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Autore: Shark Attack    16/09/2015    1 recensioni
Nehroi e Savannah sono due fratelli decisamente fuori dal normale e dalla legge sia del loro mondo sia del nostro. Lui ha la capacità di respingere la magia, lei è tra le più potenti creature esistenti ma il loro legame è indissolubile e lo pongono sempre al di sopra di ogni cosa.
I due fratelli sono reietti assoluti, senza famiglia né amicizie, ma non si lasciano scoraggiare facilmente dalle difficoltà che l'avere tutti contro comporta: hanno un'ardua missione da portare a termine e niente li fermerà... neanche quando vengono separati da una montagna invalicabile come la morte.
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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28
Madre, Padre


Rupert era seduto sui gradini del cortile, di fronte alla porta di casa, e fumava nervosamente una sigaretta. Quella doveva essere la ventesima, in realtà, a giudicare dalla quantità di mozziconi che aveva lanciato sul prato.
Quando la macchina di Aretha era entrata nel vialetto e le ruote si erano fermate, era buio pesto.
«Dove diavolo eravate», aveva sibilato il padre pieno di apprensione. Rivederli sani e salvi lo aveva rasserenato per un attimo, ma ben presto la rabbia aveva superato quello stato. «Perché siete sporchi di terra?»
«Oggi era una bellissima giornata e l’ho voluto portare in montagna, non può passare tutti i giorni in casa».
Rupert stava abbracciando il figlio, socchiudendo gli occhi ed annusando tra i suoi capelli biondi un odore strano, che non riconosceva. «Senza il mio permesso?», gli era scappato dalle labbra ancora arrabbiate.
Aretha aveva drizzato la schiena con fierezza. «Sono sua madre», gli aveva ricordato.
L’uomo aveva sospirato. «Almeno avresti potuto avvertire, in caso vi fosse successo qualcosa… come l’avrei potuto scoprire?»
«Avrei trovato un telefono pubblico o bussato a qualche casa chiedendo di usare il loro, non so!»
Gordon gli aveva rivolto un enorme e bellissimo sorriso. «Stiamo bene, papà, la mamma è stata grande!»
Rupert aveva messo da parte i sospetti e le preoccupazioni, ma la cosa non era durata molto. Suo figlio aveva iniziato ad andare sempre più spesso in giro da solo, spesso per ore intere. Aretha stranamente non era preoccupata, anzi: sembrava contenta. I sospetti di Rupert crescevano ogni giorno che passava, di pari passo con la sfiducia verso la moglie, ma Gordon non notava nulla: lui era contentissimo di aver trovato, nel Museo di Storia naturale, una ricostruzione di alta montagna dotata di un masso vero trasferito dalle Alpi tra i vari animali impagliati. Quel masso, aveva notato durante la gita scolastica di qualche settimana prima, aveva la stessa scia viola che aveva usato sua madre per aprire il Portale e, da allora, ogni giorno andava al Museo ed aspettava il momento in cui non passava nessuno per scavalcare la corda rossa, entrare nella ricostruzione evitando l’aquila appesa, il cervo e le marmotte sul muschio finto e poi andare ad Ataklur.
Là, i primi tempi, Jenna lo attendeva puntuale nel punto in cui solitamente sbucava e poi gli faceva da guida e cicerone, mostrandogli il mondo. Si sforzava sempre molto per ricaricare di magia la Stella Rossa del suo medaglione, in modo da assicurargli il ritorno a casa e un nuovo viaggio da lei e lui ne era sempre molto grato. Dopo qualche tempo, però, Gordon era diventato abbastanza bravo ed esperto da non richiedere più la sua presenza continua ed aveva iniziato a girare da solo, tornando da lei in serata per la magia. I suoi tempi di permanenza diventavano ogni volta un pochino più lunghi, fino ad arrivare dopo qualche mese a poter restare per un pomeriggio intero senza aver bisogno dell’aria umana.
Un giorno era al parco, lo stesso in cui Arla aveva aperto il Portale di emergenza quando si era sentito male la prima volta, e c’era una ragazzina solitaria che giocava con dei bastoni. Li faceva fluttuare e cadere in picchiata come lame, disponendoli a formare vari tipi di costruzioni muovendo le dita candide e delicate. Aveva appena creato una torre di castello, con tanto di guglie realizzate con pezzi di corteccia, quando Gordon le si era avvicinato.
«Wow», aveva esclamato. «Non sembrano neanche più dei bastoni… complimenti!»
La ragazzina lo aveva fissato brevemente con i suoi occhi verdi e poi aveva fatto spallucce, senza degnarlo di una parola.
I bastoni erano tornati a fluttuare e si erano disposti come uno stadio, con tanto di scalinate e tetto; la parte più difficile era curvare i legni senza farli spezzare, per seguire la forma ad ovale della costruzione.
«Sei incredibile», aveva detto ancora Gordon, sempre più stupefatto.
«Sparisci».
«Perché? Voglio solo vedere, non ti darò fastidio…»
La ragazzina aveva sbuffato e gli aveva dato le spalle, girando sé stessa ed anche il suo stadio. «Tu bazzichi con Jenna, quella incompetente», aveva replicato con disprezzo mentre i bastoni si disponevano a terra ordinati per lunghezza.
«Mi conosci?»
«Non mi piace non sapere cosa succede attorno a me».
La mano un po’ sporca di terra del bambino biondo le era entrata nel campo visivo, così come il suo sorriso impertinente. «Allora, se già mi conosci, presentiamoci!»
La ragazzina aveva alzato gli occhi al cielo. «Va bene», aveva convenuto poi, accarezzandosi la lunga treccia castana. «E dopo mi lasci in pace?»
«Promesso. Mi chiamo Gordon».
«E basta?»
«Oh, no, sono Gordon Mayson… Anzi, Fillscah», aveva deciso poi. Era il mondo di sua madre, gli piaceva l’idea di omaggiarla prendendo il suo cognome e non quello dell’uomo che l’aveva confinata in casa come una minaccia.
La ragazzina aveva rizzato la testa udendo quel nome. «Fillscah?», aveva ripetuto incredula.
Gordon non capiva il perché di tutto quella tensione. «Sì, perché?»
«Spero tu stia scherzando a farti vedere in questa città con un cognome del genere. L’altro era meglio, quello umano».
«Non capisco…»
«Non importa, lascia che ti dia un consiglio: se non vuoi finire in prigione o peggio, non dire mai più quel nome. Fidati, ne so qualcosa».
Gordon era rimasto molto sorpreso ed interdetto da quell’affermazione. Perché il cognome di sua madre era così pericoloso? Improvvisamente gli era tornato in mente che anche Jenna gli aveva detto qualcosa del genere, anche se con meno durezza.
«Aspetta», aveva detto poi. «Mi presento di nuovo».
Se non poteva usare Fillscah, allora l’avrebbe omaggiata spogliandosi del nome di battesimo, quel nome che lei aveva sempre definito “troppo pesante per un bambino”. «Mi chiamo Phil Mayson», si era auto-battezzato annuendo convinto.
«Phil?»
«Abbreviativo di Philip. Suona un po’ come Fills…»
«D’accordo, va bene», l’aveva interrotto subito lei. «Non ripeterlo mai più».
Gordon, anzi, Phil aveva annuito ancora e un ciuffo biondo gli era caduto sulla fronte. «E tu sei…?», aveva domandato mentre lo rimetteva a posto.
La ragazzina si era raddrizzata tutta con fierezza, assumendo un atteggiamento molto pomposo pur vestendo un abito comune e sporco. «Mief Chawia», si era presentata scuotendo la treccia all’indietro. «Ricordati il mio nome, un giorno sarò regina».
«Accidenti, ho conosciuto una principessa! Sei figlia di un re!»
«No, di un architetto».
«Quindi sposerai un principe?»
«Non esistono qui, abbiamo i Capi».
«Allora sposerai un Capo».
«Ma costì non diventerei principessa!»
« … non capisco, come fai a diventare regina?»
«Ci riuscirò, non preoccuparti».
Phil iniziava a conoscere sempre più il regno di Ataklur: se Jenna gli mostrava luoghi, costumi, cibi e gli insegnava a leggere la loro lingua, Mief lo indottrinava sulla politica, le dinamiche, i segreti e le tattiche delicate che governavano le diverse regioni.
Ataklur lo affascinava a dir poco, e l’effetto proseguiva anche una volta tornato a casa dalla madre, quando le raccontava tutto quello che aveva visto ed imparato e lei, a sua volta, gli raccontava quelle che una volta erano le favole della buona notte: le sue avventure ed imprese, senza però arrivare mai al motivo per cui era stata esiliata e perché lui non potesse dire in giro di essere suo figlio.
Purtroppo il suo visitare Ataklur quasi ogni giorno toglieva tempo allo studio e si era ritrovato nei guai con la scuola. Un giorno suo padre lo aveva fatto sedere in cucina intimandogli di non muoversi con voce seria, chiedendo spiegazioni per dei così brutti voti in quasi tutte le materie.
Phil si era scusato infinitamente ed aveva spergiurato che avrebbe recuperato, soprattutto per paura che il padre avrebbe scoperto cosa stava succedendo realmente in quella casa, e così aveva iniziato a regolare le sue attività, ritagliando i giusti spazi di tempo per tutto.
Era riuscito ad tenere quel ritmo fino all’adolescenza, approdando al liceo con ottimi voti scolastici. Ciò nonostante, non aveva tenuto conto dei sospetti sempre crescenti di suo padre, alimentati dalla paranoia che tenere un doppio segreto, il suo e quello del figlio, aveva generato in sua madre. La casa pullulava di segreti e doppie vite, e la tensione era sempre così palpabile da aver praticamente reso Rupert un estraneo nella vita di Phil.
L’uomo aveva poi preso posizione ed agito: quando Phil aveva quasi dieci anni, Aretha era stata spedita in un manicomio, sfruttando la sua testimonianza come prova della pazzia. A nulla era servita la strenua lotta che aveva fatto Phil contro gli uomini dell’ospedale, non era riuscito a smuoverli neanche un po’.
«Che cosa hai fatto!», aveva urlato al padre, fuori di sé.
«Quello che avrei dovuto fare molti anni fa. Adesso potrai andare avanti con la tua vita, come avresti dovuto fare fin dal principio. Niente frottole».
Phil non aveva parlato al padre per anni ed anni, conservando il fiato per gli zii ad Ataklur, per quella che considerava già da tempo la sua vera famiglia, e per la madre quando le andava a fare visita.
Un giorno, a quindici anni, Phil era tornato a casa da scuola ed aveva trovato suo padre nella stanza. Stava sfogliando l’album di fotografie che aveva scattato fin dalla prima visita ad Ataklur.
«Che bei posti», aveva commentato l’uomo non appena il ragazzo era entrato nel suo campo visivo. «Non ricordo che tu abbia fatto così tante gite scolastiche».
Phil stava sudando freddo come mai in vita sua. Con la coda dell’occhio aveva guardato il suo armadio, violato, e la scatola di metallo con lucchetto aperta rovinosamente per terra, accanto a delle tenaglie.
«Sai che non mi piacciono i segreti», aveva detto l’uomo seguendo lo sguardo del figlio.
«Non l’avrei mai detto, dato che hai sposato una donna proveniente da un altro mondo e che l’hai tenuto nascosto a tutti quanti, fino a volerlo tenere nascosto pure a te stesso per vivere meglio dopo che la cosa ti era diventata scomoda», aveva risposto Phil con veleno nella voce.
Il padre lo stava guardando stupito, assolutamente sorpreso da una simile frase.
«So tutto», aveva proseguito Phil senza curarsi dei suoi shock. «Potrei dirti che quello è un album dei miei amici, che molte foto sono loro o comprate in edicola… ma non voglio. Preferisco ricordarti che hai sposato parte di Ataklur, innamorandoti di mamma. Che lei non può non farne parte o dimenticarla, così come tu non puoi dimenticare il Kent della tua infanzia. Io stesso non posso non farne parte».
Rupert aveva lanciato a terra l’album con forza e si era avvicinato al figlio col viso livido. «Non oserai…»
«Ho già osato», aveva ribattuto con orgoglio, estraendo il medaglione dal colletto della maglietta. «Non c’è settimana che non vada lì. Da anni».
La rabbia del padre era un fiume burrascoso in piena. «Tu non hai idea di quello in cui ti vuoi immischiare, Gordon! Lei è stata cacciata brutalmente da quel postaccio, volevano ucciderla addirittura! Per grazia di qualche santo è riuscita a scamparla e venire qui, non hai idea di quello che abbiamo passato i primi tempi, finché non ha smesso di fare quelle diavolerie magiche! Ho aspettato per anni prima che la magia smettesse di scorrerle nelle vene, sopportando le visite restrittive ed i controlli continui di quelle guardie là! Quando finalmente era diventata come noi, non sai che gioia! E finalmente abbiamo potuto iniziare una vita, ci siamo trasferiti, abbiamo avuto te! … ma no, lei doveva rovinare tutto andando a rivangare quelle porcherie e riempiendoti la testa così che anche tu potessi trovarti nei guai! Gordon, credimi, ascolta un avvocato: ad Ataklur credono di avere un sistema legislativo che funziona ma non è vero, la gente si ammazza come ridere! Le guardie e i Capi, poi, sono uno peggiore dell’altro! Tua madre ha cercato di far l ’eroina e guarda com’è finita… Ascolta chi ti vuole bene: Non. Andare. Mai. Più. Lì».
Quelle parole avevano colpito il ragazzo con violenza inaudita, schiaffeggiandolo come mai gli era successo in vita sua. Il viso del padre era paonazzo, il suo respiro pesante ma sembrava si fosse anche levato un grosso peso di dosso, liberato del grande segreto che guidava le sue ossessive maniere.
«L’hai rinchiusa in manicomio…», riusciva solamente a dire Phil. «Nonostante tutto questo che mi racconti, tu sai cosa ha passato eppure l’hai fatta rinchiudere?!»
Rupert aveva inspirato profondamente. «Gordon… ho dovuto. Non potevo fare altro per allontanarti da quel mondo di squilibrati. Che scelta avevo?»
«Accettarlo, guidarmi anche tu, rendermi partecipe di questa vita che è pure mia!»
L’uomo aveva annuito gravemente, ma non per dargli ragione. «Conosco l’attrazione che si prova per quel posto, anzi… fin troppo bene. È un mondo seducente, così diverso e più bello del nostro che non si può resistere. Tutto quello che vedi è la bellissima facciata di qualcosa di demoniaco e perdutamente pericoloso. Sai che anche l’amore è magia, lì? Non è come da noi, che può essere intenso quanto vuoi ma non crea mai realmente un vincolo… e invece ad Ataklur è una maledizione. Un modo per controllare ed essere controllati, una specie di incantesimo naturale. Se ti va bene, sei alla pari con l’altro. Se ti innamori a senso unico, è come diventare un pupazzo e non sto esagerando. Spero… spero per te, figlio mio, che la tua attrazione per Ataklur non ti abbia condotto a questo».
Il suo sguardo era cambiato, ma a Phil non sembrava ancora lontanamente paterno. Ormai aveva imparato ad associare la figura di un padre a quella dello zio William, non al suo vero genitore.
«Non ti racconterò delle mie storie amorose, padre», gli aveva risposto con freddezza.
Rupert lo aveva guardato dritto negli occhi.
«No, non ne sono degno. Ormai è tardi per aprirsi, lo so. Sei cresciuto».
Aveva chiuso gli occhi con stanchezza, poi li aveva riaperti e l’uomo sembrava invecchiato di dieci anni. «Io ti voglio bene, Gordon. Più della mia stessa vita. Non innamorarti mai ad Ataklur, non farti coinvolgere, non farti nemici… se proprio vuoi andarci ok, fallo. È evidente che non posso fermarti. Ma ricordati che il nostro mondo, qui, è il tuo vero mondo. Qui c’è casa tua, la tua vita. Continua a studiare, diventa un uomo».
Phil si era abbassato a raccogliere l’album di foto, rimettendolo nella cassetta di metallo rotta. Poi si era tolto lo zaino dalle spalle, se l’era scordato, e l’aveva messo sotto la scrivania come faceva sempre. Aveva tolto le scarpe, preso un libro dalla libreria e si era sdraiato sul letto.
«Farai tornare qui la mamma?», gli aveva chiesto con nonchalance, senza guardarlo, mentre cercava il segno da cui ricominciare a leggere.
Rupert non aveva risposto, non aveva ancora deciso nulla.
«Allora non voglio diventare un uomo come te. Lo diventerò a modo mio», aveva proseguito poi il ragazzo. «E, a proposito: mi chiamo Phil, ora».




*°*°*°*




Ebbene, eccoci giunti arrivati al momento dell'autobattesimo (finalmente si è spiegato il doppio nome xD), a quello della scoperta di ciò che è successo alla madre di Phil (a grandi linee, ma non so se lo elaborerò più direttamente, credo lo lascerò sempre un episodio solo raccontato da terzi) e a chi era la bambina con cui cercava di rivaleggiare Jenna! Una bella vecchia conoscenza, vi sareste aspettati di vedere una miniChawia? ^^
Al prossimo capitolo che, vi posso già anticipare, è pieno di angst! A mille, proprio!

Ciao!

Shark
   
 
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