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Autore: niclue    18/08/2015    1 recensioni
Di come Castiel migliorò la vita a Sam e Dean senza cambiare di una virgola, nonostante una nazione intera lo stesse facendo.
Conosciuta anche come "L'avventura del fato omofobo del Texas."
Il mio personale contributo (in ritardo) per festeggiare la legalizzazione negli USA. #LoveWins
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Capitolo V: Solo una bambina

 

Posteggiarono l’Impala accanto al marciapiede davanti a quella che doveva essere la residenza della famiglia Pockman, l’ultima che gli rimaneva da interrogare.

 

I genitori di Don Smoot erano il ritratto della coppia stereotipale texana: il padre, uomo violento e alcolizzato, dandogli una birra e una partita di football si riteneva un uomo soddisfatto; la madre era una piccola donna casalinga, crocifisso al collo e cucchiaione di legno nella mano destra.

 

L’ultima volta che era stato in un ambiente tanto burbero e in cui veniva continuamente chiamato “giovanotto” Bobby era ancora vivo.

 

Anche se la vita dagli Smoot era molto più dura: nei quadri rappresentanti eventi biblici, nei crocifissi appesi alle pareti, accanto a fucili e trofei di caccia, nei gesti e nelle parole fredde del signor Smoot nelle esclamazioni e nelle preghiere nervose della signora, in tutto ciò Dean leggeva la stessa vergogna e lo stesso odio per se stessi che doveva aver sofferto Don per tutta la vita. E Dean ne sapeva qualcosa di quei sentimenti e della auto-privazione di libertà che comportava. La frase più compassionevole che sentirono fu da parte della madre: “Spero solo che l’anima di Don si sia pentita, e magari si sia salvata.”

 

Dopo un’ennesima esclamazione su quanto Robert Morsent fosse il demonio stesso e fosse un bene che non ci fosse più al mondo, altrimenti ci avrebbe pensato personalmente il signor Smoot a liberarsene, Dean e Castiel decisero di conoscere la famiglia Morsent e capire la loro malvagità.

 

Dean ne era già un grande fan.

 

Una decina di isolati più lontani, una villetta in stile classico racchiudeva una famiglia di quattro persone distrutta. I genitori raccontavano di come avessero sbagliato per tutta la vita, di come si pentissero di aver respinto così il loro amato figliolo, e rimpiangevano i bei momenti che avrebbero potuto passare insieme se non gli avessero voltato le spalle. Le sorelle minori, invece, Catherine e Marianne non smettevano di piangere come fontane a ogni menzione del nome del fratello, piagnucolando su come loro lo amassero in ogni caso, su come fossero sempre dalla sua parte. Mary, di undici anni, seduta accanto a Castiel, non smetteva di stringere tra i pugni paffuti i lembi del suo trench coat. Dean ne era curiosamente disturbato.

 

Infine, eccoli lì, all’ultima casa.

 

Dean aveva appena ricevuto un messaggio da Sam che li informava di come anche lui stesse andando a parlare con l’ultima famiglia rimastagli da visitare e confermava l’orario per cui contava di aver finito, in modo che Dean e Castiel lo potessero passare a prendere per potersi recare insieme al convento.

 

Uscirono dalla macchina, Castiel attendendo Dean sul marciapiede, per poi andare insieme a bussare alla porta. La casa era più piccola di quella dei Morsent – probabilmente la vittima, Madison, era figlia unica – ma decisamente più graziosa; Dean vide Castiel osservare curiosamente le diverse aiuole fiorite sparse per il giardino e trattenne un sorriso.

 

Arrivati al portico, Dean si allungò per spingere l’indice sul campanello e un semplice diin-doon risuonò piacevolmente nelle loro orecchie. Dopo qualche attimo una donna minuta, dai capelli biondo chiaro e i grandi occhi spaventati e marroni aprì la porta. “Sì?” parlò con voce appena sussurrata. Gli occhi gonfi e l’aspetto trasandato tradivano un’estrema stanchezza. Le rughe appena accennate sul viso suggerivano un’età non troppo lontana dai quarant’anni.

 

Dean e Castiel mostrarono prontamente i distintivi. “La signora Christina Pockman?” La donna annuì appena, ancora intimorita. “Agenti Wetton e Palmer*, FBI. Vorremmo farle qualche domanda su sua figlia, se per lei è il momento.”

 

La signora Pockman annuì di nuovo e aprì completamente la porta per farli entrare in casa, mormorando un “Prego.” L’interno della casa aveva un aspetto che si addiceva all’esterno: curato, materno, caloroso. Al posto dei fucili e dei crocifissi di casa Smoot, qui le pareti erano costellate di foto di famiglia e di quadri di paesaggi pacifici o vasi fioriti. Niente a che vedere con la severità dell’arredamento di forte Smoot, né con l’ordinata eleganza della villetta dei Morsent; questa era una casa. Qui si respirava l’amore. Qui Madison sarebbe stata accettata a braccia aperte. Qui, insieme a Sophie Bonnell, Madison avrebbe potuto essere felice.

 

Una voce tremante si schiarì. “Vi posso offrire qualcosa, agenti?” domandò la signora Pockman.

 

“No, la ringraziamo molto, signora,” rispose Castiel, con pacatezza. La signora lo guardò e trovò qualcosa che la fece rilassare appena.

 

“Vi prego, venite a sedervi,” li invitò la donna, con voce un po’ più ferma, guidandoli verso il salotto. Qui, vennero accomodati su un divano blu costellato di cuscini colorati, di fronte ad una poltrona verde scura, dove si accomodò Christina.

 

La stanza, come il resto della casa, era completamente al buio: le luci spente, le tapparelle abbassate fino a metà. L’aria condizionata rendeva l’aria ben più che fresca, quasi invernale: questo spiegava il grande maglione blu spento che indossava la donna così come la coperta di plaid che si mise prontamente sulle gambe. Numerosi pacchi vuoti di fazzoletti stazionavano per terra, tra la poltrona e il divano. La signora Pockman doveva aver fatto di quella stanza la sua tana contro l’orrore che l’aveva così brutalmente colpita.

 

“Cosa volete sapere?” domandò ella, osservandoli con occhi vuoti.

 

“Ci parli di Madison. Tutto quello che si sente di dirci,” la incitò Dean, con tono gentile.

 

La donna prese un respiro profondo e iniziò a parlare.

 

“Madison era il mio bene più prezioso. Era tutto quello che mi era rimasto. Suo padre, mio marito – morì quando Maddie era piccola, in un incidente stradale. I miei genitori abitano in Florida, io ero qui solo per Paul, mio marito, e poi per Maddie, appunto. Tutto quello che facevo lo facevo per lei. La amavo così tanto. Mandarla a scuola non è mai stato un problema – sono un medico, ho uno studio mio, quindi i soldi non sono mai mancati, nonostante tutto. Poi andavamo in vacanza, la portavo ai concerti dei cantanti che le piacevano, guardavamo i film che le piacevano – ho fatto di tutto per renderla felice. Tutto per lei. Poi— poi— poi quando finì il liceo, decise di studiare ingegneria qui, al Tech. Ero contenta che volesse rimanere a casa— ne ero entusiasta, ma lei poteva— poteva aspirare a molto di più— era stata accettata ad Harvard, a Stanford, a Yale, ma lei no, lei— lei voleva rimanere qui. Così studiò ingegneria, si specializzò in gestionale, e si laureò un anno fa,” il suo sguardo si posò sulla colonna accanto a lei, dove faceva una bellissima impressione una cornice rettangolare raffigurante la foto di una bellissima e sorridente ragazza dai lunghi capelli arancioni indossava tocco e toga neri, una pergamena arrotondata in mano, “a ottimi voti. Era così brava. Per un anno rimase qui, dopo aver trovato lavoro in un’azienda. A me ovviamente non creava problemi— per quanto mi riguardava poteva rimanere a vivere qui per sempre,” a queste parole la sua voce vacillò un po’, ma Christina continuò, determinata, “ma mi pareva strano. Maddie aveva sempre avuto dei larghi orizzonti. Da piccola sognava New York, Los Angeles, le grandi metropoli. Ho sempre pensato che, appena presa la laurea, beh— se ne sarebbe andata. Che avesse inseguito i suoi sogni. Invece era ancora qui— e perché? Lo scoprii qualche giorno fa, il perché. Era la sera del 26 giugno,” Dean e Castiel si scambiarono un’occhiata mentre la donna non guardava, “ero in cucina, a preparare la cena, Madison era uscita. Verso le sette era tornata a casa con Sophie, la sua amica dai tempi delle medie,” l’emozione le inumidì gli occhi fissi sul pavimento, persi nel ricordo, mentre un sorriso affettuoso le affiorò sulle labbra, e continuò con voce dolce, “e mi chiamò dal salotto «Vieni, mamma, vieni! Ti dobbiamo dire una cosa!». Era così emozionata. Così bella. E quando me lo disse. Oh, Dio, quando me lo disse. Quando mi disse di essere innamorata di Sophie. Della sua ragazza. Da ben sei anni. E che l’avrebbe sposata perché beh, ormai si può anche in Texas! Così decisa, così bella. La mia bambina. Con o senza il mio consenso. E in quel momento non potei fermarmi. Scoppiai a ridere. E dopo un po’ piansi. E infine le abbracciai entrambe. Le mie bambine. E accarezzai così tanto la mia Maddie e risi e piansi e infine la sgridai. Perché, come ha potuto aspettare tanto a dirmelo? Perché aspettare tanto? Come poteva pensare anche solo lontanamente che non l’avrei accettata per quello che è? Nulla mi potrebbe mai fermare dall’amarla incondizionatamente, come faccio dal giorno in cui è nata. E’ la mia bambina. E’ il mio amore. Lo era. Lo era. Perché ora lei— ora lei—“ e lì non poté più andare avanti, consumata dal dolore che le portava pensare a quegli eventi, a quell’ingiustizia fin troppo fresca da sopportare. Scoppiò a piangere, appallottolandosi su se stessa, stringendosi le braccia attorno alle spalle. Nascose il viso tra le ginocchia, la schiena scossa violentemente dai singhiozzi e dai tremiti. L’immagine di una donna sola.

 

Dean resistette con tutte le sue forze all’istinto che gli gridava di alzarsi e andare a stringere quella donna fino a che non fosse stata meglio, ascoltando invece la ragione che gli ricordava che in quel momento era un agente, e gli agenti non si abbassavano a certe cose.

 

Non doveva pensarla così Castiel, invece, che si alzò dal suo posto sul divano – ignorando volutamente lo sguardo di Dean che gli imponeva di rimanere seduto – e raggiunse la poltrona dove si era seduta la donna, abbassandosi fino a trovarsi al suo livello.

 

Christina, accortasi della presenza dell’agente a poco spazio da lei, alzò leggermente il viso, permettendo agli occhi – grandi, rossi, ancora più lucidi, ancora più gonfi, ancora più spenti – di fare capolino dallo scudo delle sue ginocchia. Castiel allungò una mano e la poggiò con la sua bizzarra sicurezza sulla sua spalla, stringendola confortante. La donna, se possibile, pianse ancora più forte, aggrappandosi al muscoloso braccio estraneo e appoggiandovi la fronte. In un nuovo moto di coraggio, Castiel allungò l’altra mano e la poggiò sulla sua testa, accarezzandola dolcemente.

 

Dopo qualche minuto – in cui Dean si sentì vittima dell’orribile miscela tra imbarazzo e senso d’inutilità – la signora Pockman sembrò calmarsi e cominciò a prendere dei profondi respiri, alzando lentamente la testa dal solido sostegno sui cui l’aveva poggiata. Riservò un piccolo ma sincero sorriso pieno di gratitudine a Castiel e poggiò la mano sulla sua (ancora stazionante sulla spalla di lei) per stringerla brevemente e ribadire il concetto. Castiel annuì e si rialzò in piedi, riavvicinandosi verso il divano, senza però risedersi.

 

Dean fece saettare lo sguardo – fino a quel momento fisso su Castiel – verso Christina, caricandolo di premura. “Va meglio?” domandò, nonostante l’ovvietà della risposta. Se affermativa o negativa, non sapeva dirlo.

 

La signora però annuì freneticamente, asciugandosi le guance con le maniche del maglione, mormorando, “Grazie mille, scusate,” tra sé e sé.

 

Dean le sorrise gentilmente e la donna ricambiò, in una discreta imitazione.

 

“Beh, se è tutto—“ cominciò Dean, cercando di rompere l’atmosfera pesante che si era creata.

 

“Oh, sì— sì, vi accompagno alla porta,” continuò ad annuire Christina, calciando via la coperta e alzandosi in piedi.

 

Dean e Castiel la seguirono nell’ingresso, in silenzio, fermandosi poi davanti alla porta.

 

“La ringraziamo di cuore,” le disse Dean, e lo diceva davvero.

 

La donna scosse la testa, un sorriso triste in volto. “No, sono io che vi ringrazio,” gli occhi marroni saettarono su Castiel, “a entrambi. Per tutto. E soprattutto,” un’espressione scura le adombrò il volto, “se riuscirete a trovare lo stronzo che ha ucciso la mia bambina. E se gliela farete pagare.”

 

Dean annuì solennemente. “Glielo giuro sul mio onore,” promise con espressione seria.

 

Castiel, intanto, osservava con interesse le diverse foto di Madison appese nell’ingresso. Era particolarmente focalizzato in un abbraccio tra Madison e Sophie – entrambe con tocco e toga, dei sorrisi enormi sui volti giovani e rilassati. Entrambe bellissime.

 

“Erano meravigliose, vero?” mormorò Christine, gli occhi malinconici fissi sullo scatto.

 

Castiel annuì. “Lo erano. Lo sono. Lo saranno sempre.” Con un ultimo sorriso, entrambi lasciarono la dolce casa dal calore materna di una dolce madre senza più figlie né tepore.

 

***

 

Dopo aver prelevato Sam davanti alla casa della famiglia di Sophie Bonnell, i tre finti agenti si diressero in fretta verso la chiesa presidiata dal pastore Gilbert, l’ultimo posto da visitare per quel giorno.

 

Un annoiato resoconto degli interrogatori delle altre tre famiglie – spaventosamente simili a quelle visitate da Dean e Castiel – li fece rendere conto di stare ad un punto morto con le indagini. Non si era presentato alcun punto in comune tra le vittime e le loro vite a parte, beh, l’orientamento sessuale.

 

Non era che Dean si aspettasse già di trovare la specie di mostro, la sua localizzazione e il modo di ucciderlo, ma almeno sperava in un qualcosa che gli potesse dare almeno una piccola, vaga idea di cosa diavolo stesse succedendo. E magari anche la testa del colpevole su un piatto d’argento.

 

Dalle sue spalle la voce di suo fratello continuava a pronunciare mille parole di conforto e ottimismo e Dean dovette trattenersi con tutto sé stesso dal voltarsi per tirargli un pugno sul naso. Era stanco, aveva fame, era frustrato, era affranto e faceva così caldo. Non aveva bisogno di altre rogne, grazie tante.

 

Seguendo le direzioni del GPS del telefono di Sam si fermarono, infine, di fronte ad un grande edificio color ocra, all’apparenza ben mantenuto. Era semplice, ma non per questo spoglio: il grande giardino era adornato di siepi e aiuole curate, con tanti fiori colorati, anche se principalmente di tonalità delicate; un portone di legno scuro a due ante apriva sull’ingresso della struttura, sposandosi con le rifiniture delle finestre della medesima materia, abbellite, inoltre, da una rifinitura di un rosso sbiadito. Al centro del giardino anteriore, una grande croce grigia si ergeva di fronte a una piccola scalinata.

 

Scesi dalla macchina, Dean fischiò. “Però, non se la passano male,” commentò, guardandosi attentamente attorno. Era meglio che nessuno si offendesse prima ancora che gli si fornissero i giusti motivi per farlo.

 

Di fronte alle scale li attendeva un uomo di media statura, con i capelli grigi e un completo nero.

 

Raggiuntolo, il reverendo Simon Gilbert gli sorrise cortesemente, stringendo le mani a tutti e tre. “Benvenuti, agenti,” li accolse, alzando il braccio verso l’ingresso per invitarli ad entrare. Gli occhi azzurro chiaro spezzavano la facciata di calma innaturale che tentava di mantenere, assieme a due pesanti occhiaie scure. L’aspetto pallido del volto anziano suggeriva la difficoltà della situazione di quei giorni.

 

“Buongiorno, reverendo,” salutò Sam con un sorriso, “è un buon momento?”

 

Il pastore sorrise debolmente. “Questi non sono dei bei giorni, un momento ne vale un altro. Ma se si può accelerare l’attuamento della giustizia e meglio farlo il prima possibile, no?”

 

Dean sorrise, colpito e si avviò nella chiesa assieme agli altri.

 

“Ci può parlare del reverendo Dunnets? Tutto quello che si sente di dirci,” si affrettò a dire Sam, con la sua cortesia.

 

L’interno della chiesa era molto elegante e semplice: camminavano su un lucido pavimento blu, colore ripreso da alcune raffigurazioni appese alle pareti bianche. Le panche di legno scuro si susseguivano fino all’altare, dove una tavola era completamente coperta da una tovaglia bianca che toccava il pavimento e alle sue spalle un grande e maestoso crocifisso di legno intagliato faceva bella mostra di sé.

 

“Beh,” cominciò il pastore, “la prima cosa che vi posso dire di Gregory è che era davvero una persona buona. Aveva sempre una parola gentile per tutti, sorrideva sempre, incoraggiava continuamente l’amore. E a quanto pare è stato questo a condannarlo,” mormorò, fissando lo sguardo nel vuoto.

 

“Da quanto tempo vi conoscevate?” domandò piano Dean.

 

Il reverendo Gilbert si scosse da qualunque pensiero lo avesse monopolizzato e tornò a concentrarsi sui tre agenti. “Siamo praticamente cresciuti insieme,” rispose, con voce roca. “Andavamo a scuola insieme fin dalle elementari. Abbiamo giocato insieme, abbiamo studiato insieme, mi ha presentato mia moglie, è stato il mio testimone di nozze… sapete, le classiche grandi storie d’amicizia,” spiegò, sorridendo appena. “Era un fratello per me. Beh,” si affrettò a dire, “oltre che per l’abito.”

 

Dean trattenne un sorriso divertito e chiese ancora, “Sa se, per caso, qualcuno covasse rancore per il reverendo Dunnets?”

 

L’espressione di Gilbert si indurì. “Se mi sta chiedendo se ho dei sospetti sul colpevole,” disse piano, “non so darle un nome preciso. Ma sono sicuro che sia lo stesso peccatore che ha tolto la vita a quegli altri sei ragazzi.”

 

“Li conosceva?” chiese Sam.

 

Il pastore annuì. “Certamente. Venivano tutti qui con le loro famiglie, ogni domenica, anche quando era il reverendo Emerson a ufficiare,” raccontò. “Li ho visti crescere, quei ragazzi.”

 

Sam annuì comprensivo, rivolgendogli un mezzo sorriso paziente. Poi, con tono cauto, disse, “Se non le dispiace, ci potrebbe accompagnare sul luogo dove…” e lasciò cadere la frase, sperando che cogliesse il significato.

 

Gilbert abbasso appena lo sguardo, mormorando. “Vi faccio accompagnare dalla mia consorella, suor Alice. E’ lei che—“ la voce gli tremò appena, ma l’uomo sentì comunque il bisogno di fermarsi un attimo. “E’ lei che lo aveva trovato,” concluse, senza alzare lo sguardo.

 

“La ringraziamo,” disse Castiel con cortesia.

 

Il reverendo annuì al pavimento, per poi voltarsi e uscire dalla chiesa. Dopo qualche minuto, tornò insieme ad una donna robusta poco più alta di lui, di una decina di anni più giovane, il viso pallido di egual stanchezza e qualche ricciolo di capelli scuri che spuntavano da sotto il velo nero.

 

Gilbert, intanto, sembrava aver riacquistato un briciolo di compostezza. “Alice,” cominciò, con voce ferma ma benevola, “questi sono i tre agenti dell’FBI di cui ti avevo detto. Raccontagli tutto quello che sai mentre li accompagni di sopra, mi raccomando. Sono qui per aiutare.”

 

La suora annuì seccamente, gli occhi color nocciola chiaro che scrutavano ognuno dei tre estranei di fronte a lei. Dopo qualche attimo, stirò le labbra nel principio di un sorriso garbato, e li accolse con un “Buon pomeriggio, agenti. Vi ringrazio per il vostro sostegno.” Parlò con un tono di voce alto, ma misurato. Probabilmente era l’effetto di tanti anni di disciplina.

 

“E’ il nostro dovere,” replicò Dean con un mezzo sorriso di gratitudine.

 

Suor Alice lo fissò con espressione indecifrabile e Dean si sentì quasi intimorito da quegli occhi chiari che puntellavano la sua facciata, come spogliandolo e giudicandolo. Si costrinse di non mostrare alcun segno di disagio e mantenne un’aria neutrale. Alla fine, la monaca si voltò, accennandogli con la mano a seguirla. “Da questa parte, signori.”

 

“Arrivederci, reverendo,” salutò Sam, imitato poi dal fratello e dall’amico. Il sacerdote si limitò a rivolgergli un timido gesto di saluto con la mano.

 

I quattro uscirono dalla chiesa attraverso una porta alla sinistra dell’altare, uscendo in un lungo corridoio dal pavimento di marmo lucido color sabbia. Proseguirono in silenzio, se non per i passi echeggianti sul rivestimento marmoreo, passando davanti a numerose porte, tutte di quello stesso tipo di legno degli altri ingressi dell’edificio. Infine, giunsero di fronte ad una scala costruita dalla stessa pietra del pavimento e salirono due rampe di gradini dalla memoria rimbombante. Al secondo piano dell’edificio, si ritrovarono in un secondo corridoio e i tre uomini si fecero guidare all’interno della stanza chiusa dalla prima porta di legno scuro – ancora – sulla destra.

 

Suor Alice si voltò appena, come per controllare che si fossero ancora tutti e tre, tirò fuori una chiave di ferro da infilare nella moderna serratura, la fece girare completamente due volte e, abbassando la maniglia, spinse la porta.

 

“Abbiamo lasciato tutto esattamente come lo trovai,” assicurò, con voce salda e pacata.

 

La stanza era piccola – ci entravano giusto loro quattro – sebbene più grande di quanto si aspettasse in un convento, di forma rettangolare, con l’ingresso e una finestra quadrata su ognuno dei lati minori. Addossato al lato maggiore destro vi era il letto ad una piazza, coperto da un lenzuolo azzurro e un cuscino candido; dalla parte opposta vi era una piccola scrivania di legno chiaro, pulita e in ordine. Anche le pareti bianche avevano degli abbellimenti: sopra il letto vi era un lungo scaffale occupato da un gran numero di libri; sopra la scrivania, vi era un quadro. Il lampadario era fornito di tre eliche ventilanti: vi era ancora annodata la fune, cappio incluso.

 

“Come avete escluso il suicidio?” chiese Sam, voltandosi verso la suora.

 

“Oh, Gregory non lo avrebbe mai fatto. Amava troppo la vita,” rispose prontamente Alice, gli occhi che per un attimo solamente si scurivano di malinconia.

 

“E poi?” insistette Sam.

 

La monaca lo fissò con le sopracciglia aggrottate, non capendo. Dean rispose al suo posto.

 

“La sedia è al suo posto nella scrivania,” disse, riflettendo. “Non sarebbe riuscito ad arrivarci, nemmeno in piedi. Non era così alto, no?” domandò alla suora, che scosse la testa.

 

Avvicinandosi alla sedia, alzò lo sguardo sulla parete, cominciando ad osservare il quadro appeso con interesse.

 

Non era mai stato un appassionato di arte ma sapeva riconoscere un capolavoro quando ne vedeva uno e, soprattutto, lo sapeva apprezzare.

 

Il quadro – rettangolare, più lungo che alto – rappresentava un rito, se non si sbagliava: da sinistra, una folla di persone osservava dabbasso una bambina, avvolta in un’aurea dorata, che risaliva (verso destra) un’alta scalinata dai gradini di pietra, andando incontro a due figure dall’aspetto importante e l’aria solenne. L’opera giocava molto con i colori – rinascimentale? – ma ai suoi occhi risaltava in modo particolare l’azzurro della veste della bambina, richiamato anche dal modesto spazio di cielo dipinto come sfondo alla folla di cittadini a sinistra.

 

Non si accorse di quanto tempo fosse rimasto a studiarlo, fino a quando una voce chiara per poco non lo fece sobbalzare. “E’ meraviglioso, non è vero?” Suor Alice si avvicinò e si mise accanto a lui.

 

Dean si girò la testa. Vide Castiel osservarlo con curiosità e Sam lanciargli un’occhiata divertita.

 

Si voltò di nuovo verso il quadro e annuì appena.

 

“Gregory amava l’arte. Questo lo acquistò durante il suo ultimo viaggio in Italia, qualche anno fa. Non smetteva più di straparlare su che grande occasione fosse stata comprarlo,” un sorriso tremolante le sfuggì dalle labbra e non poté fare nulla per riappropriarsene. “Non so quante lezioni mi ha tenuto su questo quadro,” sbuffò, infine, tornando al suo tono incurante.

 

“Che cos’è? Non mi sembra di averlo mai visto,” osservò Dean.

 

“Beh, non c’è su tutti i libri,” concordò Alice. “Non ricordo il titolo,” ammise, “ma sono certa che l’autore è Tiziano – non mi chieda il cognome. Rappresenta la venuta di Maria da bambina al Tempio di Gerusalemme.”

 

Dean assottigliò lo sguardo. “Per Maria intende—“

 

“La madre di Gesù, sì,” affermò la suora. Dopo qualche attimo, Dean percepì la donna accanto a sé irrigidirsi di colpo. “Ma cosa…” soffiò, confusa.

 

Una mano pallida si avvicinò all’angolo inferiore destro della cornice. Dean cercò qualunque dettaglio che potesse averla turbata, fino a notare dei pezzetti di carta fuoriuscire da sotto il materiale nero. Con un leggero sforzo delle mani, la donna estrasse, uno dopo l’altro, cinque cartoncini dal lato minore della larga cornice e li posò sulla scrivania.

 

Dean si voltò verso Sam e Castiel, arrivati alle loro spalle per vedere cosa avessero trovato.

 

Sulla scrivania ora erano presenti cinque carte – di un genere che non aveva mai visto prima: una raffigurava tre cerchi uguali, con la stessa decorazione a forma di sole – erano due occhi e una bocca quelli? – colorata di nero e d’argento; la seconda aveva gli stessi cerchi, ma ne contava sette; la terza ne ritraeva due. La quarta, invece, ritraeva un uomo vestito di costumi ottocenteschi, con calze, busto e cappello rossi, calzoni e spalline verdi, maniche e piuma del cappello gialla; nella mano destra stingeva lo stesso oggetto circolare. La quinta carta assomigliava alla penultima, presentando anch’essa una figura, anche se questa appariva meno buffa: al posto del busto rosso indossava un’armatura blu dalla quale ricadeva un mantello blu e rosso; la maglia gialla era intonata alle calze, ma alla cinta dei calzoni verdi portava una spada e in testa una corona; il disco argenteo fluttuava accanto alla sua testa.

 

Dean occhieggiò suo fratello e il suo compagno: nessuno dei due sembrava essere davanti a lui. Fantastico.

 

“Cosa sono?” domandò Sam, confuso. Castiel, invece, rimase in silenzio, afferrando una delle carte – quella con i sette dischi – e avvicinandola per studiarla meglio.

 

La suora, però, li ignorò; cominciò, invece, a cercare qualcosa tra gli oggetti posati sulla scrivania. Insoddisfatta, si inginocchiò a terra, cominciando a tastare la moquette con i palmi aperti; si allungò fino a sotto il tavolo, mentre gli altri tre si allontanarono per concederle lo spazio d’azione e si scambiarono degli sguardi perplessi. Dopo una dozzina di secondi di apparente ricerca, quando Dean si era risolto a chiedere che cosa stesse cercando esattamente, Alice si rimise in piedi, sospirando di soddisfazione.

 

“Mi scusi, ma—“ cominciò a chiedere Sam, per poi essere interrotto dalla monaca che allungò le mani per mostrare quello che contenevano: una scatoletta rossa e bianca, con una scritta che Dean non riuscì a decifrare e lo strano disegno di un’aquila a due teste e con due circonferenze all’interno del corpo.

 

La donna sorrise dei loro sguardi confusi e aprì la bocca per spiegare, quando venne tagliata da una voce molto più roca.

 

Carte da gioco napoletane?” Castiel inclinò appena la testa di lato. “Cosa sono?”

 

Fu il turno della suora di assumere un’espressione perplessa. “Sa leggere l’italiano e non conosce questo tipo di carte?” domandò, incredula. “Comunque,” si riscosse, senza aspettare una risposta, “a parte la risposta ovvia che vorrei tanto darle, le dirò che sono solo un altro souvenir dell’ultimo viaggio in Italia di Greg.”

 

Con una mossa abile delle dita paffute aprì in fretta la scatola e ne estrasse un mazzo di carte, che cominciò a mischiare. “Ve la faccio breve,” esordì. “Sono quaranta carte divise in quattro semi: le spade,” e gli mostrò una carta raffigurante quattro spade dal manico dorato e la lama blu, “i bastoni,” una carta con sei clave rosse e verdi, con una foglia gialla nel mezzo, “le coppe,” due coppe rosse, verdi e gialle, “e i denari,” e mostrò una carta con due dischi – monete, come aveva fatto a non pensarci? – con rifiniture nere e dorate.

 

“Ma,” fece Dean, “sono—“

 

“Dorate, sì,” lo interruppe Alice, di nuovo, “normalmente, sono dorate. E’ questo che non mi torna.”

 

Accigliandosi di colpo tornò alle carte, cominciando stavolta a contarle. Castiel, intanto, appariva profondamente assorto.

 

Dean si voltò verso Sam. “Cosa pensi?” gli chiese.

 

Sam scrollò le spalle, impotente. “Non ne ho idea,” ammise, deluso.

 

Dean strinse rabbiosamente la mascella, sentendosi ancora più inutile.

 

“Scusi, suor Alice,” arrivò la voce urgente di Castiel. L’angelo si era avvicinato alla donna con due delle cinque carte – quelle con le figure ritratte – in mano. “Mi sa dire cosa rappresentano queste figure?”

 

La monaca alzò lo sguardo, lievemente irritata dall’interruzione, ma osservò le carte e illustrò, “Questa,” e indicò l’uomo con la spada e la corona, “vale dieci denari. Quest’altra,” accennò al disegno con il cappello, “ne vale otto.”

 

Il viso di Castiel si aprì in un’espressione di trionfo, sebbene durò poco, ma non tanto da sfuggire all’attenzione di Dean. Raggiunse l’angelo con due falcate e lo chiamo, “Cas?”

 

“Dean,” replicò Castiel, alzando lo sguardo per incontrare il suo. Dean deglutì di fronte alla gravità che vi scorse. “Sono trenta denari d’argento.” Castiel volse lo sguardo verso al quadro, soffermandosi sull’estremità destra. “Trenta denari d’argento lasciati nel Tempio,” concluse, con pesantezza.










 

 

 

 

Eccola (dalla Polonia con furore)

*John Wetton (bassista e voce solista degli Asia) e Carl Palmer (batterista degli Asia)

Il quadro di cui ho parlato invece è questo:


 

Bello, eh? Trovato completamente a caso nel libro di arte di mio fratello ma sh

Comunque, tutte le informazioni del dipinto che ho fatto dire alla deliziosa suor Alice le ho trovate qui nel caso vi interessasse o voleste semplicemente farvi una cultura. Di sicuro io non voglio farmela (LA CULTURA).

Ad ogni modo, ce l'ho fatta a monopolizzare il computer dei miei cugini :D urra` per me! Quindi ho deciso di aggiornare visto che e` passato un po' dall'ultima volta e so che e` frustante aspettare un nuovo capitolo per tanto tempo - e gia` il fatto che ci sta davvero chi mi aspetta e` decisamente motivante.

Quindi grazie mille a chi continua a leggere questa storia, non avete idea di quanto significhi per me.

Oh, ricordatevi di non essere timidi, le recensioni fanno sempre un gran piacere, ho tanta voglia di sapere cio` che pensate e parlare con voi.

Beh, che altro dire? Qui fa sia caldo che freddo, me ne vado prima che abbiate da ridire sulle carte napoletane (Dio mio, non so nemmeno io come mi sia uscita questa) e devo prepararmi per il mega matrimonio del mio cuginone preferito. Fatemi gli auguri. Dovro` spaccare qualche culo su come si cuoce la pasta.

Bene, grazie del delirio. Alla prossima!

 

(scusate per gli accenti strani, sulla tastiera polacca non ci sono le vocali accentate, mi sono dovuta adattare)

   
 
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