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Autore: Ranessa    04/02/2009    1 recensioni
I babbani hanno uno strano modo di definire Praga, la chiamano città magica, ma per quanto mi sforzi non è magia ciò che percepisco camminando per le strette vie di acciottolato umido, quanto piuttosto un lieve senso di inquietudine. Ci si muove per Praga costantemente all'erta, come se si dovesse incontrare qualcosa di inaspettato dietro ogni angolo. Il Golem, forse.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rabastan Lestrange, Rodolphus Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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[ Capitolo 2° - Becherovka ]


Una settimana dopo il nostro incontro con Rouven ancora non è successo nulla. Rodolphus continua ad indossare costantemente il medaglione nelle sue peregrinazioni per la città e si dice fiducioso.
«Nessuno proverebbe mai ad ingannare l'Oscuro, anche se è appena risorto, anche se è ancora debole».
Sdraiato sul suo letto nella nostra piccola camera d'albergo, fuma con un braccio sotto la nuca, osservando le volute grigie del fumo che si rincorrono nell'aria fredda della stanza. Tenta inutilmente, come sempre, di modularle nell'immagine semplice e al contempo complessa di un cerchio, ma il suo misero fallimento non sembra irritarlo più di tanto, come faceva invece quando eravamo giovani. O più giovani.
«Ne sei così sicuro?»
«Non mi interessa, in realtà».
«Saremo noi a rimetterci, se il vecchio ci ha imbrogliati, Rodolphus. L'Oscuro riterrà responsabili noi due!»
«Non mi interessa...»
Si alza con uno scatto felino, spegnendo la sigaretta fumata solo per metà sul ripiano polveroso del comodino che separa i nostri letti.
«Dove vai?» gli domando spazientito, mentre si tira sulle spalle un mantello decisamente insufficiente a proteggerlo dal freddo malevolo dell'inverno praghese, nonostante questo scivoli ormai verso la primavera. «Non puoi uscire con le vesti da mago...»
«Ti conviene seguirmi, Rabastan».
«Sono stanco...»
«Ma se il nostro misterioso informatore decidesse di agire proprio questa sera, poiché segue unicamente il portatore del medaglione verde, ti perderesti lo spettacolo, fratellino» ribatte lanciandomi un'occhiata sardonica che mi infastidisce notevolmente.
«Dici così ogni sera, è non è ancora accaduto nulla...»
«Dici così ogni sera, e ogni sera mi segui, Rabastan».
Usciamo dallo squallido alberghetto in uno degli innumerevoli vicoli della Città Vecchia pochi minuti più tardi, camminando fianco a fianco eppure terribilmente distanti. La notte è già quasi calata e dalla strada che sceglie mio fratello capisco che vuole percorrere ancora una volta il lungofiume. La Moldava non ha nulla del Tamigi, a cominciare dal colore. Persino il suono dell'acqua scrosciante giunge diverso alle mie orecchie: non è un semplice rumore di sottofondo, di quelli che smetti persino di udire quando ti ci sei ormai abituato. Non ti accompagna per la città, ma piuttosto te la fa temere, ti ricorda costantemente che Praga c'è, è viva, ed è una minaccia oscura che ti circonda da ogni parte.
Rodolphus abbandona il fiume per prendere una stradina sulla nostra destra e attraversa guardando dalla parte sbagliata.
«Non costringermi a salvarti all'ultimo secondo ancora una volta» lo stuzzico, seguendo il suo passo rapido attraverso un altro dedalo di strade.
«Quella macchina si sarebbe fermata, Rabastan, quante volte devo ancora dirtelo?» replica lui in tono infantile. «E poi non è colpa mia. Già sono poco abituato a queste diavolerie babbane per ovvi motivi, e come se non bastasse qui guidano pure dalla parte sbagliata!»
«In realtà siamo noi inglesi a farlo...»
«Ne dubito. E comunque da quando sei così esperto in babbanologia?» conclude sarcastico, lanciandomi un'occhiata di sbieco prima di aprire la porta che ci sta di fronte. Non mi ero nemmeno accorto che ci fossimo fermati, né avevo fatto caso all'insegna ormai familiare.
«Chissà se è un semplice nome o se significa qualcosa...» borbotto entrando, investito in un istante dal calore eccessivo del locale.
U Fleků. [1]

«I primi ad essere colpiti saranno i traditori».
Gli occhi serpentini e purpurei dell'Oscuro ci osservano con estrema attenzione, percorrendo il cerchio di Mangiamorte con studiata e metodica lentezza.
«Ma suppongo che sarebbe inutile chiedere loro di fare un passo avanti adesso e rendere la mia punizione più semplice...»
Il nostro Signore ride, una risata inumana e breve, che rimbomba tra le mura della Sala Circolare il tempo necessario affinché si alzi dal suo scranno di semplice pietra per raggiungerci al centro della stanza spoglia. Un attimo, un battito di ciglia.
«D'altronde, che soddisfazione trarrei da una vendetta così rapida ed elementare?»
Cammina alle nostre spalle a grandi falcate, percorrendo più volte il cerchio perfetto che creiamo stando immobili, ognuno con la schiena ritta e lo sguardo fisso su un punto imprecisato di fronte a sè. Con la coda dell'occhio colgo lo svolazzare sinuoso del suo mantello e lo sento sfiorare le mie caviglie quando mi passa accanto.
«I primi traditori ad essere colpiti, saranno coloro che sono fuggiti, quelli che hanno cercato rifugio in altri Paesi. Quelli che hanno tradito semplicemente per tradire, senza trovare nemmeno il coraggio di agire contro di noi. Di spiarci e di riferire a chi ancora crede di poterci annientare. Quelli che così facendo» l'Oscuro interrompe la sua marcia per fermarsi alle spalle del Mangiamorte che mi sta di fronte, «hanno dimostrato di aver portato per tutti questi anni il Marchio indegnamente».
Conclude il suo discorso senza più guardare il Mangiamorte che gli è dinnanzi, ma fissando il suo inquietante sguardo su di me. E in un attimo io so che quell'uomo, anche con il cappuccio tirato sul capo, anche con la maschera calata sul volto, è mio fratello.
È Rodolphus.


L’antica birreria, come ogni sera, è gremita di clienti. Un vociare costante e indistinto si spande tra le sue innumerevoli sale. Rodolphus si dirige a passo deciso verso il cortile interno, incurante delle occhiate curiose che le sue eccentriche vesti suscitano negli avventori.
«Te l’avevo detto di non vestirti così…»
«Pensi che Rouven svesta gli abiti da alchimista quando lascia il negozio?»
«Pensi davvero che Rouven lasci mai il negozio?»
«Pensi davvero che mi interessi?» ribatte lui in un tono a metà tra l’indifferente e lo scherzoso.
Si siede ad uno dei lunghi tavoli invitandomi a fare lo stesso con un ampio gesto della mano e mi porge distrattamente il menù, pur sapendo già cosa ordinerò. Lascio che il mio sguardo percorra il cortile semibuio in ogni direzione, curioso come al solito di ogni volto dai tratti così marcatamente diversi dai nostri e di una lingua così spietatamente estranea e incomprensibile. Mi stupisco sempre di più della familiarità che provo ormai verso i luoghi, le abitudini, la precisa routine che seguono le nostre giornate a Praga, come se fossimo qui da anni, piuttosto che da settimane.
Quando il cameriere ci raggiunge ordino la mia anatra, quella porzione per uno che in realtà sfamerebbe almeno tre persone, e attendo che mio fratello si produca in una delle uniche due parole ceche che abbia imparato in queste settimane che sembrano anni.
«Pivo».
Birra.
«Dovresti anche mangiare qualcosa, Rodolphus…»
«Ti aiuterò con l’anatra».
«Non ti piace l’anatra» gli faccio notare irritato, domandandomi perché ho ancora voglia di lanciarmi in queste discussioni senza speranza e infantili con lui.
Rodolphus mi risponde con una silenziosa alzata di spalle e infila una mano tra le sue vesti scure, alla ricerca delle sigarette.
«Potresti evitare di fumare almeno finché mangio?»
«Non stai ancora mangiando, Rabastan, ed io non sto ancora fumando». Sembra sul punto di aggiungere qualcosa, probabilmente un’altra di quelle sue frasette acide che lo divertono tanto, quando all’improvviso si blocca, la mano che stringe l’accendino immobile a pochi centimetri dalla sigaretta a cui stava per dar vita.
«Cosa c’è?» domando allarmato, osservandolo impallidire.
«Credo che sarà davvero questa sera» risponde lui, senza aver bisogno di specificare cosa.
«Come fai a dirlo?»
«Il medaglione» sussurra lasciando cadere la sigaretta sul tavolaccio di legno per portare la mano a stringere il gioiello, nascosto sotto la stoffa pesante delle vesti. «Brucia».
Avrei decine di altre domande da fargli, ma le dimentico all’istante quando un cameriere, non quello di prima, ci porta le nostre ordinazioni zittendoci involontariamente. Rodolphus non aspetta nemmeno che se ne sia andato prima di iniziare a bere avidamente dal proprio boccale, come se la birra fresca potesse annullare magicamente il calore del medaglione di Rouven.
«Ne sei sicuro?» riesco a chiedergli dopo un po’, quando ormai ha già quasi finito la pinta.
Mio fratello non risponde, ed emozioni contrastanti si impadroniscono di me. Ansia, nervosismo, una punta di paura. Una vocina maliziosa che mi suggerisce che apprezzerò questo incontro tanto quanto quello con l’alchimista. Divertimento, soddisfazione, derisione, all’idea che anche lui, anche Rodolphus che mi siede di fronte ha paura.
Anche mio fratello ha paura.
Ed io ne sono imperdonabilmente felice.

Nonostante siano ormai passati anni dalla prima volta in cui ho messo piede in questa Torre, i suoi corridoi di pietra grezza e spoglia ancora mi confondono. L’eco continua dei miei stessi passi che rimbomba tra le pareti ancora mi inquieta.
Lo trovo esattamente dove pensavo che sarebbe stato, nonostante il vento gelido e la pioggia sferzante che, grazie a un qualche incantesimo, si ferma sfrigolando nell'aria prima di poter colpire la sua sigaretta accesa. È appoggiato con i gomiti al parapetto del balcone e i suoi occhi sono persi da qualche parte tra le colline della campagna che ci circonda, nonostante sia difficile distinguere qualsiasi cosa nella semioscurità prepotente della notte che avanza.
«Ti stavo cercando» dico, ancora sulla soglia dell'ampia portafinestra, semplicemente per fargli sapere che sono qui. «L'Oscuro ha parlato anche con te?»
Rodolphus si volta a guardarmi e mi fa cenno con il capo di raggiungerlo sotto la pioggia scrosciante.
«Non ho voglia di bagnarmi».
«Un'affermazione
audace qui in Inghilterra. Le tue illusioni sono sempre così commoventi, Rabastan...»
«Cosa ne pensi?» domando ignorando le sue assurde, insensate e inutili provocazioni. «Vuoi farlo?»
«Dubito che sia questione di volere, fratellino».
Sussulto involontariamente nel sentirmi chiamare così, un brivido estremamente spiacevole a scendermi rapido lungo la schiena. Sono passati quindici anni dall'ultima volta in cui ho sentito pronunciare quella parola, che sempre ho detestato e che adesso, pur nella sua forza inaspettatamente destabilizzante, riesce quasi a strapparmi un mezzo sorriso, o una piccola lacrima, forse perchè priva di quell'intento provocatorio che la contraddistingueva un tempo.
«Non possiamo farlo, Rodolphus».
«Perchè no?»
«Perchè è... è sbagliato» è la mia risposta esitante, appena udibile nel frastuono assordante della pioggia. Mio fratello scoppia invece in una risata talmente fragorosa da non avere alcuna difficoltà a raggiungere le mie orecchie. Si volta per cercare di distinguere la mia espressione nella sempre maggiore oscurità, appoggiandosi con la schiena al parapetto, di pietra come qualsiasi altra cosa nella Torre.
«Più sbagliato di tutto quello che abbiamo fatto in passato, Rabastan?» mi chiede in tono scettico, gettandosi alle spalle la sigaretta ormai finita, lasciando che il vento la trasporti da qualche parte tra la vegetazione scura e fitta.
«Sì».
«Non devo ricordarti perchè abbiamo trascorso ad Azkaban gli ultimi quindici anni della nostra vita, vero?»
«E' uno di noi, Rodolphus, Igor è uno di noi».
«Uno di noi che non ci è mai piaciuto, che ha tradito e che per questo va eliminato. Mi risulta che non sia il primo, Rabastan, da quando ti fai tutti questi problemi?»
«E tu da quando hai smesso?» gli domando vagamente stizzito, facendo un involontario passo verso di lui. La pioggia inizia a battere ritmicamente sulle mie scarpe, impregnando la stoffa del mantello che carezza le mie caviglie. Anche lui avanza verso di me, sino a che riesco nuovamente a scorgere i sui lineamenti, la mascella serrata e gli occhi che mi lanciano una sfida chiarissima.

Vuoi ribellarti fratellino? E nella mia mente l'inflessione su quell'ultima parola torna ad essere derisoria. Vuoi dire all'Oscuro che non lo farai? Oppure mi sta semplicemente invitando a spiegargli il perchè della mia apparentemente incomprensibile riluttanza, perchè non voglio fare proprio questa cosa, proprio ora, proprio in quel posto, e temo di non sapere cosa potrei rispondergli. Sto tentando febbrilmente di trovare qualcosa da ribattere quando una voce alle nostre spalle ci interrompe.
«Lestrange» chiama Piton, chiaramente rivolto a Rodolphus, anche se non saprei dire il perchè. Mi supera senza degnarmi di uno sguardo per portarsi a metà strada tra me e mio fratello sul balcone, incurante della pioggia. Aspetta che mio fratello distolga lo sguardo da me per posarlo sul suo volto pallido e magro prima di parlare nuovamente.
«Dobbiamo discutere di Praga».


Quando lui ci raggiunge il mio piatto di anatra non è ancora stato toccato e Rodolphus sta bevendo il suo sesto boccale di birra. Un lieve rossore ha iniziato a macchiargli timidamente le guance.
«Smettila, Rodolphus, non è il caso».
«Di continuare a bere birra?» replica lui alzando un sopracciglio, in vena di ovvietà. «Hai ragione, Rabastan, hai proprio ragione». Posa il boccale di fronte a sé, improvvisamente dimentico delle ultime due dita di birra che ancora vi restano, e con un braccio alzato rivolto verso il cameriere più vicino, urla a pieni polmoni la seconda unica parola che abbia imparato: «Becherovka! [2]»
Per un attimo penso che la gente si sia voltata a guardarci stupita per via della sua inusuale maleducazione, poi, d’improvviso, circondata da un’inspiegabile aura di ineluttabilità, una figura incappucciata, e ammantata di nero esattamente come Rodolphus, si siede al suo fianco, comparendo apparentemente dal nulla. Ecco il centro dell’attenzione dei generalmente riservati avventori di U Fleků.
«I fratelli Lestrange?»
«L’uomo che può far smettere di bruciare questo dannato affare?» gli domanda Rodolphus, battendosi un sonoro colpo sul petto con il pugno chiuso dove evidentemente si trova il medaglione.
L’uomo inclina lievemente il capo in un gesto d’assenso prima di calarsi il cappuccio del mantello sulle spalle.
«Radek».
La sua voce è priva della forte inflessione ceca di Rouven.
Ed io non riesco ad evitare un sussulto alla vista del suo viso.

«Ho parlato con tuo fratello, Lestrange».
La sua voce mi giunge alle spalle, sinistra.
«Lo so» rispondo senta voltarmi, restio a incontrare il suo sguardo.
«E’ tutto pronto, ma dovrete fare attenzione, Karkaroff ha più risorse di quanto pensiate. Nascondersi è sempre stata la sua abilità».
«Tanto che abbiamo scoperto che si trova a Praga…» commento scettico, concedendomi una risatina derisoria di cui mi pento all’istante.
Severus muove qualche passo per venire a pararsi di fronte a me, costringendomi infine ad affrontare il suo sguardo scuro eppure glaciale.
«Per il momento».
E poi mi lascia con più dubbi di quanti ne avessi sino a pochi istanti fa.


I capelli castani arrivano a sfiorargli le spalle in lunghi riccioli, gli occhi piccoli e sottili sono azzurri, la mascella larga e squadrata e i lineamenti completamente assenti. Al loro posto un intricato mosaico di cicatrici e ustioni si dipana sul suo volto deformandogli le labbra nella perenne scimmiottatura di un sorriso. Proseguono senza interruzione sul collo, parzialmente nascosto dalla veste, per poi ricomparire al di là delle ampie maniche, ricoprendo impietosamente anche le mani.
«Quello dell’alchimista è un lavoro che porta poche soddisfazioni e comporta molti sacrifici, amico mio…» si limita a constatare con apparentemente sincera indifferenza il mago, e poi inaspettatamente, senza alcun preavviso, il suo volto cambia di fronte ai miei occhi. Le cicatrici si ridisegnano in un nuovo labirinto di forme, gli occhi si socchiudono e le labbra si arricciano, conferendo un’aria particolarmente fragile alla sua intera figura, come se rischiasse di frantumarsi in mille pezzi in ogni momento.
Comprendo che mi stava semplicemente rivolgendo un sorriso educato quando ormai è troppo tardi, e la sua intera attenzione è ora rivolta a mio fratello; un breve ma intenso senso di nausea si impadronisce di me.
«Spero che non me ne vogliate per questo, amici miei, ma dovrò controllare che siate realmente chi dite di essere».
Rodolphus lo osserva incredulo, talmente sbigottito da non accorgersi nemmeno del cameriere che adagia sul tavolo la sua nuova ordinazione. Prima di andarsene lancia un’occhiata distratta a Radek e lo saluta brevemente con un cenno del capo: «Rastislav…»
Radek risponde al suo cenno senza mai distogliere lo sguardo da Rodolphus, il volto nuovamente ridipinto nell’immagine mostruosa del suo inquietante sorriso.
«E come intendi stabilire se siamo davvero i fratelli Lestrange?» domanda scettico Rodolphus quando ormai il cameriere non è più a portata d’orecchio.
«Mi basterà poter osservare i vostri Marchi…»
«Stai scherzando?!» sbotto involontariamente, combattendo il feroce istinto di guardarmi intorno, controllare che tutto, il locale, le persone, le luci e la notte, siano ancora come un attimo fa.
«Fidatevi, e domani a quest’ora, se tutto andrà secondo i vostri piani, sarete già di ritorno in Inghilterra».
«Perché dovremmo mentire sulle nostre identità?» insiste Rodolphus, bevendo in un sorso il bicchierino trasparente di Becherovka.
«Voi non potete saperlo, ma non avete idea di quante persone siano venute a Praga in passato, pretendendo favori in nome del vostro Signore. Persone che in realtà non erano suoi seguaci, persone che ancora non siamo riusciti a punire per questo. Sappiamo però imparare dai nostri errori, noi praghesi, una capacità di cui dovreste fare tesoro anche voi Mangiamorte, oserei suggerire».
Quando decide che il nostro silenzioso si è protratto a sufficienza, Radek si appoggia con i gomiti al tavolo e prosegue in tono conciliatorio: «Posso accontentarmi di uno solo dei vostri Marchi, se preferite».
E prima ancora che possa succedere qualsiasi altra cosa, lo so. So che mio fratello, ancora una volta, così come nel negozio di marionette che marionette in realtà non sono, mi tradirà. Mi costringo ad incontrare il suo sguardo e le sue uniche parole, senza la minima traccia di imbarazzo o esitazione, sono semplicemente: «Io ho portato il medaglione…»
«In mezzo a tutta questa gente?» sospiro, nonostante l’agitazione, adesso, inizi ad essere sostituita da un crescente senso di rabbia e frustrazione.
«Non preoccuparti di questo, dammi il braccio».
Allungo il braccio sinistro sul tavolo nella sua direzione, osservandolo mentre solleva con delicatezza la manica del mio maglione babbano. Il contatto con la sua pelle è spiacevole, alieno, i polpastrelli ruvidi di ustioni mi solleticano l’avambraccio provocandomi un intenso brivido lungo la schiena. Distolgo lo sguardo dalle sue mani per concentrarmi sulla prima cosa che cattura la mia attenzione: la stoffa nera che ricopre il suo petto, dove un nome è ricamato in lettere argentate, Radomír.
Quando le sue dita fredde incontrano infine il Marchio Nero, l’indelebile segno della mia dannazione inizia a palpitare dolorosamente, come sino ad ora aveva fatto unicamente sotto il tocco del suo creatore. Radek chiude gli occhi per un istante, e un attimo prima che un gemito sfugga alle mie labbra il contatto si interrompe e il dolore cessa immediatamente, rapido come quando è iniziato.
«Grazie, Rabastan» mi dice poi con la sua voce bassa e gentile. «Incontriamoci domani, nella Chiesa di San Nicola[3] in Malá Strana, e vi rivelerò tutto ciò che vi occorre sapere. Mi troverete a qualsiasi ora».
L’alchimista si alza e fa per dirigersi verso l’uscita, ma Rodolphus lo trattiene saldamente per un braccio.
«Perché non ora?» domando, convinto che sia questo interrogativo ad aver spinto mio fratello a fermarlo, ma Rodolphus mi zittisce con un cenno secco della mano libera e si rivolge a Radek in tono rabbioso.
«Avevi detto che lo avresti fatto smettere di bruciare!»
Radek ci fa dono di un altro sorriso indesiderato e, con un gesto rapido e feroce, si limita a strappare il medaglione dal collo di Rodolphus e a nasconderlo tra le morbide pieghe della propria veste. Senza aggiungere altro, ci volta le spalle e percorre in fretta la poca distanza che lo separa dall’uscita.
«Cosa ne pensi?» sussurro, vagamente restio a parlare a voce alta, la mia voce stranamente estranea alle mie stesse orecchie.
Ma Rodolphus non pensa.
Rodolphus sta ordinando un altro bicchiere di Becherovka.





[1] U Fleků
[2] Becherovka
[3] Chiesa di San Nicola

   
 
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