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Autore: TuttaColpaDelCielo    07/09/2015    1 recensioni
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Demetra, Persefone
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Fanciulla e l'Invisibile'
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Primavera

L'inverno morì quella notte, spalancando i miei occhi sul buio. Mi sentii vibrare e bruciare mentre la terra si scaldava all'improvviso, spezzava il ghiaccio che l'aveva avvolta, si offriva morbida alle benedizioni e alle preghiere. Mi chiamava – grido di gioia e di orgasmo. L'inverno era morto, morto, ora stava alla primavera tornare.
Nessun ordine di mia madre avrebbe potuto negarmelo, né Demetra avrebbe mai permesso a mia madre di farlo.
Per una notte ero libera.

Ci sarebbero stati miti, poi, e tradizioni e culti. Canti del rapimento e dell'ira e dei misteri che da quell'ira e da quel rapimento sarebbero nati.
Nessuno avrebbe mai ricordato di come i Piccoli Misteri li partorii io, madre di fecondità, piegata dalle doglie sulle sponde dell'Ilisso. Nessuno sfuggì alla carezza di Hypnos, nessuno rifiutò l'abbraccio dolce di Nyx: ornati di papaveri, quegli déi antichissimi obbedirono a me fanciulla come se fossi stata una regina, assicurandosi che né uomo né dio si destasse a disturbarmi. La mia veglia sarebbe stata il sonno del mondo, una morte durata una notte.
Ma non ero la sola a vegliare, in quella notte di rinascita e rito.
Lo realizzai solo quando già udivo il mormorio dell'Ilisso e ne scorgevo i bagliori d'acqua oltre gli ultimi ginepri. Sibilo d'angoscia, freddo strisciante nella gioia tanto attesa. Non disse niente: restammo a guardarci in silenzio, io ombra tra gli alberi, lui spettro sulla riva. Volevo urlare e piangere e andarmene, ma sentivo che doveva accadere lì, lì avevano preparato, lì ero stata guidata; e come Demetra non permetteva a mia madre di rinchiudermi un'altra notte, Persefone non permetteva alla Fanciulla di voltarsi e fuggire. Avanzai, abbandonai la protezione fragile dei ginepri per espormi al suo sguardo, non più ombre ma luce pallida di luna piena che mi mostrava impietosa. C'era odore di terra bagnata e di spezie dolciastre, stordenti. Gli passai al fianco senza guardarlo, me lo lasciai alle spalle con la consapevolezza nettissima di averlo ad un soffio, restai lì sulla riva a specchiarmi nell'acqua insieme alla luna. Avevo gli occhi spalancati di una preda terrorizzata e la mascella tesa, e una pelle pallida che forse era la carezza della luce e forse era angoscia livida.
«Sei soddisfatta, spero.»
Deglutii. L'indifferenza era insondabile.
«Lo sono. Ma non dovresti essere qui.»
«Ah. Non dovrei.»
«Mia madre... Zeus le ha assicurato che...»
Che? Qualcosa che l'aveva soddisfatta, di certo, ma l'avevo scoperto quella notte; non sapevo neppure che promesse avesse strappato sul mio futuro, sulla mia vita, senza avermi rivolto la parola per giorni.
«Zeus le ha assicurato che saresti stata al sicuro. Come lei abbia voluto interpretarlo non è affar mio.»
Avrei voluto distogliere lo sguardo dal mio riflesso, ma quell'espressione sconvolta era quasi ipnotica. Sospesa tra pianto e urla.
«E lo sono?»
Non mi rispose. Sospirai, aggiunsi in un bisbiglio: «Per favore. Non voglio che si adiri ancora. Non ora che è finito l'inverno.»
«Ti ho accontentata, ho accettato un compromesso. Non è abbastanza?»
«Mia madre...»
«Tua madre non può contestare il mio accordo con tuo padre.»
«Mio padre mi ha vista tre volte in tutta la mia vita. Mia madre-»
«Tuo padre resta tuo padre. E Zeus.»
Faceva così male. Così male.
«Ti ho chiesto perdono, Ade, e adesso te lo chiedo ancora, ma ti prego...» così male, così male, così male «ti prego, basta. Ascolta-»
Mi trovai premuta contro di lui, una mano sulla gola e l'altra ad artigliarmi il fianco. Il suo volto si rifletteva nell'acqua accanto al mio, lo preferivo di spalle, oh, meglio di spalle, sì, non potevo sopportare il peso di quello sguardo troppo nero. Chiusi gli occhi.
«Ho ascoltato abbastanza.»
Mi affondò i denti nel collo, gridai, era gelido, male, male, il sangue pulsava e io gridavo, mi tenne ferma mentre ancora straziava la giunzione con la spalla là dove la carne era esposta e tenera, tremavo tra le sue braccia senza la forza di dibattermi, avrei voluto che non finisse mai. Finì, invece, con le sue labbra sulla pelle come un bacio e il ringhio profondo della sua rabbia.
«Ho giurato di non privare il mondo della primavera e di onorarti. Puoi chiedermi tutte le gemme del sottosuolo, puoi chiedermi un trono e uno scettro e di portare la vita in Averno, ma non chiedermi di abbandonarti, Fanciulla, non chiedermi di trascorrere l'eternità fingendo che tu non esista, perché non accadrà.»
«È l'unica cosa che ti chiedo.» bisbigliai «È l'unica, ti prego, non voglio che-»
Sentivo le sue mani sui fianchi, mi avvolgeva per premermi contro di sé, mi stringeva da far male.
«Non accadrà.»
«Non-»
«Cosa temi? Che tua madre neghi il suo consenso? Ho parlato con tuo padre.»
«E con me hai parlato?»
Ringhiò esasperato, mi scosse, io mi strappai alla sua stretta e incespicai con i piedi nell'acqua, sui sassi taglienti del fondale. Mi afferrò il braccio, vi affondò le dita con violenza, gliele artigliai a mia volta senza che riuscissi a smuoverle di un soffio. Sembrava diventato di roccia, immobile con lo sguardo fisso e la furia sospesa sul volto, come in attesa. Quando parlò era calmo, calmissimo, di quella calma che spezza le ossa.
«Dimmi che non vuoi, Fanciulla. Osa.»
Inspirai.
«Non voglio.»
Mi strattonò, feci resistenza e il mio bisbiglio si trasformò in un grido, di rabbia, di disperazione, perché non capiva? Perché doveva rendere tutto più difficile e mostrarmi un futuro che non potevo avere e ricordarmi a ogni respiro quello che stavo perdendo, e spezzare sotto le dita la mia decisione, e-
«Non voglio.» ripetei, mordendo le parole per inghiottire i singhiozzi «Non voglio l'inverno, non voglio l'ira di mia madre, non voglio che muoia la primavera e i mortali muiano di fame, te l'ho spiegato, non posso, non voglio, non-»
«Finiscila.»
Mi strattonò ancora contro di sé, mi afferrò il mento perché non potessi sfuggire al suo sguardo, costretta a sostenere quella sua furia calmissima e implacabile.
«Finiscila adesso. Credi che Demetra possa sovvertire l'ordine senza che gli altri olimpi intervengano? Io ho accettato di non strappare la primavera al mondo, credi che lo permetterei a lei? Se devo combatterla perché lei non ti strappi a me, sia. Ha il potere di negare la vita; io ho il potere di portare la morte. Credi davvero che, se minacciassi di spalancare le porte dell'Averno, gli altri olimpi sosterrebbero le sue pretese assurde? È sola, in questa sua follia. Non ha tanto potere da maledirci con un inverno eterno.»
Scossi il capo, tentai di sfuggire alla sua stretta, male male male malemalemalemalemale, aveva terribilmente senso, lui mi strinse il viso con entrambe le mani e me lo tenne sollevato a forza.
«No, ascoltami. Non ha tanto potere, e se anche l'Ellade dovrà affrontare la maledizione ogni anno, tu nutrirai la primavera. O trovi tanto orribile l'inverno? Trovi tanto orribile che i mortali muoiano?»
Era l'eco di altre parole, mi sembravano trascorsi mille anni dalla prima volta che le avevo udite, ma ora l'indifferenza si era sciolta in una forza violentissima che voleva tenermi stretta e ricordai i bucaneve a nord del Ponto, l'attesa, la speranza, lo trovavo tanto orribile? Tremai realizzando che non c'era orrore, solo malinconia dolente, sotto quello sguardo nero di Tartaro che a me era permesso incrociare.
Mi sciolsi piano dalla sua stretta, gli appoggiai la fronte contro la spalla.
Ma poi il pensiero scivolò dal Ponto all'Ellade, alla maledizione rabbiosa e folle. Calligeneia dalla sorte ignota e Ciane con un volto d'ossa e mia madre che non mi guardava, Demetra che rifiutava le offerte. Preghiere che non mi facevano dormire.
«Tornerò in autunno.»
«Non tornare.»
«Tornerò.»


Restò solo il mormorio gentile dell'Ilisso e quell'aroma stordente di spezie, più intenso. Mi inginocchiai sull'erba secca per lavarmi il viso e le braccia, mi specchiai in quell'acqua da cui la luna piena era già scomparsa, troppo avanti nel suo corso lungo il cielo. Ciò che doveva accadere era già accaduto, e non c'era bisogno che vedessi ancora quel globo candido di fertilità riflettersi nel mio viso: ero piena e tonda anch'io. Avevo sanguinato di infecondità e ora mi preparavo a farmi culla un altro mese, a ospitare il seme del futuro e la possibilità infinita. Dopo il sangue, il ventre accogliente. Dopo l'inverno la vita. Avevo combattuto la morte e vinto, e tentai di compiacermi anche se dentro ero in lutto, ero un cuore pulsante di rimpianto.
Avvertii le ombre accarezzarmi, mi posarono tra le mani una tazza bollente da cui si levava quell'aroma stordente. Papavero. Annebbiò appena il dolore, la lacerazione dell'assenza, mi sentivo ancora come sui gradini gelidi di un tempio che non potevo lasciare. Era un ciclo, un eterno ritorno, sempre le stesse parole, gli stessi rimpianti, quante volte ci eravamo già salutati e abbandonati e ritrovati, e quante volte mi ero negata, quante volte gli avevo chiesto perdono, e quante volte lui era stato implacabile e mi aveva negato di negarmi e... inspirai ancora, pregai il papavero di obnubilarmi la mente.
Ringraziai Nyx e Hypnos, e Thanatos che quella notte restava lontano, e ancora chiesi perdono e ringraziai e chiesi perdono a chi non si poteva nominare né guardare.
Solo allora, ancora inginocchiata, portai alle labbra l'infuso che avevano preparato per me. Mi abbandonai alla dolcezza speziata e stordente, rovesciai indietro il capo a occhi chiusi. Il mio corpo era tiepido. L'aria era tiepida. La terra era tiepida. Affondai le dita tra le zolle, scoprendole morbide e umide, e pensai ai campi pronti per l'aratro, all'attesa palpitante della semina. Il calore rotolò dalla lingua allo stomaco e da lì esplose, mi invase, pulsò nel petto e nel ventre. L'abbraccio e la culla, radici che spezzavano la guaina del seme e affondavano, si nutrivano, le sentii scavarmi nella carne e urlai con la voce attutita dallo stordimento del papavero. Germogli con le cime tenere alzate al cielo, acqua e terra come il seno di una madre, gemme a grappoli più preziose delle pietre. Ansimai mentre il calore cresceva, bruciava, contraeva il ventre in spasmi e onde. Corolle che si schiudevano piano, petali distesi, e polline e spore e già sulla lingua il sapore dei frutti futuri. Il calore si sciolse tra le mie cosce, mi pulsò nelle vene strappandomi ancora un grido acutissimo, mente obnubilata e vita che esplodeva tutt'attorno, divorava quel poco che restava dell'inverno, e poi... e poi... qualcosa di freddo e malinconico e amaro, tentai di coglierlo ma era troppo lontano, evanescente, restò solo come retrogusto sulla lingua e ben presto fu travolto dalla primavera dolcissima. Bruciai ancora. Lasciai che il mondo si nutrisse di me sentendomi più viva a ogni stilla di vita sottrattami, a ogni ondata di calore stordente, carezze miti e poi picchi da urlare, la marea mi sommerse e mi vinse.

 
*

«Finisco da sola, Dianthe, tu va' a prendermi il chitone azzurro e il velo.»
Lei smise di frizionarmi la pelle con il telo e incrociò il mio sguardo nello specchio, incerta.
«Desideri uscire, signora?»
«Andrò a raccogliere le offerte nei campi. Mi accompagni?»
«Chiedo se posso.»
Andava a chiedere se potessi io, probabilmente.
Mi asciugai da sola. Dal lino del telo emergevano le mie braccia, ancora pallide per i troppi giorni al chiuso, e su quel pallore aloni violacei che nascondevo con scialli leggeri. La cascata scura dei capelli riposava su una spalla, copriva il segno violento dei denti; la strofinai senza grazia e vi passai il pettine fino ad appiattire le onde e a sentirla appena umida, la intrecciai per gettarla indietro sulla schiena. Scoperto, quel livido tra spalla e collo insultava il candore, segnava la pelle di sofferenza e assenza. Ne studiai l'ombra nello specchio, piegai il capo per esporlo meglio sentendo la pelle tendersi e gemere. Era lo spettro e il ricordo e il dolore caldo che mi teneva sveglia di notte, ancora vivido dopo quasi una luna.
«Kore.»
Sussultai. Riportai la treccia davanti, posata sulla spalla e sul seno, e mi voltai verso la donna alla porta. Stirai le labbra in un sorriso che era più una smorfia circospetta.
«Madre.»
«Verrai... andremo insieme a raccogliere offerte. Preparati.»
Tornai a voltarmi verso lo specchio con un cenno d'assenso. Il suo riflesso era appena un'ombra alle mie spalle, che già si voltava e se ne andava lasciando la porta socchiusa.
«Asciugati bene i capelli, l'aria è ancora un po' fredda.»
Oh, la voglia di riderle in faccia.


Sotto il sole tiepido, sopra la terra morbida, i ringraziamenti sbocciavano nella mia testa a mazzi interi. Sorrisi, chinandomi a raccogliere una corona di narcisi e alloro che quasi si disfaceva a guardarla – da mani infantili, indovinai. Le offerte più gradite. Scelsi i fiori più colorati da infilarmi tra i capelli – il velo mi riposava sul collo e sulle spalle come una stola, lasciandoli scoperti – e sparsi il resto attorno a me, affinché nutrendo altra vita portassero le mie benedizioni fino alle radici. Camminavo tra ulivi bassi, che offrivano un po' d'ombra ai lati del campo e mi accarezzavano con foglie appuntite senza graffiarmi. Dai rami pendevano altre corone che non toccai, dedicate ad Atena e alle ninfe del luogo.
Mia madre camminava nel campo, mormorando al grano di crescere forte, alla terra di nutrire i germogli con gioia. La risposta era un calore festoso tanto intenso che lo sentivo bruciare nella carne, ne volevo ancora, ancora, mi chinai ancora per affondare le dita tra le zolle e salutarle perché ero lì, finalmente, ero lì, ero tornata, niente più neve ma sole a scaldare e spighe che si tendevano al cielo. M'infangai il chitone e ne fui felice.
«Sono contenta, Kore, stai riprendendo un po' di colore.»
Io, ancora accovacciata, mi voltai verso mia madre, sorridendo dolcissima e velenosa.
«Ultimamente non ho avuto molte occasioni di stare al sole.»
Con lo sguardo di nuovo sugli ulivi, lasciai che il sorriso svanisse in una smorfia di labbra arricciate. Mia madre incassò la stoccata con un sospiro.
«Almeno» mi disse «ora sei al sicuro.»
Ah, ma davvero.
«Quando potrò tornare in Trinacria?»
«...vedremo. Non ti piace l'Attica?»
Mi passai un sassolino tra le dita, lo ripulii dalla terra con le unghie già sporche senza mai alzare lo sguardo.
«Calligeneia come sta?»
«Sta bene.»
«Voglio vederla.»
«È un lungo viaggio, Kore, e Calligeneia ormai è molto anziana. Non è detto che possa venire a trovarci.»
Strinsi il sasso nel pugno fino a farmi male.
«Lasciami tornare a casa, madre.»
«Sono tutti molto felici di averti qui.»
«Come possono esserne felici, se tu dai ordine che nessuno m'incontri? Il santuario è deserto. Persino i campi sono deserti, oggi che li visitiamo noi.»
Un altro suo sospiro e la sua ombra a coprirmi, la sua mano tra i capelli. Da quella posizione sembrava che accarezzasse un cane.
«Ho solo cercato di darti un po' di tranquillità, Kore. Dovevi riprenderti e riposare, non essere tormentata dai fedeli, ma se lo vuoi organizzeremo una celebrazione per la nuova primavera. Ne saranno tutti entusiasti.»
«Voglio tornare a casa. Per favore, madre, voglio solo tornare a casa.»

 
*

Mi gettai tra le sue braccia ridendo, me la strinsi contro così forte che lei dovette sbuffare di far piano, io risi ancora e mi allontanai appena per guardarla. Calligeneia mi portò le mani al viso, accarezzandomi le guance.
«Sei dimagrita.» mi disse.
Coprii le sue mani con le mie e gliele strinsi – rami nodosi, ossuti, fragilissimi. Se io ero dimagrita, lei si era consumata. Starle accanto era come sentire un soffio gelido sul collo.
«E sei cresciuta.» s'interruppe per tossire «Sei cresciuta molto, Persefone.»
«Andiamo.» c'interruppe mia madre, con la voce piatta e le spalle rigide, conducendo davanti a noi i cavalli del suo carro.
«Sì, andiamo.» convenne Calligeneia «Ben ritrovata, Demetra.»
Mia madre non rispose.

 
*

Non mi ero mai accorta di quanto gli occhi di Calligeneia sembrassero profondi, due pozzi scuri affondati tra zigomi sporgenti e rughe. Ci scrutavamo indisturbate, noi due sole, con il mormorio della brezza tra i papiri d'Ortigia e le ninfe ancora addormentate nella tarda mattinata, esauste da una notte di festa; e sotto il suo sguardo sentii tutto il peso di quella profondità, le lessi addosso tutta la stanchezza e la preoccupazione e i cambiamenti che vedeva in me.
«È andato tutto bene?» mi chiese a bassa voce.
Le sorrisi senza allegria.
«È andato come doveva andare, nutrice.»
«Allora è andato bene.»
«Vorrei che non fosse mai successo.»
«È stato un inverno duro, ma è tornata la primavera. È giusto così.»
Annuii distogliendo lo sguardo.
Lei non demorse: «O non è l'inverno che ti duole, bambina mia?»
«Oh, se sapessi.»
«Spiegami.»
«Non credo di avere le parole.»
Calligeneia mi strinse la mano, mormorando: «Ti ha violata?»
«...cosa ti ha detto mia madre?»
«Non ha importanza.» tossì «Ma, ti prego, toglimi questo peso: ti ha violata?»
«Non mi ha mai toccata, per quanto mia madre possa credere il contrario.»
Il sollievo le incurvò le spalle, con un sospiro che s'inasprì in un altro accesso di tosse.
«Grazie. Non avrei sopportato il peso della colpa, se ti avesse fatto del male.»
«Mi ha fatto più male di quel che posso dirti, nutrice.»
Si sporse per accarezzarmi i capelli. Sotto la treccia il livido del morso pulsava come il sangue nelle mie vene, vivo e furioso e impossibile da dimenticare. Era come averlo lì.
«Crescere non è mai indolore, bambina mia. Persefone. Ne verranno altri: non dolerti troppo, se ti ha rifiutata.»
«Oh, tutto il contrario.»
Chinai il viso.
«Persefone?»
«A volte mi sembra di odiare mia madre, per quello a cui mi costringe a rinunciare.»
«Non sei costretta.»
«Lo sono. Due giorni e guarda cos'è successo.»
«...avrebbe dovuto portarti in Averno e farti sua sposa. Neppure tua madre avrebbe potuto chiedergli di ripudiarti.»
«E maledire il mondo con la mia assenza?»
«Nessuna madre è mai morta per aver riconosciuto nella figlia la donna.»
«Di mortali ne sono morti, però. Non ho scelta.»
«Ce l'hai. Ce l'hai, non vedi? Devi solo accettare le conseguenze.»

 
*

Il profumo delle fragole era quasi stordente, mentre mi districavo dagli arbusti del sottobosco per chinarmi a raccoglierle. Ciane, accanto a me, mi teneva il cesto – sempre misteriosamente vuoto.
«Non ci provare!» sibilai, colpendo la mano di Ciane.
Lei ridacchiò senza lasciarsi scoraggiare e anche le ultime fragole sparirono dal cesto, una mi finì tra le labbra per zittire le mie proteste. L'asprezza mi mandò un brivido piacevole sulla lingua.
«Ti si carieranno i denti, vedrai.» profetizzai, brandendo un tralcio come poco probabile paramento sacerdotale «E allora riderò, oh, quanto riderò!»
«Dai, prendine qualcun'altra, o vuoi lasciar senza Calligeneia?»
«Non hai il minimo pudore, eh?»
Ciane inclinò il capo con aria innocente. Scoppiammo a ridere entrambe, con la mano davanti alla bocca e le spalle che sussultavano, appoggiandoci l'una all'altra per non cadere. Ovviamente rovinammo a terra.
«...mi hai spinta?» mormorai, a voce bassa e minacciosa.
«Come ti viene in mente?»
Ancora quell'aria innocente – e un ghigno che faticava a trattenere. Le gettai il tralcio in faccia, ridemmo ancora fino a non avere più fiato, e alla fine restammo sdraiate tra arbusti e lame di luce.
«Penso di aver battuto la testa. Prima il mondo non girava così.» mormorai. Appena sopra il mio naso una foglia profumatissima si sdoppiava e si ricomponeva, divertendosi a darmi la nausea.
«Io ho marmellata di fragole sotto la schiena, temo.»
«Mh, buona. Calligeneia apprezzerà.»
Cercai la sua mano a tentoni, gliela strinsi, ma lei ricambiò debolmente con un sospiro. Mi voltai a guardarla e incontrai il suo profilo rivolto al cielo, labbra strette e occhi socchiusi.
«Sai...» mi disse a bassa voce «credevo che non le avrei più viste.»
«Le fragole?»
«Anche tutto il resto.»
Mi alzai a sedere, combattendo lo stordimento, e le accarezzai una guancia con la mano libera. Era umida.
«Oh, Ciane.»
«Scusami.»
«Non ti scusare.»
«No, scusami, io...» sciolse la mano dalla mia stretta, se la passò sugli occhi «Non dovrei essere io a lamentarmi, con quello che ti è successo.»
«Ancora? Non mi è successo niente, Ciane. Non è successo niente. È finito, vedi?»
Sfiorai i tralci, che al mio tocco sollecito rinverdirono, esultarono con altri fiori dove già c'erano le fragole, e poi – non era mai successo, mai, impiegai un istante a realizzare – quei fiori divennero altre fragole, crescevano, si scurivano, ne colsi alcune e le altre caddero a terra marce. Posai i frutti maturi tra le mani di Ciane, le strinsi le dita per forzarla a trattenerli e le ripetei: «È finito tutto. Sono tornate, vedi? E se continueranno così, invaderanno tutto il sottobosco. Non sono mai state così forti e vitali.»
«Kore... oh, Kore, sei così buona. È solo che... l'inverno...»
Mi chinai a baciarle i capelli.
«L'inverno è finito. Ora è tempo della primavera. Il giorno non viene dopo la notte? Anzi, è proprio la notte a portarci il giorno, perché è Nyx ad aver generato Emera.»
«Non parliamo... non parliamo di loro, per favore.»
La ignorai. Caddero a terra altre fragole mature, incapaci di sostenere il peso di troppa vitalità.
«Come dopo ogni notte Emera varca le porte dell'Averno, così la primavera tornerà sempre dopo l'inverno, e sarà ancora più viva, te lo prometto, per compensarti dell'attesa.»
I suoi occhi erano pozze azzurre di cielo riflesso, umide di acqua salata. Spalancate d'inquietudine e angoscia.
«Ma perché parli dell'inverno, Kore? Non torne-»
C'interruppe un accesso di tosse, Calligeneia che ci raggiungeva.

 
*

«Va' a riposare, Kore.»
«No.»
«Posso pensare io a lei, va' a riposare.»
«No.»
Con un sospiro, mia madre mi abbracciò stretta e io mi immersi nel suo calore tentando di non tremare. Le gettai le braccia al collo, nascosi il viso contro i suoi capelli mentre lei mi cullava piano, dondolava con la schiena mormorando bugie rassicuranti.
«Domani non puoi restare?» la interruppi.
«Perdonami, Kore. Tornerò il prima possibile, ma non posso rimandare ancora il colloquio con Zeus, e la Beozia ha bisogno-»
«Va bene.» mi sciolsi dall'abbraccio «Riposati, allora, è un lungo viaggio. Resto io qui.»
Mia madre lasciò la porta socchiusa. Una bambina si affacciò curiosa, forse la figlia dei nostri ospiti, prima che una mano adulta arrivasse a chiuderla del tutto.
Seduta accanto a Calligeneia, immersi la mano nella caraffa d'acqua e gliela passai sulla fronte – scottava. La luce impietosa del fuoco scavava solchi e ombre sul suo volto già segnato, riempiva la stanza di odore di legna bruciata e calore soffocante, ma quel corpo vecchio che riconoscevo a stento tremava comunque. Avevamo dovuto chiedere ospitalità a una famiglia di contadini, perché persino la brezza gentile dell'estate imminente era troppo fredda per Calligeneia.
Mi stesi accanto a lei, la abbracciai per scaldarla. Era come stringere una bambola fragilissima ed estranea, perché in quella debolezza estrema non c'era nulla della mia nutrice, occhi profondi e sorriso beffardo e voce sicura.
«Andrà tutto bene.» le bisbigliai, mi bisbigliai «Andrà tutto bene, vedrai.»

 
   
 
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