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Autore: Sibylla    15/09/2015    10 recensioni
E se Kate non avesse mai accettato la proposta di matrimonio di Castle? E se il destino non si fosse ancora arreso, a differenza di loro stessi?
Dal prologo:
"Erano già passati due anni. [...]
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero e più di un forse. E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio desiderio di fuga.
[...]
Da quel giorno non aveva mai più visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro, Più stagioni
Capitoli:
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Come Home -II Parte

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


Kevin Ryan aveva sempre avuto un rapporto privilegiato con i numeri.
Forte di una particolare dedizione allo studio, e di uno spirito competitivo tutto irlandese che lo costringeva ad eccellere quantomeno a scuola nel confronto con le sorelle, per il resto sempre in netto vantaggio su di lui per una mera questione anagrafica, Kevin aveva infatti scoperto fin da bambino un'intensa e promettente alchimia con la matematica. Nel corso degli anni, molte volte s'era ritrovato a pensare che, se non fosse entrato in polizia, probabilmente sarebbe stato proprio lì, verso la matematica, che la vita lo avrebbe sospinto.
Kevin Ryan era poi anche un uomo molto scrupoloso, oltre che un detective dallo spigliato acume, e sin da quando Esposito lo aveva nominato suo testimone, parecchi mesi addietro, lui si era calato con estrema serietà nella parte, dedicandosi alla buona riuscita di quel matrimonio con forse persino più cura di quanta ne avesse riservata al proprio.
E del resto, Javier Esposito sposo era un fatto ben più degno di nota di Kevin Ryan sposo. Sicuramente più sorprendente.
Nulla di strano quindi se, nel bel mezzo di un trascinante ricevimento, con un centinaio di persone a riempirgli la visuale, i suoi occhi si fossero intestarditi giusto sugli unici due grandi assenti del momento, che per quanto significativi non erano in fondo che puntini irrisori in confronto alla massa di gente che popolava la sala.
Non che la loro improvvisa sparizione fosse in qualche modo inattesa, o misteriosa: Kevin aveva messo in conto quella possibilità fin dal momento dell'aperitivo, quando aveva scorto quel gonfiore sospetto negli occhi troppo arrossati di Beckett, e forse persino da prima, quando Esposito un mese addietro lo aveva messo a parte della recente ricaduta dei loro due migliori amici.
No, non era l'assenza in sé a preoccupare Kevin, né le conseguenze a cui inevitabilmente avrebbe portato -certo che un confronto tra loro fosse necessario, a prescindere dalla bontà dell'esito. Ciò che realmente lo stava mettendo in ansia da ormai una ventina di minuti era piuttosto la consapevolezza che quella sua presa di nota non era purtroppo attribuibile al suo raro talento investigativo, né alla sua passione smodata per il calcolo matematico, bensì alla semplicità di un'operazione che persino un bambino sarebbe stato in grado di eseguire, giungendo al medesimo risultato. L'ansia era tuttavia qualcosa che lui aveva imparato a controllare, se somministrata a piccole dosi -e di questo doveva ringraziare principalmente Sarah Grace e l'ingenua incoscienza della sua età. Di fronte a tuffi spericolati dal seggiolone, attrazioni fatali verso le prese di corrente e la minaccia imminente dei primi passi -che avrebbero mandato in frantumi anche l'ultimo ostacolo alla sua sconsiderata passione per il mondo-, la scomparsa di due adulti consenzienti non era che un'inezia, un dettaglio facilmente gestibile da un misero dieci percento del suo cervello.
Se infatti era certo che chiunque in quella sala sarebbe stato capace di dedurre che, sottraendo centotrentuno invitati a un totale di centotrentatré, da qualche parte doveva nascondersi il resto di due -e più questo si nascondeva più, in effetti, rischiava di rendersi visibile-, era al contempo rassicurato dal fatto che la maggioranza di quei potenziali testimoni non avrebbe trovato la cosa parimenti interessante. Eppure adesso, incrociando i suoi occhi e vedendoli offuscarsi d'un rapido ma eloquente scintillio di complicità, quella magra consolazione a cui aveva affidato il sereno prosieguo del matrimonio stava iniziando pericolosamente a vacillare. Se persino Javier Esposito -dal tatto discutibile e una marcata antipatia per i numeri, e con tutta la giustificata noncuranza che ci si sarebbe aspettati da uno sposo il giorno delle proprie nozze- se n'era accorto, cosa avrebbe impedito anche ad altri, e ad altre sopratutto, di accorgersene a loro volta? E sebbene il numero degli interessati alle loro faccende fosse troppo ridotto per rischiare davvero di minare la buona riuscita del matrimonio, cosicché il giorno di Lanie ed Esposito sembrava essere al sicuro anche senza un suo diretto intervento, rimanevano comunque Castle e Beckett: in quanto amico, proteggerli era suo compito tanto quanto lo era proteggere gli sposi in quanto testimone.
Rapido si era quindi congedato da Jenny -un sorriso e un casto bacio sulle labbra-, e aveva raggiunto i novelli sposi al loro tavolo, cingendo da dietro le spalle di entrambi in un abbraccio fraterno che dissimulasse l'aria di cospirazione che si apprestava a instaurare.
«Quindi che facciamo adesso?»
La domanda uscì senza troppi fronzoli. Non servivano premesse: se lui e Javier se n'erano accorti allora era indubbio che anche Lanie sapesse, e con tutta probabilità da molto prima di loro.
«Noi non facciamo assolutamente nulla»
I suoi sospetti furono confermati dal sentirla rispondere per prima, con una flemma invidiabile nel tono: a contornarlo, un sorriso disegnato sulle labbra e lo sguardo leggero, in una delle sue più magistrali interpretazioni d'indifferenza. Javier d'altro canto non pareva altrettanto capace, più simile a un libro aperto che ad un attore affermato, per giunta con l'indice fermo sulla pagina più compromettente -e guardandolo Ryan si disse ironico che no, non avrebbe avuto alcuna speranza in quel matrimonio se non avesse imparato al più presto a dissimulare, e bene almeno quanto la sua compagna. Anche da dietro, con una scarsa visuale, Kevin riuscì infatti a vedere chiaramente la sua bocca contorcersi in una smorfia contrariata e leggermente basita, segno che non pareva aver gradito l'intervento della moglie. E anche lei pareva essersene accorta.
«Senti Javier, anche io vorrei tanto sapere cosa sta succedendo tra quei due, ma è proprio questo il punto: sta succedendo qualcosa. Proprio adesso. E di qualunque cosa si tratti dubito chi ci vogliano tra i piedi, non credi?»
«Sì, ma...»
«Niente ma. Quindi ora rilassati, intrattieni gli invitati e bacia tua moglie»
Sporgendosi leggermente in avanti scoccò un rapido bacio sul broncio di un poco convinto Javier, giusto un attimo prima di alzarsi e d'invitare suo marito a fare altrettanto.
«Quando quei due torneranno a farsi vedere allora hai il mio permesso per tornare a giocare al detective»
«Sono un detective, Lanie. Non gioco io.»
«D'accordo d'accordo, ora va»
Un colpetto lascivo al fondo schiena e lei lo congedò, inoltrandosi nel labirinto di tavoli aperto dinnanzi a loro: la sua figura traballante li accompagnò per alcuni istanti, col vestito che ad ogni passo ne minacciava l'equilibrio, in un silenzio che sembrò loro opportuno spezzare solo quando ormai non erano più in grado di vederla.
«Forza, andiamo a cercarli»
«Ma Lanie ha appena dett-»
«Ho sentito cosa ha detto Lanie, fratello. E infatti io non voglio mica star loro tra i piedi, voglio solo assicurarmi che vada tutto bene, che Beckett non sia in qualche angolo a deprimersi, e soprattutto che Castle non stia combinando qualche casino»
Ryan esitò, spostando nervosamente il proprio peso da un piede all'altro, con lo sguardo che viaggiava alternatamente tra l'amico -già proteso verso la porta- e un punto impreciso della sala in cui, a giudicare dall'accorpamento di gente e di gridolini eccitati, immaginò dovesse trovarsi Lanie.
«D'accordo, ma credo lo stesso che Lanie abbia ragione. Non è il caso di curiosare»
«Qui non si tratta di curiosità Ryan, la mia è preoccupazione. E ampiamente giustificata oltretutto. Abbiamo visto entrambi Castle stamattina, e non sei stato tu prima a dirmi che Beckett ti sembrava turbata?»
«Sì, è vero...»
«Solo un giro veloce, promesso. Se è tutto regolare torniamo qui immediatamente. Anche perché se dovesse scoprirci, Lanie ci ammazza»

Il ticchettio dei mocassini contro il parquet risuonava prepotente nel corridoio, e Ryan iniziava ad aver l'impressione che le sue stesse scarpe fossero intenzionate a smascherarlo, generando più rumore del necessario.
Non sapeva come avesse fatto a farsi coinvolgere in quella specie di caccia all'uomo, non era mai stata questa la sua intenzione, fatto sta che ora era lì: al seguito di un Esposito particolarmente determinato, forse anche troppo.
A conti fatti l'amico non gli aveva poi dato ampio margine di scelta: dopo un paio d'altri fiacchi tentativi di convincerlo a parole, si era semplicemente voltato, e spedito aveva preso a camminare alla volta delle scale. E cos'altro avrebbe potuto fare lui, da anni suo partner nella vita e nel lavoro, se non spalleggiarlo in quell'improbabile pedinamento? Oltretutto, se pure fosse rimasto alla festa, avrebbe in ogni caso dovuto affrontare la furia di Lanie prima o dopo, e dopo un rapido calcolo aveva concluso che preferiva di gran lunga farlo dopo, di fianco all'amico, piuttosto che prima, da solo senza alcun supporto o spiegazione esauriente da dare.
Quando infine dal fondo del corridoio la porta di una camera a loro ben nota si aprì, rivelando un viso familiare, Kevin non seppe se sentirsi sollevato o tremendamente imbarazzato. Esposito d'altra parte non sembrava essersi neanche posto il problema; piuttosto nel giro di un'istante, e senza alcuno scrupolo, incalzò l'altro con la domanda peggio posta e meno delicata di cui fu capace.
«Castle finalmente, si può sapere che diamine sta succedendo? E dov'è Beckett?»
Vide l'altro sobbalzare al suono di quella voce, evidentemente sorpreso dalla loro presenza, e gli parse di vederlo esitare qualche istante, con un'espressione in volto in cui Ryan non fiutò nulla di buono. Fu tuttavia questione di secondi: una scrollata di capo sembrò infatti bastargli per rimettere in moto il cervello, e i piedi assieme a quello, e con passo di carica li superò entrambi, parlando senza neanche voltarsi a guardarli.
«Me ne vado. Scusami Espo, davvero, ma devo andare. Tornerò in tempo per la fine della festa, promesso.»
«Aspetta, che vuol dire che te ne vai! E dove vuoi andare?»
«Ovunque, ma via da qui. Scusami»
Kevin osservò Castle procedere senza indugio in quella che, a tutti gli effetti, poteva essere definita una fuga in piena regola, e se fino ad allora era stato ancora indeciso verso quale umore dovesse sbilanciarsi l'ago della sua bilancia, se l'imbarazzo o il sollievo, ciò che accadde l'istante dopo a quella riflessione non gli lasciò più alcun dubbio: imbarazzo, sicuramente. Dal fondo del corridoio, con una precisione quasi sospetta, si materializzò infatti l'ultima persona che avrebbe dovuto assistere a quello spettacolo: sguardo spaesato e andatura affrettata, Laura aveva infatti appena svoltato l'angolo. A nulla valsero i suoi tentativi di richiamare il fidanzato: apparentemente senza neanche vederla  -e tuttavia, Ryan ne era certo, avendola vista benissimo- la superò in poche falcate, passandole accanto con invidiabile indifferenza, e pochi istanti dopo aveva già voltato l'angolo a sua volta, sparendo dalle loro viste.
«Era Rick quello, vero?»
La domanda superflua uscì quasi da sé, dalla gola di una Laura che più che contrariata pareva essere confusa e consapevole insieme.
«Emh, sì...»
L'imbarazzo e la tensione erano palpabili nella voce di Esposito, e Kevin sentì chiaramente lo sguardo dell'amico posarsi su di sé, in una chiara richiesta di aiuto: tuttavia lui pareva avere altro da fare, impegnato nel delicato -e più complicato del previsto- compito di decifrare Laura, e lo sguardo con cui stava studiando loro e l'ambiente insieme.
«E dove stava andando? Sembrava sconvolto...»
«Oh no, era solo di fretta. Ecco lui sta...lui sta andando a prendere dei parenti di Lanie, sì! Hanno avuto un problema con l'auto e sono rimasti in panne, così Castle si è offerto di andarli a prendere visto che Ryan è il mio primo testimone e mi serve qui. E poi sai, con la Ferrari si fa più in fretta, no Kev?»
Disegnandosi forzatamente un sorriso sulle labbra, Esposito assestò una gomitata decisa all'amico il quale, riscossosi brevemente dai suoi pensieri, annuì energicamente alla donna, pur ignorando a cosa avesse appena assentito. Qualunque cosa fosse sembrava comunque non aver riscosso il favore di Laura, il cui sguardo si era acceso ora di una nuova, strana, luce. Non dovette passare troppo tempo prima che Kevin potesse darle un nome.
«Ti ringrazio Javier, il tuo è davvero un nobile tentativo ma a questo punto credo sia meglio che io vada. Per favore, dillo tu Rick qualora dovessi sentirlo, e ancora congratulazioni per le tue nozze»
Un sorriso di circostanza stemperò la gravita delle sue parole, ma si trattava di mera apparenza -e tuttavia non fece una piega: li salutò educatamente, e con più calore e sincerità di quanto si sarebbe aspettato, e si congedò, abbandonando con passo fermo il piano senza mai perdere in dignità. E Kevin a quel punto non ebbe più dubbi sull'acume e la grazia di una donna che, evidentemente, tutti loro avevano ampiamente sottovalutato.
«Vado a chiamare Lanie, pensaci tu qui»
La voce di Esposito lo riportò alla realtà, giusto in tempo per vedere il suo sguardo puntato verso la porta incriminata, col sotteso e implicito ordine di varcarla.
«Io? E cosa dovrei fare?»
«Non lo so, parlale... o non parlarle. Solo, tienila d'occhio finché non arriva la cavalleria»
Non gli fu concesso tempo per ribattere: si ritrovò solo nel corridoio, con la sola compagnia del proprio sguardo che, nervoso, aveva preso a girargli intorno nella speranza forse che qualcuno -Jenny magari?- facesse la sua provvidenziale comparsa, salvandolo da quella scomoda situazione. 
Nessuno apparve tuttavia, e dopo un paio di minuti dovette arrendersi all'idea che quel compito toccava a lui e a nessun altro. Non che non volesse aiutare Beckett, o parlarle, o capire cosa stesse succedendo... Ma aveva visto Castle, il suo sguardo sconvolto... Aveva solo paura di ciò che avrebbe trovato in quella stanza, temeva di non essere in grado di poterla aiutare. Aveva poi anche paura di violare in qualche modo l'intimità di Beckett: aveva notato conn quanta cura si fosse premurata di nascondere le proprie lacrime solo qualche ora prima, e quando le si era avvicinato aveva avuto la conferma che parlarne non fosse tra le sue priorità.
Adesso, pensava, la situazione non poteva che essere peggiorata.
Timoroso entrò infine nella stanza, affondando ogni passo nel pesante silenzio di cui l'aria s'era resa satura, scosso a tratti dal leggero sussultare della donna seduta di spalle ai piedi del letto. Da lì ne poteva scorgere soltanto la chioma, che s'alzava e s'abbassava a ritmo di quell'inusuale melodia. Chiuse la porta dietro le proprie spalle, un attimo prima di vedere la sua mano, tremante, alzarsi nel vuoto a nascondere i singhiozzi, e la sensazione di essere di troppo in quella stanza si fece, se possibile, ancora più forte.
«Beckett...»
Fu più un sussurro che un richiamo, ma in qualche modo ebbe la sensazione che la donna ne fosse uscita rassicurata, avendo notato la tensione scivolarle impercettibilmente via dalle spalle.
Le mani adesso sfregavano contro le gote, a catturare coi palmi le stille saline che le avevano invase probabilmente, e solo dopo parecchi di quei movimenti Ryan la vide finalmente girarsi -seppur lievemente- verso di lui.
«È tutto a posto?»
Si morse la lingua dandosi dello stupido non appena ebbe sentito l'ultima sillaba di quella domanda così retorica scivolargli via dalla gola. Bastava uno sguardo per capire che no, non era tutto apposto. E tuttavia, cos'altro avrebbe potuto dirle -o chiederle- senza apparire indiscreto?
Un timido accenno di sorriso le solcò però il volto, e Ryan ne fu egoisticamente rinfrancato, pur consapevole che, lungi dall'essere spontaneo, Kate s'era costretta a farlo per aiutare lui.
Seguirono sguardi e silenzi, accompagnati dallo sporadico sussultare di lei e dal rumore dei passi di lui che, diligentemente, lo avevano guidato fino al letto per poi con saggezza consigliargli di sedervisi, giusto accanto a lei che, posizionata sul pavimento a un soffio da lui, sembrava essergli grata di quella silente offerta di conforto. Lo ringraziò strizzandogli brevemente il palmo della mano, in un gesto intimo che in tanti anni mai s'erano concessi, ma che suonò normale a entrambi, addestrati a volersi bene in un modo professionale ma ugualmente intenso. Trascorsero così alcuni minuti, fisicamente vicini ma mentalmente lontani, con la testa di lei che -Ryan lo sapeva- era distante anni luce da quella stanza, approdata verso luoghi a lui ignoti e senza dubbio dolorosi, da cui però non sentiva più l'urgenza di strapparla con discorsi vuoti, avendo ora chiaro in mente che il suo solo compito in quel momento era attendere che lei fosse pronta a tornare, e a parlare, di sua sponta -attendere, come per i migliori detective negli interrogatori più importanti
«Dovrei alzarmi da qui, è una cosa così ridicola...»
«Non c'è alcuna fretta»
«Sì invece, giù è pieno di sedie comode e invece io me ne sto seduta qui sul pavimento ghiacciato, perdendomi oltretutto il matrimonio dei miei amici. E per cosa, poi? Dio, Lanie sarà in pensiero... »
«Non preoccuparti di questo, Espo è andato a chiamarla»
Quest'ultima frase sembrò sortire un effetto insperato sulla donna che, come risvegliatasi da un letale torpore, quasi inciampò nella frenesia del rimettersi in piedi, dimentica d'improvviso di tutta la fatica che pareva averle ostacolato ogni movimento fino ad allora.
«No, mio Dio. Sto già trattenendo te qui, ho già fatto abbastanza. Non finirò per rovinare la giornata anche a loro, no. Assolutamente no»
«Beckett, non stai rovinando la giornata a nessuno. Ti assicuro che sia Lanie che Javier preferirebbero di gran lunga passare la giornata qui con te che rimanere di sotto ad ascoltare lo zio Fulgenzio cimentarsi col karaoke»
Per la prima volta da che l'aveva raggiunta in quella stanza, Ryan vide l'accenno di una sincera risata fare capolino tra le labbra di Beckett, e un moto d'orgoglio gli gonfiò scioccamente il petto.
«Non è comunque necessario. Io sto bene, beh... starò bene. Possiamo almeno fingere che sia così?»
«Sono certo che il resto degli invitati scambierà i tuoi occhi rossi per commozione nei riguardi della sposa»
«Direi che è perfetto. Vogliamo andare allora?»
«Certa di sentirti pronta?»
«Sì»
Eppure la sua mano rimase fermamente avviluppata intorno alla maniglia della porta. A dispetto della sicurezza nella voce, il resto del corpo era in aperto conflitto, e non ebbe difficoltà a indovinarne il perché ancora prima che lei desse un nome alla sua esitazione.
«Castle... lui è di sotto?»
«In realtà credo se ne sia andato»
«Bene, andiamo»
Quella risposta si rivelò essere quella giusta, e come una chiave si intrufolò nella serratura della porta facendola scattare, liberandoli entrambi dalla prigionia di quelle quattro soffocanti mura.
«E, Kevin...grazie»
«Non dirlo neanche. Solo, Beckett» quel richiamo a un passo dall'uscita gli fece guadagnare un'occhiata curiosa dalla bruna, ora in attesa, con gli occhi puntati su di lui «qualunque cosa voi due stiate combinando non fateci aspettare troppo, intesi?»
La curiosità lasciò il posto a un risolino privo d'alcuna ilarità, sullo sfondo di un sorriso ben più amaro di quanto si fosse augurato.
«Dubito ci sia qualcosa da attendere ormai, Ryan»
«Se avessi un nichelino per ogni volta che l'ho creduto anche io...»
Era un pensiero sincero il suo, e ai suoi occhi fortemente fondato, tuttavia attese che l'udito di lei fosse fuori portata per esternarlo: aveva intuito che la ferita era ancora troppo fresca e profonda per sperare che almeno lei, in quella coppia di stolti, potesse ragionare con lucidità e vedere quello che a lui appariva così chiaro e lampante da sfiorare quasi il ridicolo. Il rapido cambio di sguardo e di tono, nonché il subitaneo restauro della solita formalità -incarnata dall'aver ripreso a chiamarlo per cognome, dopo un momentaneo slancio di intimità- lo persuasero ulteriormente circa la bontà di questa sua ultima decisione. E anche volendo non avrebbe avuto tempo e modo di cambiare idea, preceduto dal rumoroso e ingombrante arrivo della sposa, in una nuvola di bianca e vaporosa agitazione.
«Tesoro, stavo venendo da te! Cosa è successo? Siete spariti e poi ho visto Castle andarsene via come una furia e...»
«Lanie, dopo»
«Ma Kate...»
«No, questo è il tuo giorno. Dobbiamo solo pensare a festeggiare e divertirci. Per il resto ci sarà tempo»
Lo sguardo risoluto di Kate non lasciò alternative, e l'amica non ebbe altra scelta che piegarsi alla sua volontà. E in quel momento Ryan fu nuovamente pervaso da una calda ondata di orgoglio, e non per sé stesso stavolta, bensì per la donna che a lungo aveva avuto l'onore di chiamare collega e che con altrettanto onore sarebbe stato lieto di chiamare capitano un giorno, se le cose avessero preso una piega diversa anni addietro. E in alcun modo riusciva a capacitarsi di come, dietro la fierezza di quello sguardo, potesse contemporaneamente nascondersi tutta quella fragilità e insicurezza che il rapporto con Castle aveva, negli anni, portato lentamente alla luce.
«D'accordo allora. Andiamo a bere!»
«Mi sembra un ottima idea»
Braccio nel braccio le due donne si allontanarono, con una nuova spensieratezza a guidare i passi di Kate, mentre lui ed Esposito temporeggiavano sulla porta: il suo sguardo livido, chiaro segno di una recente sfuriata di Lanie a cui lui, fortunatamente, era almeno per il momento riuscito a scampare.
«Beh, che ti ha detto?»
«Niente»
«Come niente? E tu non hai indagato? Ma che razza di detective sei?»
«Uno che non è in servizio! Prima la pistola, poi l'interrogatorio... vuoi anche chiedermi di inseguire il sospettato o pensi di potermi lasciar fare soltanto il testimone del mio migliore amico oggi?»
«Scusami, hai ragione, è che..»
«Lo so»
«Ok, ci penseremo più tardi a queste cose. Oggi si pensa solo al matrimonio!»
«Bene, perché ho un discorso da fare nei prossimi cinque minuti e con tutto questo trambusto non ricordo assolutamente più nulla di ciò che dovevo dire»



Aveva lasciato quella camera con l'intenzione di tornare alla festa.
Aveva lasciato lei in quella camera con l'intenzione di tornare dall'altra alla festa.
Eppure, nel momento stesso in cui la mano aveva accarezzato la maniglia, una scarica d'esitazione lo aveva pervaso lungo tutto il corpo. L'attimo dopo essersi richiuso la porta alle spalle l'esitazione era divenuta dubbio, e nell'esatto istante in cui Laura aveva incrociato la sua strada il dubbio era infine maturato in certezza: doveva andarsene.
Mai, in nessun modo, neanche ricorrendo alla migliore delle sue facce da poker, sarebbe stato in grado di tornare da Laura e fingere indifferenza. Né tantomeno avrebbe potuto affrontare nuovamente Kate, quando inevitabilmente anche lei fosse scesa a raggiungerli, con l'altra stretta slealmente tra le braccia. E se un briciolo di orgoglio personale e di riguardo nei confronti degli sposi avevano continuato ad attardare i suoi passi anche dopo che, risoluto, aveva superato Esposito, Ryan, Laura e chiunque altro avesse incontrato lungo il tragitto, ogni traccia d'incertezza era stata poi spazzata via dall'orrenda presa di coscienza d'aver ingenuamente -e del tutto inconsciamente- etichettato nella propria mente Kate come la lei e Laura come l'altra. Un pensiero inammissibile, non tanto perché lontano dalla verità quanto perché vi era troppo vicino.
Era, in effetti, la cosa più sincera che si fosse concesso di pensare da che l'aveva rivista, quel giorno.
Anche adesso che sfrecciava senza meta per la strada deserta sulla sua Ferrari, col vento a scompigliargli i capelli e a schiaffeggiargli il volto -con tanta violenza da impedirgli di scoprire se ciò che sentiva scheggiargli le gote erano lacrime o solo fruste d'aria-, non riusciva a capacitarsi di come la sua mente potesse essere ancora tanto irrimediabilmente pregna di lei.
Soprattutto non riusciva a liberarsi del suono della sua voce, e di quelle due parole che da minuti ormai facevano da sottofondo ad ogni suo altro pensiero: ti amo.
Glielo aveva confessato con una naturalezza quasi disarmante, tanto che confessione non sembrava neanche il termine giusto per descrivere ciò che era accaduto. Nessun impronunciabile segreto era infatti stato svelato, nessuna verità disarmante s'era di colpo manifestata in quella stanza. Constatazione sarebbe stato un vocabolo più adatto. Che in fondo entrambi sapevano benissimo di amarsi ancora senza alcun bisogno di dirlo, per quanto strenuamente si fossero impegnati a nasconderlo -chi fuggendo, chi inveendo contro l'altro. Ed era proprio questo a segnare la tragicità della situazione: si amavano e tuttavia s'erano persi. Nel momento decisivo non erano stati abbastanza: abbastanza forti, abbastanza coraggiosi, abbastanza fiduciosi...
Eppure, lei lo aveva detto.
Nonostante l'ovvietà di quella affermazione, nonostante il dolore e l'orgoglio ferito, lei lo aveva detto. E quel gesto lo aveva spiazzato più delle parole stesse.
L'aveva guardata, per un minuto che era parso interminabile, e di fronte a sé aveva visto la stessa donna di sempre: bellissima e caparbia, dallo sguardo fatale e il sorriso salvifico. Un concentrato d'opposti, dannatamente nocivo per chiunque non fosse stato in grado di possedere contemporaneamente i suoi occhi e le sue labbra, la sua anima e il suo corpo -come un tempo a lui era stato concesso. Fino al giorno in cui quella stessa donna che lo aveva amato, -uccidendolo e riportandolo in vita ad ogni tocco-, non lo aveva poi messo da parte, fuggendolo e spezzandogli il cuore, dandogli infine il colpo di grazia.
Solo adesso, a distanza di anni, quando ormai s'era rassegnato all'idea che nessuna redenzione sarebbe venuto a trascinarlo fuori dall'inferno in cui era scivolato insieme al loro amore, lei era infine tornata a salvarlo, riportandolo in vita ancora un'altra volta, col solo potere delle parole.
Eppure, nonostante all'apparenza nulla sembrasse cambiato in lei -nulla a parte l'ospite d'inchiostro inciso sul suo polso-, i suoi gesti, la sua irruenza, la sua ostinazione a mostrarsi vulnerabile ai suoi occhi senza più nascondersi, tradivano la presenza di una donna nuova, una donna diversa.
Sei ancora quella che eri, o no?
Quella domanda imperterrita continuava a riaffiorargli dalle pieghe dell'inconscio, sovrapponendosi alla voce di lei, facendo a pugni con quel “ti amo”, amoreggiando con quel “e tu?”. Ciò che era peggio, Castle non riusciva a darsi pace, inabile a capire cosa avrebbe preferito: se scoprire che Kate era davvero cambiata in quei due anni, o se rendersi conto che in fondo non era che la stessa donna di sempre, semplicemente catapultata in una situazione troppo complicata per non uscirne scalfita.
Del resto, già in passato lei aveva dimostrato d'essere in grado di annullare le proprie barriere solo volendolo, come quella sera in cui si era presentata alla sua porta, bagnata di pioggia e di lacrime, e lo aveva baciato. E in fondo era di quella donna che lui si era innamorato, per quanto frustrante quella relazione sapesse essere alle volte.
La strada accanto a lui scorreva rapida, quasi quanto i suoi pensieri. Forme indistinte e macchie di vegetazione dai contorni sfumati gli riempivano gli occhi, mentre il piede flirtava con l'acceleratore un po' di più ad ogni chilometro percorso.
Stava scappando, non aveva problemi ad ammetterlo. E lei del resto lo aveva fatto in così tante occasioni che, si disse, come avrebbe potuto adesso rimproverarlo per aver invertito i ruoli, una volta tanto? Anzi, doveva ammettere che solo adesso, in qualche maniera, poteva capirla: scappare era un gesto vigliacco, non risolutivo e decisamente immaturo, ma era anche terribilmente ristoratore. Liberatorio quasi, nella misura in cui, col solo obiettivo in mente di andare via -ovunque questo via conducesse- si era in grado di distrarsi al punto da alienarsi, da scappare persino da se stessi.
Lo squillo del cellulare interruppe momentaneamente quel filo di pensieri, riportandolo di colpo alla realtà. Allentata la pressione su volante e pedali, iniziò a rallentare fino a fermarsi del tutto, al riparo in una rientranza sul ciglio della strada. Non aveva alcuna intenzione di rispondere, anzi tolse la suoneria mentre il viso di Esposito campeggiava ancora sul display del telefono. A convincerlo a interrompere la sua corsa folle era stato piuttosto il repentino rendersi conto di non riconoscere quasi più il paesaggio intorno a sé, segno che si stava allontanando troppo dal luogo del ricevimento. Andare oltre, perdersi nelle vastità della valle o giungere persino ai confini della città, non gli avrebbe tratto alcun giovamento. E d'altronde lui voleva solo una pausa da quell'ambiente, non era certo una fuga definitiva che cercava.
Sapeva che presto o tardi sarebbe dovuto ritornare sui suoi passi.

Quel “presto o tardi” arrivò in effetti più tardi del previsto, quando il crepuscolo aveva già preso a cancellargli l'ombra intorno, sfiorando più e più volte le sue scarpe coi timidi raggi di sole che ancora sapevano sfuggire indisciplinati al suo controllo.
Il velo scuro della sera aveva già inghiottito l'asfalto, e sul nero del bitume apparivano ora più nitide le stille salate che solo adesso si rendeva conto di stare versando da quelli che, a giudicare dagli umidi indizi, dovevano ormai essere parecchi minuti. Non sapeva se a guidare l'avanzata di quel pianto fosse il solito dolore ,vecchio amico di bevute, o qualcos'altro: nel dubbio non ebbe cuore di impedirgli di fargli compagnia in quella presa di consapevolezza che stava poco a poco schiarendo i suoi pensieri, incamminatisi su un sentiero che mai avrebbe pensato di percorrere di nuovo. Mai di nuovo con lei almeno.
Ma c'era quel sorriso, timido e nostalgico, che aveva appena scoperto sul proprio viso insieme alle lacrime, e che non lasciava dubbi. E sebbene la sua presenza non lasciasse presagire nulla di buono circa il suo futuro stato d'animo, trovava che troppo bene si intonasse a quel suo pianto per poter pensare di sopprimere uno dei due, o persino entrambi, suoi compagni di viaggio.
Lui l'amava.
Seduto contro il cofano dell'auto, con lo sguardo perso in un tramonto che non stava davvero osservando, era come se ogni cosa intorno a lui portasse il suo nome, e il suo nome trascinava irrimediabilmente dietro di sé questa piccola, affilata verità: l'amava.
Nel momento esatto in cui si era concesso quel pensiero -dopo averlo strenuamente ostacolato, convinto che gli avrebbe divorato l'anima-, e lo aveva abbracciato in tutta la sua ineluttabilità, era come se un grosso macigno fosse scivolato via dal suo petto, e lui si era infine reso conto di quanto stupido fosse stato a combatterli, anziché semplicemente arrendersi a quei sentimenti.
Era risalito in auto un momento dopo, e aveva preso a percorrere la strada del ritorno con una fretta che nulla aveva a che fare con quella che gli aveva guidato le mani solo un'ora prima. Le dita, tremanti, scivolavano continuamente sul volante, reso umido dalla patina di sudore freddo ed eccitato che gli imperlava i polpastrelli, e dalle lacrime che ancora gli inondavano ostinate le gote.
Sapeva quanto folle fosse. Sapeva di star rinunciando definitivamente ad ogni speranza di poter sopravvivere a quella guerra. 
Lei sarebbe partita l'indomani e nulla sarebbe cambiato. Nessun tentativo sarebbe valso a qualcosa, perchè era già finito tutto tra loro -forse anche prima che cominciasse.
Lo sapeva, sapeva tutto. Ma saperlo non serviva a nulla giacchè -che lei ci fosse per un giorno o per sempre, che lo amasse davvero o lo odiasse, che fosse cambiata o fosse la stessa persona- era lo stesso. Non faceva alcuna differenza perché lui l'amava. È questo adombrava ogni altra cosa..
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, adesso che era libero da sè stesso e dalle regole che si era imposto in quegli ultimi anni, era che doveva vederla, ancora e ancora. Finché avesse potuto. Finché lei glielo avesse concesso. Finché il tempo a loro disposizione non si fosse esaurito. E sperava, pregava, che lei fosse ancora lì. Perché sì, lei l'indomani sarebbe ripartita, ma in che modo questo avrebbe potuto interessare al suo amore? In che modo questo avrebbe potuto scalfirlo o ridurre in lui il desiderio di lei?
Sapeva a cosa stava andando incontro, e a che velocità. Il tachimetro continuava ostinatamente a ricordarglielo, attirando la sua l'attenzione su di sé forse nel vano tentativo di dissuaderlo da una resa che non avrebbe portato alcun beneficio, alcun cambiamento, se non la possibilità di donargli ancora qualche minuto -o magari un'ora, chissà- con lei. Ma non era forse abbastanza? Non era forse questo un motivo valido per correre da lei?
Nel migliore dei casi l'indomani ne sarebbe uscito distrutto, nel peggiore non sarebbe arrivato incolume neanche alla notte; l'euforica rassegnazione che lo stava conducendo da lei adesso, avrebbe forse guidato i suoi passi  il giorno dopo dietro il suo taxi, verso l'aeroporto, incontro al suo aereo... nell'insano e futile tentativo di impedire una partenza inevitabile.
Ma il piede non vacillò mai sull'acceleratore, la mano non esitò mai sul cambio: che in qualunque circostanza, a qualunque costo e con qualunque conseguenza, lei ne valeva la pena. Lei ne valeva la pena sempre


Elegantemente accomodata sulla sedia, Kate vagava con lo sguardo per la sala senza davvero fermarsi a osservare nulla, dimentica di sé e di tutto ciò che aveva intorno.
Aveva provato ad affrontare con sé stessa ciò che era accaduto solo un'ora prima in quella camera da cui lui era letteralmente fuggito, ma ogni pensiero o conclusione a riguardo s'erano rivelati semplicemente troppo pesanti da gestire in quel frangente, dove l'idea di mettersi a nudo col proprio dolore era inevitabilmente impossibile da attuare. Aveva dunque provato a concentrarsi sul resto, su ciò che non erano
loro, ma nonostante un inizio promettente aveva capito d'aver nuovamente fallito quando, dal discorso di Ryan agli sposi, s'era improvvisamente trovata catapultata nel pieno di una nuova sessione di balli, incapace di dire cosa fosse successo tra un episodio e l'altro, e soprattutto che ruolo avesse avuto lei in quel lasso di tempo che pareva aver rimosso. E quasi avrebbe persino potuto credere che non fosse affatto trascorsa un'ora tra i due fatti, se a tradire il trascorrere del tempo non ci fosse stato il crepuscolo, che fuori dalla finestra stava lentamente inghiottendo ogni ombra sul suo passaggio.
In quello stato di dolce apatia in cui era lentamente scivolata gli giungeva solo qualche stralcio di musica di tanto in tanto, che ovattata la cullava sul posto. Non riusciva a distinguerne le parole, troppo concentrata a mantenere il silenzio nella propria testa, ma a giudicare dagli assaggi di melodia che riusciva a racimolare, sapeva che avrebbe amato quella canzone -se solo si fosse data pena di ascoltarla. 
Persa in quel groviglio d'indolenza a malapena lo vide avvicinarsi, e solo quando una mano -grande e forte, e sicura- le fu tesa davanti agli occhi prese coscienza di chi avesse di fronte, sobbalzando vistosamente per la sorpresa.
Sulle note di
Strangers in the night l'orchestra pareva ora sospingerla verso quello che dal di fuori aveva tutto l'aspetto di un invito a ballare.
Eppure l'uomo in piedi davanti a lei era lo stesso che solo un'ora prima era fuggito abbandonandola sul pavimento freddo di una stanza d'albergo, chiudendosi dietro la porta di quella stessa camera e del suo cuore, e negandole ogni speranza di poter tornare ad essere felice. Era lo stesso uomo sì, ma lo sguardo era cambiato, tintosi di una sfumatura a cui lei non riusciva in alcun modo a dare un nome.
Si chiese se dovesse odiarlo. Se dopo quello che era successo, dopo il modo in cui era fuggito e l'aveva rifiutata, lei dovesse mettere da parte ciò che voleva per salvaguardare gli ultimi scampoli del proprio orgoglio ferito. Si chiese se fosse davvero in grado di ballare con un uomo che aveva appena frantumato tra le proprie dita il suo cuore, a prescindere da chi avesse ferito chi per primo.
Ma la propria mano aveva deciso,già  protesa in aria verso la sua, e ognuna di quelle domande contava poco adesso che il calore delle sue braccia tornava a ghermire il proprio corpo.
«Io non capisco...»
«Solo un ballo. A questo punto, che vuoi che sia»
Non ci furono altre parole, se non quelle della canzone: incisive e taglienti, parevano descrivere la loro storia. Due sconosciuti le cui strade s'erano intrecciate in una notte qualunque, con gli sguardi e i sorrisi e una palpabile attrazione a far da sfondo al più improbabile degli incontri, e l'amore -caldo e accogliente- ad appena un passo, senza averne ancora la consapevolezza e senza il coraggio di buttarsi per maturarla. Fino a quella seconda notte, la
loro notte, in cui la porta era stata finalmente varcata, rendendo quegli sconosciuti, soli al mondo, un'unica cosa. E adesso in un ballo rieccoli insieme, l'equilibrio finalmente ristabilito seppur per il breve tempo di una canzone. E Kate, stretta al suo petto come se da questo dipendesse la sua intera esistenza, non riusciva a non chiedersi come avrebbe fatto a lasciarlo andare quando inevitabilmente fosse giunto il momento, ora che ricordava la sensazione di stare semplicemente tra le sue braccia, senza passionali pretese a sconvolgere la dolce semplicità di quel gesto.

La melodia era cambiata adesso, ma il ritmo dei loro passi era rimasto immutato, così come il sordo martellare del proprio cuore, che non accennava a rallentare neanche adesso che lui si stava delicatamente allontanando da lei.
Con ancora la presa ferrea sulla sua vita, percepì ogni movimento del suo corpo pur senza avere il coraggio di alzare lo sguardo dal tessuto stropicciato della camicia di seta finché non fu lui a costringerla a farlo, quando posizionò il proprio viso esattamente davanti al suo.
Nonostante i tacchi, lui la superava di un paio di centimetri, quel tanto che bastò a far sì che gli occhi incontrassero le sue labbra prima delle iridi azzurre. Una sosta che le costò parecchia fatica e un'aritmia.
Sul viso accaldato dall'emozione e dal prolungato contatto col tepore del suo torace, il tocco delle dita lui -venuto a scacciare una ciocca ribelle dal suo viso- giunse fresco e ristoratore, al punto che un brivido la colse, scivolandole mellifluo lungo tutto il corpo, fino ai piedi. Con calcolata lentezza lasciò che indice e medio ne disegnassero il delicato profilo, scendendole dallo zigomo verso la curva sottile del collo: ad occhi chiusi, Kate ne seguiva il tracciato, guidata dal formicolio che voluttuosamente stava rigenerando i nervi sottopelle, sopiti da tempo, e che le rimaneva impresso anche quando le dita avevano abbandonato un angolo di pelle per accarezzarne un altro. 
Lo sentì esitare all'altezza della gota, in un tremolio di polpastrelli che si diffuse al suo intero volto, e d'istinto piegò il proprio viso di appena qualche grado, quei pochi millimetri necessari a che l'inclinazione cambiasse e le dita potessero tornare a scivolare indisturbate lungo la linea del collo.
In quel tocco sentiva di starsi gradualmente sciogliendo. Ma ebbe la forza necessaria a riaprire gli occhi, bramosa di godersi con ogni senso -vista inclusa- quel risveglio del proprio corpo sotto lo sguardo ardente e imperscrutabile di lui. Quando quella traversata fu conclusa, conscia che presto lo spazio sarebbe tornato a separarli, lei tuttavia non si mosse ancora, lasciando a lui il compito di terminare quella danza in cui si erano incomprensibilmente lanciati e che in quel tocco si stava esibendo nell'ultima spettacolare piroetta.
Era la Morte del Cigno, la fine dello spettacolo: Kate lo sapeva ma non fece nulla per andarle incontro, rimase invece in attesa del suo arrivo, annunciato dall'ultimo gesto di Castle, il cui viso si sporse in avanti verso il suo, accostandovisi, fino a che le loro gote non si sfiorarono.
Fu appena un sussurro, un mormorio impercettibile confidatole all'orecchio come il più terribile dei segreti. Il soffio caldo del suo alito contro la pelle, già rovente, del lobo la raggiunse ancor prima del suono della sua voce, e un' ondata di calore le avvolse le viscere in un misto di piacere e turbamento insieme. Il dolore arrivò dopo, insieme alle sue parole, lame affilate spinte senza pietà dentro le sue carni ormai prive di difese.
«Sono stanco Kate, così stanco... Io mi arrendo, ufficialmente»
Rimase pietrificata, una statua di sale in mezzo a una pista da ballo gremita di gente. Unica nota stonata di uno scenario di festa altrimenti perfetto. 
Immobile lo sentì scivolargli via dalle dita ancora una volta -per l'ultima volta?-, sempre immobile lo vide allontanarsi, guadagnando l'uscita stavolta per sempre.
La ciocca ribelle le ricadde sul viso, lì dove prima s'erano posate le sue dita.

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Non mi dilungherò in scuse che non interessano a nessuno. È passato un secolo, lo so. Sono imperdonabile, so anche questo. Estate, studio e mancanza di ispirazione sono un mix tossico, specie di fronte a capitoli come questi, così dannatamente difficili per motivi che ancora ignoro. L'attesa carica di aspettative e spero di non averle deluse. Mi auguro che il ritardo degli aggiornamenti non vi abbia scoraggiato troppo, questa storia finirà è una promessa: un ultimo capitolo, un breve prologo e finalmente la vedrete conclusa -spero nel minore tempo possibile. Nel frattempo, se vorrete, sarò come sempre felice di sapere cosa ne pensate. 
S.


  
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