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Autore: mairileni    01/09/2015    6 recensioni
«Siediti.»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Uuuh, il nuovo capitolo di Tourniquet, eccolo qui (/*O*)/

Premesso che è un periodo in cui sono incasinata più o meno in tutto, e che quindi non sono del tutto certa di avere il controllo sulle cose che faccio/dico/scrivo, penso di potermi dire abbastanza soddisfatta di com’è uscito il capitolo che segue. Ma come al solito aspetto il vostro verdetto.

Grazie a tutti coloro che stanno continuando a seguire e ci vediamo con il prossimo aggiornamento.

Buona lettura ♥,


pwo_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Andante

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo sdraiati dentro a questo capanno da quarantacinque minuti e in quarantacinque minuti che sono passati né io né Gerard abbiamo detto una sola parola. Avrei motivo di credere che Gerard si sia addormentato, se non fosse che ogni tanto mi giro verso di lui e gli guardo il profilo e gli occhi e la giacca a vento che non smette mai di togliersi e rimettersi, togliersi e rimettersi. Gerard fuma le sue sigarette col filtro bianco e guarda su, e non gliene frega niente se forse tutto questo silenzio non è normale. E se proprio volete saperlo non frega niente nemmeno a me. Fatto sta che c’è Gerard e ci sono io, e al quarantaseiesimo minuto—e lo so perché io sono uno che fa molta attenzione agli orari e agli orologi e al tempo che passa e tutto quanto—dicevo, al quarantaseiesimo minuto Gerard si mette a sedere, si guarda un po’ attorno e poi se ne esce con la sua idea dei chiodi.  

«Dico che dovremmo mettere dei chiodi lì, sulla parete accanto alla porta», spiega, come se questo bastasse a farmi capire. «Li mettiamo tipo solo fino a metà, senza spingerli tutto fino in fondo nel legno, e poi li lasciamo lì così quando torniamo è più comodo.»

«Che cosa è più comodo?»

«Le giacche.»

«Cosa?»

Mi tiro a sedere anch’io, tanto per sviare l’attenzione dalla mia faccia che sono sicuro che deve apparire piuttosto stupida. Fa un freddo cane ma in questo momento Gerard la giacca non ce l’ha. Sbuffa, fa dei gesti in aria che non vogliono dire assolutamente nulla ma che evidentemente per lui sono piuttosto esplicativi.

«Le giacche», ripete. «Prendiamo dei chiodi e un martello e poi i chiodi li ficchiamo nel muro, e così la prossima volta che veniamo qui sappiamo dove appendere le giacche. Sai, in caso volessimo levarcele.»

In quest’ultima frase di Gerard mi piacerebbe poter cogliere un’implicazione, possibilmente voluta, possibilmente sessuale. Tipo un invito a spogliarci per darci alla pazza gioia e tutto quanto. Mi permetto di immaginarmi la scena per un secondo o due e nel frattempo Gerard cerca di sfregare via una macchia dalla punta in gomma delle sue Converse. Fatto sta che nella frase che ha detto non c’è nessuna implicazione e che questa storia dei chiodi non ha alcun senso. Lo dico.

«Questa storia dei chiodi non ha alcun senso.»

«Come vuoi», ribatte lui un po’ offeso.

Si rimette sdraiato e mi rimetto sdraiato anch’io, da qui si vedono il soffitto mezzo crollato che potrebbe caderci in testa da un momento all’altro e poi il cielo, che è grigio e schifoso e pieno di neve. Sbadiglio. Mi viene voglia di fare qualcosa. Non so cosa, qualcosa. Tipo alzarci e muoverci e correre e andarcene. Ruoto la testa contro le assi dure del pavimento e c’è Gerard che fuma e guarda su. Forse non vuole parlarmi perché vive male questa cosa che secondo me la sua idea dei chiodi non ha alcun senso.

«Parlami del tuo ragazzo.»

Non mi sono reso conto di averlo detto ad alta voce, giuro. Giuro che non me ne sono reso conto. È che a volte penso troppe cose tutte assieme e finisce che una di quelle cose me la lascio sfuggire, come se a tenermela in testa creassi troppo ingombro con il resto dei miei pensieri. Spero che Gerard non abbia sentito, ma ovviamente Gerard ha sentito benissimo. Finisce la sua sigaretta e poi si volta su un fianco. Se non lo conoscessi—poco—potrei quasi pensare che si sia messo così per provocarmi. Mi guarda con un’aria stanca, pigra, mi dà quasi l’impressione che se allungassi un braccio il braccio lo attraverserebbe. Mi guarda con quell’aria lì e io penso che non ho assolutamente idea di che cosa potrebbe dirmi adesso.

«Perché», chiede, ma senza punto di domanda.

Forse non ha capito che io con i giochetti psicologici non sono bravo. Le cose deve dirmele in faccia perché altrimenti io non capisco. Continua a guardarmi con la sua espressione totalmente anonima, aspetta che mi spieghi e io mi sento messo all’angolo. Ma tanto vale.

«Non lo so. Mi va che me ne parli», ammetto.

«Cosa vuoi sapere.»

Metti i punti di domanda, Gerard.

«Quello che puoi dirmi.»

Sorride, chissà a che pensa. Colgo un’espressione in particolare, ed è l’espressione che fai quando uno ti chiede una cosa cretina e tu pensi “ah, quant’è cretino”, e allora sorridi perché sei contento di non essere cretino anche tu. L’espressione che ha Gerard ora è proprio questa qui che ho detto. Si volta di nuovo sulla schiena e io penso che vorrei tanto chiedergli di stilare una lista delle domande che posso e non posso porgli. Tanto per essere sicuri di non essere indiscreti. Tanto per non fare sempre la parte di quello che è cretino. Fatto sta che c’è Gerard e ci sono io, e da fuori sembriamo due barboni vestiti bene e dall’alto sembriamo due puntini inutili. Mi arrendo. Io mi arrendo e lascio il gioco, addio, fate voi. Questo ragazzo non lo capirò mai. Mi metto di nuovo a sedere perché all’improvviso mi ricordo che ho una gran voglia di fare qualcosa tipo muovermi e correre e tutte le cazzate che ho detto poco fa. Appena esci dal cancello del luna park se vai a destra c’è un ponte, prima passava su un fiume ma ora il fiume è secco o cose simili. Gli chiedo se vuole che andiamo lì. Tanto per far qualcosa.

«No.»

«Perché?»

«L’ultima volta che sono andato lì volevo buttarmi di sotto.»

«…Intendi...?»

«Sì.»

Molto bene, Frank, stai andando alla grande. Salvatemi. Butto fuori un sospiro e penso a quando Gerard aveva i capelli biondi e il boa attorno al collo. Chissà perché ero finito in quel bar squallido.

«Si chiama William.»

Mi volto, ho sentito bene?, ho sentito bene. C’è Gerard che risponde senza sorridere più. Sembra concentrato, come se se lo stesse inventando—però è tutto vero, e adesso io devo starlo a sentire. E morire un pochino ad ogni parola che pronuncia e che mi costringe a pensare a lui assieme a un altro.

«Si chiama William però io lo chiamo Will», continua. È distaccato, freddo, sembra che stia leggendo la lista della spesa e parla piano, lunghe pause tra ogni frase e la successiva. «È più grande. Ha i capelli neri. Si mette sempre una giacca nera che se non sbaglio è della Blomor, la usa durante l’inverno—e in primavera, se in primavera fa ancora freddo. Ha gli occhi marroni. Gli piacciono i formaggi ma non sulla pizza. Ha provato a diventare vegetariano ma poi la carne gli piaceva troppo. Ha un neo sull’anulare sinistro…»

«…Gerard?»

«Odia la Pasqua perché non cade mai uguale», continua a elencare meccanicamente. «Ha un portasigarette della Jack Daniel’s. Odia i gatti ma odia anche i cani. Suo zio è morto di tumore due anni fa. È del sagittario…»

«Gerard.»

«…gli piacciono le auto. Da piccolo faceva nuoto. Odia i ragni…»

«Gerard, basta.»

Finalmente Gerard la smette. Mi guarda, voltando piano la testa verso di me e inchiodandomi addosso quegli occhi che sarà ma secondo me ogni tanto cambiano colore. Non ha nessuna espressione particolare, aspetta solo che dica qualcosa ma sono sicuro che se stessi zitto per lui sarebbe uguale identico.

«Che cosa stai facendo?»

«Ti sto dicendo quello che posso dirti.»

«Non…»

«Non ti interessa?»

Riporto il viso al soffitto. Un’altra cosa in cui faccio schifo è sostenere gli sguardi, specie se gli sguardi in questione sono quelli di Gerard.

«Non è che non mi interessi…»

È che mi aspettavo qualcos’altro, completo mentalmente. Qualcos’altro e forse qualcosa in più. Qualcosa da poter usare come riferimento per riuscire a cogliere il come parlare con Gerard. Il come afferrarlo abbastanza forte da non farlo mai più andar via. Mi sento il suo sguardo addosso—non so come, ma lo sento chiaramente. Quando riprende a parlare è solo per indirizzarmi un’altra delle sue sferzate, ed è sempre voltato verso di me con i suoi occhi pieni di cose.

«Dovresti smetterla di chiedere.»

«Dovresti smetterla di illudermi.»

Questa volta l’ho detto ad alta voce di proposito. Non so cosa ne verrà, ma a questo punto della battaglia vale tutto. Anche giocare sporco. Anche prendere il coraggio a due mani e sbattere sul tavolo una verità scomoda. Gerard lascia cadere il mio contrattacco da qualche parte nello spazio che ci separa e non risponde. Incassa. Non mi interessa sapere cosa dirà, né mi spaventa l’idea di come potrebbe reagire. Sono come il fantino in testa, il mio cavallo corre veloce e anche se dopo aver tagliato il traguardo mi schianto non me ne frega assolutamente nulla. Con Gerard mi sono schiantato molte volte. È un continuo schiantarsi. Ormai so come cadere per limitare i danni, da che parte inclinarmi, che muscoli contrarre, tutta quella roba, lo so già. Ho le redini e sono in testa.

«Sei tu che mi hai invitato qui.»

«Sei tu che hai accettato.»

Con la coda dell’occhio riesco a captare l’eleganza tutta femminile dell’unico gesto con cui si rimette a sedere. Si rinfila la giacca, forse sta pensando a come rispondere ma forse no.

«Hai ragione», risolve, alzandosi in piedi. «Magari l’errore è stato proprio accettare.»

Si alza la cerniera fino al mento e non gli vedo più la bocca e non c’entra niente ma penso che è davvero un peccato perché la bocca è una delle cose che preferisco della sua faccia. Quando sta per infilare la porta del capanno lo chiamo indietro. Lui si ferma dov’è, i capelli scompigliati e le mani nelle tasche. Lui guarda me ma io non guardo lui. Forse è sempre per quella cosa che ho detto prima, e cioè che faccio schifo a sostenere gli sguardi e tutto quanto. Io guardo il soffitto, sono ancora sdraiato con le braccia aperte e le mani vicino alle orecchie.

«Cosa c’è?», incalza.

«Ho ragione, vero?»

«Su cosa?»

«Mi stai illudendo, vero?»

«…»

«Gerard.»

«…Sì.»

Annuisco quanto la mia posizione me lo permette, lo sapevo ma sapere non è come sentirsi dire.

«Ok», dico.

«Mi dis…»

«Risparmiatela.»

Gerard resta sulla soglia del capanno per una manciata di secondi, ma non trova nient’altro che valga la pena aggiungere. Quando se ne va lo fa in silenzio e io ascolto il rumore lievissimo dei suoi passi sull’erba con distrazione, come se non mi riguardasse. Sono tagliato fuori e forse ora voglio anche esserlo. Mi andrebbe di fare così, di lasciar passare qualche tempo e di gettarmi tutto alle spalle. Vorrei essere il tipo di persona che si dimentica, l’amico dell’amico dell’amico che sa le cose per sentito dire—“La sai l’ultima di Gerard?”, “Gerard chi? Ah, già, quel Gerard”. Forse potrei provarci. Fare come in quel film in cui il tizio viene tipo lasciato o cose simili e allora beve e poi passa, ma io ho una memoria di merda e quindi non posso garantire che fosse un film e non un libro. Impiego il quarto d’ora successivo a catalogare mentalmente tutti i superalcolici di cui potrei affogarmi stasera. Mi ubriaco e magari scopro che sono come il tizio del film. Magari bevo e poi passa. Vorrei essere il tipo di persona a cui passa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli alcolici li prendo in un negozio della periferia che sta per fallire. Li prendo sempre lì perché io gli alcolici non potrei prenderli, ma se tu hai un negozio di alcolici e stai fallendo che è una bellezza non fai troppo il sottile, quando si tratta di vendere. E tanto per la cronaca il negozio si chiama “Baroque”, ma non so perché, quindi per il Baroque non ho una storia avvincente come per il Bar di Hank. Non so nemmeno che cosa sto facendo, però io ai film e ai libri ci credo, e in questa cosa che se bevo poi passa sto momentaneamente riponendo ogni mia speranza. Quando entro nel negozio la porta a vetri sbatte su un campanello e fa tin.

«Buonasera.»

«Buonasera.»

Il tizio al bancone sembra quello che sta sul tappo della confezione del Monopoli, non so se ce l’avete presente. Mi chiede che cosa voglio e gli rispondo che voglio ubriacarmi. Io quando posso sono schietto. Lui ride come se ci fosse qualcosa di cui cazzo ridere e poi mi chiede quanti soldi ho. Gli rispondo pochi.

«Allora ho quello che fa per te», mi informa, ma ora è serio perché si è accorto che lui ride ride ma io non rido manco per sbaglio.

Piazza sul bancone due bottiglie con un gesto che ha un nonsoché di tronfio e soddisfatto, come se l’aver piazzato due bottiglie sul bancone facesse di lui un eroe.  Una è una bottiglia di Absolut Vodka, l’altro è un whiskey ma lo capisco solo dal colore perché sulle prime il nome che sta sull’etichetta è troppo lungo per leggerlo tutto—Buffalo Trace Kentucky Straight Bourbon Whiskey, ditemi voi se è un nome normale. Tizio Del Monopoli mi squadra dall’alto del suo metro e novanta e poi fa la sua domanda inutile, ma tanto sapevo che l’avrebbe fatta.

«Ragazzo», comincia solennemente, come se stesse cercando di evocarmi dal mondo degli spiriti o che so io. «Tu ce li hai ventun anni, vero?»

«Certo che sì.»

Certo che no. Ovvio che no. Sono minorenne come la merda. Ce l’ho praticamente scritto in fronte. Ma tanto qui siamo in due e tutti e due vogliamo la stessa cosa, prendiamoci ciò che ci spetta e non creiamoci problemi inutili. A me gli alcolici, a te i soldi. E siamo tutti contenti. Tizio Del Monopoli mi guarda e fa “mmh” perché secondo me si diverte molto all’idea di tenermi sulle spine o cose simili, ma giuro su Dio che proprio non attacca. In questo momento specialmente. Fatto sta che c’è Tizio Del Monopoli e ci sono io, e quando io imbraccio il mio sacchetto di carta con dentro le bottiglie lui mi dice che se voglio ubriacarmi per davvero allora devo alternare la vodka e il whiskey. “Per prenderti una bella sbornia”, sono le sue parole. Ad ogni modo la sbornia me la prenderei lo stesso, visto che il buon Dio non mi ha donato la capacità di reggere l’alcol, ma questo me lo tengo per me. Tizio Del Monopoli mi dice arrivederci e io gli dico arrivederci e grazie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All’inizio resto lì come un cretino. Ho sempre le mie amate bottiglie in mano nel sacchetto di carta e sono fermo in mezzo alla strada—come un cretino, appunto, ma tanto finiamo sempre lì. Sono in mezzo alla strada ma non rischio di morire perché in questo paesino inutile ci sono a malapena le persone, figuriamoci le macchine, e lì davanti, a meno di dieci metri da me, c’è una casa con un porticato e una porticina rossa che dev’essere appena stata ridipinta perché sembra l’unica cosa brillante in tutta Belleville e forse anche in tutto il mondo. Davanti alla porticina rossa c’è Gerard. Lui guarda me e io guardo lui. Lui non ha nessuna espressione come le bambole e io un’espressione ce l’ho ed è quella dei cretini. E ora mi verrebbe da chiedermi: perché? Perché sempre io e sempre così? Perché vado nel mio negozio di alcolici e non solo scopro che Gerard ci abita di fronte, ma me lo trovo pure lì, un’ora scarsa dopo essermi sentito dire—e molto chiaramente—che se ci ho sperato ho fatto male? Uno non può neanche più ubriacarsi in pace, vi pare mai possibile. Sospiro e scuoto la testa come se servisse a farmi capire perché a me. Non mi viene da piangere, ho già pianto un’ora fa quando Gerard se n’è andato, e anche se in quel capanno ero completamente solo mi sono sentito un imbecille lo stesso. E ho la netta sensazione che Gerard lo sappia, come se sulla fronte oltre a “Sono minorenne come la merda” avessi scritto anche “Ho pianto come la merda”. Gerard ha la bocca un po’ aperta perché dev’essersi sorpreso di trovarmi qui esattamente quanto mi sono sorpreso io di trovarlo lì, e mi chiedo stupidamente se ora sia davanti alla porta rossa di casa sua perché deve entrare o perché deve uscire. Mi dico che forse non è nemmeno casa sua ma il nome scritto sulla cassetta delle lettere dice no no, è proprio casa sua, invece. Non succede nient’altro. Gerard prende fiato come se stesse per dirmi qualcosa ma prima che possa proferire verbo io ho già preso a camminare verso sinistra e verso casa mia. Quando ormai sono a più di venti metri di distanza da lui e dai suoi capelli tinti di nero e dalle sue sigarette col filtro bianco sento una porta che sbatte e mi volto automaticamente verso quel rumore. Se non altro ora so che Gerard doveva entrare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La settimana successiva Gerard è tornato a scuola. Stavo passando in corridoio per raggiungere la biblioteca scolastica con l’intenzione di trascorrere lì la mia ora buca e l’ho intravisto dalla finestrella di vetro della porta di un’aula. Storia. Stava facendo storia ma non stava ascoltando. Ho pensato di essermi sbagliato, ma il giorno dopo l’ho visto di nuovo e allora ho pensato che o ero diventato completamente scemo oppure Gerard era ancora lì, sempre lì, eternamente lì, annoiato e distratto nel modo in cui solo lui poteva essere annoiato e distratto. Ho tenuto le distanze, sono stato al gioco quando in sala mensa i miei compagni di corso hanno cominciato a sparare ipotesi su quale fosse la droga di cui si faceva Gerard. Loro dicevano cocaina e io dicevo mah, può darsi. Durante le ore di matematica lo guardavo arrivare tardi e prendere posto nel banco più vicino alla cattedra, l’unico libero, e poi Gerard guardava fuori e io guardavo lui e mi sentivo come se non fosse mai successo nulla. Un giorno mi ricordo di aver pensato che era come quella cazzata matematica o fisica per cui non conta la traiettoria, ma contano solo il punto di partenza e il punto di arrivo, e se il punto di partenza e il punto di arrivo coincidono allora il risultato è zero, ma non garantisco perché a me le materie scientifiche fanno schifo. Gerard guardava fuori e io pensavo che tra me e lui il risultato era stato zero, e lui aveva ripreso a offrire i suoi bei servizi nell’aula 124 del terzo piano. Non ci sono più tornato. Lo evitavo come non avevo mai evitato nessuno in tutta la mia vita, pensavo alla ketamina e al suo specchietto e allo spray nasale e ogni volta che ci pensavo mi sembrava di sentirmi male. Prima dell’episodio del capanno, mi ero chiesto tante volte come mi sarei sentito quando finalmente mi avesse respinto—perché sapevo che prima o poi mi avrebbe respinto, era solo questione di tempo e questione di trovare il coraggio di chiederglielo senza tanti giri di parole. Avevo pensato che probabilmente avrei sentito un dolore al petto, una specie di morsa attorno alle costole e ai polmoni e al cuore. E invece no. Il dolore l’avevo sentito allo stomaco. Gerard non colpiva al cuore, colpiva allo stomaco. E la cosa più ironica era che di questo lui non si rendeva nemmeno conto. Ho continuato a sentirmi stringere lo stomaco per settimane. Quando facevamo lezione nella stessa aula, quando ci incrociavamo nei corridoi, quando lo vedevo da lontano e a volte anche solo quando pensavo a lui. Non mi ero ancora ubriacato perché per qualche motivo avevo l’impressione che il peggio dovesse ancora arrivare. L’Absolut Vodka e il whiskey di cui non avevo nessuna intenzione di imparare il nome erano rimasti nella loro busta di carta da qualche parte sotto al mio letto. Non si sa mai, mi dicevo. Sentivo che doveva ancora succedere qualcosa, qualcosa di molto peggio, e aspettavo solo che quel qualcosa succedesse. Mi chiedo ancora come facessi a esserne così sicuro.

La vodka e il whiskey sono rimasti sotto al mio letto per tre settimane che a me sono sembrate tre anni. La morsa attorno al mio stomaco aveva cominciato ad allentare la presa. Se pensavo a Gerard mi sentivo morire ma ogni tanto riuscivo anche a non pensarci, e anche se l’idea non mi piaceva affatto stavo riuscendo, piano piano e con il contagocce, a levarmelo dalla testa. Le tre settimane successive alla nostra breve parentesi del capanno le ho passate così. Tenendomi assieme, in attesa che quel qualcosa di molto peggio succedesse e mi spazzasse via definitivamente, con uno schiaffo in pieno volto che mi avrebbe lasciato soltanto la forza necessaria per chinarmi a raccogliere i pezzi. Doveva solo succedere.

E poi, all’inizio della mia quarta settimana fuori dalla vita di Gerard, è successo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NEL PROSSIMO CAPITOLO

E realizzo tutto all’improvviso, una cosa dietro l’altra, a raffica come i proiettili delle mitragliatrici e il brainstorming. Ho in mano il telefono di Gerard, Gerard non c’è, Gerard non può vedermi, potrei farmi gli affari suoi, Gerard non può vedermi, Gerard non c’è, ho il suo cellulare, Gerard non può vedermi. Sposto la casellina luminosa sull’icona dei messaggi, una bustina gialla sopra alla scritta “SMS”, in maiuscolo come se gridasse. Spingo “ok”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

   
 
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