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Autore: Sam Vega    19/09/2015    3 recensioni
Storia a quattro mani con SidRevo.
“No Excuses”. Nessuna scusa.
Scritto a caratteri cubitali e netti sopra lo stipite della porta. Un monito bianco su sfondo blu, a ricordare che, oltre quella soglia, nessun tipo di giustificazione è accettata. Non per una partita persa, un goal mancato, un passaggio sbagliato.
“No Excuses”. Un mantra che ogni giocatore deve ripetere nella propria testa, da seguire ciecamente ogni secondo trascorso a graffiare la lastra fredda sotto i propri pattini, e per cui abbassare la testa nell’assumersi le proprie responsabilità, senza sconti, come singolo e come squadra, per poi rialzarla e affrontare con orgoglio la successiva sfida.
Due semplici parole e una storia centenaria su cui cementano, fatta di vittorie e sconfitte, imprese al limite dell’impossibile, ed eroi che sfrecciano sul ghiaccio: esempi intoccabili, da ammirare e imitare; da ricordare con una nota nostalgica in bocca e il desiderio bruciante di raggiungerli, lassù sull’Olimpo degli sportivi.
“No Excuses”. Un significato che ti entra sotto la pelle e ti plasma da dentro e lega a filo doppio con chi condivide quel tuo stesso credo, in una squadra dove il logo sulla maglia è più importante del nome scritto sulla schiena.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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7th Period. “Torches & Goals”
 
 


«Nervoso?»
 
A quella domanda, Sergej staccò lo sguardo dal suo spuntino sbocconcellato e lo sollevò sulla gemella appena riemersa da una doccia in cui, a giudicare dalla nuvola di vapore che si levava dalla porta del bagno, doveva aver consumato l’acqua di tutto il palazzo.
 
«Perché dovrei?» sbuffò con sufficienza, pur sapendo che la prova della sua sciocca bugia fosse esattamente sotto il suo naso, in quel piatto che aveva appena toccato e che, in genere, non impiegava che una manciata di minuti per spazzolare completamente.
 
Aveva lo stomaco chiuso dall’ansia: una sensazione che non provava più da molti anni prima di una partita, da quando a Washington aveva fatto l’abitudine e il callo a qualsiasi cosa.
Ricominciare tutto in una città diversa però, con altri compagni, non sembrava essere poi così semplice come aveva fatto credere a tutti. Ora che le cose cominciavano a farsi serie, che i suoi errori e le botte di testa tornavano a incidere sui risultati di una squadra. Ora che non c’era più Alyosha a fargli da balia – per quanto gli costasse ammetterlo – ad arginare il suo caratteraccio e a fungere da airbag tra lui e il mondo di stampa sportiva, tutto sembrava essere decisamente più difficile e, in qualche profonda parte di sé, poteva quasi sentir risuonare un po’ di rimorso, per non essere stato meno scontroso, meno intrattabile – o più semplicemente, come diceva Alyosha, meno “testa di cazzo” – quel minimo che sarebbe bastato a salvargli il posto.
In quei momenti gli ritornava in mente la faccia stanca di Aleksej nell’attimo in cui aveva deciso di informarlo delle voci riguardanti una sua esasperata cessione. Aveva voluto essere il primo a parlargliene, a pregarlo di sforzarsi un po’ per mantenere vive e a galla le possibilità, se ce n’erano, di restare ancora a Washington.
Aveva anche tentato di convincere i dirigenti a rivedere le loro posizioni, anche quando Sergej, per contro, aveva fatto di tutto per farsi detestare, giocando perfino al minimo delle proprie capacità durante gli ultimi playoff disputatisi, mettendo così fine alle sue probabilità di evitare la cessione e a quelle dell’intera squadra di vincere la Stanley Cup.
Aleksej si era arrabbiato talmente tanto in più di un’occasione, che per un momento aveva quasi creduto che potesse prenderlo a pugni. Gli aveva urlato in faccia come un ossesso, rendendo più dure e taglienti le parole della loro lingua. Gli aveva ribadito più volte di essere un idiota ingrato, tutte condite da un’infinita sequela di colorite offese di ampia gamma, e Sergej si era comunque davvero sentito in colpa solo nei confronti di Alyosha, per avergli distrutto quella stagione, per aver reso vani tutti i suoi sforzi e messo fine alla loro comune militanza nella NHL.
Da quando il suo agente gli aveva confermato che la permanenza a Washington era definitivamente al capolinea, Sergej si era ritrovato più volte diviso tra un piacevole senso di liberazione e l’angoscia del dover ricominciare in un’altra città, da solo. Aleksej invece, aveva passato giorni in cui gli aveva a malapena rivolto la parola ma, poco prima del suo trasloco, si era prodigato a escogitare ogni più stupida scusa per trascorrere gli ultimi giorni assieme, in totale tranquillità e lontano da tutte le pressioni che presto sarebbero tornate a travolgerli, l’uno a centinaia di chilometri dall’altro e in veste di avversari.
Se pensava a quella realtà gli pareva quasi naturale afferrare il cellulare e digitare il numero di Alyosha, abituato com’era ad averlo sempre intorno. Rinunciò però quando si rese conto che Irina si era avvicinata e lo squadrava stranita e un po’ infastidita. Probabilmente gli aveva rivolto parola e lui non l’aveva neanche sentita.
 
«Terra chiama Sergej. Mi senti?» 
 
Appunto.
 
« Che?»
 
Sua sorella inarcò le sopracciglia con aria scettica. «Niente, lasciamo perdere. Ti lascio alle tue ‘crisi mistiche pre partita’.»
 
Sergej restò a fissarla un po’ dispiaciuto, mentre si dirigeva la sua stanza con l’asciugamano sistemato sulla testa a mo’ di turbante. Poi il suo sguardo cadde per caso su dei dépliant abbandonati sul tavolino davanti al divano.
 
«Ehi, Ira. Non mi hai ancora detto che intendi fare con quelli
 
Lei si bloccò sulla soglia e si voltò con aria confusa. Quando Sergej indicò l’oggetto della sua frase con un cenno, parve comprendere che “quelli” non erano altro che le miriadi di brochure che si era procurata in quei giorni sulle varie università di Montréal, accennandogli appena la sua idea di proseguire gli studi.
Era di quello che parlava in quel suo messaggio inviatogli settimane prima, ma, tra un impegno e l’altro, Sergej non aveva mai avuto il tempo di ascoltarla davvero e consigliarla come lei avrebbe voluto. Per quanto lui non capisse assolutamente un bel niente dei meccanismi universitari e, a differenza della sua gemella, fosse stato sempre piuttosto allergico ai libri e alla scuola, Irina pareva comunque tenere al ricevere il suo parere più di ogni altro.
Perfino più di quello del suo insopportabile e saccente fidanzato che, per quanto gli venisse da vomitare al solo pensiero di ammetterlo, ne sapeva molto più di lui e sarebbe stato sicuramente una fonte molto più attendibile.
 
«Non so. Ne riparleremo» mormorò lei, evidentemente infastidita.
 
«Ira» la richiamò lui, sospirando e facendole intendere che non aveva affatto voglia di combattere in quel momento con le sue paturnie. «Vuoi parlarmene o no?»
Lei parve pensarci un po’, poi, dopo un’occhiata veloce all’orologio, rispose: «Tra poco devi andare al Bell Centre. Non c’è tempo.»
 
«Esatto, tra poco, non ora» rettificò, avvicinandosi ai dépliant e prendendone uno a caso per squadrarlo. «E comunque il tempo scarseggia sempre e non credo che queste siano decisioni che possono aspettare in eterno.»
 
«Lo fai solo per farti perdonare e deviare l’attenzione dalle mie domande.»
 
«Forse, ma tic tac. I secondi scorrono.»
 
Irina si riavvicinò, per poi strappargli l’opuscolo dalle mani con poca gentilezza. «Te l’ho già detto. Pensavo di proseguire con gli studi. Lo sai, matematica.»
 
«E allora? Dove sta il problema? Fallo e basta, se è quello che vuoi.»
 
«Non so. Significherebbe restare qua per un bel po’.»
 
«Quindi?»
 
«E dovrei parlarne con Gérard.»
 
Nel sentir nominare quel fidanzato che avrebbe decisamente voluto utilizzare come bersaglio umano nei suoi allenamenti, Sergej non riuscì a celare una smorfia di disgusto. «Quello può anche andare a farsi fottere.»
 
«‘Quello’ ha un nome ed è inutile che tu finga di scordartelo ogni volta.»
 
«D’accordo. Allora, ‘Quello che ha un nome’ può andare comunque a farsi fottere.»
 
Irina scosse la testa esasperata, ma non riuscì a trattenere un sorriso. Gli si fece più vicina e gli diede un leggero bacio sulla guancia. «Va’ a preparare il borsone. Ne parliamo un altro giorno.»
 
Sergej mugugnò appena, non propriamente deciso se farsi addolcire o meno dal suo gesto. Una parte di sé sapeva che, per il bene di Irina e per il suo amore, avrebbe dovuto farsi andare a genio chiunque avesse deciso di avere al suo fianco, almeno finché questo l’avesse resa felice. Ma per quanto questa idea fosse ben chiara nella sua testa, non riusciva proprio a farsi andare giù quel francese e, molto probabilmente, non ci sarebbe mai riuscito.
Con uno sbuffo srotolò l’asciugamano che Irina teneva ancora sulla testa e le scompigliò i capelli umidi, per poi borbottare: «Dovresti prepararti.»
 
«Prepararmi per cosa?» lo fissò nuovamente corrucciata. «So che hai un’enorme stima di tua sorella, ma ti ricordo che so a malapena reggermi in piedi sui pattini, quindi non credo che potrò giocare con te. Principalmente perché non hai mai voluto insegnarmi!»
 
«Quello perché sei totalmente, irreparabilmente impedita» le ricordò, per poi scansare al volo un suo pugno diretto alle costole. Dopo di che afferrò il suo portafoglio dal tavolino e ne estrasse un biglietto appena sgualcito. «Se non hai niente di meglio da fare per oggi, puoi venire alla partita. Come spettatrice» si sentì di specificare.
 
«Credi di essere divertente?» borbottò lei, assottigliando lo sguardo per sembrare minacciosa. Un obiettivo ovviamente mancato di anni luce; sua sorella aveva un viso troppo dolce – bello come quello delle fate che popolavano le fiabe che sua nonna gli raccontava quando erano bambini – per avvicinarsi anche solo all’apparire vagamente pericolosa.
 
Sergej le riservò un leggero buffetto sul naso, prima di porgerle il biglietto. «Se vuoi venire, datti una mossa. Altrimenti ti lascio a piedi.»
 
Fece per avviarsi verso la propria stanza per sistemare le ultime cose nel borsone, ma riuscì a compiere giusto un paio di passi, che si sentì circondare dalle braccia di sua sorella.
Le era sempre piaciuto abbracciarlo così in fondo: incrociare gli avambracci sul suo petto e posargli un bacio al centro esatto della schiena, lungo la spina dorsale, prima di abbandonarsi e appoggiare la fronte contro di lui.
A volte gli dava la sensazione che volesse ascoltare ogni suo respiro, il battito del suo cuore, o semplicemente essergli di nuovo abbastanza vicina, così com’erano stati prima di venire al mondo. Altre invece, pareva che lo stesse semplicemente pregando di non lasciarla indietro; che cercasse di aggrapparsi a lui nel tentativo di raggiungerlo in qualche modo, senza rendersi conto che, quello rimasto fermo, immobile, impantanato tra la realtà e il suo passato, era solo e soltanto lui.
 
«Grazie» le sentì sussurrare, e gli venne spontaneo di voltarsi e cingerle le spalle con un braccio per avvicinarla a sé e ricambiare quella stretta, per quanto facesse male e bruciasse la consapevolezza di non poterle dare quel che silenziosamente gli chiedeva da anni: tornare a essere i due ragazzini di un tempo; tornare a essere il fratello che era stato, l’altra parte di quella stessa persona che avevano creduto di essere, e che aveva quasi dimenticato.
Sospirò appena sui suoi capelli nel posarle un veloce bacio sulla testa, quasi se ne vergognasse, poi la lasciò andare e proseguì verso la sua stanza senza aggiungere altro. Nonostante tutto però, quella fastidiosa angoscia in vista della partita si era attenuata.
 
******
 
 
Quando Wayne fece la sua entrata nello spogliatoio, i giocatori erano già tutti presenti e vestiti di tutto punto. La stanza era pervasa solo da un leggero brusio, quasi che nessuno sentisse di poter parlare liberamente, ad alta voce, immersi in un momento solenne.
La quiete prima della tempesta. Così sembrava giusto definirla.
Posò un’occhiata distratta alla sua personale cartelletta abbandonata su uno dei tavolini, contenente i vari schemi che avevano provato durante gli allenamenti e i suoi appunti, ma presto decise che non era il momento per i tecnicismi. Era più che certo che ognuno di loro avesse bene a mente il proprio compito.
Si appoggiò, rilassato, al bordo di quello stesso tavolo; le braccia incrociate al petto a osservare per un attimo le foto commemorative dei più importanti ex giocatori dei Montréal Canadiens, appese a decorare lo spogliatoio e a far comprendere ai giocatori il peso del nome della loro maglia, poi, con un sospiro calmo, prese la parola.
 
«Allora? Li sentite?» domandò, riferendosi al brusio sommesso dei fan, che dagli spalti si facevano udire fin lì. «Sono più di ventunomila persone. Ventunomila persone che sono qui presenti, stasera, per vedervi giocare e vincere. E altrettante, innumerevoli, stanno aspettando la vostra entrata in campo davanti al televisore.»
 
Si fermò per un attimo, a osservarli ad uno ad uno, aspettando perché potessero godere per qualche secondo ancora di quel brusio; affinché gli rimanesse bene impresso nella mente.
 
«Se stasera siete qui, se siete quello che siete oggi, lo dovete anche a loro. Lo dovete anche a ognuno di quei fan che vi supportano, vi criticano a volte, ma che vi permettono anche di vivere il vostro sogno. Non è solo al vostro talento che dovete essere grati. Non è solo per la gloria personale che dovete giocare e vincere, ma per la squadra in primis, e per tutte quelle persone là fuori» un’altra pausa ancora e il suo sguardo corse a Sergej, che lo stava fissando con quei suoi occhi inespressivi e freddi, perché recepisse chiaro e forte il messaggio. «Dovete giocare per guadagnarvi la loro stima, il loro rispetto. Dovete dare il massimo per ottenere il vostro posto nella squadra. Nessuna di queste cose vi spetta di diritto. Né la stima, né il rispetto, e tanto meno i minuti di gioco sul campo. Se avete la possibilità e l’onore di indossare questa maglia e giocare su quel campo, dipende solo e soltanto da voi, dal vostro comportamento e dai vostri risultati. Nessun privilegio è concesso. Nessuna scusa
 
Riuscì a malapena a trattenere un sorriso, quando gli occhi di Sergej si fecero più affilati, lo sguardo più pungente in quella sua espressione rabbiosa, per aver compreso che quelle parole erano esplicitamente riferite a lui e alla loro breve discussione. Sapeva che non avrebbe dovuto tormentarlo per molto con quella storia. Lui per primo avrebbe dovuto lasciar cadere quel loro piccolo screzio e andare avanti, ma voleva anche essere completamente certo che avesse recepito il messaggio, e per quanto talentuoso e necessario fosse per quella squadra, nessuno dei suoi comportamenti viziati ed egoisti sarebbe stato accettato. Il suo talento non sarebbe mai venuto prima della squadra.
 
«Non voglio tediarvi a lungo con le parole. Sapete tutti quanti quello che dovete fare» riprese poi, concludendo quel suo breve discorso e avviandosi verso l’uscita dello spogliatoio. «Vincere non è un’opzione, ragazzi.»
 
 
******
 
 
Jan controllò per l’ennesima volta entrambi i pattini, che i lacci fossero ben stretti, che le protezioni fossero perfettamente al loro posto, in una meticolosa perizia che gli era utile a chiudere fuori il resto del mondo dalla sua mente, mentre tentava di trovare la propria concentrazione.
Ancora pochi minuti e la nuova stagione avrebbe avuto inizio. Solo una manciata di respiri e sarebbero stati di nuovo risucchiati in quel vortice di entusiasmi e mortificazioni, e lacrime di gioia o di rabbia e sudore.
In quei momenti, gli sembrava quasi ieri il giorno in cui aveva vestito per la prima volta quella maglia e in cui si era trovato davanti a quell’enorme scritta sopra lo stipite della porta.
“No Excuses”. Nessuna scusa. A caratteri bianchi e netti sullo sfondo blu. Il monito, il loro motto, a ricordargli sempre che le scuse, ridicole o fondate che fossero, dovevano essere lasciate fuori da quelle mura.
Quelle due semplici parole erano diventate il credo di una vita per Jan e lo erano anche per coloro con cui condivideva lo spogliatoio. Potevano passare ore a battibeccare sulle argomentazioni più idiote, ma se c’era una cosa sulla quale erano d’accordo, era quella: chiunque era chiamato a prendersi le proprie responsabilità, dal primo secondo di gioco della prima partita, fin dopo il fischio finale.
E quel primo attimo stava per arrivare. Nel silenzio che era sceso nello spogliatoio, poteva perfettamente udire il cori dei fan che scandivano il poco tempo d’attesa rimasto.
Aveva il cuore in gola Jan, nonostante tutti gli anni trascorsi, e a quel punto pensava che sarebbe stato sempre così; non si sarebbe mai abituato a quella botta di adrenalina, e sì, anche di paura, nemmeno il giorno della sua ultima partita.
 
«È solo la prima della stagione. Rilassati.»
 
Xavier gli si sedette accanto, dopo aver pronunciato quelle parole; una mano posata sulla sua spalla, come per ricordargli che, in ogni momento, sarebbe stato al suo fianco.
C’erano state occasioni in cui Jan si era chiesto perché non fosse proprio lui a vestire i panni del capitano: Xavier aveva dimostrato molto più sangue freddo di lui in certi momenti, ed era arrivato anche a chiederglielo. Peccato che non avesse mai ricevuto risposta.
In quelle rare volte in cui si azzardava a renderlo partecipe di quei suoi dubbi, Xavier lo guardava come se fosse completamente pazzo e scoppiava a ridere, prima di borbottare che il capitano era Jan, e che lui era solo lì per impedirgli di deragliare.
 
«Voglio vincere, Xav» confessò, consapevole di potersi lasciar sfuggire qualsiasi cosa in sua presenza pur sentendosi un po’ infantile.
 
«Lo so.»
 
«Può essere il nostro anno. Possiamo farcela questa volta.»
 
«Possiamo cavarcela sempre» rettificò Xavier con un sorriso, asserendo a tutte le volte in cui erano arrivati a un ridicolo soffio dal loro obiettivo. «È con la sorte che dobbiamo metterci d’accordo.»
 
«ʻFanculo alla sorte. Io non mi arrendo. Non abbiamo tutta la vita per vincere quella stramaledetta Stanley.»
 
Spostò poi lo sguardo alla porta che li separava dal lungo corridoio alla fine del quale migliaia di fan si stavano godendo la prima parte della cerimonia d’apertura, i bassi di “Seven nation army” che rimbombavano chiari ovunque, per poi tornare a scambiare uno sguardo con Xavier, poi con tutto il resto della squadra.
Sapeva che non c’era bisogno di aggiungere molto altro dopo il discorso di Wayne, che ci sarebbe stato tempo e altre occasioni per le sue paternali e le parole d’incoraggiamento, perciò si limitò ad alzarsi e a dire: «Ci siamo ragazzi. Si va.»
 
In fila e in ordine di numero, come da prassi, si avviarono tutti a percorrere il lungo e spoglio tunnel, ognuno solo dopo aver dato un ultimo sguardo a quel “No Excuses”, fino a fermarsi a qualche metro di distanza dal ghiaccio, dove la musica stava lentamente scemando assieme alle luci colorate, lasciando spazio solo al buio e al boato dei fan.
Lì, oltre la soglia che li separava dalla pista, dall’esatta parte opposta di quell’ovale, Jean Beliveau, pietra miliare dei Montreal Canadiens, li stava aspettando indossando la propria maglia: il numero quattro stampato sulla schiena portato ancora con orgoglio, nonostante i capelli ormai completante bianchi e gli anni a pesare sulle spalle.
Capitano di quella stessa squadra per ben dieci stagioni, era forse il giocatore - e l’uomo - che Jan stimava di più, anche più di Wayne stesso. La “C” che spettava a lui adesso indossare pesava e acquisiva un valore anche maggiore ogni qualvolta si trovava davanti alla persona che aveva guidato i Canadiens durante uno dei decenni più emblematici per la franchigia.
Quando osservava la sua immagine con indosso la propria maglia, non poteva fare a meno di provare a paragonarsi a quello che era considerato un vero eroe in tutta Montréal, e a sperare di valere abbastanza da meritare di ricoprire il suo stesso ruolo.
Non c’era sogno più grande in fondo per Jan, di quello di poter concludere in quella stessa squadra la propria carriera, esattamente dov’era iniziata, e restare poi a godersi ogni partita sugli spalti, da semplice e orgoglioso spettatore, e avere ancora l’onore di stringere quella torcia tra le proprie mani e consegnarla ai futuri giocatori, esattamente come Jean Beliveau stava per fare.
Già, la torcia, un altro dei simboli della squadra. Accesa a ogni cerimonia d’apertura, passava ogni anno dai vecchi leader che avevano fatto la storia di quella squadra, attraverso tutte le mani di coloro che la rappresentavano al momento.
Jan era emozionato esattamente come lo era stato la prima volta in cui aveva avuto l’onore d’impugnarla, e fissava quella fiamma ondeggiante quasi sentisse anche dentro di sé quello stesso calore; come se avesse acceso qualcosa in lui, tanti anni prima, e adesso provasse l’inconfondibile sensazione di appartenerle.
Respirò a fondo, mentre dagli altoparlanti la voce del solito commentatore si faceva sentire chiara nell’iniziare la presentazione.  Ammiccò poi in direzione di Kyle e alla sua espressione terrorizzata ma anche emozionata, e a Sergej, che sembrava completamente assorto nell’ammirare il gioco di luci che lo attendeva sul ghiaccio.
Era la prima volta per entrambi, e Jan sapeva che sarebbe stata memorabile. Potevi amare od odiare i Montréal Canadiens e i suoi fan, ma c’era sempre stato una sorta di timore reverenziale per quel nome o per il Bell Center, loro tempio. Per questo era certo che, comunque sarebbe proseguita la loro carriera, ovunque li avrebbe portati, non avrebbero mai dimenticato la sensazione di stagliarsi al centro di quello stadio.
Nessuno di loro avrebbe mai potuto farlo.
Respirò a fondo una seconda volta e, in quello stesso momento, sulle note di “Fix you”, il tradizionale “Mesdames et messieurs, ladies and gentlemen, accueillons nos Canadiens!”[1] mandò definitivamente lo stadio in visibilio.
 
“Numero tredici” si udì poi, e la folla si levò in un boato tanto fragoroso da far tremare le pareti. “Cole Dryden”.
Senza un attimo di esitazione, Cole sorrise ai compagni e varcò la soglia. Testa alta e gonfio d’orgoglio, pattinò oziosamente verso Jean Beliveau per appropriarsi della torcia, e poi dirigersi verso il centro della pista e sollevarla in alto.
Numero ventisette” fu il secondo nome e la folla si riaccese di rinnovato entusiasmo. “Sean Weiss”.
Con passo sicuro anche Sean varcò quella linea, beandosi delle ovazioni e osservando gli spalti che lo circondavano, gremiti di persone che indossavano la sua stessa maglia. Anche dal buio di quel corridoio, Jan poteva chiaramente percepire l’emozione che lo stava travolgendo; lo sconfinato amore che, fin da bambino, aveva avuto per quella squadra e che gli accendeva gli occhi d’orgoglio, mentre con un sorriso enorme afferrava la torcia dalle mani di Cole e la innalzava a sua volta.
Altri nomi vennero chiamati, altri numeri si susseguirono, uno dopo l’altro, accompagnati da innumerevoli boati e brividi.
Il loro secondo portiere fece la sua entrata e Jayden approfittò di quel momento, prima del suo imminente turno, per voltarsi verso Sergej, rimasto in silenzio fino ad allora, completamente rapito da quella cerimonia, per sorridergli sicuro.
 
«Pronto per lo spettacolo?» si azzardò a dirgli, mentre gli altoparlanti chiamavano quel “numero trentuno” che, per quanto controverso fosse il suo rapporto con stampa e alcuni fan, ricevette una delle ovazioni più sentite da parte del pubblico.
 
Jayden Price aveva tutte le carte in regola per diventare una vera e propria leggenda, in una squadra che, per altro, ne aveva avuti di portieri in passato da rimpiangere e osannare. I paragoni ai quali era sottoposto non erano facili da affrontare, ma lui, nonostante gli scatti d’ira da cui di tanto in tanto si lasciava cogliere e il suo essere esplicitamente restio alle telecamere, sembrava pronto a incassare e parare ogni colpo, esattamente come lo era con i tiri avversari.
Jan capì poi che la domanda di Jayden non cercava risposta, ma solo una minima connessione prima di presenziare su quella lastra di ghiaccio per la prima volta insieme, dalla stessa parte.
Altri nomi e numeri ancora, e fu il turno del piccolo della squadra.
“Numero sessantanove” chiamò il commentatore. “Kyle Delon”
Un secondo d’incertezza, rigido con lo sguardo fisso sulla linea che separava il cemento dal ghiaccio. Un respiro profondo e si lanciò letteralmente per raggiungere la torcia. Non stava nella pelle dall’emozione e si vedeva lontano un miglio.
Qualche secondo di gloria, con gli occhi che brillavano d’emozione e un sorriso enorme, prima che la voce dagli altoparlanti si facesse udire di nuovo con le parole più attese per quella sera tra i fan: “Numero settantasette” e il brusio della folla parve sopirsi per un attimo, prima di esplodere in un’ondata travolgente. “Sergej Nevskij”
Sergej sollevò la testa di scatto. Lo vide prendere un lungo e profondo respiro, prima di solcare il ghiaccio e sollevare la torcia più in alto che poteva, forse in segno di completo rispetto. C’erano cose alle quali neanche lui poteva essere indifferente, e la solenne adorazione che stava attorno a quella maglia e a quella cerimonia era una fra queste.
 
La lunga lista di giocatori era ormai giunta al termine. Solo lui e i suoi vice, Xavier e Boris, erano rimasti ancora celati nel buio di quel corridoio.
Si scambiarono un’occhiata d’intesa, così come succedeva fin dalla prima volta in cui si erano trovati assieme e avevano iniziato a cementare il loro rapporto; con quella grossa responsabilità sulle spalle e quelle lettere così importanti da sfoggiare[2], cucite sulla maglia.
“Numero otto” Boris sorrise loro e, come da tradizione, sollevò il pugno per batterlo con entrambi contemporaneamente, prima di avviarsi a ricevere le acclamazioni del pubblico. “Boris Volkov”
 
«Pronto a vincere?» gli si rivolse poi Xavier con un sorriso, una volta rimasti soli, prima di fare la sua entrata.
«Sempre» mormorò Jan.
 
“Numero diciassette”
 Gli occhi fissi sulla schiena di quello che da anni vestiva i panni del suo secondo e del suo migliori amico; quel diciassette bianco e quel “Weber” che gli davano sempre la sicurezza di cui aveva bisogno per svolgere il suo compito.
 
“Numero sei. Il capitano. Ørjan Bäckström.”
Jan chiuse gli occhi per un attimo, respirò a fondo e godé appieno delle urla della gente. Pattinò sicuro verso Xavier e prese la torcia al suo posto, per poi sollevarla in alto e fissare lo sguardo sugli stendardi appesi in alto, sopra la sua testa, e illuminati dai faretti. I nomi e i numeri stampati raccontavano di una gloriosa storia centenaria, ritirati per sempre perché nessuno potesse più indossarli.
Un giorno, si augurò, anche il suo sarebbe stato lassù.
Immortale.
 
******
 
 
Il fischio dell’arbitro arrivò come una manna dal cielo, dopo che erano rimasti incastrati nella loro zona difensiva per quella che a Cole era sembrata un’eternità. Saltò oltre la balaustra e si accasciò sulla panca, cercando di riprendere fiato, mentre allo stesso tempo osservava i suoi compagni far riprendere il gioco al centro del campo. Il puck, colpito dal bastone di uno degli attaccanti, schizzò verso destra, subito seguito dallo sguardo del numero tredici.
Il gioco si stava velocemente dirigendo verso la porta avversaria, ma l’attenzione di Cole era stata altrettanto rapidamente catturata da qualcos’altro: il suo vicino di panca, anziché freddo e impassibile come al solito, aveva il volto disteso, solcato da un sorriso che faceva trapelare una risata interna sommessa.
Cole restò sorpreso, perplesso non solo per il semplice fatto che Sergej stesse mostrando apertamente emozioni positive, quanto per la situazione in sé, che decisamente non appariva ilare come sembrava invece trovarla il nuovo compagno di squadra. Erano ormai al secondo tempo, e nonostante i ripetuti attacchi, la fortuna sembrava non solo averli abbandonati, ma addirittura remargli contro, impedendo loro di sbloccare il risultato.
Sin dal debutto di Sergej con gli Habs e le sue prime alzate di testa, Dryden aveva deciso di ignorarlo, poco interessato a quegli atteggiamenti che lui considerava da primadonna insicura. Se proprio doveva definire l’effetto che il russo aveva su di lui, l’avrebbe descritto come mero opportunismo: sapeva che i Canadiens ne avevano bisogno per rafforzare la squadra, e finché avesse adempiuto al suo ruolo senza minare gli equilibri interni, poteva tenere il broncio quanto voleva. A differenza di altri suoi compagni, lui non sentiva quell’attrazione quasi magnetica nei confronti del russo.
Eppure, quel sorriso a mezza bocca lo aveva incuriosito più di quanto lui stesso fosse pronto ad ammettere.
Osservò Sergej girarsi per afferrare una delle borracce allineate dietro la panca e come, nel farlo, voltò il busto verso gli spettatori al di là della barriera di plexiglass. Era durato la frazione di un secondo, ma Cole era assolutamente certo di averlo visto fare l’occhiolino a una ragazza seduta a pochi centimetri da loro.
Non poteva certo dire che il russo non avesse buon gusto: i lunghi capelli castani incorniciavano un viso dalla bellezza quasi eterea, e gli occhi allungati, fissi su Sergej, mostravano un’infinita ammirazione. Di certo non biasimava il suo compagno di squadra per il suo assecondare una ragazza del genere: sarebbe stato davvero ipocrita dal canto suo, visto che più di una volta si era ritrovato ad apprezzare le attenzioni donategli dalla tifoseria femminile.
Tuttavia c’era una nota decisamente stonata in quella circostanza.
Innanzitutto si ricordava bene le varie foto che giravano su Nevskij ai primi tempi ai Capitals, quando, insieme ad Aleksej Ivchenko, si dilettava nel trascorrere l’intera estate su varie barche, circondati da compagnie femminili che sembravano uscite dalle pagine di playboy. Boccoli biondi e push-up non erano esattamente le prime caratteristiche che Cole andava cercando in una ragazza, ma poteva capirne l’attrazione. Tuttavia, dalla breve impressione che si era fatto della spettatrice dietro di loro, non avrebbe potuto immaginare niente di più lontano da quelle ragazze da copertina con cui Sergej sembrava solito trastullarsi.
A rendere la cosa più ancora più curiosa, stava il fatto che i posti immediatamente dietro la panchina erano generalmente occupati solo da fan sfegatati, quelli che sanguinavano bleu, blanc, rouge[3]. E mentre la gente intorno non smetteva nemmeno per un attimo di seguire il gioco, alzandosi in piedi quando il puck si avvicinava alla porta avversaria, e urlando di disappunto quando l’azione si spostava pericolosamente vicino a Jay, lei sembrava comunque restarne praticamente imperturbata, distaccata, quasi.
Il suo punto fisso rimaneva Sergej. Sembrava incantata dalla sua presenza, troppo incredula dall’essere lì, a pochi centimetri da lui, per accorgersi dello scorrere del mondo attorno. I suoi occhi erano rimasti fermi su di lui anche dopo che le attenzioni del suo compagno di squadra si erano dirette nuovamente alle azioni di gioco.
Devozione, ecco la parola che descriveva quello sguardo, quel rapimento totale a cui stava assistendo e che lo stava facendo sentire un estraneo. Gli sembrava di star interrompendo un momento privato, per quanto assurdo fosse, se si considerava il fatto che erano circondati da altre ventimila persone. Quella pungente sensazione si era fatta talmente forte che si ritrovò a distogliere lo sguardo, tornando a fissarlo sul ghiaccio, senza riuscir pienamente a focalizzarlo sull’azione.
Il tocco di Wayne sulla spalla per segnalare la sua prossima entrata in campo arrivò inaspettato, facendolo sobbalzare e impedendogli di terminare il pensiero che lentamente si stava delineando nella sua testa: per quanto detestasse ammetterlo, sperava che prima o poi qualcuno avrebbe guardato anche lui, in quel modo.
Le lanciò un ultimo sguardo e si obbligò a concentrarsi sul gioco, tentando di mettere a tacere verità scomode che non poteva permettersi.
 
 
******
 
 
Wayne diede una veloce occhiata allo schermo sospeso al centro del campo: il timer avanzava inesorabilmente, senza che fossero ancora riusciti a smuoversi da quel maledetto zero a zero. Il fischio acuto dell’arbitro riportò la sua attenzione alla pista e a quel fallo fischiatogli a favore, che gli avrebbe permesso di giocare per due minuti in vantaggio numerico. Quattro contro cinque, e le probabilità di segnare si facevano un po’ più consistenti.
 
«Cambio di linea» sentenziò con sicurezza, e Sergej, Cole e Sean si voltarono a fissarlo straniti. Le sue decisioni e le strategie spesso potevano sembrare poco vantaggiose o non studiate, ma se c’era una cosa che Wayne aveva imparato in tutti gli anni trascorsi su quelle arene di ghiaccio, quella era certamente osservare e poi reagire in relazione a ciò che silenziosamente i suoi avversari gli suggerivano. «Riprendete fiato per trenta secondi e poi rientrate.»
 
Senza commentare la sua scelta, i tre ragazzi pattinarono velocemente verso la barriera per lasciare il posto a Kyle e altri compagni sul campo, poi si lasciarono ricadere sulla panca, il respiro spezzato dalla fatica, il viso paonazzo e umido di sudore.
Wayne li squadrò con attenzione uno a uno, dopo di che, mentre sulla lastra di ghiaccio si preparavano a riprendere l’azione, chiarificò le sue intenzioni: «Cole, Sean. Voi due rientrate al prossimo fischio. Quando il gioco si fermerà di nuovo, vi scambierete con Jared e Michael per andare a sostenere Kyle» attese che i due recepissero i suoi ordini, poi si rivolse all’altro suo attaccante: «Sergej, tieni ben presente il timer. Allo scattare del primo minuto voglio che tu ti scambi al volo con Jan e vada a rafforzare l’attacco. Ti darò comunque io il segnale preciso. Da quel momento in poi, Cole, dovrai anche prestare attenzione alla difesa con Boris. Ci siamo intesi?»
 
«Intesi» si limitarono a rispondere suo fratello e Sean, mentre il taciturno russo gli rivolse un cenno affermativo con la testa, per poi inchiodare gli occhi sul campo e sul gioco appena riavviato.
 
Il tempo sul display riprese a scorrere e più di cinquanta secondi di quei preziosi minuti volarono via, prima che il fischio dell’arbitro tornasse a echeggiare nell’aria a segnalare un fuorigioco. Le sue direttive vennero eseguite immediatamente, e i numeri tredici ventisette dei Montréal Canadiens ripresero il loro posto, andando a sistemarsi attorno al cerchio d’ingaggio per far ripartire il gioco. Il puck venne rilasciato dal giudice di gara e, nell’esatto momento in cui toccò il ghiaccio, i bastoni guizzarono in quella direzione per conquistarne il possesso.
 
«Jan» chiamò Wayne e, senza che dovesse aggiungere altro, il capitano si avviò verso la panchina, pur mantenendo lo sguardo sempre fisso e attento sul gioco. Sergej, per contro, si alzò come un automa dalla panca – gli occhi che quasi fiammeggiavano dalla smania di tornare a scalfire il ghiaccio – e si preparò a rientrare a far parte dell’azione.
Nel momento stesso in cui Jan oltrepassò la porticina d’uscita dal campo, Sergej scavalcò la balaustra e si lanciò con tutta la forza che aveva nelle gambe verso la metà avversaria dell’arena. Si muoveva con decisione, con una furia talmente impressionante che i suoi pattini sembravano a malapena toccare terra; come se in quei secondi trascorsi a riprendere fiato avesse studiato qualcosa d’incomprensibile per chiunque, e pattinasse con un obiettivo preciso in testa.
Quando Wayne poi, riuscì a scorgere la direzione del puck, capì.
La sua mente fece appena in tempo a realizzare la presenza di quel dischetto che schizzava verso sinistra, che Sergej era già lì, l’estremità del bastone pronta a riceverlo e conquistarlo, e l’espressione decisa di chi ha tutta l’intenzione di travolgere chiunque si fosse azzardato a mettersi tra lui e la porta.
Istintivamente trattenne il fiato, mentre lo osservava avanzare rabbioso e superare l’ultimo difensore come se non fosse stato altro che un innocuo birillo. Spalancò gli occhi, nel momento in cui Sergej ruotò il busto di lato, e si sforzò di non richiuderli e pregare per il meglio, quando lo vide far partire un tiro travolgente verso la porta. Una bomba fulminea, la sua, che andò dritta a insaccarsi nell’angolo in alto a sinistra, lasciando il portiere avversario immobile e incapace di comprendere da dove fosse arrivato quello stramaledetto lancio.
La sirena posta sulla porta prese a illuminarsi, decretando ufficialmente il goal per i Montréal Canadiens, mentre le casse dello stadio facevano rimbombare nell’aria la voce di Bono Vox sulle note di “Vertigo”, affiancate dall’altrettanto frastornante boato del pubblico, che parve risvegliarsi come un’onda di pura adrenalina. Una botta di energia, un’esplosione che si scagliava su di loro attraverso le pareti di plexiglas e li investiva, mentre la Supernova sollevava la testa e innalzava il pugno verso i fan, per bearsi di quelle urla concitate che scandivano il suo nome[4].
 
«Quello sarà su tutti i giornali sportivi domani » ridacchiò Xavier, scuotendo la testa quasi non riuscisse a capacitarsi di ciò a cui aveva appena assistito, e Wayne non poteva certo dargli torto.
 
«Cristo» sentì mormorare in risposta Jan, mentre si asciugava la faccia. «Mi sono a malapena accorto di quando è entrato in campo. Non ho fatto in tempo a sedermi che... ma è umano?»
 
Una parte di lui avrebbe voluto esaltarsi e stupirsi come i suoi due giocatori. Wayne avrebbe preferito di gran lunga notare solo la perfetta esecuzione di quel tiro e godersi la particolare visione di gioco e la scaltrezza che parevano appartenere esclusivamente a Sergej. Il giocatore rodato e osservatore che gli albergava ancora dentro però, aveva notato anche ben altro in quel suo gioco. Ai suoi occhi non era passata inosservata né la rabbia egoistica che l’aveva spinto ad agire né tanto meno il fatto che non si fosse neanche voltato a controllare la posizione dei propri compagni, in modo da poter optare per un passaggio in extremis se si fosse reso conto di non poter concludere la sua azione.
Nella testa di Sergej, nel suo modo egocentrico e individualista di giocare, non era balenata neanche per un singolo istante la possibilità di lasciarsi aiutare dagli altri attaccanti. La sua avara sete di goal l’aveva letteralmente sopraffatto e, ancora una volta, aveva dimostrato di volersi muovere da solo, senza la benché minima fiducia nel resto della squadra.
Wayne continuò a mantenere lo sguardo fisso su di lui e lo seguì attentamente in tutto il suo tragitto fino alla panchina dove, senza troppo entusiasmo, rispettò il rito di battere il pugno con ognuno dei suoi compagni per festeggiare. Attese poi la sua uscita dalla pista, e che si sistemasse seduto di fianco a Jan, prima di commentare atono: «Cerca di ricordarti che non sei da solo in campo.»
 
Sergej si prese qualche secondo per bere e riprendere fiato, poi mormorò, quasi con fastidio: «Ho solo colto un’occasione.»
 
«Ah, lo so. Ma cerca di ricordartelo comunque.»
 
Gli occhi del novello componente dei Canadiens andarono a guizzare verso di lui e, per un momento, Wayne pensò che si sarebbe lasciato andare ancora una volta all’ira e gli avrebbe comunicato anche con le parole quella stessa frustrazione che si poteva leggere chiaramente nella sua espressione, e la rabbia del sentirsi criticato anche quando adempiva perfettamente al suo compito e faceva esattamente ciò che gli avevano sempre chiesto.
Povero, piccolo ragazzino. Doveva essere così difficile per lui sentirsi inadatto, non abbastanza, perfino nell’attimo in cui eseguiva tutto quello che gli era stato insegnato: una tecnica perfetta, un’abilità da manuale senza la benché minima sbavatura, e neanche un pizzico di anima e spirito di squadra.
Avrebbe avuto parecchio da lavorare, per scalfire quella corazza dura e rimodellarla dalle basi. Avrebbe dovuto picchiare fino a far crollare quell’ammasso di stupide convinzioni con cui gli avevano e si era riempito la testa e, probabilmente, nella maggior parte delle occasioni, non sarebbe stato affatto piacevole.
Quella che lo aspettava con Sergej, era di sicuro una delle sfide più dure a cui si fosse mai sottoposto, eppure Wayne sentiva di potercela fare, di avere una qualche possibilità per grattare via l’egoismo che fino ad allora aveva guidato il suo modo di giocare.
A dispetto delle poco lusinghiere previsioni dei giornalisti sul probabile e prossimo declino della sua carriera, lui era assolutamente convinto che potesse esserci ancora molto da fare per salvarlo da quella stessa ingrata fine toccata ad altri in passato. Era pronto a puntare tutto su di lui, a giocarsi quella scommessa fino alla fine, proprio perché Sergej rischiava sì, di essere davvero solo un’altra meteora, ma aveva anche qualcosa di diverso: la Supernova, a differenza dei suoi predecessori, poteva lasciar nascere altro dalla sua esplosione, poteva lasciar generare la stella più luminosa che avessero mai visto in tutto quel firmamento.
Era un gioco che valeva la pena di giocare, fino in fondo. E lui era pronto a farlo.
Dedicò un’ultima veloce occhiata alla sua preziosa “sfida”, quando gli riordinò di rientrare in campo assieme agli altri due componenti di quella triade, e tornò a concentrare la propria attenzione sul campo, a tutti i tasselli di quella squadra che era fiero di poter allenare ogni giorno.
Gli venne quasi da sorridere nel seguire con lo sguardo la traiettoria che stava per intraprendere un’ignara matricola avversaria nell’avanzare verso la porta. La perfetta dimostrazione che spesso, per quanto talentuosi, i nuovi arrivati nella NHL erano spediti in campo e beffati dalla loro stessa inesperienza. La momentanea illusione di poter fare un esordio coi fiocchi veniva difatti spazzata via in un attimo quando, sulla loro strada verso l’agognato momento di gloria, si intromettevano difensori del calibro di Boris che, con una facilità quasi umiliante, stroncavano sul nascere i loro tentativi e servivano su un piatto d’argento un passaggio e un’occasione d’oro per gli attaccanti.
Si sentì poi riempire d’orgoglio quando, quello stesso dischetto, venne perfettamente intercettato da Cole, che lo portò via con sé, in avanti, deciso, potente e veloce come un treno, immediatamente affiancato da Sean in un allineamento esemplare.
Si spinsero sempre più verso la porta, uno scambio veloce di passaggi di una precisione millimetrica e, una volta giunti dinnanzi al portiere, il loro Revolver si dimostrò nuovamente meritevole di quel soprannome e colpì al volo il puck, mandandolo a infilarsi sotto le gambe del portiere a decretare il secondo, prezioso goal dei Canadiens.
Dall’altro lato del campo anche Jayden prese parte ai festeggiamenti, esibendosi in un balletto di dubbio gusto che andò a contagiare anche gran parte delle persone sugli spalti e che, al contempo, fece sospirare Wayne di esasperazione, nel tentativo di nascondere la risata liberatoria a cui avrebbe voluto tanto lasciarsi andare.
Quell’attimo spensierato ebbe però vita breve. La tensione momentaneamente allentata dai due goal realizzati venne rialimentata, quando il dischetto tornò in possesso dei Leafs e portato a superare la metà campo, avvicinandosi progressivamente alla loro porta.
Fu questione di un battito di ciglia, poi il centrale avversario tentò un improvviso tiro dritto verso la rete. Lontano sì, ma abbastanza insidioso e potente da potersi dimostrare un vero problema, se solo davanti a quella linea rossa non fosse stato presente un portiere del calibro di quel loro dinamico trentuno.
Jayden, senza alcuna esitazione, sollevò il braccio e riuscì a bloccare il dischetto con una facilità impressionante. Con lui a proteggere la porta, tutto sembrava possibile.
C’era un motivo preciso per cui lo avevano soprannominato The Wall, e non era solo per i suoi pittoreschi caschi serigrafati come l’omonimo famoso disco che di tanto in tanto amava indossare. Al massimo della sua forma, Jayden Price poteva considerarsi davvero un muro, una barriera pressoché invalicabile, se non per un caso fortuito o un’abilità altrettanto fuori dal comune per il giocatore che gli si parava davanti.
Wayne gli rivolse un cenno con la testa quando incrociò i suoi occhi. Un gesto affermativo per comunicargli un silenzioso elogio, un invito a continuare su quella linea, a giocare come sapeva ed essere una delle colonne portanti di quella squadra su cui tutti facevano affidamento per l’intera durata della partita.
Se solo fosse stato sempre presente in campo come lo era stato in quei minuti trascorsi, se solo Jayden avesse imparato a essere meno incostante, a non lasciarsi influenzare dagli eventi esterni e distaccarsi da ogni cosa al di fuori del campo non appena indossava il casco e poggiava il piede sul ghiaccio; se Sean avesse insegnato a sé stesso a fare lo stesso; se Cole avesse imparato a non scollegare il cervello e a lasciarsi sopraffare dalla rabbia durante le partite e Jan, Boris e Xavier avessero continuato a vestire i panni pilastri su cui tutta la difesa dei Canadiens si poggiava. Se anche Kyle fosse sbocciato come l’attaccante veloce, scattante e imprendibile che Wayne aveva sempre desiderato, e se Sergej, il suo cruccio più grande, si fosse lasciato plasmare da lui per diventare il miglior playmaker del campionato e avesse trascinato con sé l’intera squadra, allora – solo allora – sarebbero stati davvero imbattibili, e quell’agognata Stanley Cup, che mancava da troppi anni a Montréal, sarebbe stata finalmente a portata di mano.
 
******
 
Prima di lasciare il Bell Centre, Wayne si prese ancora un momento per se stesso, per osservare gli spalti completamente vuoti e la pista sfregiata dalle lame dei pattini. Si beò di quel silenzio quasi solenne e posò lo sguardo per l’ennesima volta sullo schermo sospeso, per sorridere di quel “tre a uno” che aveva decretato la vittoria dei Montréal Canadiens sui datati rivali di Toronto, allo scadere dell’ultimo periodo.
La partita era terminata da quasi un’ora, i ragazzi avevano festeggiato per quel primo traguardo, ripreso il ritmo del dover sostenere alcune interviste nell’immediato post match, e assistito allo svuotarsi dello stadio da parte di fan letteralmente estasiati e soddisfatti della loro performance. Come risultato di quella prima giornata e prova generale, in definitiva, Wayne non aveva poi molto di cui lamentarsi nel trarne le somme, ma era ben consapevole che di lì in avanti avrebbe avuto parecchio da lavorare e modellare.
Deciso comunque a godersi quella prima giornata di gloria – se non altro perché i primi due punti del campionato erano stati conquistati contro i detestati Leafs – si lasciò andare a un altro sorrisetto soddisfatto e si addentrò tra i corridoi del Bell Centre, fino a raggiungere gli spogliatoi, da dove si potevano ancora udire gli schiamazzi dei soliti festaioli.
Una parte di sé avrebbe voluto vestire i panni dell’allenatore serioso e spalancare quella porta per intimare ai presenti di mantenere comportamenti almeno decenti, ma non era mai stato proprio quel tipo di persona e conosceva bene l’entusiasmo che travolgeva un giocatore dopo una vittoria. Come se non bastasse poi, a dissuaderlo completamente da quell’intento ci pensò Sergej che, con una faccia esasperata, oltrepassò la soglia evidentemente deciso ad allontanarsi il più in fretta possibile da quel frastornante caos.
Lo vide uscire così di fretta che quasi si scontrarono. Il russo sollevò gli occhi su di lui e lo fissò in uno strano modo: un misto tra fastidio e astio, e anche quello che sembrava essere un gigantesco punto interrogativo, come se percepisse il suo disappunto ma non riuscisse davvero a spiegarsi dove e cosa avesse sbagliato nel suo gioco.
Da perfetto sadico – come lo definiva suo fratello Cole – Wayne decise di far finta di niente e lasciarlo cuocere ancora un po’ nel suo brodo, limitandosi a rivolgergli un cenno di saluto. «Allora, ci vediamo domani pomeriggio. Puntuale.»
 
«A domani» fu la sterile risposta di Sergej, prima di sistemarsi il borsone sulla spalla e avviarsi verso il parcheggio.
 
Wayne scosse la testa per quei modi scostanti, poi prese coraggio e aprì la porta dello spogliatoio, pregando che al suo interno fosse ancora tutto intatto.
 
«Avete intenzione di restare qui a starnazzare ancora per molto?» esordì non appena varcata la soglia, rivolgendosi ai soliti sette che, come al solito, restavano indietro per godersi ogni minuto assieme. Dal capitano, Xavier, Boris e il suo piccolo coinquilino, Sean, Jayden e suo fratello non poteva aspettarsi altro: quei ragazzi erano legati da qualcosa di inspiegabilmente forte. Erano molto più una stramba e particolare famiglia, che semplici compagni di squadra. «Non ce l’avete una casa?»
 
«Commenti post partita, Wayne» spiegò Jan per tutti, mentre riponevano le ultime cose nei borsoni. «Anche se non propriamente tecnici.»
 
«Ah, su questo non avevo dubbi! Sia mai che le vostre discussioni siano su qualcosa di utile.»
 
«A proposito di commenti tecnici invece. Qualcuno qui è un po’ arrugginito, eh?» esclamò Cole, spintonando Jayden fuori dalla porta, per poi avviarsi in gruppo verso il parcheggio coperto. «Ti sei fatto fregare per ben due volte. Se non era per Jan, nella migliore delle ipotesi, sarebbe finita tre a due.»
 
«Provaci tu, a parare con cento chili di attaccante spalmati addosso. Era un goal disonesto!» ribatté l’altro, facendo valere le sue ragioni e rispondendo ai suoi attacchi con una ben assestata pacca sulla nuca. Per quei due, ogni occasione era buona per menare le mani.
 
«Ma pur sempre un goal!»
 
«Come quello che tu non sei riuscito a fare in ben tre tempi» lo derise in risposta Sean, intervenendo in quella piccola diatriba e sorprendendo tutti per quella sua insolita baldanza. Non era solito vantarsi, né tanto meno commentare o infierire sulle prestazioni altrui, ma l’esaltazione dell’essere finalmente tornato in partita dopo mesi di lontananza doveva averlo completamente inebriato.
 
«Ehi, principino. Da dove spunta tutta questa arroganza?» protestò difatti suo fratello, con una faccia stranita, prima di passargli un braccio attorno alle spalle e stringerlo a sé con fare fintamente minaccioso. «Ti ricordo che senza il mio assist, non avresti mai segnato.»
 
«Stronzate» affermò l’altro, prima di liberarsi e raggiungere la sua auto. «Comunque mi devo complimentare con te. Sei riuscito a non farti buttare fuori e non hai neanche picchiato nessuno. Ti stai decidendo ad abbandonare la boxe per darti finalmente all’hockey?»
 
«Lo sai che non ti ricordavo così antipatico?»
Sean non rispose a quell’accusa. Si limitò a sfoderare una smorfia infantile e a fare un veloce cenno di saluto, prima di sistemarsi alla guida. Come tutti sapevano, per lui era tempo di correre all’affollata casa Weiss e rispettare l’abituale rito di commentare con suo padre e il resto della famiglia la partita appena conclusasi.
 
«Lascialo stare, Cole. È solo esaltato per essere tornato in campo. E in grande stile, aggiungerei» commentò Jan, seguendo con lo sguardo la Volvo blu scuro che si allontanava verso l’uscita. «Prima partita e ha già collezionato due goal. Credo che abbia tutta l’intenzione di essere l’idolo dei fan anche quest’anno.»
 
«Ah be’, a questo giro dovrà impegnarsi parecchio» mormorò suo fratello in risposta, per poi andare a indicare con un cenno della testa un’altra auto che si apprestava ad abbandonare il parcheggio: una Maserati rosso fuoco. «Caratterialmente non ci siamo proprio, ma per i risultati... ho la netta sensazione che il caro Sean dovrà vedersela con qualcuno che non ci va poi tanto leggero.»
 
Wayne attardò per un attimo lo sguardo sulla spider fiammante, poi si voltò a salutare anche Boris e Kyle, e infine verso Cole per sorridergli sprezzante. «E tu invece? Che intenzioni hai?»
 
«Io?» replicò questo in risposta, ghignando a sua volta. «Ho tutta l’intenzione di godermi lo spettacolo.»
 
«Te lo do io, lo spettacolo» lo riprese, cercando di assumere un’aria minacciosa. «e cercate di mantenere una certa dignità, voi due» aggiunse dopo, squadrando sia Cole che Jayden mentre si apprestavano a salire in macchina. «Non voglio che domani i soliti e simpatici uccellini vengano a riferirmi che vi siete sbronzati per bene, né vedere le vostre facce verdi. Se vi azzardate a vomitare come l’anno scorso all’allenamento, vi faccio ripulire l’intero pavimento con la lingua. Intesi?»
 
«Sì, coach!» esclamò Cole, chiaramente imitando il tono militare e prendendosi gioco di lui come al solito. Poi, mise in moto il suo prezioso SUV, e si avviò verso casa stonando una qualche canzone assieme a Jay.
 
«Non dovresti dimostrarti così preoccupato nei suoi confronti, né sentirti in colpa per quello che sei stato in passato e rappresenti per l’hockey» mormorò Xavier, dandogli una pacca sulla spalla. «Saprà cavarsela come ha sempre fatto.»
 
«Preoccupato? E per chi?» si finse sorpreso, maledicendo il suo prezioso difensore e vice capitano, per quella sua dannata empatia e l’assurda capacità di leggere le persone. «L’unica cosa che mi preoccupa, è di dover lottare contro quella sua testa dura e di dover coprire le sue sbornie con la stampa.»
 
«Ah be’, certo» rincarò la dose Jan, trattenendo chiaramente a stento una risata. «Ci vediamo domani.»
 
«Ciao» borbottò in risposta, avviandosi a sua volta verso la propria auto e rimuginando sulle parole dei suoi due giocatori.
 
Si prospettava un’altra lunga e faticosa stagione, ne aveva tutto il sapore, eppure Wayne in cuor suo sapeva che sarebbe stata anche grandiosa, per tutta la squadra.
 
******

 
Ci abbiamo messo solo 4 mesi, ma finalmente ce l’abbiamo fatta! Lo so, lo so, siamo pessime con gli aggiornamenti, ma tra vacanze, esami e traslochi abbiamo avuto delle estati abbastanza movimentate.
Finalmente comincia la stagione per i disagiati, ma noi siamo ancora qua, disperate perché mancano ancora 18 giorni.
Se volete condividere con noi la disperazione per la mancanza di hockey, come al solito ci trovate nel nostro gruppo!

Alla Prossima,
 
Sam & Sid
 
 
 
[1] “Signore e signori, accogliamo i nostri Canadiens”. Frase tradizionale con cui gli Habs entrano in campo per ogni partita in casa.
[2] Nell’hockey, il capitano ha una C cucita sulla maglia in alto a sinistra, così come gli assistenti hanno una A
[3] “To bleed Bleu, Blanc, Rouge” è un modo di dire che usano i fan degli Habs per indicare il loro livello di passione per la squadra. Chiaramente deriva dai colori della maglia.
[4] Questo è il goal a cui è ispirata l'azione di Sergej http://www.youtube.com/watch?v=3pdZlsL6_5o
 
   
 
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