle cose che fanno nei film francesi, non è che andando al luna park mi viene l’ispirazione per scrivere poesie o per dipingere quadri. Il luna park abbandonato fa schifo, sia chiaro. Però da quando ho cominciato ad andare lì un po’ sono cambiato. Non tipo che adesso sono più alto o ho i capelli rossi con la frangia, dico proprio che sono cambiato io, il mio modo di fare. Il signor Mitchell mi ha detto che avrei dovuto cominciare a controllare attivamente la mia vita, io ho smesso di controllare in generale. Vivo in un paesino minuscolo e orrendo, non ho nessun talento in particolare e con ogni probabilità tutto ciò che il futuro mi riserva è un posto dietro a una scrivania e uno stipendio mensile che a malapena mi basterà per coprire le bollette della luce. E allora ho smesso di controllare, e giuro, giuro su Dio che il consiglio del signor Mitchell mi ha cambiato la vita, proprio perché mi sono curato di non seguirlo. Ho cominciato a prendere quello che mi veniva, senza opporre resistenza. Il lavoro al bar di Hank, l’aumento sul prezzo delle sigarette. Gerard. Sì, Gerard, anche lui. Se Gerard fosse arrivato tre anni fa, di sicuro non mi sarei nemmeno avvicinato per dirgli “ciao”. Invece Gerard è arrivato quest’anno e guarda un po’, l’ho già aiutato a farsi una striscia di ketamina. Credo che il ragionamento che sta alla base di tutto ciò, di tutto questo cambio di atteggiamento, dico, sia che la mia vita è talmente noiosa che tanto vale buttarmi a capofitto in qualsiasi cosa la smuova un po’. È per questo che aiuto Gerard, anche se mi cago sotto per me e per lui e per la polizia e per Dio che poco ma sicuro quando muoio mi butta giù all’inferno con un calcio in culo. Perché in questo sono come Stevie. A Stevie basta che lo paghino a fine mese.

    E fatto sta che il signor Mitchell ha due figlie e un cane, e il mio turno finisce tra trenta secondi precisi. Gerard ha mangiato il suo toast, ha pagato con una banconota da dieci e si è messo le monetine di resto nella tasca davanti della giacca.

    Si alza.

    «Devo proprio andare», notifica.

    «I tuoi ti stanno aspettando?»

    «No, perché?»

    Alzo le spalle. «Non so, hai detto che devi proprio andare.»

    Gerard arriccia le labbra e ci pensa su per qualche istante. «No, l’ho detto così per dire. Non mi sta aspettando nessuno, ma le persone quando se ne vanno dicono sempre che devono proprio andare. Mi andava di dirlo.»

    Gli dico che ho capito. Ha ripreso completamente il suo colorito naturale, i suoi movimenti sono ancora un po’ intorpiditi, ma non è più tragicamente lento in ogni cosa. Forse è stato il toast, la signora Rogers ne sarebbe contenta. Il mio turno è ufficialmente finito. Vado a prendere le mie cose nella speranza che Gerard mi aspetti per uscire dal locale insieme a me, ma Gerard sta già camminando verso la porta. Rivolge a Stevie un altro cenno della testa, Stevie abbozza un saluto militare e torna a ciò che stava facendo. Quando Gerard è ormai scomparso dalla visuale di entrambi Stevie va a voltare il cartellino che c’è sul vetro per far sapere a chi sta fuori che adesso il bar è chiuso e se avete sete buonanotte. Sto lì come un cretino, voglio tornare a casa ma allo stesso tempo non mi va di uscire. Controllo il cellulare, nessun nuovo messaggio.

    «Ketamina, vero?»

    Mi volto di scatto. Stevie sta tornando verso il bancone, ha un vassoio sotto al braccio e dei bicchieri sporchi che tiene con due mani. Mi chiedo se ho sentito bene, mi chiedo perché stia tenendo i bicchieri in mano anziché metterli direttamente sul vassoio. Ho sentito benissimo, e questo lo so, però per sicurezza glielo chiedo lo stesso.

    «…Cosa?»

    Sistema i bicchieri nella lavastoviglie, oggi tocca a lui chiudere il bar. Quando si piega per mettere a posto il vassoio il ciuffo biondo cenere gli ricade sulla fronte, e gli occhiali da nerd gli scivolano dal naso. Li blocca prima che cadano piazzando un indice sul ponticello che c’è tra le due lenti, poi indica il punto dove fino a un attimo fa c’era Gerard.

    «Dico, il tuo ragazzo. Si fa di ketamina, no?»

    «Cosa? …I-io… non… non è il mio ragazzo!», sbotto.

    «Ah. Beh, d’accordo, non c’è mica bisogno che ti fai venire un infarto, sai?»

    È tutto talmente surreale che forse adesso mi sveglio e mi trovo davanti il signor Mitchell che mi chiede se mi sono addormentato perché il suo discorso mi stava annoiando. Cerco di fare mente locale, devo fare mente locale. Punto uno, l’idea è che nessuno sappia che sono gay, o almeno non qui e non ora. Tanto più che questo è un paese molto piccolo, e si sa che più i paesi sono piccoli più la gente che ci abita chiacchiera. Punto secondo, trovo che sarebbe molto carino mantenere segreta la questione di Gerard. Tanto più che questo è un paese molto piccolo, e si sa che eccetera eccetera. Punto terzo, se Stevie mi sembrava già un ragazzo piuttosto intelligente, ora come ora mi sento quasi in dovere di gettarmi ai suoi piedi chiedendo misericordia. Stevie sta ancora aspettando una risposta, ma decido che può aspettare ancora un po’.

    «Stevie, io non sono gay.»

    Ovviamente lo sono, manco a dirlo, e se possibile da quando c’è Gerard sono ancora più gay, tipo che non sono mai stato così gay in tutta la mia vita. Stevie mi lancia un’occhiata in tralice e finalmente smette di trafficare con piatti e posate. Esce da dietro il bancone e si issa su uno degli sgabelli girevoli accanto a me.

    «Volevo solo dire che…»

    «Stevie», ripeto. «Stevie, io non sono gay.»

    «Sì, senti, ascolta, Frank…»

    «No, ascoltami tu, Stevie.»

    Mi è uscito un tono nervoso, ma la verità è che non sono affatto nervoso. Voglio solo vedere fino a dove mi porteranno le mie pressoché inesistenti abilità recitative, e se proprio volete saperlo sono quasi sicuro che non mi porteranno da nessuna parte, perché Stevie non si smuove di un millimetro. Stevie non ha proprio nemmeno un dubbio. Deve solo dirmi qualcosa che non gli sto permettendo di dirmi, e ho l’impressione che rispetto all’importanza di ciò che deve dirmi la mia sessualità sia un dettaglio. A Stevie non interessano i dettagli. Ha gli occhi inchiodati nei miei, mi ascolta con attenzione ma non pende dalle mie labbra. Tra i suoi occhi e i miei ci sono le lenti dei suoi occhiali e qualche spanna d’aria.

    «Ascoltami tu», dico ancora. «Se hai qualche problema con me dimmelo subito.»

    Adesso sono davvero un po’ nervoso. Mi lascio trasportare. Tanto per far qualcosa.

    «No, Frank, non hai capito», replica tranquillamente Stevie. Nella sua voce non c’è nessuna traccia di ostilità. «Non ti sto provocando, non ci penso nemmeno a provocarti. Ti ho solo fatto una domanda, ma sei libero di non rispondere. Tutto qui.»

    Fa ruotare il sedile rotondo dello sgabello in senso orario per appoggiare entrambi i gomiti sul bancone. Si massaggia il collo con le mani.

    «Stevie, tu pensi che io sia gay?»

    «Perché, tu pensi di non esserlo?»

    «…»

    «Perché in tal caso scusa se ti ho rovinato la sorpresa, ma è ora che tu lo sappia – sei gay, Frank.»

    «Sì, lo so, grazie.»

    Non so se avete presente quell’espressione che dice tipo “e qui casca l’asino”; si usa quando si parla di un errore molto stupido ma allo stesso tempo molto comune, e praticamente uno dice “e qui casca l’asino” per dire che se sei scemo fai la stessa fine dell’asino, ovvero cadi. Tutto questo per dire che l’asino sono io.

    Stevie mi scocca un sorriso che sembra dire “Lo vedi che sei gay?”, poi si rimette le mani sul collo e continua a massaggiarsi. Chapeau, sul serio, proprio chapeau.

    «Da cosa l’hai capito?», gli chiedo.

    «Dal fatto che Britney Hall te la sbatte in faccia un giorno sì e l’altro anche e tu non ti accorgi di niente come un fesso.»

    «Cosa? Britney ci prova con me?»

    «Appunto. Era insopportabilmente ovvio ma tu non ci facevi nemmeno caso, quindi ho pensato “O è gay o è scemo”. Ma secondo me non eri scemo – puoi non ringraziarmi.»

    È ancora tutto surreale, ma lo è già un po’ meno di prima. Stevie estrae un piccolo quadratino di stoffa blu dalla tasca del grembiule e si sfila gli occhiali per pulire le lenti.

    «Ad ogni modo sta’ tranquillo, non vado mica a raccontarlo in giro.»

    «Sul serio?»

    «Se avessi voluto dirlo a qualcuno l’avrei fatto tre anni fa, Frank. Ad ogni modo non è questo il punto. Per la storia della ketamina…»

    «Io non mi faccio di ketamina», lo interrompo. «E nemmeno Gerard.»

    «Non ricominciamo tutto da capo, Frank. Lascia perdere. Lo so che tu non ti fai di ketamina. Però so che questo problema ce l’ha Gerard – si chiama così, no? –, e se siamo arrivati fin qui è solo perché voglio dirti che, alla luce di questo, se avessi bisogno di aiuto a gestire la cosa o se fosse anche solo per parlare un po’, puoi chiamarmi. Il mio numero è sulla tabella degli orari dello staff. Che poi capirai che staff, siamo in tre. E niente, tutto qui, non voglio mica farmi gli affari tuoi. Era solo per farti sapere questo.»

    Stevie si rimette in piedi con un sospiro stanco, io ho la bocca un po’ aperta e scommetto che in questo momento la mia faccia sembra incredibilmente stupida.

    «E non preoccuparti», aggiunge Stevie. «Se starà attento a non farsi beccare, nessuno riuscirà a scoprirlo. Io l’ho capito solo perché mio fratello ha avuto lo stesso problema.» Qui sorride, sembra sinceramente divertito. «Ho l’occhio allenato. Comunque è superfluo dire che sarebbe meglio se smettesse e basta. Io ho dei contatti con alcuni gruppi di recupero, o di sostegno, o qualunque sia il modo in cui li chiamano. Fanno schifo, certo, ma non fanno poi così schifo. Sul serio. In caso dovessero servirti sai dove trovarmi.»

    E così Stevie voleva dirmi questo. Non me lo aspettavo, ma ora tutto ha più senso. Specie la parte in cui la mia omosessualità è diventata un dettaglio. In un paese come Belleville l’omosessualità non è mai un dettaglio. Per Stevie lo è. A Stevie non interessano i dettagli.

    «Mi dispiace per tuo fratello.»

    «Non ha importanza. Ha fatto i suoi errori e ora li sta pagando tutti. Ma questi sono dettagli. Ciò che conta è il punto d’arrivo, e il punto d’arrivo è che finalmente ora mio fratello si è messo la testa a posto.»

    «E ora che succede?»

    È una domanda imprecisa, potrei averla posta riferendomi a tante cose diverse e questo Stevie lo ha capito. E allora risponde a tutte.

    «Ora succede che mio fratello è in prigione, ma uscirà di lì tra poco più di un anno. Ogni settimana gli porto un libro di quelli classici, sai tipo “Cime tempestose” e “Orgoglio e pregiudizio”. Se li divora, e dire che prima di entrare lì dentro odiava leggere. E poi un’altra cosa che succede ora è che io mantengo il tuo segreto e tu stai molto attento a non fare cazzate. O meglio, qualche cazzata falla, questo sì, ma cerca di stare attento quel che basta a non finire in guai seri. Gerard capirà che si sta sbagliando, è solo questione di tempo. Fino a quel momento, tu usa il buonsenso.»

    «Intendi… stargli lontano, aspettare che rinsavisca?»

    Stevie ha già finito di pulire tutto il bancone. Adesso deve solo mettere le sedie sui tavoli e poi per oggi il suo lavoro sarà finito.

    «No, questo è impossibile. Non riuscirai a stargli lontano, se per te è una persona importante. Quello che dico è… vicino, ma non troppo. A distanza di cortesia. Stacci assieme, sostienilo, amalo o quello che vuoi, ma stai con i piedi per terra, perché altrimenti perdi la testa.»

    «In che senso?»

    Ha una sedia in mano, sta per posarla sul tavolo ma poi blocca le braccia a mezz’aria come se improvvisamente non avesse più la forza necessaria per completare quel gesto. Sorride leggermente, si riprende, la sedia adesso è sul tavolo, le gambe all’aria.

    «Una volta mio fratello ha voluto provare l’eroina. E lo sai io che cosa ho fatto?»

    «…»

    «Mi sono seduto accanto a lui e gli ho passato il cucchiaino, e il cotone, e il laccio emostatico. Quella notte lui è finito in ospedale. Quando i dottori ci hanno detto che era sospeso tra la vita e la morte mi sono sentito talmente in colpa che ho pensato di uccidermi.» Fa una pausa, ma la sua espressione pacata non abbandona il suo viso nemmeno per un attimo. È una cosa che si impara esercitandosi. Mi chiedo quante volte Stevie sia stato costretto a fingere che andasse tutto bene. «Quindi, sì, questo è quello che intendo per “perdere la testa”. Stagli vicino, ma fagli anche capire che se vuole continuare a drogarsi non avrà il tuo appoggio. Se l’hai già aiutato, non farlo di nuovo. Come ho già detto... buonsenso.»

    Il “grazie” che biascico mi fa sentire uno schifo. Vorrei fare tutto un discorso, cominciare dall’inizio con tutta calma ed elencare a Stevie i motivi per cui è appena diventato una delle mie persone preferite al mondo. Sederci davanti a un caffè così, io che continuo con il mio discorso di ringraziamento e lui che mi ascolta massaggiandosi il collo. Però dico solo “grazie”, e va bene così, perché tanto il succo è quello, e il resto sono tutti dettagli. A Stevie non interessano i dettagli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Gerard aspetta il bus accanto al palo della fermata, Stevie sta ancora sistemando le sedie sui tavoli. Lo so perché la strada è talmente deserta e silenziosa che in lontananza posso sentire il rumore del legno contro il legno. Nevica, anche abbastanza forte, Gerard mi vede e anche se siamo a tipo due metri di distanza l’uno dall’altro lui mi fa ciao con la mano, tipo che deve considerarmi proprio importante se si è preso la briga non solo di alzare una mano, ma pure di agitarla. All’improvviso mi viene in mente di chiedermi dove cazzo sono finiti tutti. È come in quel film in cui la notte escono i vampiri, o i mostri o quel che è, e allora il sindaco mette un coprifuoco tipo all’ora del tramonto. O forse era Obama. E fatto sta che c’è questo coprifuoco – nel film, dico –, e che ora come ora io sembro quel fesso che nel film si dimentica del coprifuoco e comincia a vagare tra le strade deserte della città come un cretino. Poi può anche darsi che questo film non esiste e che me lo sto inventando, oppure che sono due film diversi e io li ho fusi assieme perché ho la memoria di un grillotalpa. E fatto sta che nevica, e io dovrei tirare dritto e andarmene a casa, tanto più che domani c’è il test di scienze e io il libro di scienze non so nemmeno com’è fatto. Non sono neanche sicuro di averlo comprato, se proprio volete saperlo. Faccio due passi verso di là e poi mi fermo di nuovo, come un cretino. Che poi non so se l’avete notato, ma gira che ti rigira in ogni circostanza sembro sempre un cretino. Tutto questo per dire che nevica e che Gerard mi ha fatto ciao con la mano, e io tutto d’un tratto non ho proprio nessuna voglia di andarmene a casa. Non mi va e basta. E vaffanculo anche a scienze, se proprio devo dirlo.

    Non ci penso due volte, e Gerard ha il vento che gli scompiglia i capelli.

    «Ti va di fare un giro?»

    Ragazzi, che invito fiacco. Gerard lo soppesa, quasi quasi posso sentire gli ingranaggi di quel suo cervello impossibile che si mettono in moto. Ha gli occhi grandi e acquosi, non sta meglio di prima ma non sta neanche peggio. Gerard è così e basta, Gerard si fa di ketamina e o compri tutto il pacchetto oppure grazie tante e cari saluti. Con due dita della destra prende a srotolarsi la manica sinistra della giacca, come se in questo momento la sua preoccupazione principale fosse quella di coprirsi bene tutte le nocche e poi tutte le dita, ha sempre il vento che gli scompiglia i capelli. Sospira con discrezione. Sta respirando più forte di prima, si vede perché le spalle si alzano e si abbassano velocemente, quasi quasi assieme agli ingranaggi del suo cervello impossibile posso anche sentire il tum-tum del cuore. Si gela.

    «Sì», dice.

    «“Sì” cosa?»

    «Sì mi va di fare un giro.»

    Annuisco. Gerard è come i gatti. Forse non ho realizzato che mi ha detto di sì, o forse ho solo paura di mostrare troppo entusiasmo. Mi chiede quando, gli dico adesso. Andiamocene adesso, a fare un giro, a vedere un po' di niente. Il sole è tramontato da poco. C'è già una fetta di luna, in alto a destra, cominciamo a camminare verso il parco. 

    «Dove stiamo andando?», chiede.

    «Al luna park.»

    «Iero, lo sai che il luna park è chiuso da tredici anni?»

    «Sì, e allora?»

    Gerard alza le spalle e si ficca le mani in tasca.

    «Boh», dice, «non so, è che sarà pieno di drogati.»

    «Ma non mi dire.»

    Mi giro verso di lui, non credo che si sia reso conto di quanto è ironica la frase che ha appena detto. Gli sorrido, continua a non capire e mi guarda spaesato.

    «Che c'è?», chiede.

    «Niente.»

    «Che c’è?», chiede ancora, questa volta con un tono più stridulo.

    «"Pieno di drogati"?»

    Gerard smette di camminare, mi osserva attentamente inclinando la testa da un lato. Forse siamo su due lunghezze d’onda totalmente diverse, ma secondo me no. E infatti Gerard capisce. Comincia a stirare gradualmente le labbra tenendole tra i denti come per trattenersi, ma non ci riesce, e allora cede e lancia un sorriso fugace all’asfalto, e poi alla fine ride e basta, ma piano, cercando di non essere troppo sguaiato nel silenzio mortale di questo paesino di merda. Ha la bocca aperta e si passa la lingua sui denti cercando di filtrare al massimo quell’espressione che forse secondo lui lo fa uscire troppo dal personaggio. Me lo mangio con gli occhi. Si volta di profilo e le ciglia sono una virgola nera stagliata contro il bianco del cielo invernale, la punta del naso si muove leggermente in perfetta sincronia con i movimenti delle sue labbra. È quell’espressione adorabile che fanno solo le persone adorabili subito dopo aver incassato una battuta giocata bene e subito prima di dire “touché”. Lo dice.

    «Touché, Iero.»

    «Oh, beh, per carità, se pensi che sia pieno di drogati allora andiamo da qualche altra parte», rincaro.

    «Ah, sì? E io che pensavo che avessi una passione fetish per i drogati.»

    «Ti sbagli, è gente poco raccomandabile, quella.»

    Per un attimo il suo sorriso brilla un po’ di meno, calcia un sassolino, si stringe nelle spalle.

    «Già. È gente poco raccomandabile.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    C’è un capanno dove in un’epoca che potrebbe risalire a cinquant’anni fa le donnine con il rossetto rosso e la vita stretta si facevano accompagnare dai fidanzati per provare a tirare giù una piramide di lattine con una pallina da tennis. Il luna park è stato chiuso poco più di un decennio fa, ma la sua esistenza è sempre stata piuttosto inquieta, e non lo dico per fare il poeta maledetto che esplicita in versi la cadente bellezza dell’abbandono. Quelle giuro su Dio che sono cazzate, e non c’è niente di bello nel luna park abbandonato o nel capanno dove in un’epoca eccetera eccetera le donnine con il rossetto rosso eccetera eccetera. Però che l’esistenza del luna park è stata un’esistenza inquieta, questo è vero. Il luna park è venuto su come vengono su i McDonald’s, non so se avete presente. Un attimo prima sei in una landa desolata e un attimo dopo ti giri e puff – proprio così, puff -, ecco che compare il McDonald’s. Avete mai visto un McDonald’s in costruzione? No, esatto. Perché non esistono, i McDonald’s compaiono e basta. Anche i luna park. O almeno, questo luna park è comparso così, e non c’è vecchietto che possa darvi dettagli più precisi. Prima non c’era e da un certo momento in poi c’è stato, fine della storia arrivederci e grazie. Fatto sta che il luna park è apparso e tutto quanto, e all’inizio c’erano solo quella cosa che gira con i cavalli e la musichina di merda e il capanno con le lattine, e poi mano a mano sono comparse anche le altre cose tipo la ruota panoramica e l’omino dello zucchero filato. Quello che so è che a un certo punto un tizio molto ricco e anche molto pazzo che si chiamava Christopher Bryar ha deciso che il luna park aveva bisogno di rinnovarsi, e allora ha investito un sacco di soldi per buttare giù le cose vecchie e costruire cose nuove. Solo che questo Christopher era molto pazzo, cosa che mi pare di aver già detto, e quindi questa cosa del rinnovare il luna park gli saltava in testa praticamente ogni sei mesi. Tutto questo per dire che ogni due secondi il luna park aveva qualcosa di diverso, e le giostre duravano sei mesi al massimo e poi venivano subito rimpiazzate da qualcos'altro. Il capanno del tiro a segno è durato circa un decennio, tipo che se è stato aperto nel 1956 è durato fino al 1966, non so se mi seguite. Capite bene che nel luna park del signor Bryar se qualcosa durava più di tre mesi allora voleva dire che quella cosa era proprio una cosa bellissima e pazzesca. Ad ogni modo il tiro a segno non era né bellissimo né pazzesco, quindi secondo me il signor Bryar se l’era solo dimenticato, e allora per un po’ ha evitato di demolirlo o bruciarlo o che so io.

    Queste cose le racconto a Gerard, forse Gerard mi sta anche ascoltando. Ha sempre le ciglia nere che formano quella virgola che ho già detto, quella nera che si staglia eccetera eccetera, però il vento tra i capelli non ce l’ha più, perché adesso siamo nel capanno e qui il vento non arriva. Penso che questo capanno potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro - forse anche adesso. Fatto sta che ci sono io e c’è Gerard, e lui mi chiede come faccio a sapere tutte queste cose.

    «La signora Patchett mi fa tagliare l’erba del suo giardino in cambio di soldi», rispondo in breve. «Solo che la signora Patchett parla tanto e quindi mi racconta tutte queste storielle su cosa succedeva ai suoi tempi.»

    «Oh.»

    Si slaccia il giubbotto, lo fisso stolidamente mentre si tira giù la zip. Vorrei dirgli che fa freddo e che non mi pare proprio il momento di slacciarsi il giubbotto, ma me ne sto zitto. Estrae le sue sigarette con il filtro bianco dalla tasca interna della giacca.

    «Sei una persona fedele, Iero?»

    Così, dal nulla. Gerard spinge il pollice sulla rotellina metallica dell’accendino ma fa cilecca. Ci riprova, nulla, Un’altra volta. Due, tre, quattro. Alla quinta la punta della sigaretta diventa rossa. Posa l’accendino accanto a sé.

    «Sì», rispondo. «Credo di sì.»

    Gerard fa sì con la testa come se dovesse metabolizzare un’informazione delicata.

    «Già. Anch’io. Bella fregatura, eh?»

    «In che senso?»

    «Nel senso che è una fregatura. Essere fedeli, dico. È una forma di autolesionismo non indifferente.»

    «Dipende da chi è la persona con cui stai», dico io.

    «Sì, è vero. Dipende da quello.»

    La conversazione finisce qui, abbiamo avuto i nostri trenta secondi filosofici. Gerard si stende lentamente sulla schiena e per qualche motivo stupido che non mi spiego noto che si è steso subito, senza prima controllare con una mano se il pavimento il legno fosse bagnato, o marcio o che so io. Adesso ha gli occhi puntati sul soffitto, io ho gli occhi puntati su di lui. Questo capanno potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro, forse anche adesso. Nevica ancora. Sospiro forte e poi mi sdraio anch’io. Eccoci qui, con la schiena sul pavimento marcio di un capanno abbandonato da Dio in un parchetto abbandonato da Dio in un paese abbandonato da Dio, a chiederci l’un l’altro se siamo fedeli e ad amareggiarci perché entrambi abbiamo risposto sì. Due cretini, la definizione più calzante che mi sovviene. Questo capanno potrebbe crollarci sulla testa da un momento all’altro. Forse anche adesso.



   
 
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